Giovedì, 12 giugno

Uno

Jane detestava dover chiedere un favore alla vicina, Mrs Pollard. Ormai la donna non nascondeva più la propria irritazione tutte le volte che le toccava intervenire senza preavviso.

Succedeva troppo spesso, si era lamentata di recente. Che cos’era quella storia? Prima Jane riusciva a conciliare meglio il lavoro e Dylan.

«Ultimamente ho molti problemi sul lavoro» aveva spiegato Jane, ma Mrs Pollard aveva ribattuto soltanto che forse avrebbe dovuto pensarci bene prima di scegliere la carriera in polizia.

«Si vede sempre alla televisione! Straordinari in continuazione, orari impossibili. Le famiglie vanno a rotoli, i matrimoni si sfasciano...»

Jane avrebbe voluto replicare che la televisione era perfetta per diffondere i luoghi comuni più banali, ma per quanto riguardava il suo lavoro non poteva certo obiettare granché. Lavorando alla squadra omicidi era effettivamente un problema avere orari fissi e organizzare la vita familiare, soprattutto quando si era nel pieno di un’indagine complicata. In particolare, come nel caso di Jane, quando non si poteva neppure parlare di una famiglia nel vero senso della parola. La sua, più che altro, era una famiglia incompleta. Questo però non migliorava le cose, al contrario.

«Perché oggi non può andare al suo... istituto?» domandò Mrs Pollard scocciata. Aveva aperto a Jane in vestaglia e a piedi scalzi, con una cuffia da doccia trasparente in testa. Doveva essere appena uscita dal bagno. Jane le aveva chiesto se per favore poteva occuparsi ancora una volta di Dylan, solo per quel giorno, anzi, forse non solo per un giorno.

«Ieri è stato scoperto il quinto caso di scarlattina» rispose Jane alla domanda di Mrs Pollard. «È scattata la quarantena...»

Aveva trovato quella catastrofica notizia la sera prima sulla segreteria telefonica.

Merda, aveva pensato, mettendosi seduta in poltrona e prendendosi la testa tra le mani. Merda, merda!

«Significa allora che oltretutto Dylan ha la scarlattina?» chiese allarmata Mrs Pollard.

«È escluso. L’ha già fatta» le assicurò Jane.

«Per fortuna anch’io» disse la donna. Poi fece un sospiro esagerato. «Però non può andare avanti così, Jane. Deve trovare un’altra soluzione, sul serio. Al posto suo sarei molto arrabbiata. Dopotutto non è lei l’unica responsabile di Dylan! Anche Sean potrebbe...»

«Ha ragione» concordò Jane, «ma sa come sono fatti gli uomini...» Detestava simili generalizzazioni, ma sapeva che a Mrs Pollard piacevano molto. Il marito l’aveva lasciata di punto in bianco molti anni prima. Da allora la donna attribuiva al genere maschile ogni nefandezza immaginabile.

«Proprio così» confermò infatti. «Sono inaffidabili, egocentrici e interessati solo al proprio tornaconto. D’accordo. Ancora per oggi. Ma soltanto oggi! Per favore torni puntuale alle cinque e mezzo.»

«Ma certo» le garantì Jane, pregando dentro di sé di poter mantenere la promessa. «Allora...»

«Arrivo tra dieci minuti» brontolò Mrs Pollard. «Avrò pure il diritto di farmi una doccia, no?»

«Naturalmente. La ringrazio tantissimo. Non saprei cosa fare se...»

«Troverebbe un’altra stupida come me» concluse la vicina sbattendo la porta.

Un quarto d’ora più tardi Jane era in macchina. Con una mano stringeva il volante, con l’altra un toast. Non era riuscita a fare colazione come si deve. La maledetta epidemia di scarlattina le aveva già scombussolato tutti i piani. Mentre era ferma a un semaforo, le squillò il cellulare. Jane rispose con il vivavoce. Era Benjamin Wilson, lo sceneggiatore. Aveva un tono di voce diffidente. Evidentemente temeva che la richiesta lasciata in segreteria di chiamare quel numero fosse uno scherzo.

«Agente investigativo Scapin?» domandò circospetto. «Polizia dello Yorkshire?»

«Sì. Esatto. Lei è Mr Wilson?»

«Sì. Mi ha chiesto di richiamarla?»

«Vorrei farle solo una domanda, Mr Wilson. Si tratta del suo collega Jonas Crane.»

«È successo qualcosa?»

«Dobbiamo parlare con lui di una certa questione, ma non siamo ancora riusciti a sentirlo. Sarebbe dovuto tornare dalle vacanze domenica scorsa, ma...»

«Non lo ha fatto? Eravamo d’accordo così. Domenica 8 giugno.»

Centro, pensò Jane.

«Quindi ha affittato la sua casa?» chiese.

«La mia fattoria in mezzo alla brughiera, esatto. Come fa a saperlo?»

«Mi è stato detto alla TV Adventure. Come le ho accennato, è da diversi giorni che cerchiamo Mr Crane.»

«Glielo aveva consigliato il medico. Riposo assoluto. Crane era sull’orlo di un esaurimento nervoso. Così almeno aveva detto lui. Personalmente non credo che due settimane di pausa possano essergli servite a qualcosa, per di più portandosi dietro la famiglia... ma aveva deciso così.»

«La sua fattoria è il posto giusto per staccare la spina?»

