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L’uomo, imprecando in continuazione a mezza bocca, percorreva in un ininterrotto andirivieni l’esiguo spazio della stanza e rifletteva febbrilmente sull’immediato da farsi. “Come accidenti devo comportarmi, adesso?” si chiese. Dannazione, aveva creduto di aver appianato ogni complicazione, togliendo di mezzo Agostina, e invece... L’ira gli fece ribollire il sangue, mentre nel cervello gli si accavallavano caotici pensieri. Doveva prendere una decisione, si disse, agire in fretta e senza indugi, o era spacciato. Il cappio poteva chiudersi su di lui inesorabilmente, lo sentiva d’istinto, bloccandogli qualsiasi opportunità di salvezza.

Aveva commesso due gravissimi errori: il primo nel sottovalutare quel paio di bastardi che conducevano le indagini, tanto sempliciotti in apparenza ma in realtà scaltri e astuti come il demonio; il secondo nel sopravvalutare la sua buona stella. Corrispondeva al vero, poi, che quella sgualdrina lo aveva visto, o si trattava di un bluff per costringerlo a uscire allo scoperto? Informazioni di prima mano non poteva raccoglierne perché quel tipo di domande avrebbero attirato sulla sua persona sospetti che era meglio evitare, ma a quel punto, comunque stessero le cose, bisognava scongiurare in ogni caso la possibilità che, in un modo o nell’altro, risalissero a lui. Aveva fatto acrobazie incredibili per schivare il magistrato e il suo assistente e, grazie alla provvidenziale sparizione di Ruperti, quando già paventava di venir chiamato da quel pittoresco duo di sbirri, le deposizioni erano state sospese, permettendogli di tirare il fiato e di rilassarsi in attesa dell’evolversi degli eventi. Quella tregua si era bruscamente dissolta con la sgradevole novità che gli era alle orecchie, e se l’indomani mattina tutti coloro che risiedevano nel castello fossero stati radunati nel salone per un confronto con la donna, poteva essere la fine se lei l’avesse riconosciuto. La sola idea gli fece rizzare i capelli in testa. Quell’eventualità comportava il fallimento di progetti lungamente coltivati, studiati con meticolosa accuratezza, facendoli sfociare in un epilogo che lo atterriva: quello di pendere da una forca.

Bestemmiando, rabbioso come una belva in gabbia, si sforzò di ragionare freddamente, per trasformare la sconfitta in una vittoria clamorosa. Il fallimento del piano iniziale lo aveva messo nelle condizioni di non poter far nulla, al momento, se non attendere pazientemente che le autorità di polizia sloggiassero consentendogli di andarsene a sua volta indisturbato. Con uno scopo ben preciso da realizzare, tutt’altro che scoraggiato per come era naufragato ciò che aveva sperato di ottenere, doveva elaborare qualcosa di nuovo alla svelta. Per farlo gli era indispensabile starsene per conto suo, sottraendosi a qualunque distrazione. Quella tegola del confronto gli era piombata proprio allora tra capo e collo, mandando nuovamente in malora i suoi piani e spingendolo a rimediare come poteva. Non gli piaceva improvvisare, ma non gli lasciavano scelta. Finora si era mosso bene, e se escogitava un modo per levarsi da quell’impiccio dai risvolti disastrosi, probabilmente avrebbe potuto cavarsela superbamente. Abbandonare il castello non era davvero il caso, poiché la sua fuga sarebbe stata come un indice puntato su di lui, e anche ipotizzando di farla franca, che razza di esistenza sarebbe mai stata, la sua? Miserabile, precaria e breve, perché le autorità di polizia lo avrebbero ricercato dovunque, mettendo magari una taglia sulla sua testa. Alla fine, stanco di avere il loro fiato sul collo e di essere braccato, se non lo avessero acciuffato si sarebbe arreso per sfinimento. No, era una prospettiva inaccettabile! Morire per morire, preferiva sfidare ancora una volta la sorte, piuttosto che assoggettarsi a essa passivamente, subendone le fatali conseguenze.

Aveva predisposto di occuparsi di Alviero Laurenzi di lì a un po’, quando le acque si fossero calmate, ma l’impellente necessità di tirarsi fuori dei guai gli imponeva di provvedere a lui subito, senza concedergli né concedersi ulteriori dilazioni. Il suo improvviso, insperato arrivo al castello era un magnifico colpo di fortuna, una di quelle irripetibili chance che capitano una sola volta nella vita e rappresentava il suo asso nella manica. Se giocava con abilità quella carta, l’unica che gli fosse rimasta, forse poteva farcela. Doveva osare il tutto per tutto, ormai, dato che le circostanze gli forzavano la mano, e correre quel rischio.

