Uno cammina e cammina per la Grande Memoria, per il sogno di tutti, la maggior parte delle volte senza rendersi conto che sta incrociando tutti gli altri, e che senza il ricordo degli altri lui non esisterebbe.
Il Veterinario è venuto a trovarmi. È nel salotto di casa mia, dove credo non sia mai stato prima di oggi. Mia madre, con indosso i suoi vecchi fuseaux, che ora usa come abiti da casa, è accanto a lui. Il Veterinario non immagina neppure che mia madre – potrei giurarci – si è appena tirata una striscia, perché siamo alla fine del pomeriggio di domenica e dalle finestre si estendono le prime ombre, che sono grigie come la stoffa delle divise.
Senza il camice bianco sembra ancora più corpulento. Indossa abiti da cacciatore con stivali, pantaloni di panno e un maglione. Sembra che si sia appena spogliato delle cartuccere e delle lepri e pernici appese alla cintura. Ho appena notato che ha una bella zazzera di capelli brizzolati, adesso tutti in disordine. Mi tende la mano in modo formale.
«Figliolo», mi dice, «so che è una visita del tutto inaspettata.»
È una verità così irrefutabile che resto in silenzio. Mia madre gli offre qualcosa da bere e lui fa segno di no con la mano.
«Non voglio fare giri di parole», spiega. «Sono qui per mio figlio. Se non sbaglio, siete sempre amici.»
Annuisco e reprimo la voglia di dirgli che l’ho visto solo alcune settimane fa.
«Qualche settimana fa è venuto a trovarci», continua lui, «e ci ha detto che sarebbe tornato in Messico. Lì, però, non è mai arrivato. E da allora nessuno lo ha più visto.» Si mette le dita di entrambe le mani nei capelli e se li scompiglia ancora di più. «Sarò sincero. Non so bene cosa voglio da te. Non ho la minima idea di quello che sta succedendo. Ma non conosco gli amici attuali di mio figlio, posto che ne abbia qualcuno.»
Gli racconto che anch’io l’ho visto qualche settimana fa e che mi era sembrato che gli andasse tutto molto bene. Non gli dico della chiave.
«Da dove posso iniziare a cercare?» chiede. È una situazione assurda, un incubo.
Mia madre resta seria, si guarda i fuseaux, ma non riesce a sembrare triste. Anzi, appena il Veterinario se ne va, smette di essere seria.
«Forse dovrebbe ingaggiare un investigatore», dice.
«Temo il peggio», replico io. «C’è qualcosa di molto strano in tutto questo.»
«Quel ragazzo è sempre stato molto strano», aggiunge lei.
«Ma c’è gente molto strana a cui non succede niente di strano.»
«Come può essere una cosa del genere?» continua mia madre. «Come può la vita essere completamente diversa da ciò che uno è? Gli succedono cose strane perché lui è strano. Ed è strano perché sua madre è strana, o no?»
«A te sembra tutto facile da un po’ di tempo a questa parte!» esclamo.
Più di una volta Alien aveva voluto mettermi in guardia su Edu. E questo mi porta a rispettare il suo grande intuito. E soprattutto che sia riuscito a fare dell’intuito uno stile di vita, un mestiere.
Il lunedì mattina mi decido. Prendo la busta con la chiave e l’indirizzo e chiedo la macchina a mia madre. La strada è piuttosto sgombra. Il sole sta ancora sciogliendo la campagna. Alla radio dicono che un uomo ha visto un UFO in Galizia. Mi lascio alle spalle le piscine umide e brillanti quando all’orizzonte iniziano a spuntare le cime degli edifici, che si disperdono a mano a mano che avanzo verso di loro. Si disperdono e crescono. Crescono rapidamente. Popolano la terra. Scendono tra le nubi e dopo un po’ si collocano su entrambi i lati del Paseo de la Castellana. L’infinito avanza tra gli alberi, incrociando piazze e fontane.
Eduardo è sempre stato un genio nel trasformare il facile in difficile, eppure, quando dietro di me si chiude la porta color crema dell’appartamento 121, ho la sensazione di aver attraversato uno specchio come Alice e di essere passato dall’altra parte con la facilità e la destrezza dell’impossibile. La quiete dell’inabitato, di ciò che è stato abbandonato, di ciò che non viene pensato. Dalle finestre entra un chiarore che non è esistito mentre nessuno lo vedeva. Chiarore sperperato. Alcune persiane sono chiuse per metà. Dietro queste e oltre la terrazza di fronte, il mondo in movimento, sempre fedele alla sua apparenza e dal quale non manca nessuno nonostante manchi Eduardo.