«Assolutamente. Non esiste un posto più isolato di quello. Niente televisione, niente Internet, niente radio. Non prende nemmeno il cellulare. Anche se fosse scoppiata l’apocalisse, laggiù nessuno se ne sarebbe accorto.»

«Ha avuto sue notizie nel frattempo?»

«No, ma era stato deciso che non avesse alcun contatto con il mondo esterno. Se ci fossero stati dei problemi si sarebbe fatto sentire, ma a quanto pare era tutto okay.»

«Secondo lei è possibile che abbiano deciso di fermarsi più a lungo senza informarla?»

«No» rispose Wilson deciso. «Non credo. Mi aveva pagato l’affitto per due settimane in anticipo. Non molto, in realtà, solo le spese. Non è certo il tipo da rimanere più a lungo del periodo per cui ha pagato. A meno che non avesse intenzione di darmi la differenza al ritorno, ma anche in questo caso... senza dire niente... non è da lui.»

«Mr Wilson, potrebbe accompagnarmi alla sua fattoria?» domandò Jane.

Wilson scoppiò a ridere. «In questo momento non sono in Inghilterra, agente. La chiamo da Tenerife. Sto scrivendo un film in due parti che verrà girato qui e sto cercando di calarmi nell’atmosfera.»

Ma perché ho scelto di fare la poliziotta? si domandò Jane. Il lavoro di sceneggiatore sembra decisamente migliore.

Ma con Dylan e nonostante la disponibilità di Mrs Pollard sarebbe stato impensabile: oggi Tenerife, domani una fattoria isolata nella brughiera. E il giorno dopo ancora magari New York...

D’accordo, sognare era sempre lecito.

«Capisco» disse. «È d’accordo se vado a dare un’occhiata io? Per noi sarebbe molto utile trovare la famiglia Crane.»

Wilson ebbe un attimo di esitazione e Jane intuì le sue perplessità: voleva evitare che Jonas pensasse che il collega gli avesse mandato la polizia solo perché aveva deciso di fermarsi di più senza aver pagato l’affitto.

«Ecco, casomai Jonas fosse lì, deve assolutamente...» cominciò, ma Jane lo interruppe.

«Non si preoccupi. Dirò subito a Mr Crane che non ci ha chiesto lei di andare lì, Mr Wilson. In realtà ho solo una domanda da porgli e non ha niente a che fare con lei. A parte questo, comincio a essere preoccupata. I Crane non hanno avvertito nemmeno la vicina a Kingston, che ritirava la posta e bagnava i fiori. Secondo me c’è qualcosa che non va, e non sarà di certo un male controllare se è tutto okay.»

A questo punto Benjamin Wilson non ebbe più dubbi e spiegò a Jane come arrivare alla fattoria. Lei, bloccata nel traffico, cercò di memorizzare le indicazioni. Si augurò che al momento opportuno si sarebbe ricordata di ogni dettaglio.

«Sarebbe così gentile da avvisarmi quando sarà arrivata?» le chiese Wilson alla fine. «Che i Crane siano ancora lì o meno.»

«Ma certo. Mi farò viva in ogni caso» promise Jane. Dopo aver chiuso la telefonata, si domandò se fosse il caso di passare dall’ufficio. La procedura prevedeva che portasse con sé un collega, ma così su due piedi sarebbe stato difficile organizzare la cosa. Inoltre fin dall’inizio era stata incaricata delle indagini sulla famiglia Crane. Nel caso avesse fatto un buco nell’acqua, non c’era bisogno che lo sapesse nessuno.

Al primo incrocio Jane svoltò a sinistra. La località più vicina alla fattoria era Egton Bridge. Sarebbe riuscita a trovarla. Nel giro di un’ora poteva tornare in ufficio, nel caso in cui l’allarme si fosse rivelato infondato, e si sarebbe giustificata dicendo che aveva avuto dei problemi con Dylan.

Le sue previsioni si rivelarono del tutto sbagliate. Jane impiegò cinquanta minuti solo per trovare il casolare. Sbagliò strada due volte, dopo aver percorso stradine che finivano nel nulla. Tutt’intorno cespugli, qualche albero sparuto e pecore. Il sole scottava. La macchina di Jane non aveva l’aria condizionata. Imprecò e fece manovra. Non era più sicura di ricordarsi con precisione le indicazioni fornite da Wilson. Per la miseria, possibile che esistessero posti così isolati? Quella maledetta fattoria non aveva nemmeno un indirizzo da inserire nel navigatore.

Non andrei mai in un posto del genere, per niente al mondo, pensò Jane. Nemmeno se fossi così stressata e il medico mi costringesse a staccare la spina.

Alla fine imboccò la strada giusta. O almeno le sembrava. Strettissima e tortuosa.

«Vedrà la fattoria apparire all’improvviso dopo una curva» le aveva spiegato Wilson. «In fondo a una vallata proprio davanti a lei. Due edifici di pietra, una casa e una grande stalla. Intorno... il nulla!»

La descrizione calzava a pennello. Jane riconobbe subito la fattoria. E notò immediatamente che sembrava deserta.

Le imposte erano chiuse. I Crane non erano più lì. Ma allora dov’erano andati?

Nonostante questo, Jane decise di controllare ugualmente da vicino. Forse avrebbe scoperto qualcosa, un indizio su dove si trovassero i Crane.

Mi sto dando tanto da fare per niente, pensò. Jonas e la famiglia non ce la facevano più a stare qui, e posso capirli. Si saranno trasferiti in un bell’hotel in riva al mare e si saranno dimenticati di informare la vicina e tutti gli altri.

