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— Questo è un abuso! Non potete trattenerci qui a forza! — Matilde Albisetti, che nessuno era riuscito a staccare dal fianco del marito durante la deposizione di questi al magistrato, era paonazza per l’indignazione. Lui, il remissivo consorte, sopraffatto dalle continue interferenze verbali della moglie, aveva potuto rispondere solo con stentati monosillabi alle domande di Ranaldi.
— Mio marito non è uno sfaccendato, sapete? — proseguì inviperita. — Ha degli affari dei quali occuparsi, e a casa abbiamo quattro figli in tenera età a cui provvedere, affidati a una bambinaia che attende il nostro ritorno già da diversi giorni. Diamine, come dobbiamo dirvelo che noi non c’entriamo nulla? Avete il colpevole, no? Impiccatelo e amen!
— Signora — cercò di calmarla Ranaldi, lanciando un’occhiata disperata a Egidio — non vi trattengo per un capriccio personale. Ci sono stati due delitti, e deve essere ancora provato che Gaetano Ruperti sia l’assassino, perciò mi aspetto collaborazione da coloro che erano presenti all’uccisione di Elena Sigismondi, non proteste...
La donna sbuffò irritata. — Noi, come vi ha ripetuto mio marito... vero, caro? non ci siamo accorti di niente, per cui, naturalmente, la nostra testimonianza non è determinante. È quindi ingiusto che per colpa di quella...
— Tesoro — interloquì a precipizio Odoacre Albisetti — calmati, te ne prego.
— Taci! — esplose lei, scoccandogli uno sguardo furente che zittì sul nascere il debole tentativo di lui di blandirla. — Io sono schietta — disse al magistrato — e non comincerò a mentire adesso!
— Mi sembra una bella cosa — approvò Ranaldi.— Già, e dato che dico sempre quello che penso, nessuno mi impedirà di riferire ciò che so.
— Cioè?
— Insomma, se quella stava al suo posto, invece di fare la civetta con ogni uomo che le capitava a tiro, forse sarebbe ancora viva! — sentenziò con perfidia.
— Matilde! — gemette il marito.
— Ci ha provato anche con lui — ribadì lei — ma c’ero io a vigilare, fortunatamente!
— Via — intervenne Ranaldi, deciso a troncare l’astioso sfogo della donna — non credo sia il caso di infierire... — Fu interrotto dal sopraggiungere di una delle guardie, che lo informò sottovoce che fuori dalla porta c’era il tale che aveva fatto da cavaliere a Elena Sigismondi durante la festa. L’interesse del magistrato si ridestò immediatamente, ma gli occorse parecchia diplomazia per liberarsi senza troppi danni di quell’arpia e del suo bistrattato coniuge, che la seguì mogio mogio.
Entrò un giovanotto alto e ben piantato, con una faccia bella e sfrontata sotto la parrucca incipriata, sontuosamente abbigliato in raso verde smeraldo, calzoni aderenti e un’aria da sfaccendato stampata a chiare lettere sui lineamenti leziosi. Ebbe un accenno di sorriso, mentre si avvicinava a Ranaldi, e gli occhi nerissimi guizzarono qui e là senza curiosità.
Il magistrato provò per lui un’istintiva antipatia. Aveva l’impressione che fosse uno di quei tipi tutta apparenza e niente cervello che passano la vita in cerca del modo migliore per sconfiggere la noia, vantandosi con cani e porci delle loro supposte prodezze amorose. A un gesto di Ranaldi si avvicinò a una delle sedie con un’occhiata di sufficienza a Egidio che, a un capo della scrivania, prendeva appunti di quanto veniva detto.
— Vi chiamate? — gli chiese il magistrato, scrutandolo di sopra gli occhialetti a mezzaluna.
— Filippo Bonis — si presentò amabilmente il cavaliere, abbozzando una riverenza prima di accomodarsi.
