Nei giorni feriali potrei andare all’appartamento di Eduardo solo all’ora di pranzo, il che, non disponendo della macchina di mia madre, risulterebbe piuttosto scomodo. Rimando la visita al fine settimana e mi concentro su Sonia e sul retro del negozio. Sto diventando dipendente dalla ripetizione, credo che il mio cervello consumi con vero gusto solo questo momento, alla fine della giornata, in cui la vedo spingere la porta di vetro e venire verso di me tra i DVD, quando il riscaldamento e l’illuminazione dell’Apolo sono sul punto di scoppiare e fuori, sulle macchine parcheggiate e gli alberi e la terra, che comincia dove finisce l’asfalto che circonda l’Apolo, va cadendo un ghiaccio nero sottile e invisibile. In qualche momento mi sono lasciato tentare dall’idea di abbellire il retro, di decorarlo e metterci una specie di divano che renda più comoda la nostra passione, ma a quel punto la ripetizione si spezzerebbe e la facilità ci indebolirebbe. Lo facciamo in piedi o a terra o con lei appoggiata sul tavolo che mi serve per catalogare i DVD, non ci togliamo mai del tutto i vestiti e dopo non possiamo stare un po’ distesi a chiacchierare. Quando finiamo, mi dà un ultimo bacio e se ne va. Proprio come il ghiaccio nero, il vento e la luce, anche il calore del corpo di Sonia viene da qualche parte dell’universo e ha una sua durata, che non si può prolungare per quanto lo si voglia; per questo non ci provo. Viene e se ne va. Quante cose devono esserci che non arrivano fino a me. Quello che mi raggiungerà in tutta la mia esistenza sarà ciò che avrò, una minima parte di ciò che esiste. Se ci pensassi mi dispererei tanto quanto il Veterinario, anche se forse la differenza tra lui e me, tra Eduardo e me, e anche tra mia madre e me, è che nel mio caso la realtà che ho mi lascia esistere e nel loro caso no.
La disperazione, se non si fa strada attraverso le parole, lo fa attraverso i gesti, altrimenti la diffonde lo sguardo spento e rassegnato di chi ha finito per accettarla. Il mio capo ci lotta da pari a pari. Mi chiede a che ora viene Sonia a prendere i soldi, poi se va via subito e se ho notato se viene accompagnata, cioè con qualcuno che la attende per andarsene di nuovo insieme, e se ha fretta. Mi suggerisce, se non ho fatto caso prima a questi dettagli, di farlo da ora in poi. Gli dico che non c’è stato niente nel suo modo di comportarsi che mi abbia colpito.
Sale e scende sempre da sola.
«Capisco», dice lui facendosi girare in continuazione l’anello sul dito. «A ogni modo, mi farebbe piacere che la osservassi.»
«D’accordo», rispondo.
Il sabato stesso, subito dopo aver mangiato, chiedo a mia madre la macchina ed esco in strada. Trasparenza fredda. Gli uccelli vi penetrano con ali leggermente dorate. Le linee severe dei rami spogli e della sierra in lontananza vengono verso di me riempiendosi di particolari. Anche il rumore del traffico, degli uccelli e della vita microscopica dell’aria attraversa il vetro del finestrino. Le facciate lungo la Castellana si incendiano in alcuni punti di un fuoco che si sposta di specchio in specchio come un fantasma. Tutte le volte che cerco la porta dell’appartamento 121 mi sorprendo nel trovarla, mi sorprendo che ogni volta che chiudo gli occhi appaia il sogno. Apro la porta e il rumore della vita normale cessa. La finestra della stanza da letto è socchiusa e le tendine ondeggiano fino al letto. La chiudo del tutto. Il sogno è gelato e secco. Non mi tolgo il giubbotto tedesco e cerco qualcosa da bere nei mobiletti del soggiorno e della cucina. Trovo un assortimento di bottiglie più o meno consumate. Mi siedo con un cognac sul divano, i piedi sul tavolino, la nuca sulla spalliera. Se in questo istante sparissi, nessuno potrebbe sapere che sono venuto qui. Forse Edu si nascondeva qui per sfuggire alla Grande Memoria e ci è riuscito al punto da essere cancellato e annientato, perché c’è un solo modo per scappare.