Ma perché Stella Crane non risponde al cellulare?

La macchina avanzò lentamente sul viottolo sconnesso. Una vera sfida per gli pneumatici. Jane cominciava a dubitare che la professione di sceneggiatore fosse davvero una scelta azzeccata. Ma perché spendere un sacco di soldi per comprare una casa come quella, dove ritirarsi regolarmente a lavorare? Quel tizio doveva essere fuori di testa. Jane era certa che sarebbe caduta in depressione nel giro di un paio di giorni, e l’ispirazione sarebbe andata a quel paese.

Entrata nel cortile, notò subito le due auto. Erano state parcheggiate in modo che non potessero essere viste dalla collina né dal sentiero che portava a fondovalle.

Una Renault blu e una Ford rossa.

Jane non ricordava i numeri di targa, ma sapeva che la polizia cercava la Renault blu di Therese Malyan e la Ford rossa rubata a Peggy Wild.

Denis Shove e Therese erano alla fattoria.

Jane prese immediatamente il cellulare. Doveva chiamare rinforzi. Il fatto che le imposte fossero chiuse la preoccupava. Tutto lasciava pensare che Shove e la sua amica si fossero barricati dentro. Con i Crane in ostaggio? Shove era armato. E pericoloso. Aveva sparato a Peggy Wild senza pensarci due volte.

Non c’erano altre macchine. Ma non significava nulla. L’auto dei Crane poteva anche essere nella rimessa.

Un’occhiata al display confermò ciò che le aveva detto Wilson: lì il cellulare non prendeva.

Doveva tornare in cima alla collina, da dove forse sarebbe riuscita a telefonare. Inoltre doveva allontanarsi subito. Nel punto in cui si trovava era un ottimo bersaglio.

Dio, che sprovveduta. Avrebbero potuto vederla. Il sospetto che potesse essere accaduto qualcosa ai Crane avrebbe dovuto spingerla ad agire con più prudenza.

Stupida! Ti comporti proprio come una maledetta pivella.

Ingranò la retromarcia senza perdere di vista la casa, pronta a mettersi al riparo se fossero partiti dei colpi. Shove doveva essersi già accorto della sua presenza, e sicuramente aveva capito che lei aveva visto le auto, giungendo alla conclusione più ovvia. Inoltre, vedendo che era sola, non le avrebbe permesso di andarsene. Jane si stupiva che nessuno le avesse ancora sparato.

D’altra parte, Shove non poteva sapere che era un’agente di polizia. Jane non ci aveva pensato. Poteva benissimo essere una turista che si era persa. Le conveniva allontanarsi senza dare nell’occhio.

Proprio mentre stava per imboccare il viottolo vide la portiera posteriore della Renault aprirsi all’improvviso. Un bambino scese dall’auto barcollando. Agitò le braccia verso di lei e le corse incontro. Doveva avere al massimo cinque anni e Jane intuì subito che si trattava del figlio adottivo dei Crane. La vicina di Kingston le aveva detto che si chiamava Sammy. Il figlio di Therese Malyan.

Il suo primo impulso fu di scendere e andargli incontro, ma poi pensò che potesse essere una trappola. Costeggiò la casa e fermò l’auto in fondo. Lì non c’erano finestre, il pericolo di essere colpiti era minore. Scese dall’auto restando accucciata e tenendo sempre la macchina tra sé e la casa.

Il bambino spuntò da dietro l’angolo. Era senza fiato per la corsa, ed era chiaramente in preda al panico all’idea che la sconosciuta potesse andarsene. Era sporco e sudato, i capelli biondi ispidi e spettinati. Negli occhi spalancati Jane vide il terrore.

Che cosa era successo?

«Sammy?» lo chiamò. Quando il bambino fu abbastanza vicino Jane lo afferrò per un braccio e lo strinse a sé al riparo della macchina. Lui si divincolò, ma era sfinito.

«Ehi, tranquillo. Sono Jane. Jane Scapin. Sono della polizia.»

Lui la guardò incredulo.

Lei si portò un dito alle labbra. «Fai piano. Rimani qui, non scappare, okay?»

Sammy annuì.

Jane gli lasciò andare il braccio. «Dobbiamo essere prudenti. Per Denis Shove.»

Lui la fissò perplesso e Jane ricordò che Shove aveva assunto un altro nome. «Volevo dire Neil. Neil Courtney.»

Il bambino finalmente parlò. Aveva le labbra gonfie e screpolate. «Se n’è andato. Neil. Con Terry.»

«Ne sei sicuro? Le loro auto sono ancora qui.»

«La mamma dice che hanno preso la nostra.»

«Dov’è la tua mamma?»

Sammy indicò la rimessa con un cenno della testa. «Lì dentro. Con il papà. Neil ci ha chiuso dentro. Il papà è molto malato. Neil gli ha sparato. Io sono uscito dalla finestra. Ma mamma e papà non ci passano, perché è molto piccola. Io dovevo cercare aiuto.» Era come un fiume in piena, non riusciva a smettere di parlare. «Però volevo cercare dell’acqua. Qui vicino c’è uno stagno. Tu sai dov’è?» La guardò pieno di speranza.

«Purtroppo no. Ma aspetta.» S’infilò in macchina e prese una bottiglia piena. Jane non si metteva mai in viaggio senza acqua. «Hai molta sete, vero?»

