16

Alviero piombò in biblioteca immediatamente dopo aver saputo dalla moglie gli ultimi sviluppi della faccenda. Era fuori di sé non si perse in convenevoli.

— Che diavolo avete intenzione di fare? — assalì Ranaldi in tono tagliente, fronteggiandolo con occhi che erano due schegge di ghiaccio. — Voi non avete il diritto di esporre Barbara a un rischio del genere!

— I rischi sono calcolati, barone, e, come avrete notato, vostra moglie è tenuta costantemente sotto stretta vigilanza — tentò di calmarlo il magistrato. — Non possiamo evitare di usarla come esca, e dovete sforzarvi di comprenderlo.

— Storie!— sbraitò Alviero. — Lei è ancora sconvolta e non si possono pretendere eroismi da una donna in quello stato!

— Sì, è vero, ma è la sola carta che abbiamo in mano per poter snidare l’assassino.

— E se vi giocasse tutti e arrivasse fino a lei? Avete una pallida idea di quale labirinto sia questo castello? Ottavio Scaringelli mi ha informato che ci sono un’infinità di posti dove ci si può nascondere senza venire scoperti.

— Abbiamo la situazione sotto controllo — dichiarò Ranaldi.

Alviero piegò le labbra in una smorfia beffarda. — Davvero? Se è così, com’è che non siete ancora riusciti a riacciuffare Ruperti? La verità, signori, è che siamo imbottigliati qua dentro, assassino compreso, e non ho neppure la consolazione di sapere mia moglie al sicuro dalle ritorsioni di quel sanguinario individuo, grazie a voi!

— Come potrà farle del male, tenuta d’occhio com’è? — intervenne Egidio.

— Voi tenetevi alla larga da me, subdolo sbirro! — Alviero gli lanciò un’occhiata astiosa. — Mi avete raggirato con le vostre belle chiacchiere, mentre il vostro superiore, approfittando della mia assenza, estorceva informazioni a mia moglie! Lo trovo, a dir poco, scorretto.

— Si è reso necessario — si giustificò Ranaldi, intromettendosi. — Voi sembravate piuttosto refrattario a lasciarci soli con la signora, e abbiamo dovuto...

— Ricorrere ai sotterfugi — lo interruppe freddamente lui. — E nonostante foste perfettamente al corrente di quanto sia debilitata. Mi complimento per la delicatezza che le avete riservato!

Sferzato da quelle accuse fondate, il magistrato si mostrò dispiaciuto. — Vi domando scusa, barone, per aver agito senza il vostro consenso, ma farne un dramma mi pare eccessivo. Inoltre, se vostra moglie si fosse rifiutata di ricevermi, me ne sarei andato immediatamente, ve lo assicuro. In quanto a Gaetano Ruperti, finiremo per scovarlo. Il marchese è convinto che suo cugino conoscesse dei passaggi segreti, e che se ne sia servito.

— Sì, me lo ha riferito, ed è questo che mi fa paura. Ora, ne avrei un po’ meno se si scoprissero questi meandri e chi vi si cela.

— Il problema, barone, è che le antiche documentazioni riguardanti la costruzione originale del maniero sono andate distrutte in un incendio, e quindi occorrerà ispezionare palmo a palmo l’edificio per trovarne l’accesso.

— E cosa accidenti si aspetta per procedere?

— Dato che voi rimanete costantemente vicino a vostra moglie, forse ignorate che è già stata operata una prima ricognizione — puntualizzò Egidio.

— Che evidentemente non ha portato a nessun risultato — sbuffò Alviero. — O sbaglio?

— No, purtroppo — ammise Ranaldi.

— Ah, la vostra efficienza è davvero confortante — fu l’ironico commento del barone.

— Fare del sarcasmo è fiato sprecato — sbottò seccamente il magistrato — e comunque siamo corsi ai ripari in un altro modo.

— Quale? — volle sapere Alviero.

— Sembra che poco lontano di qui abiti un vecchio servitore degli Scaringelli che potrebbe essere più ferrato degli stessi marchesi sull’ubicazione di questo passaggio segreto. Abbiamo spedito due domestici a prelevarlo e dovrebbe essere qui in giornata.

