Il sabato pomeriggio, dopo pranzo, mi dirigo con l’auto di mia madre verso l’appartamento di Eduardo. Per come stanno le cose, devo dimenticarmi dei tremila euro e della macchina di seconda mano. La povertà mi stanca. Forse dovrei cercarmi un lavoro vero, di quelli da cui esci sfinito e la cui retribuzione ti permette di essere un consumatore medio. Mi manca consumare con regolarità. Andare, per esempio, ai grandi magazzini, incapricciarmi di qualche sciocchezza e comprarmela. Deve racchiudere un grande piacere il fatto di poter buttare i soldi. La cosa che mi piacerebbe veramente è regalare un sacco di cose a Yu. Da quando l’ho vista l’altro giorno quasi non riesco a immaginarla, è un sogno troppo grande. Quando immaginavo Wei Ping e Tania, me le immaginavo reali. La forma di Yu, invece, è troppo ideale. Credo che non la toccherò mai.
Prendo l’ascensore e m’infilo nel labirinto di porte fino alla 121. Non trovo tracce del fatto che Yu sia tornata qui in mia assenza. Esamino i particolari dello scenario e li ritrovo come l’ultima volta. Mi verso un cognac senza togliermi il giubbotto e mi tenta l’idea di mettere un po’ di musica, ma penso che non si debba ascoltare musica in questo appartamento. Credo che nessuno debba accorgersi della mia presenza. Potrei però accendere il riscaldamento, perché quando me ne andrò la casa si raffredderà di nuovo e sarà come se non lo avessi mai acceso.
I termosifoni si riscaldano con una velocità sorprendente e dopo poco non si sta già più tanto male. Mi metto a ordinare la corrispondenza facendo un mucchio sul tavolo e impilo i giornali lì accanto. Non so se c’è qualcosa che devo cercare. Qualunque cosa sia, dovrei cercarla più a fondo tra i documenti e i vestiti, ma, per quanto mi costi riconoscerlo, Eduardo ha smesso di interessarmi. Prima o poi tutti dobbiamo sparire, se non in un modo, in un altro. Credo che sia arrivato il momento di pulire la cucina e spolverare i mobili. Cerco di farlo con il minor rumore possibile. Il cognac mi dà coraggio, ma mi propongo di portare qualche birra la prossima volta. La stanza da letto non la tocco, lascio i vestiti come stanno, le lenzuola sottosopra sul materasso, le camicie e i pantaloni sulla poltrona e gli armadi aperti come se da un momento all’altro il proprietario potesse allungare il braccio e prendere una stampella. Faccio tutto perché Yu si senta a suo agio. Spero di udire il rumore della serratura e vederla entrare come il primo e unico giorno in cui è entrata. Ma le forme ideali non sono reali, e non vengono.
Arriva un momento in cui credo di non dover aspettare più ed esco dal labirinto che custodisce il segreto.
Quando torno a casa, ricevo una telefonata di Tania. In Spagna sono le undici di sera e in Messico le quattro di pomeriggio. Dice che ha bisogno di parlare con me con una voce così musicale che quasi non capisco le sue parole.
«Mio fratello aveva a che fare con gente molto pericolosa», esordisce.
Le consiglio di raccontarlo alla polizia, semplicemente perché non mi viene in mente altro.
«Non è così facile», replica. «Mio marito non vuole sentir parlare di polizia. Gli si metterebbero alle calcagna.»
«Io non posso fare niente», rispondo.
«In Messico è tutto più difficile», spiega. «Capiscimi. Io e Eduardo siamo stranieri.»
«Sì, ma qui siamo al punto di partenza. Di Eduardo non c’è traccia.»
«Parli come se fosse...» dice con disperazione attenuata dall’accento melodioso, «come se fosse...»
Allora mi viene in mente di chiederle una cosa che per molto tempo ho desiderato sapere, anche se adesso non lo desidero più tanto: «Sei felice?».
Com’è ovvio all’inizio è un po’ sconcertata, ma poi risponde subito: «Sei così romantico. Voi romantici ispirate tanta fiducia. Non siete capaci di fare del male a nessuno».
«Ne sei sicura?»
«Assolutamente.»
«Tu non sei mai stata romantica, vero, Tania?»
«Ti adoro, credimi.»
«Ti dirò quello che penso veramente. Eduardo non tornerà. Non so se gli è successo qualcosa o se è scomparso volontariamente. So solo che non tornerà. Togliti dalla testa l’idea di rivederlo. Mi dispiace.»
Mi accorgo che Tania soffre, che le ho fatto del male. «Non dovresti dirmi una cosa del genere.»
«Lo sai perfettamente anche tu. Magari è stato lui stesso ad allontanarsi dalla nostra vita. Neanch’io glielo perdono.»
«È così bello», dice Tania. «Ti ricordi quando facevamo il bagno in piscina? Tu eri così virile e lui, lui si disperava all’idea di non essere come te.»
«Penso che sia troppo intelligente per lasciarsi ingannare da qualcuno, per farsi incastrare, perché siano riusciti ad avere la meglio su di lui», aggiungo.
