La superficie normalizzava la vita nel complesso residenziale. Livellava gli eventi straordinari uniformandoli a quelli abituali in modo che si finiva per vedere solo ciò che succedeva tutti i giorni, e ciò che si vedeva tutti i giorni faceva dimenticare. La superficie era sufficientemente popolata perché subito si dimenticassero coloro che avevano smesso di abitarla. Qualche tempo dopo che la mia famiglia si era trasferita qui, quando non si erano ancora ricoperti di villette né la collina né il resto delle piccole alture e pianori e c’erano soltanto due asili, una scuola e lo Zoco Minerva, quando non era stato costruito neanche un liceo perché a stento c’era qualche adolescente, accadde qualcosa che esulava dalla normalità.

Una volta alla settimana il proprietario della tintoria Minerva passava da casa mia chiedendo se avessimo bisogno di consegnare dei capi da pulire. Era alto, moro e portava completi beige, i cui pantaloni scendevano ondeggianti fino alle scarpe. Noi eravamo buoni clienti, c’era sempre qualche abito di mio padre che doveva passare per la tintoria, e d’estate anche tappeti, che lui arrotolava con grande abilità e riusciva a portar via senza sporcarsi il completo. Che bell’uomo! diceva mia madre dopo aver chiuso la porta. All’epoca io facevo la terza elementare, perciò avevo otto anni. Era un periodo così pieno di obblighi che non vedevo l’ora di diventare grande per smettere di lavorare. Volevo essere come mia madre, ma senza figli per non dovermi occupare di loro. Non potevo mai godermi un giorno intero di ozio completo perché altrimenti lei si preoccupava. Pensava che non avessi amici, che fossi un bambino solitario, che bisognasse portarmi dallo psicologo. Con il suo comportamento mi obbligava a essere sempre in ballo, e questo a sua volta obbligava lei a tenere la macchina in perpetuo movimento per portarmi e venirmi a riprendere dalle mille attività cui dovevo partecipare. Di tanto in tanto fingevo di essere malato per poter rimanere un giorno intero nella mia stanza con la televisione e i libri, perfettamente a mio agio a letto senza sentire gli schiamazzi dei miei compagni durante la ricreazione né le voci dei professori, sempre estranee anche se traumaticamente riconoscibili. Mi piaceva molto casa mia perché non c’era un miscuglio di odori né di personalità, aveva la semplice e pacifica atmosfera di una madre, un bambino e le sporadiche incursioni di un padre, la cui presenza restava trattenuta in un’altra dimensione.

Pertanto tutto ciò che bussava alla porta e varcava la soglia rimaneva impresso nella memoria della casa. La casa sapeva chi si sedeva sui divani o chi faceva una telefonata o beveva un bicchier d’acqua in cucina. Tutto si notava, anche il più piccolo dettaglio nuovo veniva registrato automaticamente. Quando il proprietario della tintoria entrava, sia pure solo per cinque minuti, sia io sia mia madre potevamo dire: Il tizio della tintoria è stato qui. E quando per varie settimane smise di venire, anche la casa se ne accorse e mia madre, guardandosi intorno, esclamò: «Che strano che non sia venuto il tizio della tintoria!». E vari giorni dopo mi disse: «Ti ricordi il padrone della tintoria Minerva? Be’, sua moglie lo ha sorpreso con l’amante e gli ha sparato».

Mi colpì molto il fatto che la moglie del tizio della tintoria avesse una pistola. Pensavo che le pistole le avessero solo nei film.

«Come ha fatto a procurarsi la pistola?» chiesi.

Rispose un po’ sconcertata: «Vorrai dire: Come ha avuto il coraggio di uccidere suo marito».

«No, dico che è strano che da queste parti ci siano pistole. Normalmente non si vede gente con la pistola.»

«E invece quella donna ce l’aveva, che vuoi farci.»

«Ma ce l’aveva da sempre?»

«Non lo so, non l’ho chiesto. Immagino che l’abbia comprata per ammazzare il marito.»

«E dove bisogna andare?»

«Come faccio a saperlo? Per caso ti risulta che noi abbiamo una pistola?»

«Per questo mi sembra così strano che la moglie del tizio della tintoria, che non era un boss o altro del genere, avesse una pistola.»

«C’è sempre qualcuno che spicca per cose di questo tipo», disse mia madre, «per cose fuori dal normale. È come se ci fossimo accorti che la moglie del tizio della tintoria aveva due teste: non per questo penseremmo che tutti hanno due teste. In ogni caso, le persone non finiscono mai di sorprenderti. Quando lo vedevo qui, così formale, che arrotolava il tappeto, non avrei mai pensato che avesse un’amante.»

Venimmo a sapere che la moglie, che non avevamo mai visto perché il morto ammazzato si era sempre preoccupato di venire a prendere e a riconsegnarci i panni lui stesso, era in carcere. E il grande dubbio di mia madre era cosa ne sarebbe stato della tintoria. Proprio adesso che quella povera donna ha più che mai bisogno di soldi, diceva. Mia madre non avrebbe mai potuto fare il giudice perché non era assolutamente imparziale; si faceva trascinare dal suo stato d’animo, e il suo stato d’animo verso quella donna assassina era sempre conciliante.