— Vi domando scusa se non ho aspettato la vostra convocazione, ma essendo l’ultima persona che ha parlato con Elena, forse potrei risultarvi più utile di qualsiasi altro ospite di Lavinia.
— Forse — si limitò a bofonchiare Ranaldi, mantenendo un atteggiamento impassibile. Lo aveva classificato d’acchito per ciò che era: un lazzarone privo di personalità come un vestito vuoto, e ne stava avendo la conferma. — Mi domando comunque perché, sapendolo, non mi abbiate contattato subito — lo spiazzò a bruciapelo.
Bonis, colto alla sprovvista, smise di sorridere vacuamente. — Oh, be’, ecco... io ero... uh, sconvolto, sì — borbottò, tastandosi nervosamente il panciotto. Estratta una tabacchiera, depositò un pizzico di polvere aromatica sul dorso della mano pallida e curata e lo inspirò da entrambe le narici, starnutendo poi graziosamente nel fazzoletto bordato di pizzo.
Ranaldi attese pazientemente che quel cerimoniale avesse termine, poi sollecitò Bonis con uno sbrigativo richiamo all’attenzione: — Avete testé dichiarato di essere rimasto insieme alla vittima fino al momento della sua morte.
— Sì, più o meno.
— Più o meno?
Sulla mascella di Bonis guizzò un muscoletto che tradì la sua tensione, e Ranaldi ne fu intimamente compiaciuto. Trattenendo un sogghigno, lo sollecitò a proseguire.
— Più o meno significa che sono rimasto con lei fino a pochi istanti prima del delitto, ma poi...
— Poi?
— Poi, da un momento all’altro, mi ha piantato in asso dileguandosi tra la gente che gremiva il salone. Cercava l’amica, m’è parso d’intuire, sfuggendomi proprio sul più bello.
Ranaldi aggrottò la fronte. — Ossia?
— Sentite, siamo tra uomini e comprenderete, senza dover scendere nei particolari, ciò che intendo. Per farla breve, quella donna mi aveva fatto ribollire il sangue, e speravo che la serata finisse in gloria, per esser espliciti.
— In parole povere, nel vostro letto — suggerì Egidio.
— Esattamente lì — Bonis si girò a lanciargli un sorrisetto complice. — D’altronde, mi aveva incoraggiato in cento modi e, corteggiandola da giorni, ero sicuro che saremmo finalmente arrivati al dunque!
Ranaldi aveva un’espressione disgustata. L’ultimo dubbio che l’uomo fosse un donnaiolo, e dei peggiori, era caduto. L’attività di dongiovanni doveva impegnare quel cialtrone a tempo pieno, e il suo aspetto frivolo si adeguava al suo stile di vita; abiti all’ultima moda, una frequentazione ininterrotta a ogni evento mondano accompagnandosi a signore altrettanto frivole, giocare tutte le notti perdendo cifre vertiginose e conoscere tutte le cose inutili. L’inquirente riteneva che fosse molto stancante condurre quel tipo di esistenza spensierata, ma tenne per sé l’opinione. Non erano affari suoi, dopotutto. — E invece la signora si è tirata indietro, eh? — disse con malcelata soddisfazione.
— Già — ammise l’altro sconsolato. — Ero riuscito a trascinarla in un cantuccio appartato, dove non ci avrebbero disturbato o interrotto, soltanto che, a un dato momento, lei ha voluto tornare nel salone a tutti i costi, con una scusa. Che potevo fare? Ho dovuto dargliela vinta, naturalmente. Be’, mi son detto speranzoso, riprenderemo il nostro tête— à— tête più tardi. Credevo volesse avvertire l’amica che era con me. Ho pensato anche che avesse voglia di partecipare alla mosca cieca. In ogni modo, l’ho persa tra la calca e, con quella baraonda, non sono stato più in grado di riacciuffarla.
— Avete notato qualcosa di strano, nel salone?