Lui si portò la bottiglia alla bocca e bevve come se ne andasse della sua vita. E probabilmente era così. Jane capì che stava dicendo la verità. Non era uno scherzo di cattivo gusto. Il bambino era troppo provato. Ed era disperato. Il suo racconto era credibile. Denis Shove aveva approfittato del rapporto di Terry con i genitori adottivi di Sammy per procurarsi un’altra macchina dopo l’aggressione a Peggy Wild. Aveva immaginato che Peggy sarebbe stata soccorsa e che la sua auto non fosse più sicura. E aveva rinchiuso i Crane per fuggire tranquillamente.

Il capo non doveva rimproverarsi di aver inseguito Shove con tanto impegno. Era un criminale senza scrupoli.

Jane si avvicinò alla rimessa e osservò la serratura. Era a doppia mandata e in più aveva un chiavistello bloccato da un lucchetto.

Shove non voleva brutte sorprese.

Sammy l’aveva seguita.

«Devi salvare la mamma. E il mio papà!»

Jane provò a scuotere la porta. Non cedeva. Doveva assolutamente chiedere rinforzi.

Dall’interno udì una flebile voce. «Sammy?»

«Sono l’agente investigativo Scapin della polizia dello Yorkshire. Mrs Crane?»

Un attimo di silenzio attonito. Poi una domanda concitata: «La polizia?»

«Sì. Vi tireremo fuori da lì, Mrs Crane. Lei sta bene?»

«Io sì. Ma mio marito... lui sta molto male. Non credo che ce la farà. Ha dell’acqua? Sammy è con lei?»

«Sì. È con me. E ho dell’acqua.» Nonostante la sete, Sammy aveva bevuto soltanto metà della bottiglia. «Sammy mi ha parlato di una finestra...»

«Sull’altro lato. C’è una fune. La prego, venga... sull’altro lato.» Stella Crane diceva di stare bene, ma dalla voce sembrava esausta.

Shove non gli ha nemmeno lasciato acqua a sufficienza, pensò Jane mentre correva dall’altra parte della rimessa. Che lurido bastardo.

Vide la finestrella in alto. Accidenti. Stella Crane aveva calato il figlio da lassù. Un’impresa coraggiosa. Ma non avevano altre possibilità. Un volto si affacciò dalla finestra. Gli occhi sgranati, i capelli ispidi, i lineamenti affilati. Stella Crane era allo stremo.

«Vede la fune?» disse con voce roca.

Jane notò la fune che penzolava dalla finestra fino ai suoi piedi. Vestiti, qualche straccio e una coperta annodati fra loro.

Che donna intelligente, pensò Jane.

Legò la bottiglia a un capo della fune.

«Ora tiri. Faccia attenzione!»

La bottiglia risalì con lentezza esasperante.

«Vado a chiamare aiuto» disse Jane. «Da dove si può telefonare?»

«In cima alla collina. Il segnale è debole, ma c’è.»

Jane si assicurò che Stella Crane avesse recuperato la bottiglia, poi tornò di corsa alla macchina, tenendo per mano Sammy. Meglio non rischiare che il bambino si perdesse lì intorno.

«Stammi a sentire. Sali in macchina. Andiamo in cima alla collina e telefoniamo per chiedere rinforzi. Polizia, ambulanza. Sarà una bella avventura, che ne dici?»

Sammy annuì, ma non era più così eccitato all’idea di sentir arrivare le sirene spiegate e i poliziotti armati. Sembrava traumatizzato. Jane gli accarezzò la testa.

«Andrà tutto bene» gli promise.

Lui non le diede l’impressione di crederle.

Due

Durante la notte aveva cominciato a piovere. Era una pioggia fine e regolare. Sarebbe andata avanti tutto il giorno, pulendo le strade dalla polvere delle ultime settimane di sole. Prima di sera i prati, ormai secchi, sarebbero tornati più verdi e più freschi. La temperatura era scesa bruscamente. Kate, che aveva soltanto una maglietta e un paio di jeans, rabbrividì quando uscì dall’albergo. Aveva bisogno di vestiti puliti, soprattutto di biancheria pulita. Era ora di tornare a Scalby.

Caleb era ripartito il giorno prima di buon’ora, lasciandole un messaggio alla reception. «Devo rientrare. Ti telefono. Saluti, Caleb.»

Nient’altro.

Le aveva chiesto di andare a cena insieme. Perché era stata tanto sciocca da non accettare? Perché si vergognava ancora della figuraccia che aveva fatto la sera dopo l’omicidio di Melissa? Oppure semplicemente perché aveva il talento naturale di lasciarsi sfuggire ogni occasione che le si presentava? Caleb le piaceva. Lo ammirava. Lo comprendeva. Lo trovava attraente. Molto. Molto interessante. Lei era sola, e desiderava un uomo nella propria vita.

E poi, quando l’uomo che nelle ultime settimane era stato al centro dei suoi pensieri le chiedeva di andare a mangiare insieme, lei rifiutava. La colpa era sua. Se la sua vita era così triste, la colpa era solo sua.

Non riusciva a togliersi dalla testa Grace. E la preghiera che la madre della ragazza le aveva sussurrato: «L’aiuti!»