«Sì, magari è così», replica Tania. «Però mi manca. Sai una cosa? Quando eravamo piccoli, sognavo spesso che Eduardo si perdeva e non riuscivamo a trovarlo. Si perdeva tra la folla. Così piccolo, così magrolino, all’improvviso spariva in mezzo agli altri come se fosse stato risucchiato dagli spazi tra i corpi e dagli occhi che lo ignoravano. O andavamo a passeggio in campagna e tutto d’un tratto lo spazio davanti a noi si apriva, diventava immenso e smettevamo di vederlo all’improvviso. Mi sollevava sapere che in fondo si trattava di un sogno. E questo, è un sogno?»
«Davanti a un sogno si dubita, ma non davanti alla realtà. È questa la grande differenza. La realtà è indiscutibile.»
«Sei sempre sembrato più grande della tua età, davvero.»
Le chiederei perché lei non è mai stata nel mio mondo. Perché non è entrata neanche un secondo nella mia vita. Ma cosa può saperne di qualcosa che ho notato soltanto io? Cosa può saperne di lei dentro di me?
Erano secoli che non andavo allo Zoco Minerva. L’Apolo è l’attualità, il Minerva il passato. Una puntata alla pizzeria Antonio, un’altra in tintoria. Credevo che questo posto fosse pieno di ombre e scopro che le stesse persone leggermente invecchiate continuano a stare qui con gli stessi caffè tra le mani, le stesse sigarette e le stesse voci. Resta al suo posto anche l’Alfa Romeo con un bimbo dentro. Probabilmente mancherà qualcuno, ma nella vita ciò che manca non conta. Non può vivere chi non vive, la vita è formata da noi che viviamo. La prova è che tutto continua a essere com’era nonostante io sia mancato dallo Zoco Minerva per tanto tempo. Nella Grande Memoria c’è solo una possibilità per essere ricordato, quella di ora. Compro un foulard per Yu e penso con intensità di darglielo. Penso a lei che entra dalla porta dell’appartamento 121 mentre io la sto aspettando. Penso che questo pensiero è nella testa di capelli raccolti nella coda di cavallo e col viso dalla pelle di porcellana e dalla bocca rossa e dagli occhi imprigionati, occhi misteriosi, che guardano da dietro, da dentro, che sono precedenti a sé stessi. Deposito con cautela questo pensiero nella sua testa, amorevolmente lo lascio tra i suoi pensieri a me sconosciuti.
Dopo colazione mia madre s’immerge nelle riviste di arredamento e negli annunci immobiliari e io mi metto i vestiti più belli che ho e mi rifaccio la barba, perché mi infastidirebbe se a Yu sembrassi, anche solo leggermente, un malato. Prima di andarmene chiedo a mia madre come va la scelta della casa, se ha individuato qualcosa. Allora mi confessa che è in dubbio tra una villa nei sobborghi e un mega-appartamento a Madrid. Le chiedo perché non tutte e due le cose. Lei allora assume un’espressione pensosa, come se stesse calcolando le ricchezze del suo promesso sposo. Mi metto in tasca il foulard e le chiavi della macchina, prendo qualche birra, esco e vedo un bagliore rossastro in cielo, come se l’universo si stesse incendiando.
Ripeto l’itinerario del pomeriggio del giorno precedente. L’autostrada e un tratto di vie con edifici del secolo scorso fino alla Castellana. Non mi viene in mente nessun pretesto per fare un regalo a Yu. Perciò il foulard in tasca mi fa sentire un po’ nervoso.
È tanto facile arrivare alla porta color crema e aprirla. La chiudo dietro di me e, dopo una prima occhiata a ciò che mi circonda, una novità mi fa sussultare. Il letto è rifatto e non si vedono più le camicie e i pantaloni sporchi di Eduardo. In bagno, non solo gli asciugamani sono sistemati sui sostegni, ma sono diversi, probabilmente più puliti dei precedenti. Mi illudo che sia stata Yu a completare il mio lavoro. O lei o Eduardo. Accendo il riscaldamento, mi stappo una birra e mi siedo ad aspettare. Mi manca un televisore. Non prendo neanche per un attimo in considerazione l’ipotesi che non venga, perché se qualcosa è impensabile non succederà. Sono così annoiato, e allo stesso tempo così impaziente, che mi fumo una sigaretta dal pacchetto della cucina e bevo tutte le birre tranne una.
Intorno alle sette sento la serratura. E subito dopo entra lei. Chiude la porta e dice ciao. Una volta che il miracolo è successo è come se non fosse successo. Sembra naturale che qualcosa sia accaduto, ma... e se non si fosse verificato? Se lei non fosse venuta? In quel caso resterebbe solo l’impazienza. Con questa impazienza insopportabile la guardo e le dico: «Sei venuta, finalmente».
«Sono venuta anche ieri», ribatte. «Te n’eri già andato. Ho visto che ti eri dedicato alle pulizie.»