— Assolutamente no! Si divertivano come matti, erano su di giri come tutti quanti, ma nient’altro.
— E in precedenza, la Sigismondi vi aveva detto nulla d’insolito?
— Può darsi, benché non ci abbia fatto caso. Tuttavia l’ho sorpresa diverse volte a guardarsi attorno con... sì, ansietà, direi, come se aspettasse l’arrivo di qualcuno o tentasse di individuare qualcuno. — Scosse il capo e giocherellò con l’elaborato jabot. — Potrei sbagliarmi, naturalmente, ma ho avuto quella sensazione, tanto è vero che gliel’ho anche domandato, sapete?
— E lei?
— Ha borbottato che c’era un tale che la importunava da quando era giunta al castello, e non desiderava ritrovarselo vicino tenuto conto che eravamo mascherati. Le ho chiesto chi fosse...
— E...?
— Mi ha risposto che non poteva fare nomi senza averne la certezza, e non ho insistito, rassicurandola tuttavia sulle scarse possibilità che il tizio potesse infastidirla, finché stava con me.
— L’argomento, quindi, non è più stato sfiorato.
— No. Io avevo per la testa tutt’altro, e lei pure, suppongo. Ogni tanto lanciava un’occhiata all’amica, come se non volesse perderla di vista.
— Ed era lì, l’amica?
— Sì, o almeno c’era fino a quando noi siamo rimasti nel salone. Credo che fossero le due donne più belle presenti alla festa, e accaparrarmene una è stato gratificante!
— E come siete riuscito a distinguere l’una dall’altra, dato che indossavano costumi uguali?
— In effetti, sono andato alla cieca, inizialmente, ma la fortuna mi ha fatto scegliere quella giusta, grazie al cielo!
— Come sarebbe?
— Be’, con Elena era tutta un’altra cosa, posso ben dirvelo, mentre l’amica... — si strinse nelle spalle. — Non per disprezzare, ma era un po’ troppo riservata per i miei gusti e non incoraggiava di sicuro gli uomini a farle delle avances, con quell’atteggiamento altero. Comunque, una volta acchiappata Elena, non l’ho mollata più per non correre il rischio di confonderle.
— E che ne è stato della compagna abbandonata alla sua sorte?
— Ha danzato ininterrottamente, e questo non poteva che rallegrarmi, perché disimpegnava Elena dallo starle sempre accanto per non lasciarla sola. C’è un particolare che mi ha sconcertato, però, anche se può non essere importante.
— Quale?
— Spingendomi in un angolo, Elena ha preteso che le mostrassi il volto.
— E che spiegazione vi ha dato?
— Oh, è stata maledettamente evasiva, ma considerato che a me non costava granché esaudire quel capriccio, l’ho accontentata. Ma ero seccato. D’accordo che la conoscenza reciproca era recente, ma mi sembrava esagerato voler appurare chi fossi o non fossi.
— Riassumendo, dopo esservi appartati, la Sigismondi, mentre eravate intenti ad altre... amenità, ha voluto verificare se l’amica era sempre nel salone.
— Immagino che il motivo fosse quello, ma non potrei garantirlo.
— E c’era?
Bonis allargò le braccia. — E chi può dirlo? Io non ho più visto nessuna delle due, per la verità, e inoltre, di lì a una decina di minuti sono state spente le candele e, quando le hanno riaccese, Elena era già cadavere.
— E vi siete ben guardato dall’avvicinarvi, naturalmente.
Lui arrossì. — Io... non sopporto la vista del sangue — si giustificò. — Ero impietrito e avevo bevuto parecchio, per cui non connettevo lucidamente. Le persone che avevo intorno possono in ogni caso testimoniare che ero all’altro capo del salone. Potete eventualmente esaminare il costume, appurando voi stesso che non c’è neppure una macchiolina di sangue, a dimostrazione che non l’ho uccisa io.
— Nessuno vi sta accusando — puntualizzò con calma il magistrato.