Continuava a pensare ai lividi che aveva notato sui polsi di Grace. Ai vestiti troppo stretti, troppo corti, sbiaditi e lisi. Al sorriso trasognato sul viso della ragazzina, mentre girava sulla sedia a rotelle di Norman Dowrick sotto il sole a picco nella fabbrica abbandonata. Grace era una creatura incredibilmente fragile e indifesa. L’idea che si nascondesse chissà dove tutta sola e che potesse essere in pericolo tormentava Kate. Il giorno prima aveva girato per il quartiere, ampliando gradualmente il raggio delle ricerche. Aveva cercato un possibile nascondiglio – un magazzino vuoto, una casa disabitata, un giardino. Alla fine aveva rinunciato. Grace poteva essere dappertutto. Doveva lasciare che se ne occupasse la polizia di Liverpool, anche se aveva l’impressione che non si sarebbero impegnati più di tanto. Aveva incontrato solo poche squadre di ricerca, se non altro con un cane addestrato.

D’altro canto gli agenti dovevano cercare la ragazza senza attirare troppo l’attenzione. I media ancora non sapevano della ragazzina, del fatto che potesse essere una testimone dell’omicidio e che ora era in pericolo. Kate presumeva che Caleb avesse mantenuto la promessa e avesse parlato con la responsabile delle indagini. Aveva comprato un paio di quotidiani e, con sollievo, non aveva visto nulla su Grace. Certo, il caso non riscuoteva grande interesse. Il ritrovamento di un uomo annegato in un fusto pieno d’acqua, a mesi di distanza dalla sua scomparsa, era agghiacciante, ma... a chi interessava un uomo paralizzato che viveva in totale isolamento in uno dei quartieri più degradati della città? Due quotidiani lo avevano trasformato in un «vecchio», anche se Dowrick aveva appena cinquant’anni. La vittima era così emarginata che neppure le circostanze tanto raccapriccianti della sua morte suscitavano l’interesse del pubblico. Il Liverpool Chronicle sosteneva la tesi della polizia locale secondo cui l’omicidio andava attribuito a una pericolosa gang giovanile. L’articolo parlava solo marginalmente di Norman e si concentrava più che altro sul problema della violenza giovanile in Gran Bretagna, domandandosi fino a che punto potesse essere scatenata dalle diseguaglianze sociali.

Kate era dispiaciuta per Norman. Stavano trattando quell’uomo con la stessa indifferenza che gli era stata riservata quando era vivo. Al contrario, per Grace il disinteresse dell’opinione pubblica era una fortuna. La polizia poteva rintracciarla prima che ci riuscisse l’assassino di Dowrick. Quasi sicuramente, infatti, il colpevole non sapeva dell’esistenza di una testimone oculare.

Kate pagò la stanza e ripartì per Scalby, ma prima decise di fare un ultimo giro nel quartiere di Grace. Sotto la pioggia era ancora più squallido. Nel cortile della fabbrica l’acqua formava grandi pozzanghere. I nastri bianchi e rossi della polizia, che fino al giorno prima svolazzavano nella brezza estiva, ora pendevano come stracci bagnati.

Kate parcheggiò e scese, rabbrividendo sotto la pioggia. Non aveva importanza. A casa si sarebbe fatta un bagno e si sarebbe messa degli abiti più caldi.

La fabbrica era deserta. Nessuno cercava Kate lì. Solo Kadir era seduto sul solito muretto dondolandosi avanti e indietro, senza fare caso alla pioggia.

«Salve, Kadir.»

Lui le sorrise allegro, come se vedesse una vecchia amica. «Ciao!»

«Come piove, oggi» disse Kate. «Ce l’hai una casa, no?»

Kadir annuì. «Ho un bell’appartamento.» Indicò la casa alle sue spalle. «Su in cima, sotto il tetto.»

«Con un tempo simile non faresti meglio a stare all’asciutto?» Lei si strinse nelle spalle. «Fa pure freddo.»

Kadir, che indossava solo una maglietta, scrollò il capo. «Ci sono abituato. Non posso stare dentro.»

«No? Mai?»

«A volte, d’inverno. Ci vado per scaldarmi. Ma non ci rimango molto. Le pareti mi soffocano, capisce?»

«Credo... di sì. Immagino che tu non abbia notizie di Grace, vero?»

«È venuta la polizia. Ieri. Hanno parlato con me. Ma non ho saputo dire niente. Non so dove sia. Non so... se ha visto qualcosa.»

«Visto qualcosa?»

«È per questo, no? È per questo che la cercano come dei matti. Forse ha visto chi ha ucciso l’uomo sulla sedia a rotelle.»

Kate capì che non doveva sottovalutare Kadir. E che erano seduti su una polveriera: nessuno doveva venire a sapere del ruolo di Grace nell’omicidio. Sarebbe bastato che un giornalista venisse a parlare con qualcuno del quartiere. Kadir non era certo l’unico ad aver intuito il problema.

Era una corsa contro il tempo.

«Ieri sera è venuto un uomo» proseguì Kadir. «A chiedere di Grace.»

«Un uomo? Un poliziotto?»

Kadir scosse la testa. «No, non era un poliziotto. Ha parlato di indagini, per farmi credere di essere della polizia. Ma a me non me la fanno. So riconoscere i poliziotti. Per istinto, sa.»

Conosceva quel ritornello. Molti dicevano di saper fiutare un poliziotto da lontano, ma secondo Kate lo facevano solo per vantarsi. In più, quasi nessuno capiva che lei era una poliziotta, e quando diceva di essere di Scotland Yard la guardavano sempre stupiti. Tutte sciocchezze, dunque.

