I fine settimana si sono ridotti al sabato pomeriggio e alla domenica. Li dedico fondamentalmente a guardare film a casa mia e al cinema. A volte esco a correre un po’. Mia madre vede con me un paio di film con le gambe sollevate. Di tanto in tanto si alza e torna con l’aria di chi si è tirato una striscia. In questa occasione però abbiamo davanti a noi un ponte che dura fino a mercoledì sera, quando le migliaia di veicoli che sono partiti venerdì torneranno formando grandi ingorghi. Da casa mia si riesce a vedere l’autostrada, ardente ed elettrica, vibrante, che ci lascia separati dal tempo, esiliati dallo scorrere di quella luce potente in lontananza che percorre la terra senza sosta, che ci circonda eppure ci ignora.

Il sabato, quando torno dal cinema, mia madre con le pinne del naso arrossate mi dice che probabilmente si sposerà con il dottor Ibarra. Esamino il suo viso in cerca di qualche indizio sul suo stato d’animo, ma da quando tira con tanta frequenza non so mai quando è triste o allegra.

«Così, all’improvviso?» le chiedo.

«È già un po’ che me lo ha chiesto, ma non avevo il coraggio di fare il grande passo.»

«E adesso ce l’hai», ribatto io, «perché?»

«Perché? Perché?» s’infervora lei. «Perché non ho altro da fare. Questa è la realtà. Passo quasi tutto il giorno in quello studio. Che cambia se mi sposo con lui? Così tu potrai uscire dalla videoteca e io dall’ambulatorio.»

«Non so perché dici così. A me la videoteca piace. Non la cambierei con nient’altro.»

Mia madre viene verso di me intenzionata ad abbracciarmi o a fare qualcosa di simile, così mi allontano dirigendomi verso la gabbia del parrocchetto, che è l’animale più grande che abbiamo mai avuto, e infilo il dito tra le sbarre.

«Potresti avere una videoteca tutta tua. Tutto quello che desideri.»

«Non ti sposare con lui solo per questo», insisto io.

«In ciascun momento della vita le cose si fanno per motivi diversi, l’importante è che ci sia una compensazione. E qui c’è, te lo assicuro», replica lei.

Capisco che il ritorno dal dottor Ibarra, ovvero al passato, ha distrutto mia madre. Che ha quasi perso la testa e che è irrecuperabile. L’unica cosa di cui le importa sono i soldi. Anche se sarebbe peggio se le interessasse il dottor Ibarra in sé.

«Dovrai stare con lui. Non dimenticartelo.»

«Non è certo una tragedia. È una persona molto pacifica e metodica.»

«Fatti tuoi», le dico. «Io credo che sarà un inferno.»

Subito dopo inizio a pensare ai vantaggi, alla possibilità di rimanere solo in questa casa e di comprarmi finalmente un cane. Potrei mantenermi come Alien, organizzando cicli di incontri sul cinema al centro culturale, tenendo conferenze e scrivendo libri. Magari accetterò che il dottor Ibarra mi compri una videoteca. Credo che potrei mantenermi e disinteressarmi della cocainomane, la cui distruzione, se è vero tutto ciò che si dice della droga, dovrà cominciare un giorno di questi. Probabilmente potrei tenermi anche la sua macchina. E con i tremila euro di Edu mi comprerei tonnellate di vestiti.

La chiave è sempre nella busta contenuta nel cassetto della scrivania. Chiedo se qualcuno abbia lasciato un messaggio per me. Mia madre risponde: «Per te? Ma se non ti chiama nessuno. Sei fuori dai giochi».

Ha sempre creduto di farmi reagire con frasi di questo genere. Come quando ero piccolo e cercava di fare in modo che fossi circondato da amici. Credo che non avrò mai figli, affinché non debbano capirmi.

Mi sono fatto un amico alla cineteca che riesce a trovarmi qualunque film gli chieda. Mi ha suggerito che mi ci dedichi maggiormente, che mi iscriva a una scuola di cinema. Ma gli ho detto che mia madre sta per sposarsi e che preferisco aspettare. In realtà non mi passa neanche per la testa di tornare alla vita da studente. Sono un adulto e non sopporto una vita che non sia quella da adulto. Un adulto deve avere soldi, una casa propria e non vivere come un accattone malridotto, il resto sono tutte stronzate. Perciò capisco perfettamente Eduardo. Ha ciò che vuole, che è quello che si deve a un uomo che ha sopportato un’infanzia e un’adolescenza: che possa avere ciò che desidera. Non c’è nessun altro senso nell’arrivare a essere come mio padre, come mia madre o come il mio capo. Perciò capisco anche loro. Arriva un momento in cui niente è separato dal corpo, proprio niente, né i sogni più grandi né i più piccoli. E il corpo esige il proprio compimento. Credo che Edu abbia sentito subito questa chiamata, forse da quando era piccolo, e anch’io.