Noi adolescenti eravamo definiti più dal futuro che dal presente, più da quello che saremmo stati che da quello che eravamo, più da ciò che ci aspettava che da ciò che avevamo già. Io e Eduardo saremmo stati studenti universitari, lui un genio, io uno dei tanti. Per il momento, però, eravamo ancora immersi nella nostra vita conosciuta. Prendevamo il 77 ogni venerdì e sabato per andare a Madrid. Una volta lì, di solito ci avvicinavamo a Moncloa in metropolitana. Moncloa, Argüelles, i bulevares, restavamo praticamente sempre in quelle zone. In ciascuna di esse incontravamo sempre le stesse persone, le stesse ragazze che arrivavano dai dintorni come noi, compagni del mio liceo o della scuola privata di Edu. Quando li vedeva, diventava più nervoso e mordace che mai, beveva troppo, e alla fine dovevo trascinarlo come un pacco fino al taxi e poi stare attento che non si mettesse a vomitare in autobus, perché al ritorno viaggiavamo stretti come sardine e se non avevi la fortuna di sederti, potevi letteralmente sputare il fegato. Perciò quando Edu era pallido come un cencio, con i capelli bagnati come un povero pollo, pateticamente sudato e con lo sguardo perso, dovevo cercare un buco in cui gli arrivasse un po’ d’aria o chiedere a quelli che erano seduti sui gradini davanti alle porte di cedergli il posto, dietro la minaccia che altrimenti avrebbe potuto rimettergli addosso. E quando arrivavamo dovevo portarlo a casa mia e farlo stendere sul divano con la testa rivolta verso il pavimento, per sicurezza. Portava in casa una ventata di caos che non mi piaceva per niente. Mi piaceva alterare il meno possibile l’atmosfera deliziosa che ci lasciava la domestica. Lì non volevo né Edu né Mister Gambe e, a dirla tutta, neanche mio padre.
La mattina dopo gli preparavo un caffè, gli davo i pantaloni, che non so come si toglieva durante la notte e che ci metteva un bel po’ a indossare di nuovo, esibendo in cucina, salotto e bagno i suoi slip azzurri da bambino piccolo e le gambe bianche e senza peli con un po’ di muscoli nei polpacci, grazie alle pedalate che l’avevo obbligato a fare. Insisteva per farsi la doccia nel mio bagno e perché passassimo il resto della mattinata insieme, ma io lo convincevo che era infinitamente meglio che andasse a lavarsi a casa sua, dove aveva indumenti puliti per cambiarsi subito, cosa che dava un gran sollievo alla pelle, e che poi ci saremmo sentiti al telefono. Voleva sempre trattenersi a tutti i costi a casa mia e, con questo intento, si lisciava mia madre in maniera vergognosa, ma sapeva che gli inviti di mia madre a restare non contavano perché io ero capacissimo di congedarlo in malo modo. Casa mia era casa mia, non era la strada né il sentiero dei pioppi, né il terreno edificabile; per questo aveva pareti, porte e una serratura e profumava di detersivo al limone o all’aroma di pino delle Alpi o di neve immacolata.
La nostra villetta apparteneva al primo lotto di case del complesso residenziale, edificato poco prima che i prezzi andassero alle stelle. Costruirono nello stesso periodo lo Zoco Minerva, l’Híper e circa duemila villette a schiera, monofamiliari e bifamiliari. La nostra era appaiata a un’altra, era cioè una cosa intermedia, né troppo né troppo poco, come diceva mio padre. Era unita a quella di Serafín Delgado Monje, come recitava la cassetta della posta, perché ci volle molto tempo prima che iniziassimo a chiamarci per nome. Fu l’ultima di una serie di persone che avevano comprato e venduto quella casa. Viveva da solo e la prima cosa che fece fu innalzare un muro accanto ai cipressi che separavano i nostri giardini per segnarne ancor meglio i confini, cosa che ci piacque molto perché anche noi eravamo gelosi della nostra proprietà. In seguito lo alzò un po’ di più e qualche tempo dopo prese un cagnaccio nero che mostrava i canini con grande facilità e a cui mia madre mi aveva proibito di avvicinarmi, una cosa del tutto superflua perché io avevo già il mio cane, Hugo. Nessuno era come lui, così peloso, con gli occhi tanto brillanti e la lingua tanto rosa.