Come se le avesse letto nel pensiero, Kadir aggiunse: «Per esempio, lei è della polizia. Ne sono sicuro. Anche se per qualche motivo non vuole che gli altri lo sappiano. È una specie di... aura. Difficile da descrivere».

Kate era impressionata, ma non fece commenti. Kadir parlava in modo forbito e sembrava molto intelligente. Si domandò cosa gli fosse successo per finire su quel muretto.

Le pareti mi soffocano, aveva detto.

Le tornò in mente Caleb Hale e il loro dialogo in macchina davanti a casa del figlio di Melissa Cooper. In sostanza lui le aveva detto che doveva darsi una mossa, che il mondo era pieno di storie tragiche peggiori della sua.

«Parlami di quest’uomo... ha detto chi era?» chiese a Kadir.

«No. Parlava a voce bassa. Gli altri, i poliziotti, non parlano così. Lui era... diverso. Non mi è piaciuto.»

«Hai informato la polizia?»

«No. Mi riderebbero in faccia. La mia è solo una sensazione.»

«Che cosa ti ha detto esattamente?»

Kadir ci pensò su. «Voleva sapere se conoscevo Grace. No, non ha usato queste parole. Mi ha chiesto: ‘Conosci la ragazza che cercano tutti? Quella che ha visto l’omicidio del poliziotto?’»

Kate sussultò. Nessuno poteva sapere che Norman Dowrick era un ex poliziotto. «Sei sicuro? Ha detto proprio poliziotto

«Sicurissimo. Sono rimasto molto sorpreso. Nemmeno io mi ero accorto che il vecchio sulla sedia a rotelle fosse uno sbirro. Qui non lo sapeva nessuno, credo.»

«Tu che cosa gli hai risposto?»

«Non sono mica scemo» disse Kadir. «Gli ho detto: ‘Non mi risulta che abbia visto l’omicidio. So solo che ha trovato il cadavere’. Allora lui si è nervosito. Voleva sapere dove abita Grace. Io gliel’ho detto. Non aveva senso nasconderglielo.»

«Lui poi ci è andato?»

«Sì, ma non deve preoccuparsi, Grace non è lì. L’appartamento dei genitori è l’ultimo posto dove andrebbe a rifugiarsi. Per lei è il luogo più pericoloso in assoluto.»

«Che tipo era l’uomo che ti ha parlato?»

«Alto. Molto alto. Biondo. Di bell’aspetto. Ma con un’aria da... fanatico. Non mi è piaciuto.»

Kate si disse che Kadir, per quanto intelligente, non poteva certo sapere tutto. Era assai probabile che l’uomo alto, biondo e fanatico fosse un investigatore della polizia di Liverpool. Loro sapevano che Dowrick era un ex collega. Tutto il resto era difficile da spiegare e sollevava domande inquietanti.

Kate tirò fuori un biglietto da visita dalla tasca, annotò il numero di casa a Scalby e quello del cellulare e lo diede a Kadir. «Tieni. Chiamami, se succede qualcosa di strano. O se ti viene in mente qualcosa che per qualche motivo non vuoi riferire alla polizia.»

Lui prese il biglietto. «Allora è vero, lei è della polizia. Lo sapevo. Scotland Yard. Wow!»

«Però non sono in servizio» precisò Kate. «Posso fidarmi di te? Mi chiamerai?»

«Lo farò» promise lui.

Lei proseguì verso l’appartamento dei genitori di Grace.

Il padre confermò che un uomo era passato da loro la sera prima. Non aveva detto di essere un poliziotto e aveva fatto domande sulla figlia.

Darren Henwood gli aveva risposto con sincerità che non aveva idea di dove fosse Grace.

«Quell’uomo non si è presentato?» chiese Kate. «Non ha detto come si chiamava, non ha mostrato un documento? Niente?»

«No. Pensavo... pensavo che andasse bene così» balbettò Darren. Aveva perso del tutto la sua arroganza. In quella grigia mattinata di pioggia aveva un’aria patetica e impaurita. Nell’appartamento era rimasto il calore dei giorni precedenti e Darren indossava una canottiera bianca puzzolente di sudore e un paio di boxer vecchissimi. Era a piedi scalzi. Doveva aver passato la notte in bianco, ma Kate era certa che a togliergli il sonno non fosse stata la preoccupazione per Grace, ma soprattutto per sé. La situazione lo spaventava: di colpo sua figlia era diventata la principale testimone di un omicidio ed era ricercata dalla polizia. A questo punto rischiava di essere scoperta anche la storia degli abusi e dell’abbandono che la ragazza subiva da anni. Finora nessuno si era interessato a Grace Henwood. Ma adesso... Darren non era stupido. L’ispettore capo della polizia dello Yorkshire, che era stato da lui due giorni prima, aveva subito capito la situazione, ovvero che Darren maltrattava la figlia, se non peggio, e non aveva nascosto il proprio disgusto. E anche quella donna sapeva ogni cosa. Non c’era da stupirsi se Darren sudava, era nervoso e avrebbe preferito sprofondare sottoterra.

«Lei parla di sua figlia con un perfetto sconosciuto, senza sapere che diritto abbia di chiedere informazioni su di lei?» domandò Kate.

Darren si asciugò il sudore dalla fronte. «Sono venuti in tanti a fare domande. Molti poliziotti... ho pensato... non ci capisco più niente...»

