«Sì, siamo molto diversi», disse Edu, e riuscì solo a farmi barcollare leggermente quando tentò di atterrarmi imitando i giochi che facevamo qualche anno prima.

Eravamo sempre più diversi, soprattutto fisicamente, perché io, intorno ai sedici anni, mi stavo trasformando in un atleta. Ero soddisfatto dell’aspetto che stavano assumendo le gambe e le braccia, le spalle. Uno sforzo che facevo per Tania. Pensavo a lei quando salivo fino alla collina, poi andavo all’Híper e poi tornavo a casa con un po’ di nausea, vedendo di fronte a me, lì nella spianata, un enorme sole rosso che scendeva sui tetti di ardesia. I polmoni mi si stavano sviluppando come due bambini che crescono e hanno bisogno di spazio, e lo spazio si creava e mi si allargava il torace.

Un pomeriggio al tramonto, mentre correvo, la vidi dal finestrino dell’autobus. Era distratta. Mi colpì la sua serietà. E quella serietà quasi triste, che per un istante si era rivolta verso di me senza che lei mi vedesse, confondendosi con le tenebre rosse che si aprivano nel cielo, non riuscii a togliermela dalla testa per vari giorni. Perciò decisi di seguire i metodi semplici ed efficaci di Mister Gambe e un mercoledì presi l’autobus fino alla collina per non arrivare sudato e puzzolente e, con la mia tenuta sportiva, mi misi all’altezza della pensilina dove lei doveva scendere. Chiesi a tutti i santi e a tutti gli extraterrestri che arrivasse su uno degli autobus. E arrivò.

Avanzava verso casa sua con lo sguardo rivolto a terra o di fronte a sé, ma senza vedere. Era come certi che tornano a casa dopo il lavoro e non prestano neanche attenzione a dove sia quella casa. Potrebbe essere sulla luna e loro calpesterebbero diligentemente la polvere della luna verso il loro appartamento senza rendersi conto di ciò che stanno calpestando. Corsi piano fino ad affiancarla.

«Tania?»

«Sì?» Ci mise qualche secondo a riconoscermi. «Ah! Sei tu.»

«Eh sì. Ti ho visto scendere dall’autobus.»

Lanciò un’occhiata al mio completo di felpa con il cappuccio e pantaloncini neri. Non mi ero messo la fascia. Io sapevo di essere imponente, ma il suo sguardo indifferente mi fece diventare insicuro, non mi sentivo più così massiccio, perché lei mi considerava un bambino e, partendo da questo assunto, era incapace di apprezzare il mio corpo. Pensai che una donna giovane non fosse nelle condizioni di valutare correttamente un ragazzo più giovane di lei.

«La verità è che voi ragazzi cambiate di giorno in giorno.»

«Anche tu», le dissi.

«Ma non mi dire, in cosa sono potuta cambiare io?»

«Mi sembra che tu non sia più tanto felice.»

«Sì», rispose, e assunse un’espressione terribilmente seria. «Adesso ho problemi che prima non avevo.»

Davvero noi ragazzi più piccoli eravamo un disastro: lei trascinava con grande difficoltà il peso enorme di una cartella piena di libri e io le camminavo accanto bello fresco.

«Permettimi», dissi.

E camminammo per un po’ in silenzio. Quando arrivammo alla sua porta dominata dalla targhetta dorata e lucida che mi era tanto familiare, mi invitò: «Non so se ti fa piacere entrare. Non voglio interrompere il tuo allenamento. Non dovresti raffreddarti».

Era angosciosamente negativa.

«Mi farebbe piacere un bicchier d’acqua», le risposi.

«E allora non se ne parli più.»

Aprì con le chiavi la porta nera e mi sorprese che ci fosse ancora lo stesso odore della mia infanzia e la stessa penombra, e mi chiesi – non in quell’esatto istante ma più tardi, quando potevo pensare senza la pressione di quanto stava accadendo – come esseri della stessa specie che hanno più o meno le stesse abitudini possano impregnare le stanze delle rispettive case di odori tanto differenti, di atmosfere così diverse pur usando elettrodomestici e avendo mobili simili.

Ci spostammo in salotto e Tania disse che andava a rinfrescarsi un attimo e che sarebbe tornata subito. Mi sedetti e mi tolsi la felpa. Dallo studio arrivava il pianto di un cane e qualche sporadico latrato. La domestica mi chiese se volevo un po’ d’acqua, ma le risposi che preferivo una birra. Avrei fumato volentieri una sigaretta.