«Mi sembra assurdo che l’appartamento sia ridotto come un porcile.»
«Sono d’accordo. Eduardo è molto ordinato e non gli piacerebbe trovarlo sporco e sottosopra.»
Non so come spiegarle che Eduardo non tornerà. Non ho motivo di farlo, in fin dei conti non ci conosciamo. Lascio cadere la cosa e inizio a preoccuparmi per il regalo. Anche solo l’idea di doverglielo dare mi mette su un piano di inferiorità, come se dare qualcosa risultasse imbarazzante tanto quanto dover chiedere qualcosa.
Dice che è di nuovo a casa. Il riscaldamento le sta arrossando le guance. Me le mangerei, ma non voglio toccarla. Mi cede la birra che è rimasta e si versa il cognac. Questa volta indossa pantaloni e maglione. Si toglie le scarpe. Mi viene in mente che finiranno per staccare il gas e l’elettricità e che prima o poi dovremo smettere di venire, e mi chiedo che ne sarà dei completi e del resto dei vestiti di Eduardo quando non torneremo più. A questo punto Yu si inginocchia ai miei piedi e mi allenta i lacci degli stivali e questo mi lascia completamente spaesato. Guardo i suoi capelli setosi e neri che le scivolano sul cranio. La osservo mentre mi leva gli stivali e per un attimo ho l’impressione che mi stia per togliere anche i calzini. In un certo senso mi solleva che si fermi qui perché, a parte mia madre, mi ha spogliato solo Sonia, e lo ha fatto con tutta l’urgenza della passione, e per di più quando eravamo entrambi in piedi nella semioscurità della stanza sul retro del negozio e non con me seduto comodamente su un divano con una birra in mano e un foulard avvolto nella carta velina in tasca.
«Stai più comodo?» mi chiede.
Annuisco e bevo un sorso.
«Ti ha mangiato la lingua il gatto?»
È una frase che non sento da quand’ero piccolo. Solo lei potrebbe dire una cosa del genere, con il suo viso da bambola e quel profumo dolce che le esce dai pori. All’improvviso mi guardo e vedo che sono un uomo con i Levi’s, la felpa, degli scarponi da trekking, una bottiglia di birra nella mano appoggiata sulla coscia e sotto i Levi’s ho tutto quello che bisogna avere e ho anche voglia. Ma non voglio fare niente, non voglio pensare che sono un uomo. Voglio vederla e sentire il suo profumo con molta parsimonia, senza riscaldarmi.
«L’ultima volta che qualcuno me lo ha detto avevo cinque anni.»
«Potresti esserti evoluto un po’ da allora», replica senza smettere di andare da una parte all’altra.
«Vieni qui», le dico, «perché non ti siedi?»
«Credi che facciamo bene a fare come se niente fosse?»
«E che altro possiamo fare? Dobbiamo seguire il ritmo che lui ci ha indicato. Ha dato una chiave a ciascuno di noi, no? La chiave apre questo appartamento e noi siamo qui. Sono sicuro che c’è qualcosa in più che in questo momento non siamo capaci di cogliere», dico con la sicurezza dovuta al fatto che ormai non mi interessa più trovare nient’altro nell’appartamento.
«Dovremmo cercare più a fondo», insiste lei.
«Ma non adesso. Con la fretta non si arriva a nessuna conclusione. Lo faremo in un altro momento, quando qualche particolare richiamerà in modo specifico la nostra attenzione.»
«La prima volta che ho visto Eduardo», dice, «mi sembrò il ragazzo più bello del mondo. Non avevo mai visto nessuno così. Ero al parco con la mia cagnolina e lui si avvicinò. Si chinò e iniziò ad accarezzarla. “Io ho un cane che si chiama Hugo”, disse. Io risposi: “Lei si chiama Nina”. “Nina?” “Sì, come Nina Simone.” “Il mio Hugo come Victor Hugo.” “Che strano”, dissi io. “Nessuno assocerebbe il nome Hugo a Victor Hugo.” “Ah no?” fece lui ridendo. Avrei voluto baciarlo in quell’istante. Questo succedeva in autunno. I raggi del sole gli attraversavano il volto mentre accarezzava Nina e mi parlava.»
«A Eduardo piace tanto il sole, ma non lo sopporta per niente. È molto allergico», intervengo io, smorzando il tono nostalgico della conversazione.
«Il fatto è che è molto giovane», dice Yu.
«Davvero? Non è più giovane di me né di te, credo.»
«Be’, ti sbagli di grosso. Sono un bel po’ più grande di lui.»
«Ma non mi dire», esclamo molto interessato.
«Di solito noi donne orientali sembriamo molto più giovani di quanto siamo in realtà. Sono sposata. Ho lasciato mio marito a Taiwan e sono venuta in Spagna per studiare arte. Lui mi paga tutte le spese. È molto ricco. Lavora nel settore petrolifero.»
«Credevo che il petrolio lo avessero soltanto gli arabi.»