Nella memoria della piccola comunità formata da mia madre e me si impressero due assenze: quella del padrone della tintoria, che era sparito da casa nostra e dal mondo con il suo bel completo, i capelli ricci e neri e varie giacche di mio padre appese al braccio, e quella di sua moglie, forse più intensa, perché dovevamo fare un grande sforzo per immaginarla, soprattutto quando ci vedemmo costretti a entrare nella tintoria Minerva per la prima volta e vedemmo dietro il bancone un’altra donna, che poteva essere la madre di uno dei due. Subito le cercai sul viso i segni della tragedia, e credo che lo fece anche mia madre, ma lei era sepolta in un archivio tra le fatture e non lasciava intravedere il suo dolore, se ne provava. Il punto era che stava lì al posto di qualcun altro e che lo sapevamo, questo era il fondo. La superficie la costituiva quel momento in cui lei cercava una ricevuta e noi, con un abito di mio padre infilato in un sacchetto, aspettavamo che ci servisse. Il fondo non si vedeva, si vedeva la superficie. E si continua a vivere in superficie, non sul fondo. Perciò il proprietario della tintoria era morto e sua moglie era in carcere, e questo fatto non cambiava la vita: la pizzeria Antonio continuava a essere piena zeppa e la tintoria aperta, e in tutti gli altri locali si entrava e si usciva come se non fosse successo niente.

Otto anni dopo, quando ero sedicenne, successe qualcosa che mi dimostrò che la superficie, vale a dire la vita, è granitica e che non si smuove per molto tempo. Era di nuovo autunno, e gran parte degli alberi del complesso residenziale iniziavano a rosseggiare e a ingiallirsi. Era il periodo migliore per correre, non mi stancavo, facevo il giro di quella terra bellissima che minacciava di popolarsi all’infinito, coperta dall’immenso bisbiglio degli uccelli. A volte arrivavo fino ai bunker su un sentiero polveroso fiancheggiato da fiori viola e spinosi. I prati ai lati, un tempo coltivati, si ricoprivano d’erba negli inverni umidi. Se oltrepassavo i bunker mi trovavo davanti la laguna, alla cui acqua scura si poteva accedere solo facendosi largo fra la strana e temibile vegetazione selvatica che la custodiva. Gli ecologisti dicevano che la zona possedeva un suo ecosistema specifico e anche un proprio microclima, perché lì pioveva quando gli pareva e piaceva, mentre le terre dei dintorni rimanevano completamente asciutte. C’era una fauna autoctona e una flora con specie non classificate. Iniziava a trasformarsi nella gioia dei biologi. Da poco tempo era stata riconosciuta come un’area di specie protette. Né io né Edu avevamo bisogno di essere biologi per sapere, fin da quando da piccoli andavamo lì in bicicletta, che era il posto più strano del mondo, perché c’erano uccellacci che emettevano versi spaventosi e piante che facevano ribrezzo. Tutto ciò che c’era doveva essere precedente all’epoca dei dinosauri. Fatta eccezione per qualche idiota, non credo che a nessuno venisse in mente di fare il bagno nella laguna. I più esagerati dicevano che non era piena d’acqua ma di acido solforico. Bene, se quel pomeriggio mi fossi avventurato fin laggiù, forse sarei stato io a vederla, la morta che galleggiava sull’acqua verde e scura. E invece decisi di fare mezzo giro prima di arrivare perché preferivo che la notte mi sorprendesse nei dintorni del complesso residenziale. E così fu: a mano a mano che faceva buio dietro di me, le luci iniziavano ad accendersi all’orizzonte, si estendevano, formavano una pozza illuminata, sempre più potentemente illuminata. E quando vi penetrai si disfece come se l’avessi rotta con il piede.

Quando arrivai a casa, mia madre mi seguì alla doccia. Ormai erano circa due anni che non restava a guardarmi tutto il tempo mentre mi insaponavo e poi mi sciacquavo bene e mi asciugavo a dovere. Mi parlò dalla soglia. Mi chiese dove fossi arrivato correndo. Le risposi fin quasi alla laguna. Disse che per poco non avevo incrociato il suo istruttore di ginnastica. Tra di noi non lo chiamavamo mai per nome, rimase sempre l’istruttore o Mister Gambe. Replicai che non lo avevo visto. Riprese dicendo che aveva chiamato molto spaventato perché non sapeva che cosa fare e lei gli aveva detto che era meglio aspettare che rincasassi io. Uscii dalla doccia con l’asciugamano intorno alla vita. Mia madre mi guardava con gli occhi sgranati.

«Ha visto una cosa», disse.

«Dove? Cos’ha visto?»