Me la portò Tania stessa che, si vedeva, si era lavata la faccia.

«Mi hai beccato in una giornata proprio brutta. Mi sono appena lasciata con il mio fidanzato.»

«E allora forse non è così brutta», dissi senza sapere cosa stavo dicendo, ma a lei sembrò buffo.

«Credo che ti farò compagnia con la birra.»

Mentre beveva, riprese: «Fumerei una sigaretta, ma mia madre è allergica al fumo e, anche se è dall’altra parte della casa, sentirebbe l’odore e starebbe male».

Il cane abbaiò più forte e subito dopo si sentì il Veterinario che diceva: «Va bene così».

Tania fermò lo sguardo sulle mie ginocchia con curiosità, ma in fondo con indifferenza. I muscoli non dovevano attirare la sua attenzione, visto che li aveva anche lei. Le si vedevano sotto la stoffa aderente dei pantaloni. In ogni caso, in poco tempo, la faccia le si era smagrita e adesso gli occhi sembravano più grandi, due abissi sul suo visino. Non riuscivo a immaginare che potesse esistere una ragazza che mi piacesse più di lei. Si tirò indietro i capelli con la mano.

«Magari hai ragione tu ed è stato davvero meglio così. Dovrebbe essere più facile dimenticare, non trovi?»

«Sì», dissi, «dovremmo avere un controllo maggiore sulla memoria.»

Mi guardò molto interessata. «Lo pensi davvero?»

Intuii che le piacevano i discorsi alla Alien: «La nostra capacità di comprensione è incredibilmente grande, ma la applichiamo a cose piccole. Concentriamo le nostre grandi doti di osservazione e interpretazione su aspetti ridicoli, per i quali basterebbe solo un’occhiata. È questo che si intende quando si dice “impelagarsi”. Giorni e giorni a rimuginare su cose ovvie, su ciò che è stato e che non può essere in un altro modo. La nostra mente non controlla la nostra mente. È questa la cosa veramente terribile. Qui sta la sfida dell’umanità».

«Sembri più grande della tua età. Sei veramente diventato già maturo. Si capisce che tutto ciò che dici è frutto delle tue riflessioni. Mi piacciono le persone che riflettono. Eduardo, che è il genio della famiglia, si basa più su ciò che sente e ciò che legge. Non è come te. Tu sei sensibile.»

Si era fatto buio. «Se vuoi, puoi fumare in giardino. Ti accompagno», le dissi.

Non fumai, perché uno sportivo non deve farlo e d’altro canto non avevo l’abitudine, ma in quel momento la sola idea di essere con Tania e di trovarmi a casa del Veterinario mi aveva fatto venire voglia di fumare. Rimasi a guardare il cielo. Non c’erano ancora molte stelle. La luna era piuttosto bassa e insolitamente grande. Si appoggiava sul centro commerciale in costruzione, verso il quale scivolavano le villette, i giardini e gli alberi di quel lato della collina.

Le indicai il tetto di casa sua: «Guarda, Venere è proprio sopra questa casa».

«Sembra che l’abbia scelta, non è vero?» disse. «Mi sono innamorata di un uomo più grande di me di vent’anni. Ho creduto che l’età non avesse importanza.»

«E invece ce l’ha?»

Avevo freddo alle gambe. Sopra portavo la felpa, ma sulle gambe nude avevo la pelle d’oca. Così mi sembrò un’eternità il tempo che ci mise a rispondere.

«Ho sempre sentito dire che non ce l’ha, che l’amore è più importante di tutte le differenze, eppure l’amore è una cosa tra due persone reali con differenze reali e, se devo essere sincera, credo proprio che queste abbiano importanza, e anche molta.»

Rimase assorta. Prima di comunicarle che dovevo andare via, pensai bene a come farlo. Me lo scrissi mentalmente.

«Senti», dissi, «adesso devo andare, ma io passo correndo di qui tutti i giorni più o meno all’ora in cui sono passato oggi; se ci becchiamo di nuovo potremmo continuare questa conversazione. Sì, insomma, se a te va e se non hai niente da fare.» E poi tirai fuori una banalissima frase fatta: «Non capita tutti i giorni di avere la possibilità di parlare con qualcuno come te, normalmente è tutto molto ordinario e noioso».

Pensai che alla fine avevo fatto una gaffe, che mi ero lasciato scoprire. Ma, con mia grande sorpresa, la vidi sorridere.