«Sono venuta a cercare qualcosa. Era come se qualcuno mi chiamasse da qui. Non so come spiegarlo. Come se qui qualcuno stesse pensando a me con molta più forza rispetto a mio marito a Taiwan. E quando nel parco Eduardo venne verso di me e mi parlò, pensai che fosse lui.»
È arrivato il momento di dirle che non era lui, ma non lo dico perché non ne sono sicuro. In realtà prima di conoscerla io non avevo affatto pensato a Yu ma a Wei Ping, e senza nemmeno troppa convinzione. Non si può paragonare all’intensità che avevo messo, per esempio, nell’idea di Tania. Non credo che una vaghezza simile abbia avuto la forza di arrivare fino a Taiwan e di strappare dal seno della sua famiglia una meraviglia eternamente giovane. Approfitto del silenzio di entrambi per tirare fuori dalla tasca del giubbotto la carta velina che avvolge il foulard. Le parole che si usano in queste occasioni sono necessariamente impacciate.
«È per te. Una sciocchezza. Non so se ti piacerà.»
È terrificante lo sconcerto con cui guarda il pacchetto, che nelle sue mani bianche e delicate mi sembra ridicolo. Sto per riprenderlo prima che lo apra e buttarlo nella spazzatura. Ma non posso fare altro che resistere. Non mi ricordo più come sia esattamente il foulard e quando lo spiega davanti alla luce della lampada mi rendo conto di essere stato un pazzo a pensare che Yu potesse indossare uno schifo del genere.
«È molto bello», dice mettendoselo al collo, poi in testa e poi sulle spalle. «Non so cosa vuoi dirmi con questo regalo.»
La fine è arrivata. Cosa voglio dirle con questo regalo assurdo? Cosa voglio dirle?
«Non so cosa voglio dirti», rispondo.
«Be’, io credo di sapere cosa vuoi dirmi.»
«Ah sì?» replico davanti all’esame più crudele della mia vita.
«Tutti abbiamo avuto paura qualche volta.»
«Io non ho paura, di cosa potrei avere paura?»
«Ah!» esclama lei, «di tante cose. Quello che è veramente strano è che uno non abbia paura. Non trovi?»
«Be’, per tutta la vita ho sentito dire a molti con grandissima serenità che loro non hanno mai avuto paura.»
«Quella gente è temibile, perché non può capire la paura degli altri e, pertanto, può incuterla senza rendersene conto», osserva Yu.
«Tu non sembri molto fifona, per così dire.»
«Be’, ti sbagli. Vivo tremando.»
«Ma non adesso.»
«Anche adesso.»
«Non posso dirti di cosa ho paura. Non lo so neanch’io.»
Yu si versa il terzo bicchiere di cognac. Penso che si ubriacherà. E mi alzo per controllare se in cucina c’è del caffè.
«Mio marito», riprende, «è un uomo ricchissimo. Lo conobbi quando io ero una semplice studentessa a Pechino. Spese una fortuna perché potessi andare via da lì. All’epoca credevo di amarlo, ma poi capii che, in realtà, amavo il suo potere.»
«E non è la stessa cosa? Voglio dire che se non ami il potere in generale, ma il potere di una determinata persona, è perché ami anche quella persona con il suo potere. Come altri li si ama con la loro bellezza e altri ancora con la loro saggezza. L’amore è la cosa meno pura e oggettiva del mondo. All’amore piacciono gli scintillii, gli orpelli, la paccottiglia, i riflessi accecanti degli specchi falsi», dico senza citare la paternità di Alien.
«Hai ragione. Semplicemente non lo amo. Non ho lasciato il mio paese per rinchiudermi in un amore falso.»
Usa la parola amore con tanta familiarità che sembra che sappia tutto sull’argomento e che mentre tutti noi abbiamo vissuto una vita cieca e bruta lei sia stata immersa in un’altra molto più sublime ed evoluta. Magari questa donnina ha cent’anni d’amore. Le porgo la tazza con il caffè e mi siedo di nuovo sul divano per guardarla meglio mentre si aggira per la stanza.
«Mi dispiace per tuo marito. Deve soffrire molto.»
«Non voglio pensarci. A nessuno si può evitare il dolore con il proprio. E non metterti nei suoi panni, non pretendere di provare ciò che prova lui, perché non hai neanche la minima idea di com’è. Probabilmente ciò che vuoi dirmi è che se tu fossi mio marito soffriresti molto, non è così?»
«Sì, non mi piacerebbe perderti. Non mi piacerebbe per niente.»
«Avresti rimorsi di coscienza se facessimo l’amore?» mi chiede.
«Non ho mai pensato che avremmo parlato di questo argomento prima di farlo», le rispondo un po’ confuso.
«Che c’è di male? Tutto merita di essere commentato.»
«Non in questo modo così freddo. Non è che dobbiamo discutere se ci sembra un bene o un male. È una cosa che, se deve succedere, succede, punto e basta.»
«E gli equivoci e i fraintendimenti? Hai uno spirito molto avventuroso.»
«Così affrontavate la questione tu e Eduardo? Non dirmelo. Conoscendo Eduardo, so che era così.»