— Resta in ogni caso il fatto che Ruperti potrebbe non essere l’assassino, e che quello vero continui ad aggirarsi indisturbato, a rischio e pericolo di mia moglie — ribadì il barone. — Rischi e pericoli che voi due avete aggravato, spargendo sconsideratamente la notizia che lei ha visto costui. C’è di che stare allegri, no?

— Non siamo degli inetti! — Ranaldi, aggrondato in volto, cominciava a perdere la pazienza. — Lasciateci svolgere il nostro lavoro, barone, evitando di crearci ulteriori intralci. Vi assicuro che non dovete temere per l’incolumità di vostra moglie.

Alviero gli oppose un cipiglio dubbioso, dettato più dall’apprensione che da reale sfiducia nelle capacità del magistrato e del suo giovane assistente. Pur riluttante ad ammetterlo, riteneva Ranaldi una persona competente e Qon sufficiente esperienza per risolvere il caso. Si capiva che era meticoloso e pignolo, un tipo a cui non sfuggiva una virgola, ma erano le circostanze e il luogo particolare nel quale erano obbligati a muoversi a destare le sue perplessità e i suoi timori. Il castello offriva mille ricettacoli ove nascondersi, dai sotterranei alle soffitte, e la minaccia poteva celarsi ovunque. Lui poteva tenersi alle costole di Barbara come un segugio, e gli uomini di Ranaldi potevano piantonare la camera giorno e notte, ma sarebbero state precauzioni sufficienti? Se esistevano dei passaggi segreti, chi poteva escludere che, oltre a Ruperti, anche altri li conoscessero, assassino incluso? In tal caso, chi avrebbe potuto impedirgli di utilizzarli per raggiungere e mettere a tacere Barbara?

— L’unica cosa da fare — riprese il magistrato — è vigilare costantemente, collaborando insieme. — Guardò Alviero con espressione eloquente soggiungendo: — E, naturalmente, è indispensabile mantenersi calmi e lucidi, barone...

— Come se fosse semplice!

— Se nessuno si farà prendere dal panico — insistette Ranaldi — sono certo che tutto si risolverà nel migliore dei modi.

— Me lo auguro — bofonchiò Alviero avviandosi alla porta. Aveva già afferrato la maniglia quando, voltandosi a metà, domandò ancora: — Oggi ci saranno le esequie di Elena Sigismondi, credete sia opportuno che mia moglie vi partecipi? Non sarebbe più prudente farla restare in camera?

— Mi sembra una cautela esagerata, barone. Dopotutto, ci saranno molte persone attorno a lei, cosa mai potrebbe accaderle? Non bastasse, voi sarete al suo fianco, suppongo, e dubito che permetterete a chicchessia di accostarsi a lei più di tanto.

— Potete scommetterci! — dichiarò l’altro con espressione truce.

— E ancora, perché proibirle di dare l’estremo saluto a un’amica così amata? Vostra moglie ne sarebbe oltremodo addolorata se, per eccesso di zelo, le venisse vietato.

— Purché non si debba rimpiangerlo, sta bene anche a me — accondiscese Alviero a malincuore. Dopodiché, rivolto ai due un asciutto e formale cenno di saluto, abbandonò la stanza.

Ranaldi fissò con aria assorta la porta chiusa, chiedendosi come mai il barone Laurenzi non gli avesse accennato alla possibilità che la Sigismondi poteva essere stata semplicemente una vittima delle circostanze, mentre il vero obiettivo dell’assassino era probabilmente sua moglie. Forse lei aveva preferito tacerglielo per non angustiarlo maggiormente, ipotizzò perplesso. In effetti, vista la reazione di lui di poco prima, se avesse saputo ciò che sospettava circa quel delitto, avrebbe dato in escandescenze. Già, forse Barbara Laurenzi aveva i suoi buoni motivi per stare zitta, si disse ancora, anche perché, tutto sommato, certezze assolute di come si erano svolte le cose non ce n’erano.

La cerimonia fu breve e semplice. La piccola cappella era alquanto disadorna, benché Lavinia avesse depredato la serra di ogni fiore disponibile. La stagione era quella che era e miracoli non ne poteva fare neppure lei, purtroppo, si dolse con Barbara.