«Va bene, per me è lo stesso.»

A partire da quel momento la mia vita sarebbe stata orientata unicamente al secondo incontro con Tania. A nessun’altra i pantaloni stavano bene come a lei. Avevano tutte il sedere molto grande o molto piatto. Quello di Tania riempiva i pantaloni come doveva riempirli, né più né meno. Mi piaceva tantissimo guardarla, quel pomeriggio avrei potuto addormentarmi guardandola sedersi e alzarsi in continuazione dal divano di casa sua e andare verso la porta con quei pantaloni troppo chiari per essere già quasi in inverno, con un paio di stivali marroni che le davano un’aria così sua. Sapevo che in casa del Veterinario c’era una palestra attrezzata che usavano lei e suo padre, un po’ meno sua madre e mai Eduardo, e all’improvviso mi venne in mente l’incantevole possibilità di fare i pesi insieme e da soli.

Lasciai passare qualche giorno senza tornare da quelle parti. Procedevo come stordito, il tempo mi sfuggiva tra le mani. Esisteva solo lei e tutto il resto era un suo prolungamento, dalla scuola ai fuseaux di mia madre, passando per i cani che si sfogavano sul sentiero. All’ora di pranzo passavo per il bar dell’Híper a prendere una fetta di pizza e una Coca-Cola. E lì sembrava che mi dimenticassi un po’ di quella vaga idea di stare con lei. Facevo un giro per tutti i reparti con gli auricolari nelle orecchie e accettavo campioncini di creme e profumi che poi gettavo nel cestino dei rifiuti. Nel reparto giardinaggio mi sedevo un po’ su una panchina completa di ombrellone che mi piaceva in modo particolare e respiravo l’odore penetrante di terra bagnata che proveniva dai vasi.

Mi ero ormai dimenticato di Capodanno e della festa allo Zoco Minerva, quando mia madre venne da me con un catalogo di abiti da uomo del Corte Inglés. Mi indicò una pagina.

«Scegli quello che vuoi. È ora che tu abbia un vestito come si deve.»

Dovevo ammettere che da un po’ di tempo a quella parte tutto ciò che desideravo si realizzava, e questo mi spiazzava, perché prima non era mai successo. Quando, durante le verifiche scolastiche, desideravo ardentemente che capitassero le domande a cui sapevo rispondere, non succedeva mai. Quando da piccolo bussavano alla porta di sera e io desideravo che fosse mio padre che mi portava un regalo, non era mai mio padre. Quando da qualche parte distribuivano premi, io non ero tra i prescelti, tranne nei casi in cui tutti ne ottenevano uno. Quando avevo chiesto un cane, mi era stato negato. E non mi era passato per la testa di lamentarmi, perché distinguevo perfettamente tra i desideri che albergano in una persona e gli altri, ovvero coloro che dovrebbero realizzarli, ma adesso, con l’accesso alla sfera delle voglie soddisfatte, mi rendevo conto che non era mai successo prima e il mio passato mi intristiva.

Avevo davanti a me la foto dell’abito che mi piaceva ed ebbi un’esitazione. Senza Tania ormai il completo non avrebbe avuto senso. E inoltre lo immaginavo appeso a una gruccia a ricordarmi ciò che non avevo.

«Non c’è fretta. Pensaci. Puoi scegliere quello che vuoi. Non preoccuparti dei soldi.»

Giuro che mi venne voglia di piangere. Mia madre mi deprimeva profondamente.

Trascorsa una settimana, pensai che fosse passato abbastanza tempo per tornare alla carica con Tania, ma allora iniziò una pioggia così torrenziale che era impossibile che qualcuno andasse a correre con quel tempo. La pioggia era una barriera che spostava la collina con tutte le sue villette, la sua luna e le sue stelle dall’altra parte dell’universo.

Per giorni aspettai, guardando la TV, che il cielo si schiarisse. Avevo ricominciato con la televisione e questo mi disgustava. Provavo schifo per me stesso che stavo lì davanti allo schermo mentre cercavo di non pensare a Tania. Non avevo molta barba, ma la poca che avevo non la radevo e non mi facevo la doccia. La domestica mi chiese perché non andassi a scuola. Le risposi che non potevo andarci con una pioggia del genere.

«E allora io, non vengo a lavorare io, pezzo di sfaticato?»