Bonis recuperò la padronanza e, accavallando le gambe, disse ancora: — Forse può apparire assurdo che non mi sia accostato a una donna che avevo assiduamente corteggiato, ma ero inebetito. Non ho avuto neanche la presenza di spirito di porgere le condoglianze all’amica. Non mi ero mai trovato in una situazione simile.
Ranaldi cercò di dissimulare l’irritazione e annuì appena. — Ciascuno reagisce a modo suo — commentò.
— Certo posso comprendere che Elena Sigismondi fosse una preda molto ambita, e che vi dispiaccia enormemente che sia morta così.
— Potete dirlo! Non ero stato capace di averla tutta per me una sola volta, nei giorni precedenti. Era costantemente attorniata da un nugolo di ammiratori che se la contendevano, per questo ho sperato che finalmente fosse il mio turno, che avesse alla fine scelto me, dopo avermi tenuto sulla corda fino a quella sera.
— Un vero peccato che vi abbiano rotto le uova nel paniere, uccidendola.
— Sì, un vero peccato — sospirò Bonis.
Ranaldi gli rivolse qualche altra domanda, poi, dato che le risposte non portavano a nulla di sensazionale, lo congedò con maniere sbrigative.
— Che stucchevole zerbinotto — disse a Egidio allorché furono soli. — Che ne pensi?
— Che è un farfallone vanesio e innocuo, oltre che un vigliacco. Ha avuto paura di compromettersi, ecco perché non si è avvicinato al cadavere della Sigismondi!
— Potrebbe saperne di più e tacerlo?
— No, non credo. È troppo pieno di sé per aver tempo e voglia di curarsi del prossimo, a meno che non siano donne, nubili o trascurate dai mariti.
Ma quei costumi identici — rifletté Ranaldi a voce alta con espressione assorta. L’irruzione nella stanza del valletto e della guardia addetti alla sorveglianza di Ruperti gli impedirono di continuare. — Che diavolo succede? — esclamò, scattando in piedi contemporaneamente a Egidio.
I due intrusi si misero a parlare all’unisono, gesticolando. Il magistrato picchiò il pugno sul ripiano della scrivania e li zittì di colpo. — Uno alla volta! — ordinò.
— Il prigioniero è scomparso — ripetè la guardia, strusciando innervosito i piedi.
— Come, scomparso?! — sbottarono a una sola voce Ranaldi e il suo assistente.
— Ha chiesto di conferire con voi — spiegò l’uomo— poi, mentre lo stavamo accompagnando qui, all’im— provviso si è infilato in una delle stanze e si è barricato dentro. Quando infine siamo riusciti, a forza di spallate, a far saltare la serratura, Ruperti non c’era più.
— Non c’era? — la faccia del magistrato era sbalordita. — Come sarebbe?
— Sparito. Volatilizzato! — dichiarò il valletto.
— Ma è inconcepibile! — sbraitò Ranaldi, paonazzo per la collera.
— Eppure è quello che è accaduto — ribadì la guardia.
— L’avete cercato?
— Dappertutto, eccellenza — assicurò il valletto, sudando freddo sotto l’occhiata furibonda dell’inquirente— senza alcun risultato. E' come se si fosse dissolto nell’aria.
— Non diciamo scemenze! — tuonò Ranaldi. — Che accidenti significa “dissolto nell’aria”? Si sarà pur cacciato da qualche parte, no? Cos’è, un fantasma, per scomparire così?
— Può sembrare inverosimile, ma è realmente svanito nel nulla, signore.
— E dov’è finito?
— Non riusciamo a capirlo.
— Non si sarà calato dalla finestra, per caso?
— No, è da escludere, eccellenza. Era chiusa, e, per di più, è a un’altezza molto elevata dal cortile. Si sarebbe sfracellato se avesse tentato di squagliarsela di lì. Siamo di fronte a un mistero bello e buono.