Un giorno aiutai il vicino a tirare fuori delle casse dalla macchina e a sistemarle in garage. Il cane mi seguì in tutti i miei movimenti: sembrava che mi imitasse, e quando il suo padrone mi chiese di aspettare un attimo ed entrò in casa, e rimasi da solo in garage con il cane, non mossi neanche un muscolo. Quando uscì con una banconota da cinquanta euro in mano e vide la mia espressione, mi disse sorridendo: Ma se non fa niente! Da allora, quando ci incrociavamo, avevamo l’abitudine di dirci buongiorno e arrivederci. Speravo che mi chiedesse un altro favore da cinquanta euro, ma non lo fece più. Io ero sempre in bici, era il periodo in cui praticamente ci dormivo anche sopra come Induráin sulle salite.
La vita del vicino sembrava molto strana, e questo la rendeva interessante. Per vari mesi ci fu una grande attività notturna in casa sua. Macchine che parcheggiavano nella nostra stradina. Porte che si chiudevano. Tutte le luci accese. Musica mescolata a rumori. Mia madre mi ammonì che non doveva interessarmi quello che succedeva nella casa accanto. Io feci in modo di disinteressarmi di quel trambusto, ma c’era sempre qualcosa che attirava la mia attenzione, come i continui cambi di automobile del vicino. Sempre più grandi, più lussuose. Mio padre disse che, con ogni probabilità, si dedicava a traffici illegali o ad altri affari del genere. Dei giardinieri gli rimossero tutta la terra del giardino, estirparono le piante che c’erano e ne piantarono altre. I fiori uscivano dal furgoncino dei giardinieri in grandi vasi e in allegri mazzi colorati. Carriole di terra e ghiaia per formare motivi ornamentali. Portarono una fontana di bellissime mattonelle azzurre. Devono stare preparando un giardino da sogno, diceva mia madre. Ma non potevamo vederlo attraverso il muro.
Era anche normale che il vicino sparisse per mesi. In quei casi qualcuno veniva di sera a dare da mangiare al cane, a portarlo a passeggio e a tenere in ordine il giardino e la casa. Se uno aveva il sonno leggero o concentrava l’attenzione sulla villetta del vicino, quella febbrile attività notturna poteva essere fastidiosa. Mia madre, però, non mi permetteva di lamentarmi. A te non deve interessare quello che fanno nella casa accanto, dormi. Così mi abituai al ritmo del mio vicino e ai latrati disperati di Ulises, il cane, che cercava di uscire dalla fessura che rimaneva aperta tra la porta di ferro del giardino e il suolo; da lì spuntavano minacciosamente le zampe e il muso nero. In realtà lui non doveva vedere quasi niente e si disperava per i rumori ciechi dell’esterno. Le rare occasioni in cui sentii parlare il suo padrone fu per chiamare lui: Ulises, vieni qui!
Di solito non lo incontravo mai in nessun luogo pubblico del complesso residenziale. Passava il suo tempo a Madrid o chissà dove. Finché un pomeriggio d’estate, quando avevo sedici anni e portavo Hugo a passeggiare lungo il sentiero dei pioppi per parlargli di Tania, non me lo ritrovai davanti con il fiero Ulises legato al guinzaglio.
Dissi a Hugo: «Non avvicinarti a quello lì. Voglio che tu corra dietro al bastone che ti lancerò. Va bene?».
Gli occhi neri e brillanti di Hugo seguirono la traiettoria del bastone tra i cristalli che cadevano dalle foglie dei pioppi. Mi faceva impazzire il suo musetto, la sua lingua contenta penzoloni. Tese le zampe e la grande palla di pelo grigia si lanciò verso l’obiettivo, solo che Ulises, con i canini gocciolanti, si liberò e si lanciò anche lui nella stessa direzione. Io e il vicino ci guardammo e ci mettemmo a correre dietro di loro. Quando riuscimmo ad arrivare si stavano già azzuffando, perché Hugo non sopportava che quello stronzo si prendesse il suo bastoncino. Li separammo e io lisciai il pelo di Hugo. Il vicino diede un paio di colpi sul muso a Ulises.