«Nella laguna. Ha visto una morta. Aveva i capelli impigliati in una di quelle piante stranissime che crescono sulla riva.»

«Si è avvicinato?»

«Un po’, per vedere se era viva.»

Mi stavo mettendo una fialetta alla placenta sui capelli per non restare calvo come la maggioranza dei vicini.

«E se si trattasse di un manichino?»

«Magari fosse solo uno scherzo!»

E improvvisamente pensai che avrei potuto essere io a scoprirla e a quanto sarebbe stato impressionante.

«La cosa più normale da fare è avvisare la polizia.»

«Ma certo, come no! Il poveretto esce a correre un po’ e, come prima cosa, si ritrova davanti quello che non avrebbe mai voluto trovare. E poi, adesso, invece di andare in palestra a tenere la lezione della sera, va alla polizia. Così i poliziotti lo obbligano ad accompagnarli alla laguna. Devono recuperare il cadavere e raccogliere prove e ci mettono un bel po’. Non cena. Poi lo portano a rilasciare la sua testimonianza in commissariato. Lui è distrutto. Lo trattengono perché è l’unico a cui possano fare qualche domanda, è l’unica cosa a cui possano aggrapparsi. Gli fanno ripetere la stessa storia varie volte. E magari per colpa del nervosismo si confonde perché a me l’ha già raccontata in due versioni leggermente diverse. Credo che ai poliziotti potrebbe sembrare anche sospetto che abbia atteso quasi un’ora per andare a fare la denuncia. La situazione diventa sempre più difficile e la colpa è mia, perché gli ho consigliato di denunciare la cosa. Non avrei dovuto coinvolgerti. Papà non lo avrebbe mai fatto.»

«Lascia perdere papà.»

A dire il vero papà era così lontano dalla laguna, che probabilmente non si ricordava neanche che ne esisteva una. Non aveva niente a che vedere né con la laguna né con la morta né con noi che sapevamo che tutto questo stava succedendo.

«In ogni caso», continuò mia madre, «sono quasi sicura che non sia stato il primo a vederla. Qualunque persona dotata di raziocinio quando vede una cosa del genere sparisce, perché ormai non si può fare più niente per lei e perché così si toglie dai guai. Ovvio, dato che i poliziotti non escono dai loro uffici, non vedono niente e non si accorgono di niente.»

Io e il mio amico Eduardo avevamo vissuto una situazione simile quando ci piaceva tanto – o, meglio, quando a Edu piaceva tanto – andare fin laggiù in bicicletta. Avevamo undici anni e mentre pedalavamo si capiva che lui pensava molto. Io per niente. Il naso mi si dilatava e credo che mi si dilatassero anche i polmoni e il cuore. Mi ci entravano enormi boccate di ossigeno. Riuscivo a concentrarmi solo sul cielo, gli uccelli, i campi di stoppie, le lepri che attraversavano la strada con le orecchie dritte. La stessa cosa mi succedeva alla caffetteria dell’Híper. Mi fissavo sui gesti dei clienti abituali. Sapevo come ognuno di loro prendeva il bicchiere e come rimaneva in piedi a guardare al bancone, lasciando un luccichio addormentato in ciò che contemplava. Forse il mondo è diviso tra quelli che pensano tutto il tempo e quelli che non lo fanno, e magari quelli che pensano senza sosta non possono evitare di fissarsi su qualche idea perché non possono lasciare la mente tranquilla e in pace, come la lasciavo io, a vagare semplicemente per il panorama che si apriva davanti alla ruota e al manubrio. Senza volerlo, lo superavo sempre, dovevo aspettarlo di tanto in tanto perché potessimo arrivare insieme alla laguna.

Era un giorno all’inizio dell’estate, si riusciva ancora ad andare in bicicletta, naturalmente nelle prime ore del mattino o di sera. Edu portava sotto il cappello un fazzoletto che gli arrivava fino alle spalle, camicia a maniche lunghe e pantaloni lunghi di cotone. Quando gli chiedevano se non avesse caldo così coperto, rispondeva irritato. Io sapevo che non sopportava le sue idiosincrasie e che avrebbe dato qualunque cosa per poter andare in giro più scoperto. Ci mettemmo quasi il doppio del tempo che io ci avrei messo da solo, ma alla fine arrivammo, davanti al verde scuro inquietante che annunciava la presenza del lago. A mano a mano che ci avvicinavamo la vegetazione si infittiva intorno all’acqua, e chi avesse voluto arrivare fin lì non avrebbe potuto far altro che sfiorare con le gambe quelle specie di felci dalle foglie dure che sembravano nutrirsi di acqua putrida e luce velenosa.

Edu si avvicinò per primo e aspettò che arrivassi osservandomi di sottecchi. E aspettò che mi sorprendessi o mi spaventassi. Aspettò che dicessi qualcosa.

Chiesi: «Cos’è questo?».

Il crepuscolo apriva vie chiare nell’acqua, sentieri luminosi.

«È ripugnante!» esclamai.