All’improvviso mi lascia di sasso il rumore di una chiave che gira nella serratura, e penso che sia arrivato il momento di svegliarsi. Solo che invece di svegliarmi, vedo la porta che si apre. Ho il bicchiere in mano, alzato come se stessi per fare un brindisi o per dare il benvenuto al nuovo ospite, e la testa rivolta verso l’entrata. Sono una statua che non può muoversi e che vede entrare Wei Ping. In un primo momento lei non si accorge di me, ma quando avanza un po’ di più e mi vede, soffoca un grido e si gira verso la porta che ha appena chiuso. Indossa un cappotto di panno e un cappellino, e sulla schiena le scende una lunga coda di cavallo.
«Entra», le dico. «Non avere paura.»
Mi guarda con gli occhi tanto aperti quanto può aprirli una cinese. Non è esattamente Wei Ping, anche se potrebbe esserlo, se io non l’avessi osservata con tanta attenzione quando era piccola. Sono veramente i capelli, la carnagione, gli occhi tra due pieghe del viso e le labbra fresche e rosse di Wei Ping, nonostante non sia lei.
Non riesce a parlare. Ho paura che il giubbotto tedesco mi dia un aspetto un po’ aggressivo, perciò poso il bicchiere sul tavolino con la cautela con cui poserei una pistola e me lo tolgo. Lei si stringe il cappotto sul petto e fa un passo indietro.
Le dico: «Sono un amico di Eduardo».
Lei non parla, ha ancora la chiave in mano, una chiave come la mia, nuova e brillante.
«Non ti farò niente», ripeto. «Sono qui perché sono amico di Eduardo e perché ho una chiave come quella.»
«Credevo di averla soltanto io», replica in uno spagnolo non di qui, ma dei sogni importanti.
«Anch’io. Mi sono veramente spaventato. Sei stata tu ad aprire la finestra della stanza da letto, a lasciare un asciugamano a terra in bagno l’altro giorno e a portare in cucina il bicchiere che era sul comodino?»
«Non mi ricordo. Credo di aver usato l’asciugamano.»
«Credi che qualcun altro venga qui?»
«Adesso tutto è possibile», dice.
Per ottenere la sua fiducia le mostro la mia chiave. Le dico: «Vieni, siediti. Non toglierti il cappotto, questa casa è una ghiacciaia. Vuoi un cognac?».
Con mia sorpresa, annuisce. Non ha l’aspetto di chi beve alcolici, ma in fondo neanche mia madre ha la faccia di una cocainomane.
«Sai? Dalla faccia direi che ti chiami Wei Ping.»
Fa cenno di no con la testa mentre finisce il suo cognac. Gliene verso dell’altro senza che da parte sua ci sia alcun segno di rifiuto.
Aggiungo: «Per riscaldarsi è la cosa migliore. Dimmi come ti chiami. Io mi chiamo Fran».
Allora lei mi rivolge lo sguardo sbalordito dell’inizio: «Fran?».
«Che c’è di male?» chiedo io.
«Eduardo mi parla molto di te. Pensavo che fossi una specie di invenzione.»
«Perché?» chiedo confuso e frastornato.
«Per le cose che racconta di te. Non sembrano vere.»
«Ma non mi dire. Edu ha una grande immaginazione.»
«Ero curiosa di conoscerti», dice guardandomi da capo a piedi.
In questo momento mi pento di non essermi messo i Levi’s e la felpa O’Neill. «Io, invece, non sapevo niente di te», ribatto. «Non ti ha mai nominato.»
Finisce quel che resta del cognac in un sorso e continua: «Vuole che nessuno mi conosca, che nessuno sappia che esisto. Dice che è pericoloso».
«Pericoloso? Quindi si sentiva in pericolo. Di chi ha paura? Ti ha raccontato qualcosa?»
Fa spallucce. Tiene in equilibrio il bicchiere vuoto tra le ginocchia. Sotto la gonna porta calze nere di lana.
«Dimmi: quanto è che non lo vedi?»
«Un mese. Da allora chiamo qui al telefono in continuazione e vengo quasi tutti i giorni nel caso si presenti o mi lasci un messaggio, o nel caso io noti qualcosa. Un giorno mi sono accorta che aveva tirato fuori dal frigorifero i cibi guasti e ne sono stata felice. Ho pensato che fosse stato fuori e che non avesse avuto il tempo di mettersi in contatto con me, ma non ho più saputo nulla. Evidentemente è andato via di nuovo. Forse io non gli interesso più.»