«Non essere precipitoso», replica Yu. «Non sai niente di quello che succederà. Il mondo in cui stiamo per entrare, il mondo dell’amore, non ha niente a che vedere con questa conversazione», dice, e lascia cadere il foulard sul mio viso. E visto che Yu ha un marito e cent’anni, ossia non è come credevo che fosse, non ho motivo di tenere fede al proposito di non toccarla.
All’alba mi sveglio e la guardo. Le accarezzo la pelle e i capelli, è una bambina che non è una bambina. Ha un odore dolce, come se nelle vene le scorresse succo di more o una cosa del genere. È arrivata da un posto remoto fino alla porta color crema dell’appartamento 121 ed è venuta a letto con me. Non mi ha spogliato, sono stato io a spogliare lei. Ognuno ha il suo compito. Quello di Sonia è spogliare me. Il mio è spogliare Yu. E quello di Yu, potrei giurarci, è spogliare Eduardo. Anche se non mi fa piacere pensare che Eduardo sia stato con lei perché è un modo, seppure immaginario, di ritrovarmi anche lui qui nel letto, idea che mi risulta davvero repellente. Prima che iniziassimo a fare l’amore, ho chiuso gli armadi per non vedere i suoi completi né le sue scarpe, né le custodie con la cerniera. A nessuno dei due è venuto in mente di spegnere la luce, e non abbiamo mai chiuso gli occhi.
Adesso il mio vero obiettivo nella vita è tornare a fare l’amore con Yu. Se mi chiedessero qual è la cosa che desidero di più al mondo, dovrei riconoscere che è andare a letto con Yu. E questo direbbe molto poco in mio favore perché scopare è sempre qualcosa di complementare, non essenziale, perciò quelli come me che lo trasformano in un elemento fondamentale sono preoccupanti. Non sono normale e lo so solo io, il che da un lato mi tranquillizza e dall’altro mi isola un bel po’. Inizio a comprendere i clienti pornofili, simpatizzo con loro, li guardo con affetto. Quanto sono soli. Sono quelli che non escono mai da qui con i DVD in mano perché vengono provvisti di tasche o borse dove poterli custodire. Li devono nascondere, mentre tutti gli altri escono impunemente tenendoli in mano con l’espressione innocente di un bambino, e non dico meno, ma proprio la stessa. È un’aberrazione pretendere che agli adulti interessino le stesse cose dei bambini, perché in questo caso crescere non avrebbe alcuna attrattiva. Ci svilupperemmo per continuare a fare le stesse cose. E soprattutto pretendere che ci impegniamo per conservare il bambino che siamo stati quando si suppone che il tempo scorra perché questa creatura si perfezioni, si educhi, si umanizzi e per fortuna smetta di esserlo. Non mi sono mai ricordato di me bambino con affetto speciale, come se fossi mio figlio o una cosa del genere. Questo è impossibile perché io sono io e niente di quello che facevo mi sorprende o mi sbalordisce, poiché è rimasto impresso nella coscienza che ho di me.
Uno dei clienti speciali, per non chiamarli sempre nello stesso modo, è una signora che adesso che è inverno indossa un cappotto beige con ampi risvolti e una cintura che si stringe in vita e che ha i capelli un po’ scompigliati dal vento. All’inizio le consegnavo il DVD in un sacchetto e lei me lo pagava senza che ci guardassimo negli occhi, come se guardandoci potessimo ritrovarci davanti le scene del film. Adesso però le sorrido e arrivo addirittura ad augurarle buon divertimento. E lei mi dice: Mio marito si ravviva molto con questo. E il suo sforzo perché il marito si ravvivi mi sembra encomiabile. Mi viene voglia di raccontarle che io non faccio altro che pensare di mangiarmi Yu sotto la luce spettacolare del lampadario appeso sopra il letto, che mi mette in bocca i capezzoli intensamente rosa, e la lingua e le pieghe scivolose e narcotizzanti attraverso le quali entro nell’ignoto. Glielo direi in ragione di quello che io so di lei, ma non lo faccio, perché la donna con il cappotto dai risvolti ampi e i capelli scompigliati ha solo la missione di entrare nella videoteca una volta a settimana, tirare fuori il DVD dalla borsa e infilarci quello che le do, pagare, fare qualche commento – in forma sempre più rilassata –, spingere di nuovo la porta di vetro e sparire.
Sonia si è accorta di qualcosa.
«Se non avessi paura di farti arrabbiare, ti direi che sei diverso, distratto. Ho ragione?» dice.
«Senti», le rispondo, «il mio capo ti controlla. È pericoloso. Sono preoccupato, davvero.»