Edu prese un bastone e attirò verso di noi un’ala grande e bianca.

«Dio santo, Edu, andiamocene di qui.»

«Aspetta, non vuoi sapere cosa stai vedendo? È sempre meglio avere in mente un’immagine chiara, per quanto sgradevole sia, che non nera e confusa, il che alla lunga la renderebbe ancora più sgradevole. Non girare la testa e guarda quello che hai davanti agli occhi, perché il fatto che tu non lo veda non lo farà sparire.»

Edu, fin da piccolo, aveva sempre avuto la capacità di sapersi esprimere come uno psichiatra, forse perché i suoi genitori avevano cominciato presto a portarlo da uno psicologo. Tutto iniziò quando a scuola comunicarono loro che era superdotato, che per questo si annoiava in classe e non alzava neanche un dito e che quel fenomeno bisognava trattarlo come un’anomalia. La notizia inattesa aveva lasciato il Veterinario molto perplesso, e per alcuni giorni non aveva parlato d’altro e aveva cominciato a raccontare ai padroni dei suoi pazienti che aveva un problema: «Mio figlio è superdotato».

La Veterinaria, dal canto suo, si lasciava vedere più del solito, rivestita della dignità che comporta il fatto di possedere il ventre da cui è uscito un superdotato. Secondo mia madre, che in quei giorni la incontrò all’Híper e allo Zoco Minerva, la gente non sapeva se farle i complimenti o il contrario.

Credo che a mia madre dispiacesse molto che il superdotato fosse proprio il figlio di quella volgarotta deboluccia e piena di soldi. Credo che le dispiacesse che non fossi io. Eppure essere superdotato non è facile perché tutti si aspettano che lo dimostri, che tu non sia un bluff. Tutti quelli che si avvicinavano a Edu tracciavano una linea immaginaria tra la loro intelligenza normale e quella prodigiosa di lui. Se avevano un buon orecchio per la musica, Edu doveva averne uno migliore. Se disegnavano bene, Edu doveva farlo meglio. Doveva memorizzare senza studiare molto, solo dando un’occhiata alla pagina. Io stesso lo mettevo continuamente alla prova e lo costringevo a risolvere i miei problemi di matematica quasi con il cronometro alla mano. Finì per essere abbastanza stufo di sentir dire a tutti: «Questo lo so fare anch’io».

La Veterinaria insisteva col dire che non doveva sprecarsi. Voleva che le doti eccezionali di suo figlio si materializzassero in qualcosa che si potesse mostrare, come fare i calcoli a tutta velocità o essere un virtuoso del piano.

«Perché non impari a suonare il pianoforte? A te non costerebbe nulla ed è una cosa bellissima», gli diceva ogni tanto.

Perciò Edu stava sempre più sulla difensiva con tutti e diventò piuttosto mordace, con una certa inclinazione alla crudeltà. A scuola dissero ai suoi genitori che di solito i bambini di questo tipo non si adattano bene all’ambiente che li circonda semplicemente perché la loro mente funziona a una velocità superiore rispetto a quella di tutti gli altri, e loro sono le uniche vittime di questo sfasamento. Prendiamo per esempio due orologi, avevano detto loro. Uno segna le ore al ritmo normale a cui siamo abituati, nell’altro la lancetta dei secondi va a una velocità più elevata; non potranno mai segnare la stessa ora, non andranno mai a tempo, capite? A volte è necessario un po’ di aiuto.

E così iniziò il peregrinare di Edu tra psicologi e psichiatri. Tutto il tempo che io passavo a giocare a calcio e ad abbrutirmi, lui lo passava in compagnia di quei tizi che parlavano dei sogni, dei simboli, delle fissazioni e delle frustrazioni. Mi confessò che con alcuni di loro si divertiva molto più che con noi. Perciò, quando mi implorava di giocare con lui a biliardino, l’unica passione propria dell’età che aveva allora e che è perdurata nel corso del tempo, gli rispondevo di chiamare uno di quei camici bianchi.

Trascinò l’ala fino all’erba della riva. Dietro l’ala, il cadavere di uno di quegli uccellacci.

«Guardalo, guardalo bene», disse, «nel caso che tu debba descriverlo alla polizia.»

Lo guardai come meglio potei. L’acqua era piena di uccelli simili, e anche più piccoli di colore nero e qualcuno più grande, quasi delle dimensioni di un’aquila. Si sentiva una puzza terribile di piume bagnate.

«Credo che dovremmo portarlo via. Abbiamo un sacchetto?» disse Edu.

«Io non ho intenzione di portare via proprio niente. Non intendo portare questa carcassa in un sacchetto appeso alla mia bici.»

«Che tonto sei. Il sacchetto non ce l’abbiamo neppure. Dovremo legarlo con una corda. Ne ho una che può fare al caso nostro.»

«Fai quello che vuoi, io non lo porto in nessun modo.»

«Mio padre dovrebbe esaminarlo. Non capisci che abbiamo tra le mani la prova di ciò che è successo qui?»