Mi disse: «Tu sei il mio vicino, vero?».
Annuii.
«Sembra ieri che eri così», fece segno all’altezza del suo petto, «e giravi sempre per strada in bici.»
«Da allora è passato già un bel po’, almeno due o tre anni.»
«Per te è molto, per me è stato ieri.»
«Mio padre dice la stessa cosa.»
«Ah! Davvero? Pensavo di invecchiare soltanto io!»
«Non mi sembra che lei sia vecchio, e neanche mio padre.»
«E allora dammi del tu. Chiamami Serafín.»
E rimanemmo a guardarci intorno, gli altri cani e la terra che diventava scura mentre in cielo c’era una luce argentata che accecava.
Non arrivai a dargli del tu, ma quell’episodio sul sentiero con i rispettivi cani ci unì un po’. Mi faceva piacere vederlo e chiacchierare perché, per quanto io sparissi del tutto dalla sua vita quando andava chissà dove, nella mia rimaneva sempre la sua casa piena di rumori e il suo giardino con profumi che il nostro non aveva, il suono dell’acqua della fontana, i latrati di Ulises. Insomma, le sue cose stavano più tempo nel mio mondo che nel suo. Per questo la sua figura distante e mondana risultava tanto strana e fuori luogo nei pomeriggi familiari dei bambini, dei cani e del rumore dei trapani casalinghi.
Credo che Uli capisse quando uscivo in giardino perché emetteva un lamento come quelli che di solito riempivano lo studio del Veterinario e che per questo interpretavo come un grido d’aiuto.
«Povera bestia», dicevo pensando a Huguito.
«Ti ho già detto mille volte di non fare caso a quello che vedi e senti dalla casa accanto, d’accordo?» diceva mia madre.
Nonostante questo avevo preso l’abitudine di tirargli pezzi di pane, biscotti, qualunque cosa stessi mangiando in quel momento oltre lo steccato tra i cipressi. E quando il pezzetto di cibo cadeva dall’altra parte, lui emetteva un latrato forte e rauco. «Non c’è di che», dicevo io. E subito dopo pensavo: adesso lo sta annusando e ora lo sta mangiando.
Edu mi chiese se ero andato a trovare lui, Tania o Hugo.
«Tutti e tre», risposi.
«Se vuoi dico a mia sorella che sei venuto.»
Feci cenno di sì con la testa. Continuava a impressionarmi la possibilità che, arrivando a casa del Veterinario, Tania uscisse dalle ombre remote dell’interno e venisse da me, che la sua immagine si materializzasse in mia presenza.
«Mi fai pena», disse Edu. «Non vedi più in là del tuo naso.»
Nessuno è immune dal fare pena e dall’essere compatito, neanch’io, perciò come potevo essere sicuro, dopo averlo sentito, che non ci fosse davvero qualcosa in me che spingeva alla compassione?
Mi sorprese la voce di Tania: «Di cosa parlate?».
Eduardo disse: «Non posso sopportare di stare qui neanche un secondo di più».
Tania osservò il fratello che se ne andava con la sua solita serietà triste.
«Qualcosa non va?» le chiesi.
«Sì, mi piacerebbe che andassimo a parlarne sotto il gazebo.»
Ci sedemmo nel posto centrale del cielo, sul trono, per così dire. Faceva piuttosto fresco. Hugo era con noi, mi guardava e scodinzolava.
Gli dissi: «Domani ti porto a passeggio».
Tania affondò la mano nel suo pelo lanoso. «Mi sposo.»
Non so perché ci si sforza di mantenere sempre la compostezza per evitare che si noti la propria debolezza, soprattutto quando ormai non importa ciò che gli altri possono pensare di te, com’era nel mio caso.
«Non me lo aspettavo», replicai.
«In realtà neanch’io.»