«Non ti cacare sotto per colpa di quello lì», ribatte in un modo che mi sorprende, perché Sonia ha una voce piuttosto sottile alla quale non si adattano bene espressioni come cacare sotto o coglioni, fottere, cazzo, scopare, stronzo, merda, o la semplice espressione corrente porca puttana. In bocca a lei stonano. Per questo, quando nella stanza sul retro mi dice «scopami» con la sua vocetta bavosa, un brivido mi percorre da capo a piedi. Questa è una cosa che la distingue da Yu, ma non è sufficiente, perché io non andrei alla cineteca con Sonia, non mi prenderei neppure un caffè fuori di qui con lei e con Yu invece sì. Voglio che Yu sia la ragazza con cui sono quando si accendono le luci della sala della cineteca, anche se non è la figlia di un produttore.
«Ascoltami bene», le dico, «sono preoccupato per te. Dovresti vederlo quando mi chiede con chi vieni, con chi te ne vai e se parli molto con me.»
«E perché non me lo hai detto prima?»
«Non volevo spaventarti.»
«Ah. Però adesso pensi che io debba spaventarmi.»
«Non ti capisco.»
«Fa lo stesso. Quello è una mezzasega, te lo dico io. È buono solo a parlare.»
«Non mi piace che parli così, Sonia. Non sai che brutto effetto fanno queste parole quando le usi tu.»
«Che parole? Mezzasega?»
Lei ha un’espressione sorpresa e io disgustata.
«Ti sei stancato di me», aggiunge facendosi girare la lattina di birra tra le mani.
«Pensa», dico io, «se adesso entrasse e ci sorprendesse a bere una birra.»
«Sì, pensa che tragedia.»
«Come minimo perderei il lavoro.»
«Questo schifo di lavoro è più importante di me?»
«Non dico questo, ma è l’unico che ho.»
«Ti accontenti di molto poco. E visto che ti accontenti di molto poco mi sorprende che non t’importi niente di me. È la prima volta che mi succede. Credevo che questa fosse una cosa speciale, diversa. Non so cosa farò per impedirmi di prendere la macchina e venire qui. Non posso prometterti che non lo farò.»
A questo punto raccoglie le cose che ha sparpagliato sul tavolo: sigarette, accendino, agenda e cellulare. Se le infila in borsa e si alza senza provare a portarmi sul retro. Non riesco a credere che sia stato così facile, che Sonia sia così incredibilmente buona con me. Solo per questo farei l’amore con lei con enorme gratitudine. Mi viene in mente che sarebbe la scopata migliore, ma è meglio non dire niente, non muovere neanche un muscolo e lasciare che intraprenda la strada del ritorno tra gli scaffali verso la porta a vetri. Mi lascia molto perplesso che la donna più indecisa del mondo la spinga con tanta determinazione e che, senza guardarsi indietro, esca e sparisca.
Qualunque perdita, per quanto ti faccia sentire sollevato, lascia anche un vuoto. Il retro è rimasto vuoto senza Sonia. Quando mi siedo qui a visionare – come dicono in televisione – qualche film, a volte mi ricordo di lei e me ne ricordo con affetto, perché è venuta quando doveva venire e se n’è andata quando doveva andarsene. I pensieri importanti sono per l’appartamento 121. Il paradiso terrestre.
Al posto di ruscelli, alberi da frutto, mele e serpenti, un letto. Un uomo, una donna e al massimo un letto. Questo è l’autentico e unico messaggio delle migliaia di pagine della Bibbia. Dico a Yu un milione di volte che lei è l’amore della mia vita, intendendo con vita tutto ciò che si può intuire su sé stessi in una sola volta, sempre in forma confusa, perché in realtà non lo si intuisce con la ragione, ma con la propria e unica vita. Tendo a usare, per chiamarla, la parola «amore» al posto del suo nome. Lei, invece, mi chiama sempre Fran e mai amore, che è la parola che più si adatta alla sua bocca, alle sue labbra. Solo la vista delle sue labbra risveglia nelle mie un’ansia smisurata di baciarle, morderle e torturarle.
Reprimo eroicamente questo impulso e le chiedo di raccontarmi com’era la sua vita a Taiwan. Lei, spostando dei libri, fa una smorfia di fastidio. Io però insisto. Le dico che voglio conoscerla meglio.
«Credi che sia più importante quel che sai di me rispetto a me? Hai già me.»
«A volte non è sufficiente averti solo adesso. Mi piacerebbe anche averti prima, quando non stavi con me. Sai molte cose che io non ho.»
«Sei molto romantico, lo sapevi?»
Questo me lo hanno già detto Sonia e Tania, perciò annuisco, perché se me lo dicono loro tre, per quanto non mi fosse mai venuto in mente di pensare questo di me, allora deve essere vero.
«Se lo vuoi sapere, sposandomi sono passata da non avere niente di mio a vivere in una casa enorme con un tetto a quattro falde sovrastato da dragoni.»
Secondo Yu, possedere una casa così in un’isola affollata come Taiwan è un vero privilegio. Dietro le mura che danno sulla strada si estende il giardino con ciliegi, bambù, rose, peonie e salici perfettamente ordinati. C’è anche uno stagno con i pesci e una grande gabbia nella serra che va da terra al soffitto, in cui svolazzano uccelli bellissimi; grandi sale dipinte di colori chiari e mobili di legno scuro e ornamenti laccati, divani comodi, quadri e vari armadi pieni di sontuosi abiti antichi.