Prese l’uccellaccio tra le braccia. Il capo pendeva molle. E si diresse verso la mia bicicletta.

«Tienilo così mentre vado a prendere la corda.»

«Preferisco andare io a prendere la corda e che lo regga tu. Preferirei non toccarlo. Tra l’altro, sto pensando una cosa: perché invece della polizia non chiamiamo gli ecologisti?»

«Perché alla fine gli ecologisti chiamerebbero la polizia e dovremmo comunque rendere la nostra dichiarazione, solo dopo essere già stati tormentati dagli ecologisti.»

«Davvero pensi che dobbiamo portar via questa bestia? Io me ne vado più contento senza, con la mia bici e basta.»

Tirai un sospiro di sollievo quando disse: «Va bene, ma dobbiamo lasciare l’uccello dov’era».

Senza alcun cenno di disgusto lo buttò nell’acqua tra i giunchi e le erbe. Gli altri uccelli morti si mossero. Cercò il bastone con cui lo aveva trascinato a riva e lo lanciò lontano; con le mani cercò di smuovere un po’ l’erba calpestata dalle nostre scarpe sportive.

«Non farlo», gli dissi, «non sospetteranno di noi, noi li abbiamo soltanto trovati.»

«E perché ci siamo trattenuti qui», guardò l’orologio, «circa un’ora?»

«Nessuno può sapere quanto siamo stati qui, potremmo benissimo essere arrivati da dieci minuti.»

«Sostenerlo è molto più difficile di quanto pensi. Alterare la verità richiede molta fantasia, e non so se tu ne hai a sufficienza.»

«Ti sei dimenticato che abbiamo solo undici anni. Ci siamo potuti distrarre giocando da queste parti.»

«Neanche fossimo due stupidi.»

«I bambini lo fanno.»

«Non dire sciocchezze.»

Fu il Veterinario a chiamare gli ecologisti. E gli ecologisti la polizia. E la polizia noi. E come Edu aveva previsto, ci sottoposero a un interrogatorio dettagliato sui pilastri basilari del quando e del come. Volevano sapere con la massima precisione cosa avevamo visto, perciò fui felice che Edu mi avesse obbligato a fare tanta attenzione e di poter rispondere con dovizia di particolari senza perdere tempo in dubbi di vario tipo.

La faccenda era brutta, e in tutti gli articoli sui giornali venivano citate le iniziali dei nostri nomi e cognomi perché eravamo minorenni, ma anche così era una soddisfazione vederli. Guarda, questo è Edu e questo sono io. Due bambini in bicicletta avevano scoperto il disastro. Gli uccelli erano morti avvelenati. L’acqua era stata avvelenata da qualche scarico. La gente, infuriata, diceva: Pensa se l’avesse bevuta un bambino! Gli ecologisti erano sul piede di guerra e la polizia non sapeva dove andare a parare, erano completamente persi. Il lago fu decontaminato, ma non si seppe mai cosa fosse successo, chi lo avesse fatto.

Dissi a mia madre che se davvero voleva aiutare Mister Gambe la cosa migliore era che tornassimo tutti e tre al lago e che lui facesse molta attenzione a ciò che aveva visto, perché altrimenti la polizia lo avrebbe fatto ammattire.

«Però adesso è buio», ribatté lei.

«Ci andremo con le torce.»

«Non sembrerà strano se qualcuno ci vede?»

«Chi vuoi che passi di lì a quest’ora?»

«Mi fa paura il tuo sangue freddo», commentò mia madre.

«È solo una donna morta, no?»

E aggiunsi: «Tra l’altro siamo tutti e tre piuttosto grandicelli. E scordati che possa rimanersene zitto, quel ragazzo non potrebbe vivere con questo pensiero nella testa».

«Non so se è un bene che tu venga. Potrebbe essere una scena molto forte. Sei mio figlio. Non dovrei permetterlo.»

Mister Gambe suonò il campanello ed entrò nel nostro salotto ordinato con le mani in tasca e la testa bassa come se avesse ucciso lui quella tizia. Pensai che con quell’aria colpevole la polizia lo avrebbe arrestato non appena lo avesse visto. E mi resi conto anche di quanto è compromettente il semplice fatto di vedere. Uno vede cose, persone, avvenimenti normali e avvenimenti straordinari e non può tornare a quando non li aveva ancora visti.

Gli spiegai chiaramente cosa avremmo fatto. Lui mi ascoltava terrorizzato.

«Perché devo sapere più di quello che so già?» chiese.

«Perché alla polizia serve che tu lo sappia. Ti risparmierà molte complicazioni. Non gli raccontare tutto subito, lascia che siano loro a farti le domande. A mano a mano che te le faranno, vedrai che sai le risposte e questo ti incoraggerà molto, ti darà sicurezza, non sembrerai colpevole.»

«Perché è dovuto capitare proprio a me? Perché?»