Era chiaro che la sua unica speranza di cavarsela senza conseguenze dipendeva dal fatto di mostrarsi disponibile a collaborare. Era pronto a dare informazioni a chiunque gli chiedesse notizie di Grace, per paura che qualcuno se la prendesse con lui e che la sua situazione peggiorasse ulteriormente. Kate non riuscì a scoprire altro, a parte che lo sconosciuto era alto e biondo – Darren non aggiunse fanatico. Decise di chiamare Caleb per informarlo. Lui avrebbe potuto scoprire se si trattava di un agente della polizia di Liverpool. Kate era sempre più propensa a credere a quest’ipotesi. Salutò con freddezza Darren Henwood e se ne andò. Mentre raggiungeva la macchina, vide Kadir dondolarsi sul muretto. Era completamente fradicio.

A Scalby la pioggia non era ancora arrivata e faceva molto caldo. Il giardino aveva bisogno di acqua, ma poiché secondo le previsioni avrebbe piovuto prima di sera, decise di non annaffiarlo. Entrata in casa, sentì il corpo rilassarsi e il respiro calmarsi in quel porto sicuro e fresco. C’era un profumo familiare lì dentro, che negli ultimi due giorni le era mancato moltissimo. Il profumo di casa.

Non posso abbandonare questa casa. Non potrei mai.

Entrò in cucina, aprì la porta che dava sulla veranda e una corrente d’aria calda soffiò all’interno. Kate prese una bottiglia d’acqua dal frigorifero, uscì e si sedette in giardino. Nel frattempo i vestiti si erano asciugati, e con quell’afa le passò del tutto la voglia di un bagno caldo. Bevve qualche sorso, quindi si guardò intorno. Il giardino era un’esplosione di fiori di tutti i colori, ma non era più così bello e curato come un tempo. Mancava la mano di Richard. Kate non aveva ereditato il suo pollice verde, lavorare in giardino non le piaceva e non sapeva nemmeno da che parte cominciare. A parte tosare l’erba e annaffiare le piante, non sapeva fare altro.

Viceversa, poteva trasferirsi lì e lasciare che il giardino si inselvatichisse. Nessuno ci avrebbe fatto caso.

Si domandò per l’ennesima volta se non si aggrappasse a quel mondo in maniera patologica. Se la sua incapacità di staccarsene dovesse in qualche modo preoccuparla. Forse aveva solo bisogno di un’alternativa prima di abbandonare tutto. E per ora non ne aveva.

Era troppo fissata sul padre? Oppure era fissata sul padre perché non aveva nessun altro? E il padre era stato semplicemente la soluzione meno complicata? Era stata l’unica persona di fronte alla quale lei non si sentiva piccola, insignificante e inferiore. Con lui poteva ridere, gli raccontava del suo lavoro. Con lui si confidava. Il padre non le aveva mai dato l’impressione di considerare il suo atteggiamento singolare. L’aveva sempre ascoltata con attenzione e interesse. L’aveva sempre considerata alla pari. L’aveva presa sul serio, l’aveva rispettata, e proprio per questo Kate era andata nello Yorkshire tutte le volte che le era stato possibile.

Di fronte agli altri, invece, era paralizzata dall’insicurezza. Era una sensazione molto radicata in lei: non valgo niente. Non sono alla loro altezza. Non sono altrettanto bella, intelligente, spiritosa, divertente, profonda. Non ho idee vincenti; quando le ho, non sono in grado di comunicarle. Non riesco a mostrarmi interessante. La gente si annoia con me. Non ho alcun carisma, non sono coinvolgente. E anche chi non se ne accorge subito, se ne rende conto in un secondo momento.

In fondo aveva rifiutato l’invito a cena di Caleb anche per questo motivo. Per paura che lui si accorgesse di quanto poco avesse da offrire. Dalle sue rare esperienze precedenti, conosceva bene la terribile sensazione che provava quando si rendeva conto che l’uomo davanti a sé si pentiva di averle chiesto un appuntamento e cercava in tutti i modi di andarsene. Era una sensazione di terribile inadeguatezza, che ben presto si trasformava in disperazione. La situazione era diventata così insopportabile che Kate aveva cominciato a evitare tutti, rifiutando persino l’invito di un collegaq a prendere un caffè durante la pausa. Era convinta che gli altri lo facessero solo per compassione. No, grazie, preferisco continuare a lavorare.

A un certo punto nessuno gliel’aveva più chiesto.

Il primo a farlo dopo tanto tempo era stato proprio Caleb. Caleb, che si era presentato con un piatto di curry a casa sua e non si era lasciato intimidire dai suoi modi scostanti. Caleb, che le aveva chiesto se aveva voglia di mangiare un boccone con lui. Lei si era nascosta per l’ennesima volta. Aveva ritenuto più sicuro restare a sopportare la fame in camera sua, sdraiata sul letto, guardando stupidi programmi in tv, invece di andare in un pub con un uomo che le piaceva.

Finora si era potuta permettere un comportamento simile perché il padre era ancora vivo. Aveva resistito, alla meno peggio, quasi sempre infelice, a vivere senza amici, senza una persona che le fosse vicina, che facesse parte della sua vita. Dopotutto c’era papà. Lontano, certo, ma non in capo al mondo. Poteva andarlo a trovare o telefonargli. Era lui a riempire i weekend lunghi, le ferie, i giorni di festa come Pasqua e Natale. Era lui l’unica ancora di salvezza che le restava.