Mi affaccio con cautela in ciascuna delle stanze che compongono l’appartamento perché non scarto la possibilità di trovare Edu svenuto o morto in una di esse. Una porta del soggiorno dà sulla stanza da letto. La prima cosa che si vede è il letto con le lenzuola e il copriletto in disordine, come se qualcuno avesse avuto interesse a esaminare il materasso. I cassetti del comò sono chiusi a metà, le ante dell’armadio aperte. Una fila di completi, che giurerei appartengano a Eduardo, si mostra con sontuosità pietrificata. Sono tutti invernali. Quelli estivi si intravedono dall’altra anta dell’armadio, sistemati in custodie di plastica con la cerniera. Sotto i completi sono ordinate almeno sei paia di scarpe invernali in perfette condizioni. Durante questa prima visita non apro i cassetti dell’armadio e non finisco di aprire quelli del comò. E mi tengo alla larga dalle temibili custodie grigie con la cerniera.
Sul comodino c’è un bicchiere dell’acqua senz’acqua e, ammucchiati su una poltrona sotto la finestra, camicie usate, dei pantaloni e vari fazzoletti. Che significano tutti questi vestiti senza il suo corpo? E questa scena che osservo senza la sua vita? Perché lo scenario rimanda agli ultimi movimenti di Eduardo nella stanza, quando le cose sono rimaste come si vedono adesso. Il fatto che lui sia già tanto lontano da questi capi che a un certo punto si è tolto di dosso, ovvero che il corpo a cui sono appartenuti, e di cui ancora conservano qualcosa, non sia più nello stesso posto dove essi sono, presuppone, anche se confusamente, un’evidenza fatale.
Nella minuscola cucina la macchinetta del caffè sporca è nel lavandino, insieme ad alcune tazze e bicchieri. Nei mobiletti non c’è traccia dell’ordine e dell’organizzazione presenti negli armadi della camera, il che corrisponde perfettamente alla personalità di Edu, al quale è importato sempre molto di più quello che indossa rispetto a quello che mangia. In frigorifero c’è una bottiglia di latte andato a male, cosa che si può dire anche delle uova e che è evidente nel caso di alcune prugne. Il freezer, invece, è pieno di prodotti perfettamente conservati. E questa resistenza a deperire dei congelati è, ancora una volta, avvilente. Le prugne, il latte e le uova sono molto più in linea con quanto potrebbe essere accaduto al mio amico.
Sembra che qualunque tipo di perdita esiga di essere circondata da segnali di perdita, perché in caso contrario l’accadimento avrà avuto luogo in un mondo indifferente a ciò che cessa di stare in esso. La stessa inquietudine che mi provoca la sua scomparsa e la terribile idea della sua possibile morte accentuano ancora di più la mia esistenza. Non solo perché sento ciò che forse lui già non può più sentire, ma addirittura lo sento con più intensità del normale.
L’appartamento non è stipato di oggetti, ma se ci si mette a esaminarli con una certa meticolosità ce ne sono troppi. Mi accorgo che in bagno gli asciugamani sono ricamati con le sue iniziali e anche l’accappatoio, come se qualcuno gli avesse fatto un regalo. E in cucina c’è un servizio di tazze da caffè e caffettiera che dà ugualmente l’impressione di essere un regalo. Probabilmente regali di una donna. Sempre in cucina vedo anche un pacchetto delle sigarette che fuma Eduardo. Me ne accendo una, anche se non fumo quasi mai, per prendere un po’ il suo posto. Non cerco niente compulsivamente. Non voglio niente compulsivamente. Edu non si aspetta niente da me. Qui dentro non c’è fretta, né rapidità, né futuro. C’è la quiete dell’ultimo istante dell’ultimo giorno. Gli asciugamani, il servizio da caffè e tutto il resto sono qui con me, ma sono anteriori a me, contengono il segreto di tutto il tempo in cui non li ho visti e non sapevo che esistessero. Questi oggetti, pur avendo assistito ai segreti di Eduardo, non possono rivelarmi niente. O magari davanti alla loro rivelazione mi ritrovo cieco e sordo. Perché sono così ottuso e non capisco? Neanche la luna, le stelle, l’oscurità, né gli alberi alla luce del giorno ti parlano e ti dicono: Così sono stato creato. Se questa comunicazione esistesse, non ci sarebbe il mistero, né il segreto, né l’infinito davanti alla mente. È come se la realtà si spiegasse in un modo e noi comprendessimo in un altro modo, molto diverso. Diciamo che l’essere umano non è naturale tanto quanto una pianta o un animale perché non fa parte della natura: a differenza di lui, una pianta o un animale la conosce e non deve sforzarsi di capirla. Probabilmente i vestiti di Edu emettono segnali luminosi incessanti dagli armadi, ma io non sono capace di vederli. Di cosa avrà parlato in questa casa? A cosa avrà pensato? Credo di aver avuto sempre la sensazione che parlasse di alcune cose quando in realtà pensava ad altre.