La contemplai come il firmamento misterioso, perché non capivo come qualcuno possa essere sorpreso dai propri atti consci. Sarà vero che il nostro cammino è scritto e che niente ci può allontanare da esso? Le presi una mano e le dissi alla maniera di Alien: «Non importa se ti sbagli o no. È una cosa che riguarda soltanto il futuro e il futuro adesso non è qui, non esiste».
Disse: «Ti ammiro, sul serio. Non ho conosciuto nessuno della tua età che sia come te».
«Io neppure ho conosciuto nessuno come te, davvero.»
Era un fatto che avevamo assunto un atteggiamento tenero, una tenerezza per me dolorosa perché era fraterna, appiccicosa, quella tenerezza che non porta a baci, abbracci eccetera, ma che resta contenuta in sé stessa indebolendo quello che trova al suo passaggio. Mi avvicinai a lei e le sfiorai la guancia con la mia. Non l’avevo mai avuta così vicina, neppure quando l’avevo abbracciata. Non l’avevo mai annusata. I suoi capelli mi toccarono la fronte. Era un altro mondo. Mi mise le mani sulle braccia e le sfiorai le labbra con le mie. Lei mi allontanò dolcemente.
«Saremo sempre amici», disse.
«Certo», risposi io.
«Sono preoccupata per Eduardo. Adesso resterà da solo con i miei genitori. Sono preoccupata anche per mia madre, che resterà da sola con Eduardo e mio padre.»
Mi venne in mente che forse Tania si sposava per fuggire da tanta solitudine.
«Ti sposi con quello che ha vent’anni più di te?»
Fece cenno di sì con la testa.
«Presto lo conoscerai. È un tipo interessante. Lo trovano tutti molto affascinante.»
Non volevo conoscerlo e non volevo che lei si sposasse, come quando ero piccolo e non volevo che facesse freddo né che mio padre fosse già uscito quando mi alzavo per andare a scuola.
«Mi dispiace tanto che ti sposi», dissi.
«Promettimi che terrai d’occhio Eduardo. Sei il suo migliore amico. Lui si fida di te, e anch’io.»
Lanciai un’occhiata a tutto ciò che mi circondava per trattenere il momento.
«È meglio che entriamo», concluse, e invece di baciarmi sulla guancia mi baciò sulla bocca, dando per scontato che i nostri baci sulla bocca fossero puramente amicali.
La cameriera mi chiese se mi sarei fermato a cena, e subito dopo entrò Eduardo, la cui espressione contrariata si espandeva per tutto il salotto. E poi tutti e quattro, Edu, Tania, la cameriera e io, rimanemmo a guardare Marina che avanzava verso di noi in camicia da notte. I capelli biondi e ondulati le arrivavano fino alle spalle. Le mutande e le cosce si vedevano in trasparenza e io distolsi lo sguardo. Lo posai sul viso per non essere scortese e non smettere di guardarla del tutto. Sembrava che cercasse qualcosa nella stanza con lo sguardo.
«Ha chiamato?» chiese.
Di fronte al mutismo di Edu e Tania – il mio non contava – parlò la cameriera: «No, signora. Non ha chiamato nessuno tutto il giorno».
Tania aggiunse: «Per favore, mamma, smetti di pensare a lui. Sai benissimo che non gli succede mai niente».
«Lo so», rispose Marina. E si mise a piangere.
«Se piangi, me ne vado anch’io», disse Edu. «Io però me ne andrò per sempre.»
Tania mi sussurrò con le sue meravigliose labbra rosse: «Sono due giorni che non abbiamo notizie di mio padre. Non è la prima volta».
Non mi veniva in mente nessuna giustificazione, non sapevo cosa dire. Per me la vita del Veterinario era misteriosa quasi quanto quella di mio padre. Dissi che dovevo andare via. Non amavo Tania al punto tale da rimanere in quel posto. Quando chiusi la porta nera con la targhetta dorata fu come se mi fossi svegliato: l’aria fresca, il traffico lontano dell’autostrada. La pensilina dell’autobus, gente normale che si lamentava del servizio, le luci che si estendevano come un mare di stelle. Mi sarebbe piaciuto che anche in quel mondo reale fosse esistita la bocca di Tania così vicina alla mia.