Non tutti gli ospiti intervennero, ma quelli che fecero doveroso atto di presenza apparivano abbastanza compunti. Ranaldi ed Egidio, appostati in fondo all’angusto locale, osservavano le persone assiepate nei banchi, e le loro diverse reazioni. L’unica che mostrasse sincero dolore era indubbiamente Barbara Laurenzi, il cui consorte le stava premurosamente accanto, tenendole un braccio attorno alle spalle scosse da singhiozzi silenziosi. Il resto della compagnia sembrava partecipare al rito più per obbligo che per vero cordoglio.

Elena Sigismondi non doveva aver lasciato molti rimpianti tra coloro che le erano stati amici, o da lei reputati tali, constatò con disappunto il magistrato, e quella consapevolezza era confermata dalle deposizioni raccolte nel corso dell’inchiesta. Volendo cavillare, aveva seminato più rancore che simpatie, specialmente tra le donne, che erano state esplicite nel manifestare ostilità nei suoi confronti, causata dal comportamento disinibito della defunta con i loro uomini. Le passò lentamente in rassegna, una per una, scuotendo malinconicamente il capo: fingevano rammarico, ma in realtà persino il fruscio delle voluminose sottane sembrava esprimere disapprovazione.

“E passi il civettare con gli scapoli” gli aveva detto con acredine una delle tante “ma fare gli occhi dolci agli ammogliati, solo qui al castello, le ha procurato più risentimenti di quello che lei stessa supponeva. Insomma” aveva concluso “non si dovrebbe dirlo, ma forse ha avuto quel che si meritava! Quando si provocano sfrontatamente gli uomini, compresi i mariti altrui, simili conseguenze sono prevedibili”.

Un’altra aveva dichiarato senza peli sulla lingua che, sorvolando sulla dubbia moralità di certe sfacciate che i guai se li vanno proprio a cercare, se la Sigismondi avesse osato fare una qualsiasi avance a suo marito, lei non ci avrebbe pensato su due volte a farla smettere senza buone maniere. “Grazie al cielo” aveva continuato “al mio Giacomo non ha dato fastidi, forse perché era un po’ troppo attempato per i suoi gusti, o forse perché ha capito che io non lo avrei tollerato!”

E così via. Le testimonianze non si discostavano granché l’una dall’altra, tanto che lui ed Egidio si erano domandati, più o meno seriamente, se non avessero sbagliato tutto nel dare la caccia a un lui piuttosto che a una lei. Dopo gli acidi commenti espressi dalle signore, si poteva essere inclini a dubitarlo, e a meno che queste si fossero accordate tra loro per ammazzarla, simili deposizioni non facevano testo.

— Avete notato quel tipo, signore? — Egidio lo toccò leggermente con il gomito, indicandogli un giovanotto alto e aitante che sembrava incapace di distogliere l’attenzione da Barbara Laurenzi, nonostante la presenza del marito. Ranaldi aggrottò la fronte e annuì. Era Gianmaria Sanvito, un parente della marchesa, se rammentava bene, e non era stato ancora sentito, tra questo e quel contrattempo. Avevano dato la precedenza alle ricerche di Gaetano Ruperti, ma dato che al momento erano in una fase di stallo, tanto valeva riprendere gli interrogatori con le persone che ancora non avevano fatto la loro deposizione.

Al momento della sepoltura di Elena Sigismondi, il barone Laurenzi dovette trascinare via la moglie a forza e, mentre il rimanente manipolo di persone assisteva alla tumulazione, Ranaldi andò in cerca di Sanvito, che si era eclissato al termine della messa funebre. Lo rintracciò in uno dei salotti del pianterreno. Giocava a picchetto con altri signori, i quali, notando l’aria poco amichevole del magistrato, posarono le carte e lo fissarono allarmati.

Ranaldi si accostò al tavolo e puntò lo sguardo su Sanvito. — Dovrei scambiare due parole con voi — lo apostrofò.

— Subito? — L’uomo sembrava contrariato.

— Subito — ribadì il funzionario in tono categorico. Non gli aveva mai parlato a tu per tu, e ne trasse una pessima impressione. Quegli occhi sfuggenti, quell’atteggiamento da padreterno e quei modi da signorotto lo urtarono profondamente. È borioso, sprezzante e scaltro, pensò, valutandolo. — Se volete seguirmi — aggiunse impassibile — ci sbrigheremo alla svelta.