Credeva di potermi insultare perché mi aveva visto crescere. A me non importava.

«Credi nella sorte, nella buona sorte?» le chiesi.

«La sorte è buona o cattiva a seconda di come la guardi. È un’invenzione. E adesso scendi subito dal divano che devo pulire il salotto.»

La domestica faceva le pulizie in varie case nel complesso residenziale e la sua collaborazione più vecchia e duratura era con noi, per questo considerava casa nostra quasi sua. Le dispiaceva quando si rompeva qualcosa o io prendevo un brutto voto a scuola o mia madre era triste. A mia madre voleva proprio bene, e si riferiva a lei chiamandola «quella povera donna» quando in realtà mia madre viveva da regina. Mentre spolverava diceva scuotendo la testa: «Si stanca tanto in palestra».

A onor del vero mia madre, che non era più una ragazzina, tornava sfiancata dalle sessioni di sollevamento pesi e crollava esausta sul divano. Allora la domestica si sedeva sulla parte del divano che mia madre lasciava libera con due birre, una per ciascuna, e mia madre le chiedeva di rimanere a mangiare con noi e a fare quattro chiacchiere se non doveva andare a lavorare in qualche altra casa, e di solito lei accettava entusiasta, naturalmente già fuori dall’orario di lavoro. Mia madre aveva una fiducia cieca nella nostra domestica e le raccontava tutto. D’estate si stendevano sulle sdraio in giardino e quando il tempo era brutto, come in quel periodo, sui divani, con le gambe alzate. Perciò quando mio padre si fermava a casa più tempo del previsto lei si sentiva, come tutti, un po’ contrariata.

Diceva che era l’unica casa in cui poi si godeva quello che aveva fatto, il benessere che vi lasciava. Nei giorni di caldo, il profumo di pulito, le tapparelle abbassate per metà, i letti perfettamente rifatti, i panni stirati – tranne i miei pantaloni – e i bagni splendenti. E in quelli di freddo, un mucchio di legna accanto al camino – che lo si accendesse o no era un piacere vederlo –, le tapparelle completamente alzate e la luce e il sole che si riflettevano su tutto quello splendido ordine. Diceva che per niente al mondo avrebbe lasciato casa nostra, e questo mi faceva ammirare mia madre, che aveva ottenuto quella dedizione e quella fedeltà pagandola così poco.

A conti fatti la buona sorte esisteva e mi era propizia, perché successe ciò che non avrei mai osato sperare: mi chiamò Tania.

«Che tempaccio, vero? Ho immaginato che con questa pioggia non potessi uscire a correre.»

«È impossibile», risposi.

«Ho pensato che magari potresti passare lo stesso. Oggi ho bisogno di parlare con qualcuno.»

«Ci metterò un po’ ad arrivare, forse un’ora.»

«Ti aspetto.»

Erano le sei, e alle sei e un quarto mi ero già fatto la doccia, rasato, profumato e messo i miei migliori boxer, calzini, jeans, camicia e maglione. Mi guardai allo specchio e mi chiesi se io, con tutto il meglio che avevo, bastassi. Non sapevo cos’altro aggiungere. Poco dopo le sei e mezzo stavo già percorrendo il tratto che portava dalla fermata del 77 alla casa del Veterinario. Per le strade scorrevano rigagnoli di acqua chiara che purificavano i marciapiedi rossicci e che mi bagnarono completamente gli stivali. Un gran lavacro caduto direttamente dal cielo. Mai nessun aspetto del complesso residenziale era stato così intenso. Non mi ero mai fermato a pensare a quel quartiere nelle sue due versioni di asciutto e bagnato. Non avevano niente a che fare l’una con l’altra. A partire da quel momento, nella versione bagnata ci sarebbe stata la collina con i suoi marciapiedi rossi e il suo pomeriggio piovoso durante il quale io camminavo pensando a tutto questo.

Mi pulii per bene gli stivali sullo zerbino mentre, per l’ennesima volta, leggevo sulla targhetta dorata: ROBERTO ALFARO VETERINARIO. Chi viene baciato dalla buona sorte deve sapere che di solito la sua grandezza non coincide con quella dei desideri. O è più grande o è di gran lunga inferiore. In quel caso la buona sorte non bastò, perché mi aprì la porta Eduardo.

«Che coincidenza, palestrato, stavo pensando a te. Arrivi in tempo per fare una partita.»