— Ma è roba dell’altro mondo! Un uomo non può attraversare i muri e dissolversi come uno spettro!
— È quello che ci siamo detti, ma è scomparso proprio in quel modo.
— No, deve esistere una spiegazione plausibile, e intendo scoprirla.
— Eccellenza... — balbettò la guardia mortificata — non è colpa nostra.
— Vi dico una cosa — sibilò Ranaldi, ergendosi sulle corte gambette — voglio che Gaetano Ruperti venga ritrovato seduta stante o ritengo voi due responsabili dell’accaduto. È chiaro?
— Ma...
— Trovatelo, capito?
— Abbiamo capito, sì, ma non sappiamo raccapezzarci su dove possa...
— Non m’interessano le vostre obiezioni! — esplose il magistrato. — M’interessa riavere quell’uomo, perciò non rimanete a ciondolare oltre e filate a cercarlo!
I due non se lo fecero ripetere e riguadagnarono l’uscita velocemente.
— Sparito! Volatilizzato! Ah, Gesù, cosa mi tocca sentire! — smaniò Ranaldi, agitando esasperato le mani. — Non ci avevo quasi parlato, con quel Ruperti, e adesso quel paio di idioti se lo son fatti scappare da sotto il naso!
— Non alteratevi, capo, tanto non serve a niente — lo placò Egidio. — Da qui non può comunque andarsene. A meno che non esistano passaggi segreti e lui, conoscendoli, non se ne sia servito — terminò accigliato.
— È proprio ciò che temo — convenne il magistrato.
— In ogni caso, gli ingressi sono sorvegliati, ed è praticamente impossibile che possa svignarsela. Comunque, per scrupolo, basterà tenere gli occhi aperti e raddoppiare la vigilanza piazzando uomini soprattutto all’esterno. Inoltre, potremmo convincere il marchese a sollecitare la collaborazione delle guardie e degli ospiti e, con il loro contributo, organizzare una perquisizione a tappeto dell’edificio.
— Hai una pallida idea di quale impresa sia? — obiettò Ranaldi. — Il castello è un immenso labirinto di stanze, sale, gallerie. E non dimentichiamoci del dedalo di cunicoli che si diramano nelle cantine e nei sotterranei. E ci sono anche gli abbaini e chissà cos’accidenti ancora! Ruperti può avere a disposizione infinite vie di fuga, ragazzo mio — trasse un sospiro avvilito. — Ma hai ragione, possiamo almeno provare... — si grattò il mento. — Sospendiamo tutto quello che non è urgente, Egidio, e diamo priorità assoluta alle ricerche di Ruperti. Benché non lo ritenga colpevole, va scovato, dovessimo mettere sottosopra questo cumulo di pietre. Se non altro, per non creare panico tra la gente che stiamo trattenendo qua dentro, e che lo reputa tale.
— La notizia che ci è sfuggito getterà effettivamente in subbuglio gli ospiti, ma, diamine, siamo tanti e lui è solo, non dovrebbe essere difficile scoprire dove si nasconde.
— Speriamolo — auspicò dubbioso il magistrato, dirigendosi alla porta. La spalancò proprio nel momento in cui passava Alviero Laurenzi, diretto verso il piano inferiore. Il barone rivolse loro un sobrio cenno di saluto, proseguendo a passo spedito lungo il corridoio.
— Egidio — sussurrò Ranaldi — seguilo e tienilo occupato per un po’. Vorrei approfittare della sua assenza per scambiare due parole a tu per tu con la moglie, giacché ne ho l’occasione. Appena puoi, cerca di comunicare al marchese quello che è successo, magari trascinandoti dietro Laurenzi finché non mi vedi ricomparire, intesi?
Il giovane annuì, si affrettò a raggiungere Alviero e ad affiancarsi a lui, intrattenendolo affabilmente con la sua brillante conversazione mentre Ranaldi imboccava le scale per salire da Barbara.