Mia madre fu molto contenta di sentire quello che avevo da raccontarle.
«Perciò sono due giorni», disse con una delle sue espressioni più allegre. «Poverina», continuò. «Starà passando le pene dell’inferno. Dici che è uscita in camicia da notte? Povera donna. Diventa più brutta ogni giorno che passa.»
Per vedere fin dove sarebbe arrivata, le raccontai che la cameriera mi aveva invitato a rimanere per cena e che chiamava Marina «signora» con autentica venerazione.
«Quando siamo venuti a vivere qui, ancora non camminavi. Ti portavo in passeggino dappertutto. Passavo ore e ore a fare giri all’Híper per distrarti. Le commesse ti conoscevano e ti davano le caramelle, ma io te le toglievo di nascosto perché non volevo che diventassi obeso.»
Rimasi ad aspettare che finisse, che collegasse in qualche modo quel discorso al mio. Però tagliò lì la conversazione, si mise un grembiule sui fuseaux e cominciò a preparare le uova strapazzate. Mentre cucinava, si lasciò andare a una risatina.
A quel punto le dissi: «Tania, la sorella di Eduardo, si sposa».
«Bene, e a te che importa?»
Feci spallucce. Improvvisamente la visione della cyclette in salotto, di fronte alla televisione, mi risollevò. I polpacci che si vedevano sotto i fuseaux di mia madre. Misi la musica. Lei tirò fuori una bottiglia di vino da dieci euro e due calici.
«Sei il ragazzo più bello del mondo», disse.
Risi molto perché mi serviva che qualcosa dello stomaco mi uscisse dalla bocca e non il contrario. Anche lei rideva tutta contenta. In casa del vicino cominciò il trambusto della pulizia notturna e i latrati sporadici di Ulises.
«Oggi iniziano prima», commentò mentre continuavamo a ridere, il calice della sua maestosa cristalleria nella mano alzata che brillava sotto la luce granata.
Non sapevo più se fingere di incontrare casualmente Tania. Da quando sapevo che stava per sposarsi avevo un po’ smesso di interessarmi a lei e anche al povero Hugo. Il povero Hugo era l’essere per cui provavo più pena perché viveva in una casa di distratti, dietro ai quali lui si affannava senza che loro gli prestassero la minima attenzione, e quella immagine mi disgustava. Cercai di concentrarmi sullo studio e sullo sport. Qualche volta, quando a Mister Gambe passò la paura, tornai anche a correre con lui. Ci lanciavamo contro il freddo, in direzione opposta alle macchine che sfrecciavano accanto al sentiero. Dalla sua bocca uscivano sbuffi di vapore bianco, avanzavamo in salita a grandi falcate, il terreno spariva via via al nostro passaggio. Senza riuscire a trattenersi menzionava ancora la storia della morta, lo sorprendeva moltissimo non averne sentito parlare, che nessuno l’avesse vista, che nessuno avesse detto niente. Avrei potuto tranquillizzarlo molto facilmente, gli avrei restituito una certa allegria perduta, qualcosa della sua antica innocenza.
«Mi spaventa l’idea che sia tanto facile scomparire. Qualcuno la potrebbe stare cercando. Come può passare sotto silenzio una cosa del genere? Non so se mi capisci.»
«Lo capisco benissimo», replicai.
Le mie frasi non potevano essere ancora lunghe quanto le sue. Se parlavo mi veniva subito l’affanno, non sapevo respirare bene come lui. All’inizio non vedevo neanche ciò che incontravo sul mio cammino, fase ormai superata perché adesso salutavo i conoscenti con la mano ed ero in grado di apprezzare le tonalità degli alberi che mi lasciavo alle spalle sui due lati, ogni volta a velocità sempre più sostenuta, e anche di fare caso ai cartelli delle villette in vendita e a quelli che annunciavano nuove costruzioni. Mister Gambe, con lo sguardo rivolto in avanti, si limitava a lasciarsi ammirare e a parlottare con me o al cellulare che si portava sempre dietro. A volte avevo l’impressione che parlasse con mia madre, e questo mi costringeva ad attardarmi o a superarlo per non sentire neanche una parola. Immaginavo, senza alcuna voglia di farlo, che probabilmente parlavano della palestra, dei pesi che sollevavano, si chiedevano se io mi sarei accorto di qualcosa o come incontrarsi senza che nessuno se ne accorgesse, e forse mia madre gli raccontava anche episodi della sua vita precedente al complesso residenziale, quando lavorava come una schiava nello studio dentistico del dottor Ibarra.