Mia madre arrivò con le torce e lo guardò di sottecchi. Lui le rispose con uno sguardo supplicante, con gli occhi spalancati, le mandibole, le guance, la fronte, la bocca, tutto il viso tirato.

«Forza, andiamo», dissi io.

E mia madre aggiunse: «Se dobbiamo andare, prima lo facciamo, meglio è».

Lui ci seguì fino al garage con le sue gambe spettacolari che erano diventate di piombo. Trascinava i piedi, era un peso morto. A me sembrava di stare andando in gita: le torce, il lago, i fari della macchina che illuminavano il sentiero, gli arbusti neri ai lati e l’oscurità interminabile nella quale ci stavamo addentrando. Mi sarebbe piaciuto mangiare un panino al prosciutto e mettere la musica.

Parcheggiammo con i fari puntati verso l’acqua, ma risultava impossibile distinguervi qualcosa. Era un vero regno delle tenebre. Senza un movimento, senza un suono, solo il nulla dove era andata a finire quella donna, gli uccelli e Dio sa cos’altro.

«Quasi non c’è luna», osservò Mister Gambe.

Tirammo fuori le torce dal portabagagli e iniziammo a calpestare e sfiorare quella vegetazione che da un momento all’altro poteva morderci le gambe.

Mia madre disse: «Questa è una pazzia».

«Bene, vediamo», cominciai io, «dove l’hai vista?»

«Qui, mi sembra.»

Puntai la torcia nella direzione in cui la puntava lui.

«Dico davvero, ho i brividi», continuò mia madre.

Vicino ai giunchi si vedevano delle ombre, delle parti più chiare, ma non si poteva sapere cosa fosse.

«Ci servirebbe un palo», dissi io, «per sondare l’acqua.»

Ma loro opposero un netto rifiuto, dissero che se avevano chiaro qualcosa era che non avrebbero preso un palo e non lo avrebbero messo in acqua aspettando che urtasse un corpo umano. Puntammo il raggio della torcia a varie angolazioni diverse, ma le immagini erano sempre le stesse, confuse, avvolte nelle ombre della vegetazione. Ormai era un bel po’ che mia madre non diceva neanche una parola. Noi sussurravamo: Qui, qui! Illumina qui! Per quanto parlassimo a bassa voce, le nostre parole si spandevano sul lago e rimbombavano tra gli alberi in fondo, alti e minacciosi, che si stagliavano delicatamente sul silenzio e l’oscurità. A Eduardo tutta quella situazione sarebbe piaciuta tantissimo. E quando decidemmo di andarcene e mia madre si girò sorpresa e Mister Gambe, trasportato dalla eccezionalità della situazione, le mise un braccio sulle spalle, io non li seguii: rimasi a contemplare la serenità infernale di quel mondo.

Salendo in macchina, dove mi aspettavano seduti e in silenzio, dissi: «Ti immagini la figura che avresti fatto davanti alla polizia? Avreste fatto l’alba senza risolvere niente. E se con la luce il cadavere fosse diventato visibile, sarebbe ricominciato tutto. Tu l’unica cosa che hai creduto di vedere è stata una donna morta perché aveva i capelli lunghi, impigliati nei giunchi».

«E perché aveva il seno», aggiunse.

«Bene, ma tutto il resto è confuso, o no?»

Annuì.

«E a questo punto inizierebbe il lavoro della polizia che consisterebbe nel toglierti dalla tua confusione, ovvero tirare fuori qualcosa da dove non c’è.»

«Per il momento ho deciso di aspettare fino a domani. Ho bisogno di riposare.»

Una volta tornati a casa, mia madre disse che andava a fare il caffè, come nei film. Ma era logico che il caffè ci avrebbe resi ancora più agitati di quanto non fossimo, perciò con un po’ di buonsenso tirò fuori un vassoio con prosciutto, chorizo, formaggio e una bottiglia di vino. Mi venne in mente che quella situazione creava un precedente abominevole e che non stava bene che condividessi dei cibi gustosi con l’uomo che stava rubando la moglie a mio padre. Mi passò davanti come un fulmine l’immagine di mio padre in pigiama che diceva che in nessun posto si stava come a casa e sentii un vuoto nello stomaco che mi fece quasi piangere. La bottiglia la bevvi io da solo e caddi sfinito sul divano. Udii vagamente una macchina che si metteva in moto e si allontanava.

Il giorno seguente, dopo un sonno profondo e con il chiarore del nuovo mattino, la faccenda del lago sembrava ad anni luce di distanza.

Adesso che parlo di luce non posso non citare la bella conferenza che quello stesso pomeriggio Alien tenne al centro culturale. Si intitolava «La luce inventata», e Eduardo si rifiutò di andare a sentirla.