Innanzitutto, da quando ero diventato forte come una roccia mi chiamava «palestrato» per sminuire l’importanza della mia impresa. Secondo, in quella casa c’era una splendida sala giochi con uno splendido biliardino dove Eduardo si trasformava in un autentico bambino di cinque anni.

«Sono stanco», dissi.

«No, che non sei stanco.»

Ero già retrocesso ai dieci anni, entro breve ne avrei avuti sette e, se avessi toccato le stecche, cinque.

«Ti dico di sì, ma non puoi giocare con la cameriera?»

«Ma dai, io non ti capisco.» Era sul punto di rotolarsi a terra. «Com’è possibile che non hai voglia di giocare?»

«Non ce l’ho, punto e basta. Tua sorella c’è?»

«Non farmi ridere. E adesso questo che significa?»

«Devo parlare con tua sorella.»

«È un secolo che non ci vediamo e dici che vuoi parlare con mia sorella. Mia sorella non vuole parlare con te, te ne rendi conto?»

Eduardo era ancora più capriccioso di me. Era capriccioso sempre e non smetteva di esserlo neanche per un istante. E pensai, per pensare qualcosa di Eduardo che non fosse ciò che pensavo sempre, che quella sarebbe stata la sua maledizione. Fino a quel momento non c’erano indizi sul fatto che fosse una persona fortunata né del contrario, e pertanto gli si poteva applicare la teoria della mia domestica.

«Divertiti da solo», gli dissi.

Tania arrivò all’ingresso, da dove non mi ero ancora mosso. «Non ti aspettavo così presto.»

«Già. Ci ho messo meno del previsto.»

Eduardo si infilò le mani in tasca e si appoggiò al muro, intenzionato a non lasciarci soli.

Tania, che sembrava assorta in altri pensieri, mi chiese: «Credi che smetterà di piovere?».

Andammo tutti in salotto e mi dissi che in fondo, anche se non erano le condizioni ottimali, ero con Tania. Lei mi guardava poco, la pioggia gocciolava sui vetri ed era buio. Dallo studio non proveniva nessun rumore. A volte si sentiva soltanto l’acqua.

«Oggi non ci sono visite?» chiesi.

Piegarono la testa entrambi. No, risposero.

Tania disse al fratello: «Mamma è a letto. Dovresti andare a vedere come si sente».

«Non ne ho voglia», replicò lui.

E poi raccontò di una discussione che aveva avuto con un professore a proposito della capacità dell’essere umano di vivere completamente isolato dagli altri esseri umani. Il professore sosteneva che non si potesse, mentre Eduardo sì. Insomma, povero professore! Rimasi concentrato per tutto il tempo sulla pioggia e, visto che non smetteva ed erano le otto, dissi a Tania: «Non ti andrebbe di fumarti una sigaretta? Potremmo ripararci sotto il gazebo».

Rimanemmo lì solo mezz’ora, ma fu la mezz’ora più piacevole e più intima che avrei potuto immaginare per quel giorno. La pioggia e il tabacco ci proteggevano. In fondo si vedevano le vetrate del salotto, abbandonate, solitarie, appena illuminate, come se la casa del Veterinario si stesse già spegnendo nel ricordo futuro di qualcuno. Per questo volli che anche il presente non fosse un ricordo prima di arrivare a esserlo, e abbracciai Tania.

Lei disse: «Grazie. L’unica cosa che volevo era che qualcuno mi abbracciasse».

Io ero solo qualcuno. Prima aveva bisogno di parlare con qualcuno e adesso che qualcuno la abbracciasse. E mi sembrava abbastanza, solo un idiota avrebbe preteso di essere così, all’improvviso, qualcosa di più per Tania.

«All’università le cose non vanno bene, sai? Mia madre passa tutto il giorno a letto. E mio padre... Eduardo lo conosci, non vuole saperne nulla dei problemi.»

«Oggi non si vede niente in cielo», dissi io alzando lo sguardo.

Sembrava che l’universo si fosse allontanato dalla terra fino a non vedersi più e che il pianeta fosse rimasto completamente solo, anche se io nella solitudine di Tania ero felice.

L’autobus percorse la discesa a una velocità spaventosa, le luci delle villette si riflettevano sul pavimento bagnato, l’orizzonte era oscuro. Desideravo che il tempo migliorasse per poter correre a perdifiato.