Avvolta in un camice bianco immacolato, faceva di tutto: pulizia dei denti, assistente alla poltrona, segretaria e contabile, tanto che quasi non aveva il tempo di uscire e le veniva una voglia irrefrenabile di piangere. Si può dire che un giorno mio padre passò di lì e si sposarono. Che mia madre si fosse sposata solo per avere a disposizione un po’ di tempo libero? Continuò ad aver voglia di piangere anche dopo aver lasciato quel lavoro? Non aspettò neanche il tempo prescritto per farsi dare la liquidazione che le spettava. Non appena seppe che poteva uscire di lì, non riuscì più ad aspettare. Teneva da parte il camice come ricordo, e in alcune occasioni in cui lo aveva trovato tuffandosi in sacchi pieni di abiti passati di moda, se lo era messo.
«So tutto sui denti», diceva. «Avrei dovuto decidermi a iscrivermi all’università per poi aprire uno studio mio. A quest’ora saremmo pieni di soldi.»
«Ma saresti schiava del tuo lavoro», le rispondevo io perché non si torturasse.
«Questo è vero», ribatteva lei mentre piegava il camice e lo rimetteva da parte con il resto del passato.
A me era sempre piaciuto che mi raccontasse in particolare cose del periodo anteriore alla mia venuta al mondo, nel quale già esistevano uno studo dentistico, un dottor Ibarra con gli occhiali tondi dorati che stava sempre a pulire con un fazzoletto bianco, e una ragazza giovane che senza saperlo sarebbe diventata mia madre. Il dottore probabilmente apparteneva a qualche ente religioso e, anche se non era un prete, doveva aver fatto voto di castità perché non lo si era mai visto con nessuna donna, non ne parlava e non sembrava neppure che gli piacessero i maschi. Buona parte di ciò che guadagnava sfruttando mia madre doveva andare a finire nelle casse di quell’organizzazione. Anche se aveva solo trent’anni e mia madre ventidue, la chiamava «figliola» e le dava sempre del lei: Mi passi l’anestetico. Le ha detto a che ora? Come sta, figliola, ha trascorso un buon fine settimana?
Quando il dottore partiva per qualche congresso e mia madre rimaneva sola nello studio per fare le pulizie e fissare gli appuntamenti, aveva qualche sprazzo di felicità. Si sentiva padrona dell’ambulatorio e dei pazienti, il sole entrava copiosamente dai grandi finestroni dell’appartamento e la pace era totale. Lo studio del dottore, con tutti i titoli e i diplomi incorniciati e attaccati alla parete, rimaneva in penombra e in silenzio. Il cuoio della poltrona conservava il suo odore caratteristico, un buon odore di profumo costoso che la faceva deprimere perché le ricordava il lei, i cerchi dorati degli occhiali e tutte quelle terribili formalità che la facevano rimpicciolire nel suo camice chiuso fino all’ultimo bottone.
Spero che si trovi bene qui. Non so cosa farei se se ne andasse.
Perciò provò un comprensibile piacere nel comunicargli che le dispiaceva molto, ma doveva lasciarlo perché stava per sposarsi. Lui le chiese se ci avesse pensato bene. Lei mi sembra molto giovane, affermò. E mia madre rispose che non c’era niente da pensare perché aveva incontrato un uomo meraviglioso, e in quel momento le sembrò di notare un po’ di sconcerto nello sguardo del medico. Io avevo sempre partecipato con entusiasmo a quel momento di trionfo di mia madre. Allora spero che sia felice e tutte le cose che si dicono di solito in queste occasioni, concluse quel pezzo di cretino.