«Che la luce delle stelle ci serva per misurare il tempo mette in rilievo l’essenza poetica della nostra specie, anche se poi, conoscendoci individualmente, niente fa pensare una cosa del genere. Non ci può essere niente di meno poetico del modo di vivere di chiunque di noi, compresi gli artisti. Può essere che sia poetico il quadro, il libro, la scultura, ma non l’individuo che crea tale oggetto. È sì poetico il modo di vivere dei primati, che passano tutto il giorno a giocare tra i chiaroscuri dei rami degli alberi. Adesso vogliono umanizzarli, vogliono che capiscano di essere inferiori a noi e che finiscano per trascinare delle ciabatte in un appartamento di cinquanta metri quadrati fino al televisore. La luce del sole, la luce del fuoco, la luce che precipita lungo intricate ragnatele di vetro, corpuscoli invisibili che attraversano lo spazio, misteriose onde luminose... È come se la nostra mente fosse poetica, ma non il nostro modo di sopravvivere. Solo l’amore ci eleva, ci salva, nonostante la sua grande imperfezione. La nostra capacità di amare è imperfetta proprio come noi. Non c’è purezza nell’amore. All’amore piacciono gli scintillii, gli addobbi, la bigiotteria, i riflessi accecanti dei falsi specchi. Nonostante questo, chiedo un istante di attenzione, di concentrazione. Richiamiamo alla mente l’immagine della persona più amata, passata o presente, che siamo corrisposti da lei o no. Pensiamoci senza paura, nessuno può vedere nelle coscienze altrui. Per quanto forte sia la sua immagine, nessuno può scorgerla. Forse c’è qualcuno senza un’immagine, senza un amore, qualcuno che non può chiudere gli occhi per pensare con tutte le sue forze a un altro. Questa persona ha smesso di avere qualcosa che le inonda il petto, la gola, la bocca, gli occhi, le orecchie. Ma a quelli che ce l’hanno non si può rimproverare il fatto che siano pieni di ciò che gli altri non vedono.»

All’uscita accompagnai Alien fino alla piccola pineta. Era molto piacevole calpestare le foglie cadute. Gli dissi quanto mi era piaciuta la sua conferenza, che era piena di spunti, che faceva pensare. Lui, però, non si sentiva soddisfatto, perché alcune persone della prima e della quinta fila erano state distratte. Avevano parlato tra loro e si erano guardate sorridendo. Volli tranquillizzarlo dicendogli che quel comportamento era abituale in tutte le conferenze, così come nelle lezioni ordinarie al liceo e nelle poche messe a cui avevo assistito. L’attenzione non era mai completa. Eppure Alien camminava preoccupato accanto a me. Procedevamo lungo un viale leggermente in salita bordato di mandorli e case rosse, dalle quali al nostro passaggio uscivano bestiali cani neri che nei loro attacchi furiosi si lanciavano contro i cancelli che ci proteggevano da loro. Lasciavo che Alien stesse all’interno, accanto ai cancelli, perché quei cagnacci non lo inquietavano, solo gli spettatori disattenti della serata. Era piuttosto alto e alle sue conferenze appariva tutto azzimato, con i capelli pulitissimi e lucidi raccolti nella coda di cavallo. Gli brillavano anche le sopracciglia e i peli delle braccia e del petto. I denti bianchissimi e la lingua rosa. In quelle condizioni non doveva avere troppa paura di aprire la bocca, né che gli si sbottonasse la camicia. Nelle sue orecchie ci si poteva mangiare. Faceva piacere camminare accanto a un tipo tanto ordinato. Lo misi nella lista davanti a Mister Gambe in quanto a cura personale.

«Pensi di accompagnarmi fino a casa?» chiese.

«Volevo dirti una cosa, anzi avere un consiglio da te. È una faccenda delicata e richiede molta discrezione da parte tua.»

«Ti ascolto», disse distratto. «Ricordo quando eri piccolo e ti avvicinavi al mio tavolo all’Híper a darmi il tormento.»

«Bene, se mi ascolti, ecco qui. Sai, un mio amico ieri pomeriggio è passato casualmente accanto al lago.»

Alien annuì.

«Ha visto qualcosa di strano in acqua e si è avvicinato. E sai che cos’ha visto?»

«Una donna morta?»

Rimasi di sasso. I cani abbaiavano come pazzi al nostro passaggio. Alien iniziava a sudare e aveva l’affanno mentre parlava. Si fermò un istante con il volto madido di sudore. Se avesse continuato a sudare così sarebbe potuto passare in un attimo dall’essere il più bello all’essere il più zozzo.

«Una donna morta!» ripeté.

«Sì!» risposi io.

«E che cosa c’è di strano?»

«Non ti capisco. È normale trovare cadaveri da quelle parti?»

«Altri no, ma quello sì. Ogni tanto, diciamo una volta l’anno, qualcuno vede la morta del lago.»

«Ma veramente? E come mai nessuno me ne ha mai parlato?»

La polizia raccomanda a quelli che la vedono di non raccontarlo a nessuno per non essere presi per pazzi, anche se in realtà è per evitare che si diffonda il panico e il lago diventi un luogo maledetto a cui impediscano ai bambini di avvicinarsi; questo potrebbe svalutare la zona, le case, i terreni e i negozi. Nessuno ha interesse che succeda.»