Gianmaria si alzò di malavoglia e lo seguì con evidente riluttanza, l’espressione seccata di chi deve lasciare cose piacevoli per altre che non lo sono.

Ranaldi lo precedette fino alla biblioteca e gli fece cenno di accomodarsi, mentre lo studiava apertamente. Si reputava un buon conoscitore di uomini e ravvisava in quel bel tomo il tipo dissoluto, il classico rampollo viziato che sperpera al gioco e con le donne il patrimonio di famiglia, uno di quelli che ritengono gli spetti ogni diritto. Aveva un profilo da medaglia romana, ma quel volto tanto bello aveva un’ombra di ambiguità che tradiva l’indole del debole. Indossava abiti lussuosi, naturalmente, e a parte i seccanti intoppi della vita come quello che stoicamente si accingeva a sopportare, non doveva aver avuto un solo grattacapo da che era nato.

— Siete il cugino di Lavinia Scaringelli, se non sbaglio — Ranaldi entrò sbrigativamente in argomento, squadrandolo con antipatia.

— Esatto — confermò l’altro con una punta di condiscendenza che irritò maggiormente il magistrato.

— Francamente, non vi vedo in un posto desolato come questo — riprese Ranaldi con finta cordialità. — Voi sembrate più adatto a uno scenario da Carnevale veneziano, piuttosto che in un luogo privo degli splendori della mondanità qual è il castello di vostra cugina.

— Sono un po’ deluso, infatti, dall’ambiente provinciale che c’è qui.

— E come mai ci siete venuto, se non era di vostro gusto? — replicò Ranaldi con sarcasmo.

Sanvito scrollò le spalle. — Mi ci ha obbligato mio padre. Avevo combinato un piccolo guaio con una signora... ehm, sposata, e sparire per qualche tempo era l’unica alternativa a un duello con il furibondo coniuge.

— Capisco — il magistrato sentì che l’ostilità iniziale nei confronti di quel fannullone afflitto da troppo denaro e da troppa poca voglia di mettere giudizio, cresceva di pari passo con la conoscenza diretta.

— Ma ci avete azzeccato — continuò Gianmaria. — Di solito, il periodo del Carnevale lo passo a Venezia, o a Roma. Stavolta, però, ho dovuto accontentarmi di trascorrerlo quassù. Se non avessi obbedito, mio padre mi avrebbe tagliato i viveri. Ha perfino minacciato di non far fronte ai miei debiti di gioco, quindi sono stato costretto a sottostare alle sue richieste, subendo questa sorta di confino finché le acque non si saranno calmate.

— Si appoggiò allo schienale, accavallando le lunghe gambe, e Ranaldi storse la bocca adocchiando le fibbie d’oro massiccio che gli adornavano le scarpe dal tacco alto. — D’altronde, meglio di niente, no? — concluse il giovane con fatalismo.

Il magistrato si astenne dal fare commenti ma se avesse potuto seguire l’istinto avrebbe dato quello che si meritava all’impudente faccia d’angelo che gli stava di fronte. — Non avete ancora reso la vostra deposizione sulla sera della festa — disse brusco.

— E che c’è da dire? — imperturbabile, Gianmaria parve sfidare l’interlocutore, forte della sua ricchezza e della sua posizione sociale.

— Per esempio, come avete trascorso le ore che hanno preceduto il delitto di Elena Sigismondi — scandì con studiata calma Ranaldi.

— Oh, come gli altri, presumo — gli occhi di Gianmaria si erano fatti di colpo guardinghi.

— Gli altri non hanno corteggiato insistentemente Barbara Laurenzi — sparò l’inquirente a bruciapelo.

Sanvito perse un poco della sua tracotanza sentendo quel nome. — C’è qualcosa di male in questo? — replicò sulla difensiva.

— Tralasciando l’insignificante dettaglio che è una donna sposata, cosa che non pare turbarvi eccessivamente data la vostra predisposizione per quelle che lo sono, dipende dalla correttezza con la quale ci si comporta in tali frangenti. Se si agisce, viceversa, con viltà, il discorso cambia.