«Sono stato io a buttare la roba andata a male dal frigo. Mi dispiace. Vi vedevate sempre qui?»
Annuisce. «Era casa nostra. Quando eravamo insieme nessuno poteva trovarci, disturbarci, interromperci. Tutto quello che sappiamo l’uno dell’altra è ciò che ci raccontavamo qui.»
«Allora ti rendi conto che gran parte di quello che ti diceva può essere falso, o no?»
«Meno di quanto pensassi. Tu, per esempio, esisti veramente.»
«Non so che fare», ribatto. «È tutto molto strano. Mi dà la chiave proprio quando sta per sparire.»
«Che c’è di strano se la sua fidanzata e il suo migliore amico hanno una chiave del suo appartamento? E che c’è di strano se è fuori per un mese? Che c’è di strano in me? E in questo appartamento? Se l’analizziamo da questo punto di vista è tutto strano: Da dove veniamo? Dove andiamo? Perché facciamo quello che facciamo? Perché tu sei bianco e io sono orientale?»
«Mi piace che tu sia orientale. Mi piace così tanto che provo dei rimorsi.»
«Voleva che decorassi l’appartamento secondo il mio gusto, perciò avevo iniziato a portare alcune cose. Passavo tutto il giorno pensando a cosa sarebbe stato bene qui. Credo che dobbiamo aspettare. Soprattutto adesso che so di non essere sola. Non lo sono, vero?»
«No», le rispondo, e aggiungo una cosa che ho sentito in qualche film alla televisione: «Siamo sulla stessa barca».
«Mi chiamo Yu, che vuol dire giada.»
Lavo i bicchieri, li asciugo e li ripongo, come la bottiglia, e metto il cappotto sulle spalle di Yu, che emana un odore dolce e intimo.
«Senti», le dico, «qualunque cosa succeda, credo che non dovremmo parlare di questo posto. Lui non vuole che si sappia.»
Ci salutiamo sul portone. Le fermo un taxi e le dico che tra due giorni tornerò qui.
A metà della settimana seguente arriva una telefonata della polizia. È la prima volta in tutta la nostra vita che nella casa di calle Rembrandt si riceve una telefonata della polizia, il che fa pensare che niente di ciò che non è successo prima è impossibile per il futuro. E che, pertanto, niente del passato garantisce il presente. Forse per questo mia madre ripete con insistenza: Ci mancava solo questa.
Mi si chiede di recarmi al commissariato con i genitori di Eduardo. Il tempo è migliorato e quando vengono a prendermi con la Mercedes fa addirittura caldo. Marina indossa un soprabito di pelle lungo fino alle caviglie che sembra inappropriato per la moglie di un veterinario e che si sparge in ondate di pieghe lucide sul sedile.
Dallo specchietto retrovisore vedo i tratti del Veterinario sprofondati in una serietà terribile, il genere di espressione che assumeremmo tutti se ci venisse annunciato che nel giro di qualche ora il nostro pianeta verrà raso al suolo e che niente resterà in piedi.
Gli chiedo se oggi andrà a lavorare e lui fa cenno di no con la testa. Non ha voglia di parlare. Vedo la lucentezza della carrozzeria e le morbide onde dei capelli di Marina.
«Mia madre le manda i suoi saluti», mi viene in mente di dire.
«Tua madre», interviene lei meditando intensamente, «che donna coraggiosa, che donna forte! L’ho sempre invidiata.»
«È tutto finito», dice all’improvviso il Veterinario.
«Per favore, non dire così. Non riesco a sopportarlo», replica Marina.
Penso che è una giornata meravigliosa. Il sole che attraversa i tetti e riscalda il sangue. Anche a Eduardo piace il sole, nonostante l’allergia. Magari è fuggito in uno di quei paesi dove ci sono sempre venticinque gradi. Perché no?
Dico: «Può essere che Eduardo abbia deciso di prendersi una pausa».
«Una pausa da cosa?» chiede il Veterinario.
«Una pausa dalla sua vita», risponde Marina. «L’ho pensato anch’io.»
«A volte uno ha la tentazione di vedere cosa succede senza tutto quello che ha», aggiungo.
«State buoni», dice il Veterinario parcheggiando bruscamente accanto al commissariato. «Niente, assolutamente niente di quello che si pensa si può mettere in pratica.»