«E la spiegazione? O non c’è spiegazione?»

«Suggestione collettiva. È un luogo ideale perché si produca questo genere di apparizioni. È meglio non lasciarsi tentare dalle visioni», disse. «Consiglia al tuo amico di tornare al lago, vedrà che non c’è niente.»

Non avrei mai creduto che Mister Gambe potesse lasciarsi suggestionare da qualcosa, né che avesse una psicologia così imprevedibile. Un soggetto che non beveva né fumava, che usciva a correre ogni giorno per circa dieci chilometri, buono come il pane e che si faceva mia madre perché ce l’aveva a portata di mano in palestra. Francamente mi meravigliava che fosse lui il prescelto per vedere la morta quell’anno.

«Ha sempre lo stesso aspetto?» chiesi a Alien.

«No, cambia molto. Sono bionde, more, vecchie, giovani, bianche, nere, asiatiche. Dipende dalla fantasia di ciascuno.»

«E come fa la polizia a essere sicura che non siano reali?»

«Perché il corpo non compare mai e perché vengono viste solo da una persona a ogni incontro.»

«Lo chiami incontro?»

«Sì, è il nome più appropriato.»

«Vengono viste sempre da uomini?»

«La maggior parte delle volte sì, anche se potrebbe essere dovuto al fatto che statisticamente lì ci vanno più uomini che donne.»

Lasciai Alien all’ingresso delle pinete, dove iniziavano le villette con grandi camini di pietra un po’ appariscenti, dai quali d’inverno uscivano sbuffi di fumo esagerati che formavano una nube grigiastra sulla zona. Strinsi la sua grande mano bagnata per congedarmi e percorsi a ritroso la strada pensando a ciò che sapevo e chiedendomi se conveniva o no dirlo a Mister Gambe; presi in considerazione anche la possibilità di andare a casa sua, ma mi trattenne il terribile sospetto che ci fosse anche mia madre, e che indossasse le pantofole che teneva da parte per camminare comodamente in quel pollaio. Perciò mi diressi verso casa. Sotto l’Híper, lo Zoco Minerva, il futuro centro commerciale Apolo, il multisala, il parco – in cui si concentravano quelli che andavano dai tredici anni fino alla mia età circondati di bottiglie di calimocho –, le grida dei bambini e degli uccelli, sotto la pizzeria Antonio con le sue patate ripiene di bacon, il ricordo della piscina comunale con l’odore di cloro e di prato schiacciato dai corpi seminudi, i cofani alzati delle macchine da dove centinaia di mani estraevano migliaia di sacchetti con la spesa per la settimana, sotto c’erano il lago e la morte.

Trovai mia madre molto nervosa. Le diedi un bacio e la chiamai «mamma», perché sapevo che quella parola l’avrebbe intenerita, per distrarla un attimo dalla sua preoccupazione per Mister Gambe.

«Che conferenza, mamma, ti sarebbe piaciuta. Alien ha parlato dell’amore.»

«Hai sentito qualcosa?»

Feci cenno di no con la testa.

«Quel poveretto è disperato. Oggi non è uscito di casa tutto il giorno. Ha paura di quello che potrebbero dirgli, di quello che potrebbe sentire.»

«Non dovresti preoccuparti tanto, è soltanto il tuo istruttore.»

«È una persona nei guai, un amico. Non mi piace che la gente soffra.»

«Soffre perché è terribilmente stupido. Non ti sei resa conto che è senza cervello?»

Non ebbe altra scelta che incassare. Nonostante questo continuò: «In certi momenti dice di punto in bianco che andrà alla polizia per farla finita con questa storia, ma io credo che ormai otterrebbe soltanto l’effetto di complicare di più la situazione. È molto probabile che a quest’ora l’abbia vista qualcun altro».

«Digli di dimenticarsene. L’ha vista solo lui e solo lui sa quello che ha visto. Per l’amor di Dio, mamma, fai da mangiare.»

Lasciai così la cosa perché mi sembrava giusto che sia lui sia mia madre soffrissero un po’. Giorni di incertezza, di timore, facendo attenzione a stare alla larga dalle prime visioni del multisala, a non prestare attenzione alle loro rispettive divise sportive e a mettere in moto la macchina senza rendersi conto che faceva un rumore strano. Ritornai a concentrarmi su Tania, a desiderare di trovarmi davanti alla porta del Veterinario, dietro la quale c’era il cielo come io avevo immaginato che fosse, ovvero con Tania lì e un rumore vicino, ma non presente, di gatti, cani e uccelli. In cielo tutti avevamo un posto, c’era un ordine: il Veterinario nel suo studio, Marina nelle profondità della casa come un pesce nelle profondità del mare, Tania con me in salotto o in giardino e Eduardo solo davanti al computer o al biliardino. Indossai i miei indumenti sportivi migliori e corsi fino alla collina.