L’arredamento funzionale del soggiorno si addice molto alla sua personalità. Quasi tutto il mobilio è chiaro, a eccezione dei paralumi, dai colori caldi. Ci sono vari giornali e libri buttati a terra. Lettere e una grande quantità di pubblicità sul tavolino basso collocato davanti ai divani. Su tutto questo si è posato un dito di polvere perfettamente visibile. Per qualche secondo mi chiedo se lavare le stoviglie che sono nel lavello e penso anche se sia il caso di mettere le camicie e i pantaloni sporchi in lavatrice e spolverare i mobili. Ma subito desisto, perché non importa che resti così, non importa a nessuno. Si tratta della casa di qualcuno priva di quel qualcuno. L’appartamento di Eduardo fuori dalla mente di Eduardo. I suoi completi senza il suo corpo. Queste stanze confinate nella realtà per varie settimane mi confessano che Eduardo non tornerà.
Così non pulisco niente, non mi siedo neanche sui divani, però metto le uova, il latte e le prugne in un sacchetto di plastica, che butterò più tardi in un cassonetto. Esco in strada. L’appartamento è rimasto nascosto in un labirinto di scale e in un tumulto di porte color crema identiche tra loro. E adesso questo è tutto ciò che resta di Eduardo. Resta anche il passato, ma la verità è che gli avvenimenti vengono captati con una vista così corta, e un udito così grossolano, e la voce è così limitata e il cambiamento così momentaneo, che il passato è sempre un po’ sfocato.
Mi piacerebbe raccontare a mia madre dell’appartamento di Eduardo, ma non posso fidarmi di lei. Non credo che sia capace di mantenere un segreto. In vista del ponte si è comprata un mucchio di riviste di arredamento, una cassetta di bottiglie di vino buono e quello che tiene nascosto da qualche parte. Diciamo che si autorifornisce. Le chiedo perché non passa questi giorni con il suo promesso sposo. Dico questa cosa del promesso sposo con un tono diverso da tutto il resto.
«Ancora non ho motivo di stare con lui in tutti i momenti liberi», risponde. «Non ci siamo sposati.»
Si avvicinano ore tranquille con bei film e buon vino, perfette, se non fosse che non riesco a smettere di pensare alla faccenda di Edu. Perché soltanto io so dell’esistenza di quell’appartamento a Madrid? So che non devo parlarne, so che devo stare zitto. Per favore, Edu, fatti vivo, non mi piace questa storia.
Di sera mi chiama il Veterinario. È molto nervoso. Ha appena parlato con il Messico. Lì continuano a non sapere niente di suo figlio, e mi chiede se io ho qualche notizia.
«Ti ricordi se durante la sua ultima visita ti ha detto qualcosa che adesso potrebbe tornare utile?»
Gli rispondo che non ricordo niente di particolare.
«Sforzati, figliolo, cerca di ricordare. Tutto è importante.»
«Non riesco a immaginare cosa sia potuto succedere.»
«Detesto questo fine settimana così lungo», dice lui sul punto di piangere. «Sai cos’è la disperazione?»
«La disperazione», ripeto io.
«Sì, la disperazione, la maledetta disperazione. Non c’è niente di paragonabile alla disperazione, sai? Né l’amore, né l’odio. Devi capire che ti parlo di emozioni intense, be’, e quindi niente è paragonabile. Cosa posso fare?» mi chiede.
«Mi dispiace», rispondo. «Deve mantenere la calma e la speranza. In realtà, non sappiamo ancora niente.»