Quello che dice mi sembra mostruosamente falso, ma non è il momento di contraddirlo. In generale non credo che valga la pena contraddire il Veterinario.
Ripetiamo davanti alla polizia ciò che sappiamo dell’ultima visita di Edu. La polizia dimostra interesse per le sue attività in Messico e soprattutto per la figura del boss. Dicono che chiederanno i dossier all’Interpol. Il Veterinario lancia un’occhiata molto scettica intorno a sé. Anch’io credo che non stiano seguendo la pista giusta. Mi viene un desiderio fortissimo di rivedere Yu. A questo punto non potrò mai raccontare la storia dell’appartamento, a meno che loro non lo scoprano.
Quando usciamo è ora di pranzo. Io li saluto sulla soglia del commissariato. Ho bisogno di libertà. Le finestre dei piani alti gettano scintillii argentati nello spazio. La lussuosa automobile del Veterinario si mette in moto e sparisce tra le altre vetture. Macchine con cervelli al loro interno, che contengono milioni di neuroni disposti a pensare senza limiti. Nonostante questo, scorrono miracolosamente come una sola, il metallo ardente che scivola lungo un leggero pendio verso il mare. Solcando il mare, il Veterinario prenderà l’autostrada e comincerà ad allontanarsi, allontanarsi, finché non si lascerà la stazione di servizio alla sua sinistra e il centro culturale a destra, finché non supererà la rotatoria e il sentiero di pioppi e le enormi lettere rosse dell’Híper in fondo e salirà fra i tetti lisci di ardesia su per la collina fino a casa sua e lì aprirà il cancello e poi la porta nera con la targhetta dorata e lui e sua moglie entreranno all’interno per sempre.
Torno in autobus seduto nella prima fila di posti. Il conducente mi chiede se hanno già trovato il mio amico. Gli rispondo, realmente sorpreso, che non potevo neanche immaginare che la notizia fosse trapelata. Il conducente mi dice che in un posto come questo – e si riferisce al complesso residenziale – si sa tutto.
«E perché?» chiedo interessato.
«Ah! È un mistero. Cerca di tenere qualcosa segreto. Vedrai che non ci riuscirai.»
Questo conducente è lo stesso che ci riportava a casa molte sere quando io e Edu uscivamo a bere e Edu si sentiva sempre molto peggio di me, fino a limiti veramente disgustosi. Be’, mentre noi siamo diventati uomini, come si suol dire, il conducente continua a essere uguale. Il cielo si riversa sul parabrezza dell’autobus, perciò tutto quello che si vede dalla parte anteriore è azzurro.
«Mi ricordo quando eravate più piccoli tu e quell’amico tuo biondino, quello che è scomparso. Vi sedevate dietro con la vostra compagnia, belli bevuti.»
Faccio quello che avrebbe fatto Eduardo, marcare le distanze adottando un vocabolario diverso da quello del conducente.
«Non so chi abbia divulgato una menzogna simile.»
«Be’, io non me lo sono inventato», ribatte lui, con una espressione di minore confidenza. «La polizia è stata in giro a fare domande.»
«Capisco», dico concentrandomi sull’orizzonte.
«Senti ragazzo», riprende cambiando la marcia, «io conosco abbastanza bene tua madre. La poveretta ha sofferto molto, perciò non fare il furbo con me.»
Resto sconcertato.
«Quando non hai superato l’esame per l’ammissione all’università, l’ha presa molto male. E molto, molto male quando tuo padre vi ha abbandonati.»
«Come? Lei non ha nessun diritto di sapere queste cose.»
«Ah, no? E chi lo dice, tu?»
«Sono questioni private che riguardano solo mia madre e me.»
A questo punto tutti quelli delle prime file stanno con le antenne drizzate. E uno osa intervenire con una sfacciataggine totale: «Non sei uno dei ragazzini che trovarono gli uccelli morti nella laguna? Quanto sei cambiato, porca miseria».
È portentosa la memoria degli abitanti della città più pettegola del mondo.
«Certo che è lui», risponde il conducente. «Io conosco sua madre. Per vari anni ha preso ogni giorno, sempre alla stessa ora, il mio autobus per andare al Gym-Jazz. Si sedeva lì, dove oggi è seduto suo figlio.»
Tutti guardano verso di me.
«E quindi è quello degli uccelli», interviene un altro. «Una faccenda strana, vero?»