«Mio marito», dice, «mi ha chiesto di tornare e non so cosa fare. Eduardo non c’è più e io sto per finire i soldi.»
Quando una cosa sembra un sogno vuol dire che è un sogno, non c’è dubbio. Il mio finirà quando un giorno non potrò più entrare in questo appartamento e quando Yu se ne andrà.
I sogni non sono reali perché sono facili. È facile amare Yu. È facile entrare nell’appartamento. È facile essere felice lì e non stancarmi mai di esserlo. Tutto il resto è difficile. Non appena esco in strada e sfioro il marciapiede, la gravità mi inchioda al suolo e sento il peso di ciascun grammo dei sessantacinque chili che devo spostare contro il vento fino ad arrivare all’imbocco della prima strada dove lascio parcheggiata la macchina. Vado in giro per la realtà con le ruote attaccate al suolo. È buio e Yu molto lontana, in un posto che non conosco, di cui non mi ha parlato. Per me è come se volasse nella sua meravigliosa casa di Taiwan ogni volta che ci separiamo. Evita sempre di darmi il suo indirizzo e di dirmi se vive con qualcuno. Neanche lei sa che lavoro in una videoteca e che tra i miei progetti più immediati c’è quello di girare un corto. Dove penserà che voli io?
La strada attraversa la vita nella quale mi sveglio dopo aver aperto gli occhi e visto la verità, cioè quello che continuerebbe a essere qui se non ci fossi io. Continua a esserci la mia casa con il suo porticato di mattonelle rosse inumidite dalla nebbia, e dentro mia madre felice e con la voce sospettosamente nasale che segna sul calendario i giorni che mancano a quando lascerà lo studio dentistico e prenderà possesso della casa immaginaria. C’è la televisione che lancia fantasmi verso le vetrate del salotto.
E c’è il centro commerciale Apolo, sulla cui facciata si riflettono i monti, gli albereti e le macchine parcheggiate. Le scale mobili mi espellono accanto alla videoteca. Alle prime ore del mattino, che nella città più pigra del mondo sono le dieci, ancora non si sono mescolati gli odori e così il fast-food che c’è accanto al negozio profuma di caffè e le boutique di vestiti. Il riscaldamento inizia a intiepidire l’ambiente in modo che per l’ora di pranzo ci saremo dimenticati che ci troviamo nell’inverno più freddo del secolo.
Quasi tutto quello che portano via i clienti sono cartoni animati per bambini e film di serie B per farsi un pisolino dopo pranzo. La donna con il cappotto dai risvolti ampi mi chiede, ormai con un’espressione di una certa confidenza, se posso procurarle qualcosa di diverso, con più azione, per così dire. Le chiedo con la stessa confidenza se il problema è che suo marito non si ravviva abbastanza con questo. E mi risponde con lo stesso tono che è lei che non si ravviva. È un particolare che avrei preferito non conoscere. Avrei voluto continuare a considerarla esclusivamente come l’agitatrice e la latrice dei desideri di suo marito. Tra la mattina e il pomeriggio ho il tempo di vedere soltanto un film.
Quando arriva la sera c’è un momento in cui spero e, allo stesso tempo, temo, che la porta di vetro venga spinta da Sonia. Al posto suo lo fa il mio capo, e questo risulta deludente e allo stesso tempo tranquillizzante. Tiro fuori i soldi dalla cassa e lui li conta quasi senza parlare. Li mette in una busta e infila la busta nella tasca interna della giacca. Poi resta a guardarmi e dice: «Hai fatto il furbo, bello».
«Come?» chiedo con la pulce nell’orecchio.
«Credevo di potermi fidare di te.»
Preferisco non dire niente per il momento. Mi limito a sostenere il suo sguardo.
«Non mi piace essere preso in giro», continua. «Posso provare a mantenere in piedi un’attività per non dover buttare per strada un disgraziato come te», aggiunge. «Ma se mi accorgo che mi sta prendendo in giro lo uccido, capito?»
Faccio cenno di no con la testa.
«Sforzati di ricordare», riprende. «Che cosa hai detto a Sonia la settimana scorsa? Ah! Scusa, scusa. Adesso ricordo, voi non parlate mai.»
Rimango imperterrito, anche se con un calore interno che non so se riuscirò a dominare. «Parliamo piuttosto poco», replico.
«Pensavi che Sonia si sarebbe messa dalla tua parte, no?»
«Non ho mai preteso una cosa del genere.»
«Ah, i giovani. Voi giovani siete dei buffoni. Siete delle checche, non capite le donne. Cosa credevi che avrebbe fatto Sonia? Cosa credevi, eh?»
«Non voglio niente da lei, è la verità», dico.
«Adesso te ne vai di corsa da qui. Dalla fine del mese sei in mezzo a una strada. Chiudiamo. Ma prima sistemiamo i conti, d’accordo?»