Ultimamente Eduardo assecondava piuttosto spesso i miei capricci, perché probabilmente ne teneva da parte uno suo di un certo peso. Perciò gli proposi di portare a passeggio Hugo nella pineta dove qualche volta avevo visto Alien con il pastore tedesco. Volevo stare a sentire quello che Alien aveva da dire, perché ciò che dicevo a Tania come se fossi lui a lei interessava veramente.

Quando lo vedemmo, la reazione di Edu fu: «Andiamocene via, lì c’è Alien».

«E allora? Non ci morde mica.»

Mi avvicinai a lui. Eduardo era rimasto con Hugo a vari metri di distanza. Inclinando leggermente la testa verso di loro dissi: «Siamo venuti a portare a spasso il cane».

E, senza alcun motivo apparente, Alien replicò: «Non devi preoccuparti tanto, quello che deve succedere succederà».

«In realtà non mi preoccupo molto. A volte mi rimorde la coscienza proprio perché non mi preoccupo. Credo che mia madre abbia ragione quando dice che non so preoccuparmi.»

«Quel ragazzo, come si chiama?»

«Eduardo», risposi incuriosito.

Alien era molto scuro di pelle e questo avrebbe potuto indurre qualcuno a pensare che si facesse la lampada e a giudicarlo con leggerezza, ma io che lo avevo visto da vicino sapevo che non era così. Sia la coda di cavallo sia il colore della pelle erano segni evidenti della sua natura poco comune.

«È un pastore tedesco, vero?»

«Di razza purissima.»

Il corso che hai tenuto al centro culturale l’anno scorso ci ha colpito molto.»

«Anche il tuo amico partecipava?» chiese guardando Eduardo.

«No.»

Ormai era qualche giorno che aveva smesso di piovere, eppure nell’aria c’era qualcosa che indicava che aveva piovuto molto. Veniva voglia di respirare profondamente. I pini si infittivano e formavano un’ombra sempre più distante e compatta. I cani vi si infilavano sotto e sparivano per un po’. Il sentiero non si poteva paragonare a quel posto, non capivo come mai quelli del sentiero non portassero lì i loro cani, ma l’abitudine è più forte dell’ansia di rinnovamento.

«Che cos’ha di interessante il mio amico?»

«Mi fa pena.»

«Perché? Lui non prova pena per nessuno. Proprio per nessuno.»

«Ciò che uno prova per gli altri non ha niente a che vedere con ciò che gli altri provano per lui. Se le due cose coincidessero sempre, vivere sarebbe un gioco da ragazzi.»

Pensai immediatamente a Tania perché tendevo ad applicare tutto alla nostra incipiente relazione. «A volte sì che coincidono.»

«Sì, si può arrivare a sperimentare qualcosa di simile.»

«Che mi dici dell’amore?» gli chiesi.

«Che nell’amore c’è intensità, ma non uguaglianza né somiglianza di sentimenti. Si può fantasticare di sperimentare le stesse sensazioni, ma come si può essere sicuri che siano le stesse e con lo stesso grado? Per questo gli amanti si sottopongono continuamente a delle prove. Anche quello che si fida di più vuole sapere fino a che punto gli appartiene l’altro, perché si pretende che il dio creato dall’amore sia nostro schiavo. È un inferno.»

«Dovresti parlare di questo al centro culturale.»

«Credi che esista qualcuno a cui interessa che gli venga detta la verità?»

«Credo di sì», risposi sinceramente.

«Se sapessi che quella ragazza non ti ama e che in fondo non le importa niente di te, ti piacerebbe che te lo dicessi?»

«Non mi importerebbe perché potresti sbagliarti.»

«Lo vedi? Dubiteresti di me piuttosto che affrontare la realtà.»

Supposi che fosse tutto frutto della sua immaginazione, lui non poteva sapere niente di Tania. Alla mia età era normale essere innamorato di una ragazza che non fa caso a te.

«Il tuo amico non si innamorerà mai. Morirà senza sapere cos’è l’amore.»

«Anch’io ho sempre pensato questo di Edu.»

«Sai bene che io non sono affatto un mago, è soltanto buonsenso. Osservo le persone e cerco di mettermi nei loro panni.»

A quel punto Edu si avvicinò e disse: «Sono stanco, perché non ce ne andiamo?».

Alien lo guardò a stento. Chiamò il suo cane e si rivolse a me: «Credi davvero che la mia conferenza interesserebbe?».

Potrei assicurare che questa conversazione diede avvio a quello che potremmo definire il secondo periodo di Alien, molto più intimista e spirituale.