— Viltà? — Gianmaria socchiuse le labbra in un sorrisino forzato. — Io non riesco a immaginare quali accuse mi rivolga la signora, ma temo stia esagerando nell’addebitarmi...

— Che diavolo le avete propinato? — tuonò Ranaldi, troncandogli la frase a metà.

Il giovane si agitò sulla sedia. — Propinato? Non vi seguo, sapete?

— Andiamo, non fate il finto tonto!— Il magistrato stava bluffando, ma intuiva di essere sulla buona strada e di essere vicino a collocare nel posto giusto un’altra tessera del mosaico relativo a quella storia inquietante.

— Le avete messo nel bicchiere qualche intruglio — insistette. — Negarlo, vi avverto, può cagionarvi soltanto dei dispiaceri.

Ormai con le spalle al muro, convinto che il magistrato avesse le prove di quanto affermava, Gianmaria non provò neppure a contraddirlo. — Be’, non era niente di particolare — ammise farfugliando, la spavalderia che si afflosciava a vista d’occhio. — Era soltanto un blando afrodisiaco...

— Che mischiato al vino ha fatto il resto! — sibilò con fredda indignazione Ranaldi. — Come se non bastasse, lo avete usato al solo scopo di abusare di lei!

— Ah, no! — si difese l’altro. — Mi si può incolpare di aver fatto il gioco sporco, ma io non l’ho sfiorata neanche con un dito, vi dico, e la signora, se è sincera, non può dichiarare il contrario, men che meno dimostrarlo!

— State mentendo.

— Assolutamente no! — Gianmaria si sporse in avanti, lo sguardo spaventato. — Sarebbe davvero il colmo che oltre al danno subissi pure la beffa! — protestò. — Se qualcuno ha goduto delle grazie della signora, quel qualcuno non sono sicuramente io! L’ho corteggiata, lo confesso, dal primo giorno, e quella sera volevo che cedesse, in una maniera o nell’altra... — S’interruppe e si asciugò nervosamente il sudore che gli inumidiva la fronte. Pensava che se suo padre fosse venuto a sapere di quest’altra faccenda, lo avrebbe strangolato con le proprie mani. — Ho perso la testa per lei — riprese a bassa voce. — Forse Elena Sigismondi, di primo acchito, attirava l’attenzione su di sé, ma guardando poi Barbara Laurenzi, Elena passava inevitabilmente in secondo piano, perché una volta che ci si accorge di Barbara, è impossibile dimenticarla. Non è una questione di aspetto fisico, ma anche di maniere e di portamento. Insomma, mi ci ammattivo, ma lei non mi ha degnato di uno sguardo, sempre sulle sue come una regina, a struggersi per un marito che non le mostra la minima considerazione.

— Questo non vi dava il diritto di comportarvi in quel modo. O siete abituato a servirvi di qualsiasi mezzo, lecito o illecito, pur di ottenere ciò che vi preme?

— Era la prima volta, ve lo giuro! Me lo ha portato un amico dall’oriente e ne ho fatto uso solamente quella sera...

— Lo avete messo voi nel suo bicchiere?

— No, ho pagato uno dei valletti. Ma non è nocivo, ve lo posso assicurare.

— E comunque disonesto agire così! Vi riesce tanto difficile accettare un rifiuto? O dovete soddisfare i vostri capricci a ogni costo?

— Lei è talmente incantevole — si giustificò Gianmaria a capo chino. — Non volevo e non potevo rinunciarvi. Così, ho pensato di vincere la sua resistenza con l’aiuto di quello stratagemma. Ci sono signore che fanno le schizzinose solo per rendersi più preziose, più desiderabili, e speravo di facilitare le cose tra noi con un po’ di quella roba. Elena diceva che se avessi perseverato, l’amica avrebbe finito per capitolare, e so che perorava la mia causa con Barbara.

— Sul serio? — Ranaldi non credeva alle sue orecchie.

— Sì, anzi, mi incoraggiava.

Il magistrato serrò le labbra e si accigliò. — Una colomba tra orde di avvoltoi! — commentò asciutto.

— Come?

Ranaldi agitò una mano in un gesto vago. — Se fossi vostro padre prenderei drastici provvedimenti nei confronti di un figlio che, oltre a passare il suo tempo in bagordi è disposto a compiere ogni infamità pur di compiacere se stesso.