Annuisco, sperando che il supplizio finisca in fretta. Non voglio pensare a quello che può avergli detto Sonia, perché qualunque cosa gli abbia detto non può essere tanto penosa per il mio capo quanto la verità.
Mi guarda senza sapere come strapazzarmi ancora, si mette il cappotto e si dirige verso la porta. Prima di spingerla, si gira e dice: «Non voglio farti prediche. Non sono tuo padre, ma hai imboccato una brutta strada, la peggiore di tutte, quella di rompermi i coglioni».
Non ho avuto il coraggio di difendermi. Penso che avrei dovuto dire qualcosa a mia discolpa, eppure sono stato zitto e pertanto ho ammesso quello di cui Sonia mi ha incolpato, qualunque cosa sia. All’improvviso mi viene in mente che a partire dal mese prossimo la donna con il cappotto dai risvolti ampi dovrà andare molto più lontano a cercare i suoi video e che non avrà la confidenza sufficiente per chiedere quello che le serve.
Senza i tremila euro di Edu e senza questo lavoro, mi resta solo la videoteca immaginaria che forse mi metterà in piedi il dottor Ibarra. Per il momento preferisco non raccontare niente a mia madre. Mi fa piacere la pace immaginaria in cui la trovo immersa quando arrivo a casa dopo essermi fatto a piedi nell’oscurità tutta la strada che porta dall’Apolo fin qui.
«Non mi piace che torni a piedi di sera per una strada non illuminata», mi dice. «Giorno dopo giorno hai sempre meno paura di tutto, e questo non è un bene.»
«Come va con la storia delle case?» le chiedo.
«Hanno trovato un corpo su una spiaggia della Costa Brava che potrebbe essere quello di Eduardo», dice. «Ha chiamato suo padre», continua. «Vorrebbe parlare con te.»
«Sono stanco», rispondo. «Stasera non voglio sapere niente di Eduardo.»
Mia madre si avvicina a me, che sono steso sul divano, e mi accarezza la testa, cosa che sopporto con una certa rigidità che lei non avverte perché ormai avverte soltanto quello che le conviene avvertire.
«Fai bene, figliolo. Non voglio che ti facciano pressioni. Per quanto tu sia amico di Eduardo, non puoi restituirglielo.»
Se non fosse per il tono nasale, mi inorgoglirebbe il pensiero logico di mia madre. Avvicina la faccia alla mia. So che a una madre si vuole sempre bene, perciò il fatto che mi dia fastidio che mi sfiori il viso con il suo non deve farmi dubitare del mio affetto per lei.
«Non so proprio cosa potesse fare Eduardo in Costa Brava», commento tirandomi su per prendere il telecomando.
«Che importa», replica lei. «Ormai non conta più.»
«Quello che voglio dirti è che dubito sia il corpo di Eduardo. Credo che non ricomparirà, né vivo né morto», aggiungo senza pensare affatto a lui, ma alla mia nuova madre, la madre coraggiosa e affettuosa del tramonto e della sera, circondata dalle tenebre del giardino e dal rumore di quelli che si estendono più in là come veli e veli che i fati incaricati di tessere la buona e la cattiva sorte lasciano cadere su di noi. «Non c’è motivo di essere così allegra», le dico con un certo rancore, perché non è allegra per me né per niente di ciò che le succede nella vita a cui io appartengo, ma per le sue continue puntate al bagno.
«Preferisci che io sia triste?»
«No, normale.»
«Vuoi che non sia in nessun modo, né triste né allegra, è questo?»
«Mi piacerebbe che fossi come ti viene da dentro di essere.»
«Be’, e allora mi viene di stare così. Non so perché ti dà fastidio.»
«Va bene. Va bene», taglio corto salendo le scale verso la mia stanza.
Mi guarda con espressione alterata. «Devo pensare a tutti e due, non te ne rendi conto? E a volte non è facile. Non è facile vivere. Non voglio che tu lo senta. Non voglio dirlo. Ma non è facile vivere. Arrivare a fine giornata con il peso di averla vissuta tutta. La parola giusta è sopportare: non l’hai mai sentita? Non voglio che tu senta parole come questa. Sei giovane, non sai niente e non c’è motivo che tu lo sappia.»
«Dimmi che cosa non so.»
«Non sono io a dovertelo dire. Te lo dirà il tempo.»
In questo momento penso che se un giorno sarò sull’orlo della disperazione mi sparerò. E che naturalmente non avrò figli per non far vedere loro la mia disperazione. Sono convinto di desiderare che si sposi. Non vedo l’ora che trasferisca le sue sostanze nell’altra casa, dove dovrà iniziare a cercare nascondigli per tenerle lontane dai cerchi dorati di suo marito.
«Non ti sognare che verrò a vivere con te e il dentista», le grido da sopra.
«Eh, è da quando avevo dieci anni che non sogno più.»
Mi metto la maglietta pubblicitaria dell’Apolo che uso per dormire e m’infilo a letto con la Bibbia. Mi procura una grande pace la sensazione di stare leggendo qualcosa di sacro, dove non sempre si capisce tutto.