Parlano di quello che per loro è solo ieri mentre per me è il passato più remoto, la preistoria della mia vita. È come se dicessero a qualcuno: E quindi sei uno di quelli a cui hanno tagliato la testa alla Bastiglia.
Il conducente continua: «Scusa se te lo dico, ma tuo padre si è comportato molto male. E tu dovevi terminare gli studi. Le avresti dato una gioia».
«Ma io so chi è tua madre!» esclama un altro. «Ma certo, siamo stati insieme nell’associazione dei genitori degli alunni lottando fianco a fianco.»
In tutti gli anni che l’ho preso, questo cazzo di autobus non è mai andato così piano. Sembra una gita di piacere. I passeggeri che non partecipano alle chiacchiere ammirano il panorama dai finestrini o leggiucchiano il giornale, oppure osservano ciò che li circonda. Esco dal mio mutismo per dire al conducente di muoversi.
«Arriverò tardi al lavoro», protesto.
«Lavori? Questo è un bene», risponde lui.
«Gestisce la videoteca dell’Apolo», spiega quello che mi ha identificato come uno dei ragazzi che scoprirono gli uccelli morti e per la cui mente sta passando la mia intera vita in tutti i particolari.
«E allora manderò lì mia moglie a prendere i DVD. Bisogna aiutare chi inizia a guadagnarsi da vivere.»
L’ex compagno dell’associazione dei genitori di mia madre aggiunge: «Povero ragazzo, uno sportivo come lui, e adesso pensa...».
Siccome adesso non mi guardano, capisco che non parla di me. Mi sono perso, ma non loro, che possono seguire il filo che unisce le idee più disparate. All’orizzonte iniziano a spuntare le macchie bianche, rosse e nere delle villette.
«In palestra all’inizio non sapevano cosa fare senza di lui», dice il conducente.
«Mia moglie mi raccontava», interviene quello dell’associazione dei genitori, «che gli allievi li reclutava lui e che quando se n’è andato le iscrizioni sono cadute in picchiata.»
«Sono stati sul punto di chiudere», precisa quello degli uccelli.
Adesso sono uno di loro, mi interesso con sollecitudine a quello che dicono, voglio capire e chiedo di chi stanno parlando.
Mi guardano increduli.
Di Pedro, l’istruttore della palestra Gym-Jazz, quello che correva sempre con una fascia in fronte.
Parlano di Mister Gambe, e mi guardano increduli perché evidentemente tutti sanno che aveva una relazione con mia madre, perciò non faccio più domande e distolgo lo sguardo.
«Ha iniziato a sentirsi depresso, sempre più depresso», dice quello dell’associazione dei genitori, «e alla fine ha lasciato il lavoro, ha lasciato lo sport e ha venduto la casa.»
Superiamo la stazione di servizio, il centro culturale, il sentiero dei pioppi e, in fondo, le grandi lettere rosse dell’Híper. Ci addentriamo per strade di marciapiedi rossi, che si vanno spegnendo a poco a poco, e alla fine ci dirigiamo verso l’Apolo, la cui luminosità si fonde con il pallore del tramonto.
«In bocca al lupo, ragazzo», mi dice l’autista. «Salutami tua madre.»
Per tutto il pomeriggio penso con ansia alla visita di Sonia. E non mi fa paura pensarci, perché se non viene posso pensare a Yu. Non fa niente, non è la fine del mondo. La semplicità nella vita è la morte. Semplicità, checché se ne dica, è precarietà. La vita di un adulto non può essere semplice, è impossibile, a meno che non rinunci sistematicamente ad avere tutto ciò che vuoi. Per questo tanto mio padre quanto mia madre in fondo mi fanno tenerezza.
Alle otto Sonia spinge la porta di vetro e avanza tra gli scaffali verso di me, guardandomi con gli occhi più belli che abbia mai visto. Si accende una sigaretta, si siede sullo sgabello e mi dice che pensava di venire in autobus, ma che poi le è sembrato che forse avrebbe fatto tardi e ha preferito la macchina. Le do un bacio e le dico che vado a prendere delle birre alla macchinetta. Aggiungo che ne porterò quattro per non dover tornare una seconda volta. Giro il cartello su CHIUSO e andiamo nella stanza sul retro. Non la informo del rischio che corre con il mio capo. Non lo faccio perché non mi sento responsabile di quello che può succederle quando le porte di vetro dell’Apolo si aprono magicamente davanti a lei per farla uscire. Non ho la benché minima idea di quale sia la sua vita fuori da qui. Magari il mio capo è il tipo meno pericoloso di tutti quelli che conosce. Come posso difenderla da ciò che non conosco? Voglio solo ripetere ancora una volta, e anche lei. Mi tranquillizza pensare che nessuno di noi farà un passo fuori dalla ripetizione, neppure il mio capo.