— Vi ripeto che non l’ho toccata! Sono uscito dal salone per un momento e qualcuno mi ha assalito alle spalle, dandomi una botta in testa che mi ha spedito dritto dritto nel mondo dei sogni.

Ranaldi lo guardò dubbioso. — Che razza di menzogna mi state propinando?

— È precisamente quanto è accaduto, ve lo garantisco. Che ragione avrei di inventare frottole, vista la brutta figura che ci faccio? Mi hanno tramortito con un colpo bestiale, spogliato del costume e infilato in uno stanzino delle scope, dove mi sono ripreso a notte fonda, con un’emicrania che mi spaccava il cervello. A quel punto non m’è rimasto altro da fare che precipitarmi, seminudo, in camera mia, rimanendoci fino a mattina inoltrata. Solo quando sono sceso a pranzo ho saputo dei due delitti, ma io sono probabilmente l’unico che non ha la più pallida idea di quello che è successo al ballo in maschera, quindi converrete con me che non posso esservi di nessuna utilità. Se poi dubitate della veridicità di ciò che asserisco, è sufficiente che controlliate da voi la fondatezza delle mie parole. — Gianmaria si protese e, toltosi la parrucca, mostrò la nuca, così che il magistrato potesse esaminare da vicino il bernoccolo che ancora c’era.

Soffocando la sonora risata che gli solleticava la gola immaginando lo scorno di quello sciagurato, Ranaldi constatò che l’ematoma era davvero consistente, ma la compassione era l’ultimo sentimento che poteva suscitargli quel buono a nulla. Malignamente, auspicò tra sé che gli capitassero più spesso simili incidenti: potevano solo contribuire a rinsavirlo. Tuttavia, questo non toglieva che gli avesse detto la verità, creando un ulteriore mistero al mistero che avvolgeva i due delitti. Chi lo aveva colpito? E perché chi l’aveva fatto aveva preso il suo posto nel salone, indossando il suo costume? E infine, chi si era intrattenuto nella serra con Barbara Laurenzi, considerato che Sanvito era da tutt’altra parte? Gli sembrava di essere alle prese con una di quelle dannate scatole cinesi, una dentro l’altra, che non si finiva mai di aprire, e che portavano all’esasperazione. Era probabile che l’assassino si stesse divertendo come un pazzo davanti al suo aprire le scatole a vuoto, ma avrebbe riso per poco, si ripromise il magistrato. Riportando l’attenzione su Sanvito, che attendeva col fiato sospeso la sua decisione, disse severamente: — Non siete che un patetico, squallido seduttore che non esita a ricorrere ai trucchi più ignobili per raggiungere i propri scopi. Non ho molto tempo da perdere, se però posso darvi un suggerimento spassionato, ragazzo, badate a non rifare scherzi del genere. Ci si scotta, presto o tardi, a giocare col fuoco, e potreste incappare in un marito che vi dia il benservito una volta per tutte. Non ci sono padri o conoscenze altolocate che tengano, allora. Le situazioni equivoche possono condurvi direttamente nelle patrie galere, e vi assicuro che non le trovereste granché entusiasmanti.

Gianmaria assentì fiaccamente, non osando avventurarsi con la mente sull’eventuale reazione di suo padre se lo avessero informato di quella bravata.

— In quanto a Barbara Laurenzi — aggiunse Ranaldi — vi consiglio di girarle alla larga, se tenete alla salute e alla vostra bella faccia. Suo marito è giusto uno di quelli a cui accennavo poco fa, uno che certi sfizi se li toglie, per intenderci, e lo ritengo capacissimo di cambiarvi i connotati, nonché di togliervi la pelle di dosso se vi sorprendesse a fare di nuovo gli occhi da triglia a sua moglie. Datevi dunque una regolata!

— Po... posso andare, adesso? — fu tutto quello che il giovane fu in grado di dire. All’assenso del magistrato, palesemente sollevato di essersela cavata con una ramanzina, Gianmaria raggiunse velocemente la porta e scomparve.

Ranaldi provò altrettanto sollievo nel non aver più sotto gli occhi quel pessimo campione di gioventù sprecata. Non voleva generalizzare, ma la sua opinione sui giovani quel giorno era notevolmente peggiorata.