Recuperata la padronanza di sé, l’uomo preparò l’occorrente per sbarbarsi e riflettendo sul piano che andava delineandosi nella sua mente, si rasò con cura. Terminato che ebbe, si rimirò soddisfatto nello specchio incrinato appeso alla parete, annuendo a se stesso, poi, come se compisse un rito, aprì le ante dell’armadio e spostò lateralmente gli indumenti appesi, fissando con compiacimento la paratia di legno a ridosso del muro. Quella stanza era di per sé una seconda, preziosa chance, pensò: isolata, confinante con l’ala est dell’edificio, praticamente abbandonata, aveva altresì l’incommensurabile pregio di custodire, ignorato, uno degli accessi al passaggio segreto. Lo aveva scoperto il primo giorno che vi era entrato, allorché, sistemando gli effetti personali nel mastodontico guardaroba, uno spiffero gelido lo aveva colpito in piena faccia. Non gli era occorso granché per capire da dove proveniva e, entusiasta, lo aveva ispezionato palmo a palmo nel corso di molte lunghe notti. Dubitava che i precedenti occupanti di quella camera se ne fossero accorti, o forse in quel buco umido e inospitale non ci aveva voluto stare nessuno. Lo avevano lasciato vuoto finché lui, indifferente al fatto che lo alloggiassero lì o altrove, non aveva sollevato proteste quando glielo avevano assegnato. In verità, gli andava benone perché era fuori mano e incredibilmente adatto ai propri scopi, come in effetti si era dimostrato. Il rinvenimento del passaggio segreto era stato poi il dulcis in fundo, e aveva doverosamente ringraziato la dea bendata per la generosità che mostrava nei suoi confronti. Avendone l’agio, aveva percorso quei cunicoli uno dopo l’altro, servendosi di una lanterna, per vedere dove portavano, e l’esperienza si era rivelata istruttiva e proficua. Ci si poteva perdere, naturalmente, giacché si intersecavano tra loro formando un vero labirinto, ma non lui. Gli tornava utile, ora', l’aver sacrificato il sonno e ogni minuto libero nell’esplorazione, e si congratulò tra sé e sé, mentre si annodava i folti capelli neri in un sobrio codino sulla nuca. Aveva disegnato una mappa rudimentale ma esatta del passaggio segreto e sapeva come arrivare fino a quella cagna traditrice e al di lei marito, beffando gli sbirri che la sorvegliavano a turno.

Ruperti doveva essere rintanato in qualche oscuro angolo del castello, ovviamente, ma quell’individuo era l’ultima delle sue preoccupazioni, e se solo avesse avuto la temerarietà di attraversargli la strada, non avrebbe avuto alcuna esitazione a eliminarlo come un insetto molesto, anche se di quell’idiota gli importava poco.

Gli premeva solo mettere definitivamente a tacere quella vipera. Un confronto! Figuriamoci! Assottigliando gli occhi chiari fino a ridurli a due schegge di vetro, si ripromise di farle rimpiangere di aver ficcanasato dove non avrebbe dovuto. Oh, sì, le avrebbe tappato la bocca per sempre, ma prima di stringerle le mani attorno al collo, facendole sputare l’anima, le avrebbe ucciso il suo bel marito sotto gli occhi con gusto perverso, spiegandole frattanto un mucchio di cosette interessanti. Nessuno degli occupanti del castello immaginava di cosa lui era capace, meno che meno i coniugi Laurenzi; li avrebbe colti di sorpresa, indubbiamente, spiazzando loro e i segugi che avevano alla porta. Quel pensiero gli strappò un maligno sorriso di trionfo.

Se avevano allestito una trappola per lui, sarebbero rimasti tutti quanti con un palmo di naso, si disse gongolante, infilandosi la camicia, soprattutto i due Laurenzi, i quali, convinti di non correre rischi, confortati dalla continua, vigile presenza degli uomini agli ordini del magistrato, non potevano subodorare che il pericolo si annidava dove meno se lo aspettavano, e che piombasse loro addosso attraverso un varco che si celava al di là di un grande specchio, posto nello spogliatoio tra le camere comunicanti. Quasi l’intero maniero era collegato tramite una diramata sequela di budelli, tortuose scale scavate nella pietra, basse e strette gallerie che consentivano, a chi ne era a conoscenza, di percorrerlo in lungo e in largo indisturbati. Probabilmente, quello straordinario lavoro di scavo era stato appositamente fatto per permettere l’evacuazione degli abitanti in caso di assedio, secoli addietro; aveva addirittura scovato uno sbocco che, dai sotterranei, portava oltre le mura di cinta, così da potersela svignare alla chetichella, soltanto che questo era stato murato, e sebbene aprirvi una breccia non presentava alcuna difficoltà, la posta in gioco era troppo alta per optare in extremis per la fuga. No, non sarebbe scappato come un delinquentello qualunque: da quel posto se ne sarebbe andato a testa alta, dall’ingresso principale, come giustamente gli spettava, ossequiato da entrambi i marchesi.

Ah, come era inebriante e dolce il sapore della vendetta, e quanto era sublime attuarla! Aveva atteso per tanto, tanto tempo quel momento e finalmente poteva cogliere il succoso frutto maturato durante tutti quegli anni. Ma era ormai ora di muoversi, pensò ancora l’uomo, controllandosi un’ultima volta allo specchio. Il sipario si stava alzando sull’epilogo di quel dramma e il protagonista doveva fare la sua comparsa in scena. Bene, era pronto, si disse con fredda efficienza, facendo scorrere silenziosamente la doppia parete dell’armadio. S’introdusse con agilità nell’apertura che c’era dietro, richiudendosi ermeticamente alle spalle le ante e il pannello. Non appena si fu assuefatto alle tenebre, si tuffò nel loro cupo abbraccio, scomparendo nelle misteriose viscere della rocca.