«La speranza e la disperazione sono incompatibili, ma la prima conduce alla seconda», ribatte. «Io ho deciso di saltare il primo passo.»
«Pensi a sua moglie.»
«Sì, ci penso. Ci penso. Cosa le succederà quando smetterà di importarmi? Un altro passo e non potrò più pensare a lei.»
Mi congedo con parole chiare, senza tentare di consolarlo. Credo che sia la cosa migliore che io possa fare.
Mia madre, che da quando ammazzarono il tizio della tintoria dello Zoco Minerva è cambiata molto e ha perso tutta la sua pietà, risponde al telefono con impazienza. Il suo modo di parlare in mia presenza è sgradevolmente cauto e misterioso. Dice sì, no, nello stesso posto dell’altro giorno. E naturalmente intanto, come sempre, mi lancia occhiate diffidenti. Deve trattarsi del suo fidanzato o del suo spacciatore. Quando riaggancia, le chiedo perché non va più in palestra, cos’è successo con l’istruttore. In fondo rimpiango l’epoca innocente di Mister Gambe, durante la quale potrei giurare che ci fossero solo sport e sesso.
Con mia madre non si sa mai. I commenti più stupidi possono ferirla in modo incomprensibile e rendere il suo sguardo cupo e terrificante, non per chiunque, ma per me, che sono cresciuto osservando i cambiamenti di espressione del suo viso. La cosa peggiore di tutte è che si impara a distogliere lo sguardo quando è già troppo tardi, quando si è già visto l’indispensabile per sapere che si è fottuti. E così ho menzionato l’innominabile. Adesso che ci penso, non abbiamo mai parlato di Mister Gambe da quando, a poco a poco ma inesorabilmente, è uscito dalle nostre vite. Nello stesso periodo mia madre è uscita dal Gym-Jazz ed è rientrata nello studio del dentista.
Impila le riviste, ordina il tavolino davanti ai divani e si ferma a contemplarsi nel vetro che lo ricopre, cosa che non mi piace affatto. Si passa le mani tra i capelli, che adesso porta tagliati all’altezza del collo.
«Tuo padre diceva sempre: “Le cose belle stanno per arrivare”, e io ci credevo. Quando si ripete tanto una frase sembra che racchiuda la verità. Ebbene, le cose belle sono arrivate e sono passate. A tuo padre è sempre piaciuto filosofeggiare sulla vita.»
Mia madre sta entrando in uno stato di ansia preoccupante. Non vedo l’ora che si alzi per tirarsi una striscia. Mi inquieta che non disponga di una riserva sufficiente per tutto il ponte. Respiro quando dice: «Ho appuntamento con un’amica a Madrid. Non tornerò tardi».
Mi ha fatto sentire orgoglioso di lei perché sa ottenere ciò di cui ha bisogno, perché sa come disfarsi dello sguardo cupo e terrificante. Penso che con l’età che ha e quattro o cinque piste al giorno non avrà una vera e propria crisi di astinenza fino ai sessantacinque anni o più tardi, quando il paese sarà fornito di fantastici centri di disintossicazione, e io starò entrando nella maturità e sarò tanto preoccupato per questo che non mi importerà di mia madre.
Il martedì ricevo una telefonata di Tania dal Messico. Ha una voce più dolce di prima, più melodiosa, e usa tutti quei vezzeggiativi tipici dello spagnolo di quelle parti.
«Ho pensato tanto a te», le dico appena la sento. E mi sembra incredibile aver smesso di pensare a lei in tanti momenti, giorni e settimane, anche se non mesi. Credo che non sia passato neanche un solo mese senza che mi ricordassi di Tania.
«Anch’io ti ho pensato tanto, soprattutto in questi momenti. Tu conosci bene Eduardo, il vero Eduardo.»
Non sono molto d’accordo con lei perché non ho mai avuto l’impressione che l’Eduardo che conoscevo io fosse quello vero. Magari adesso, lontano dall’ambiente nel quale si era sempre visto obbligato a conservare un’immagine, era diventato più spontaneo e sincero, se una cosa del genere era possibile per Eduardo. Non glielo dico.
«È cambiato così tanto?» le chiedo.
«Corre troppi rischi. È come se non gli importasse della sua vita. Corre in macchina, beve e fuma molto, prende mille porcherie. Il suo corpo è un sacco in cui non fa altro che infilare sostanze di ogni tipo. Non è mai soddisfatto, non è mai tranquillo, non ne ha mai abbastanza. È già ricco, sai? In poco tempo diventerà ricco come mio marito.»