Una volta le avevo chiesto con un pizzico di ingenuità perché la infastidisse così tanto.
«Che ti aspettavi da lui? Era solo lavoro.»
«Volevo che mi trattasse come un essere umano.»
«Non lo so, di certo non ti trattava come un cane.» E in quel momento avevo in testa il comportamento di Edu con il povero Hugo: non è che lo picchiasse, ma non lo portava neanche fuori a passeggio, non lo accarezzava e non gli prestava attenzione.
«L’ho lasciato nei guai con lo studio. Che vada al diavolo», disse, il passato ancora così vivo che rendeva presente il suo odio.
«Se lo incontrassi per strada, non lo riconosceresti.»
«Lo riconoscerei eccome, stanne certo.»
«Magari adesso non porta più gli occhiali a cerchi dorati ed è diventato calvo.»
«Era già piuttosto calvo.»
«Ah be’, che tipo.»
«Ma aveva delle braccia molto forti. Non aveva problemi a cavare i denti. Mani e braccia da togliere il fiato.»
Trovavo che Mister Gambe fosse incapace di interessarsi a questi aspetti della vita di mia madre, e tantomeno di capirli, però, frequentandosi da molto tempo, dovevano aver necessariamente messo da parte la stretta attualità e dovevano aver fatto cenno alle loro vite passate, compresa l’infanzia, della quale c’è sempre tanto da dire. Eppure, se adesso dovessi raccontare la mia, non mi verrebbe in mente niente, come se la mia infanzia ancora non esistesse. E se Mister Gambe, a cui piaceva tanto chiacchierare, le raccontava la sua? Magari stava intossicando mia madre con il suo veleno sentimentale.
In realtà mi costava fatica immaginarlo mentre ricordava il passato. Ero quasi certo che l’episodio più lontano nella sua memoria fosse la morta del lago. I suoi discorsi si riferivano sempre al presente: «Per Pasqua vogliamo andare sulla Sierra Nevada. C’è chi non sa sciare, ma io glielo dico sempre che si impara subito e poi non si dimentica, è come andare in bicicletta. Il problema è l’attrezzatura. Alcuni non hanno intenzione di comprarla perché non sanno se sciare gli piacerà. Gli sci e gli scarponi si possono noleggiare, per il resto dovremo andare raccattando un paio di pantaloni qui, una giacca a vento lì. Ci arrangeremo come meglio potremo».
Gli piaceva tantissimo pianificare fine settimana con i suoi allievi e le sue allieve, gite nelle quali era inclusa quasi sempre anche mia madre che di solito non tornava molto entusiasta, come se in quelle occasioni lui non le prestasse molta attenzione. Probabilmente non voleva farsi sfuggire altre possibili opportunità.
«Perché non vieni sulla Sierra Nevada?» mi chiese. «Ci saranno anche dei ragazzi della tua età.»
Gli spiegai che mi faceva inorridire il pensiero di andare in giro conciato come uno spaventapasseri. O ero all’ultima moda o niente. Già lo vedevo fare le sue maestose curve a esse sulla distesa bianca e tersa della montagna. La tuta che fluttuava contro l’aria azzurra e la purezza del cielo.
«Senza un’attrezzatura decente io non vado da nessuna parte», ripetei.
Non insistette, rimase forse a pensare dove trovarla. Io a mia volta pensai che si stava stancando di mia madre e che la mia presenza alla stazione sciistica lo avrebbe liberato da lei. Avevo l’impressione che tra il regalo della tenuta da footing, il completo di Capodanno e una possibile attrezzatura per lo sci i motivi fossero abbastanza cambiati. Continuavo a essere felice di non avergli rivelato il segreto della morta del lago, che portasse sulla coscienza qualcosa che poteva condividere solo con mia madre e con me. E perché non se lo dimenticasse, di tanto in tanto, buttandola lì di punto in bianco, gli chiedevo se fosse andato di nuovo al lago e, come già presumevo, rispondeva di no scuotendo la testa con il gran peso del suo unico e limitato ricordo.