«Oggi posso fermarmi di più», dice. «Possiamo farlo tutte le volte che vuoi.»
La cosa mi tenta, ma implica un passo fuori dalla ripetizione, perciò la avverto che lo faremo una sola volta. La mia inflessibilità la eccita così tanto che inizia a spogliarmi con una determinazione notevole nella donna più indecisa del mondo. È la prima volta che sono completamente nudo e lei completamente vestita, e questo la riveste dell’autorità per fare di me quello che vuole. Glielo dico: «Fai di me quello che vuoi».
Il giorno dopo non mi concentro sull’idea che venga Sonia. Penso a Orson Welles e a Yu. Per questo non mi sorprende che la porta di vetro venga spinta dal tizio con il solitario. Se non avessi per la testa la faccenda della sparizione di Edu e dell’appartamento, e mia madre che si droga e il dottor Ibarra, e il corto che voglio dirigere, mi inquieterebbe il nervosismo del mio capo.
«Senti», dice facendo un gesto con la sua mano delicata che abbraccia tutto il locale. «Io qui lavoro per le spese. Non lo chiudo per te.»
Lo guardo a bocca aperta.
«So che non hai altro, per questo non mi decido ad abbassare la serranda.»
«Forse con un po’ più di tempo…» dico io. «La gente deve abituarsi ad andare nei posti.»
«Fa lo stesso, fa lo stesso», risponde. «Non guadagno, ma non ci perdo neanche. Resta qui. Ma tieni gli occhi aperti.»
Mi sento ottuso. Sto iniziando a non capire quello che mi dicono le persone.
«Vuoi dire che se un giorno di questi le perdite superano le entrate non ci penserai su e chiuderai?»
Chiaro come il sole.
«Che mi dici di Sonia?» chiede.
«Ieri è passata di qui. Non c’era nessuno con lei. È una brava ragazza.»
«A te sembra una brava ragazza?»
«Sì, assolutamente. È molto seria. Viene, prende i soldi e se ne va. Credo che a volte si faccia un giro per i negozi e prenda un caffè; insomma, magari perde un po’ di tempo a entrare e uscire.»
«Cerca di chiacchierare con te?»
«Molto poco, al massimo dice che c’era traffico o cose del genere. Ho l’impressione di non starle tanto simpatico», aggiungo.
«Non è questo. Non prenderla così. Le sembrerai troppo giovane, penserà che non abbiate niente da dirvi.»
«Be’, questo è vero», ammetto io. «Le cose stanno bene come stanno.»
«Sì», concorda lui. «È un peccato che a Sonia interessino tanto i soldi.»
Non ho l’abitudine di raccontare niente della videoteca a mia madre. La verità è che non le racconto niente di niente, cosa di cui mi rallegro da quando so della sua grande inclinazione a sfogarsi con chiunque. Naturalmente non le porto i saluti del conducente dell’autobus. Per fortuna lei adesso va e viene con la macchina e ha meno possibilità di entrare in relazione con persone che mi conoscono. Non so se è normale che tutte le sere a cena ci scoliamo una bottiglia di rosso. Di sicuro andiamo a letto piuttosto allegri o felici, che dir si voglia. Lei non si rende conto che quando si sposerà invece di passare la serata con me dovrà passarla con il dottor Ibarra, quello con gli occhiali con la montatura tonda dorata, quello che non dà del tu neanche a suo padre, quello che – ho la sgradevole impressione – non potrà mai essere all’altezza di Mister Gambe in fatto d’amore.
«Non sapevo che il tuo istruttore di ginnastica fosse andato via dal quartiere», butto lì senza ricordarmi che è l’unico argomento di cui non le piace parlare.
«Molti sono andati via da qui. Anche noi ce ne andremo», dice.
Sogna che io mi trasferisca con lei e il dottor Ibarra nella sua villa immaginaria arredata con mobili immaginari.