«Che tipo di lavoro fa?»
«Non mi sono mai impicciata di questo. In realtà non lo so. Affari. Prendere denaro qui e metterlo lì. Far prosperare imprese che sono fallite. Noleggiare aerei. Agenzie di viaggi. Mio marito dice che Eduardo è un genio, ma supera sempre il limite, non sa quando bisogna fermarsi. Qui ha una casa bellissima nel quartiere dell’Hipódromo, ma non ci mette piede da molto. Nessuno lo ha visto. Non compare nelle liste dei passeggeri delle linee aeree. Non è tornato.»
«Cosa vuoi che faccia io?» le chiedo.
«Quello che vuoi, qualunque cosa ti venga in mente. Una volta mi hai promesso che ti saresti preso cura di lui. Quel momento è arrivato. Certamente lo troverai.»
Non è un’esagerazione pensare che Tania si spinga troppo in là facendo di me il depositario di tutta la sua fede e speranza. Se mi lasciassi trasportare, dovrei uscire immediatamente di corsa per le strade gridando il nome di Eduardo. Comporta un grosso peso diventare responsabile della speranza di qualcuno, perché diventi responsabile anche della sua delusione. E io ho paura di deludere l’unica persona che è capace di credermi infallibile.
Chiedo la macchina a mia madre, che è intenta a ritagliare annunci immobiliari. Prima ha scelto i mobili e adesso cerca l’abitazione in cui metterli. Sembra felice.
«Ci sono dei veri affaroni», dice.
«Ma questa casa non ti piace?» le chiedo.
«Questa sarà sempre casa nostra, tesoro. Non ho intenzione di venderla né niente del genere. Ma che mi dici di una villa vera e propria? Ci sono i soldi per questo e per molto altro. Tutto nuovo, proprio tutto, comprato da me.»
Certo, rispondo, ed esco nella nebbia attraversata dai fari delle macchine di una strada spettrale. Si vede molto poco, come se attraversassi un panno grigio, o meglio una nube grigia, nell’attraversare la quale tutto si inumidisce. La nube avvolge anche Madrid e le cime degli edifici più alti la attraversano dolcemente. Proseguo per il Paseo de la Castellana. Incrocio piazze e costeggio fontane. Come in un sogno torno di nuovo a un luogo irreale. Chiudo la porta dell’appartamento 121 e vado in soggiorno. Dal soggiorno entro in camera da letto e poi in bagno e in cucina. Succede una cosa strana. Avverto che non tutto è come l’ho lasciato. Mi guardo intorno con attenzione, notando ogni cosa. Le tende sono tirate e il bicchiere senz’acqua non è più sul comodino. Lo vedo nel lavello della cucina. In bagno c’è un asciugamano a terra. Mi innervosisco molto, avvertendo che qualcun altro ha la chiave. E se è Eduardo che viene ogni tanto a dare un’occhiata e se ne va? Magari vive in un altro posto e non gli interessa portarsi via niente da qui. È un’idea peregrina, perché uno che si prende la briga di tenere i completi in custodie con la cerniera non li abbandona. Neppure Eduardo lo farebbe. E non lascerebbe neanche la propria biancheria intima. Non è lui che viene qui. E se viene, non vuole che si sappia.
Non sono a mio agio all’idea che questa o queste persone, che non si prendono il disturbo di rifare il letto né di lavare le stoviglie, ma che si limitano a farsi un giro nell’appartamento e forse una doccia, possano infilare la chiave nella serratura, entrare e ritrovarsi davanti me. Parte della posta è aperta. Sono estratti conto bancari, comunicazioni di finanziarie e pubblicità. Non c’è nessuna lettera di carattere personale. Lascio tutto com’è. Non voglio assolutamente che gli altri sappiano che vengo. Anche se all’improvviso mi viene il dubbio di essere stato io a tirare le tende, a portare il bicchiere in cucina e a far cadere senza volerlo l’asciugamano, perché non sempre si pensa a ciò che si fa. Alla lunga il corpo finisce per pensare da solo. Un minimo di cervello per fare quello che è abituato a fare, mentre la coscienza si allunga e arriva più in là degli occhi e dell’udito e infinitamente più in là delle mani. Sono qui per trovare qualche traccia della coscienza di Eduardo. Una coscienza senza corpo, penso mentre frugo nelle tasche dei completi invernali, dei cappotti e, aprendo sfacciatamente le cerniere delle custodie, in quelle dei completi estivi. Forse quando si è già smesso di provarci, quando non si pretende più nulla né si cerca nulla e l’universo funziona con la sua calma abituale, allora in vari modi nasce la luce, la rivelazione, rifletto guardando il letto disfatto, le tende tirate, i mobili pieni di polvere, la posta aperta, i libri, i giornali a terra. Chiudo e dietro di me resta il labirinto di porte color crema.
Unito a questo dall’autostrada, c’è un remoto mondo reale.
Il mondo reale mi restituisce alla videoteca e al sogno di girare un corto. Annoto varie idee che mi sembrano buone. Se non fosse perché ho la chiave, potrei dimenticarmi di Edu e dell’appartamento. L’ultimo giorno di vacanza mia madre, con gli occhi lucidi per le sue continue puntate al bagno, mi dice: «Ormai manca poco, figlio mio».
La Grande Memoria non riposa mai. Bisogna tenere questo in conto. Con una leggera capocciata andremmo in malora, non saremmo più pensati con un minimo di sensatezza. Perciò considero che la routine delle mie giornate ubbidisca all’assennatezza di qualcuno. Arrivo all’Apolo. Salgo le scale mobili. Metto a posto i DVD e prendo un caffè nel fast-food accanto, tenendo sempre d’occhio il mio negozio. Le mattinate sono così mosce che mi consentono di vedere almeno un film con tre o quattro interruzioni, generalmente da parte dei pornofili. Vengono di mattina, e questo mi fa pensare che abbiano molto tempo libero e che probabilmente il nutrimento che le loro menti richiedono è grande, ma che loro, seguendo la teoria di Alien, le nutrono fondamentalmente con lo stesso di sempre. Tutti tendiamo a non uscire da ciò che conosciamo, a non avventurarci. Può essere l’immaginazione così spaventosa? Se non lo fosse, preferirebbe la novità all’abitudine, eppure vince l’abitudine.
Sonia, per esempio. Alle otto spinge la porta di vetro e la fermezza dei suoi tacchi la porta al bancone, dove aspetto il mio capo già con i soldi pronti. Come la volta precedente, le cedo il posto e le chiedo se vuole bere qualcosa. Si accende una sigaretta, mi soffia in faccia la prima boccata di fumo e risponde che berrebbe una bibita all’arancia, ma che siccome in fondo le bibite sono gasate quanto la birra, preferisce una birra. Torno con una lattina per mano e mi lascio accarezzare dal verde azzurrognolo dei suoi occhi. Sono gli occhi più belli che abbia mai visto. Solo questi stessi occhi quando li ho visti la prima volta li possono superare. Le dico che sono felice che sia tornata, che sia lei a ritirare il denaro. Sorride e commenta che forse io ho voglia di andarmene di qui dopo tante ore.
«Farò in fretta», aggiunge.
Le dico di bere la birra tranquillamente. «Adesso non sto lavorando. Adesso sono con te. È diverso», le dico. Sono così sicuro che me la farò che potrei giurarlo sulla Bibbia. «Fa molto freddo fuori?» chiedo.
«È una serata piuttosto brutta. Credo che ne berrò un’altra.»
Entro di nuovo dalla porta e lei è ancora lì, sullo sgabello, dietro il bancone, completamente estranea alla mia fantasia perché non è come Tania né come la ragazza sognata della cineteca. I ricci biondi artificiali le cadono sul maglione nero e il candore del suo sguardo, come di una bambola antica, mi attraversa il cuore. Le accarezzo uno dei ricci e poi la prendo per mano e la guido verso il retro.
«Che pensi delle sparizioni delle persone?»
«A quali sparizioni ti riferisci?» chiede lei sconcertata, con un’espressione così indifesa che anche se non mi andasse farei l’amore con lei.
«A quelle di coloro che un giorno, di punto in bianco, vengono inghiottiti dalla terra e nessuno sa mai più niente di loro.»
«A noi non succederà una cosa del genere», dice mettendomi la mano sulla spalla e abbassandola lungo il braccio e avvicinandosi completamente a me.
Allora la allontano e dico: «Prima guardami».
«Sei un romantico, lo sapevi?»