Doveva cambiare qualcosa, altrimenti sarebbe sprofondata nella solitudine. Non poteva più permettersi il lusso di nascondersi dal mondo e dai suoi pericoli, di evitare tutto ciò che le faceva paura. Nel suo lavoro le capitava di trovarsi di fronte individui pericolosi, che tuttavia la spaventavano molto meno della prospettiva di un rifiuto nella vita di tutti i giorni. Indifferenza, disinteresse, disgusto. Le faceva meno paura rischiare di essere colpita da una pallottola durante un inseguimento che tornare a casa dopo un appuntamento con la consapevolezza di essersi rivelata ancora una volta di una noia mortale.

Si alzò, rientrò in casa e prese il cellulare dalla borsa. Lungo il tragitto aveva già provato a chiamare due volte Caleb, ma non le aveva risposto. Riprovò. Doveva informarlo dell’uomo misterioso che aveva chiesto informazioni su Grace Henwood a Liverpool, e voleva chiedergli se quella sera aveva già in programma qualcosa. Ammesso che non le venisse a mancare il coraggio.

Le rispose una collaboratrice che Kate non conosceva. Caleb era impegnato in una videoconferenza. Doveva riferirgli qualcosa?

«No, grazie. L’agente Scapin è disponibile?» Non era sua intenzione organizzare una serata con Jane, ma poteva parlarle dell’uomo misterioso. Qualcuno doveva esserne a conoscenza per consultarsi con i colleghi a Liverpool.

Ma anche Jane era impegnata su un’altra linea. Kate chiese di nuovo di essere richiamata da Caleb.

Poi salì al piano di sopra. Voleva farsi una doccia. E mettersi della biancheria pulita.

Tre

Erano in Irlanda del Nord. Finora era andato tutto bene. Anche l’umore di Denis era un po’ migliorato.

Quel mattino era ancora così nervoso che Terry non si era azzardata neppure a chiedergli di portarle qualcosa per colazione. Una fetta di pane tostato, un muffin, magari un caffè. Non poteva presentarsi in sala da pranzo, perché i capelli di un colore diverso avrebbero destato troppa curiosità. La tinta non aveva dato come risultato un biondo vero e proprio, quanto piuttosto un castano chiaro tendente decisamente al verde. Terry era rimasta sconvolta guardandosi allo specchio, ma aveva sperato che nel corso della notte le cose sarebbero migliorate. Invece erano solo peggiorate, se possibile.

«Stai da schifo» fu il commento poco lusinghiero di Denis quando la vide. «Sei un insulto alla vera Stella Crane, bisogna dirlo.»

Terry stava per mettersi a piangere, ma trattenne le lacrime alla vista dell’occhiata minacciosa di Denis: una donna piagnucolosa era l’ultima cosa di cui aveva bisogno in quel momento. Non le aveva ancora spiegato cosa fosse successo, ma il suo malumore era legato al fatto di non poter più prelevare dal conto. Terry non osava fare domande, nel timore di scatenare la sua collera. Tutto quello che le aveva detto era che non avevano più un centesimo e non ne avrebbero avuti fino a chissà quando.

«Tutto quello che avevamo è andato nei biglietti del traghetto» annunciò prima di scendere a fare colazione. «Questo significa che purtroppo non potremo pagare neppure questo nobile alloggio. Mentre sono di sotto, porta le nostre cose in macchina senza farti vedere, capito? Ci vediamo lì alle nove in punto.»

«Ma non possiamo mica...»

«Per Dio, sei persino più stupida di quanto sembri, te ne rendi conto? Se non ho soldi, significa che non ne ho. Quindi vedi di fare come ti ho detto. E tieni la bocca chiusa!»

Non avevano molti bagagli, erano partiti dallo Yorkshire solo con una sacca dei Crane. L’avevano riempita di biancheria, magliette e pullover, oltre a shampoo, bagnoschiuma e dentifricio. Avevano acquistato gli spazzolini durante il viaggio. Era bastato per tirare avanti e non dare troppo nell’occhio nei posti dove avevano passato la notte.

«Se non avessimo bagaglio» aveva spiegato Denis, «penserebbero che qualcosa non va. Invece così sembriamo una coppia affiatata in vacanza.»

Non c’era niente di vero in questo. Non erano una coppia, non erano affiatati, non erano in vacanza. Niente di quello che Denis diceva o faceva sembrava sincero: il nome falso con cui si era presentato, il fatto di non averle detto che era stato in carcere, la fuga rocambolesca che durava ormai da giorni. Terry si era ritrovata con i capelli tinti e un documento che apparteneva a una donna prigioniera e indifesa. Terry stava male tutte le volte che ci pensava. Si sentiva risucchiata sempre più velocemente in un abisso di illegalità, violenza e menzogna. E Denis non era più quello di una volta. Certo, anche in passato era capitato che la trattasse bruscamente e le desse degli ordini, e l’aveva picchiata più di una volta. Ma per il resto aveva dimostrato sempre grande affetto e tenerezza e spesso le aveva fatto dei complimenti, dicendole che era una bella donna, una donna fantastica. Le aveva dato l’impressione di comprenderla e di essere dalla sua parte. Aveva condannato i suoi genitori che l’avevano costretta a dare in adozione il figlio e le aveva ripetuto più volte che era stata ingannata, anche dai Crane. Prima di andare a trovare la famiglia a Kingston, lui le aveva assicurato di voler conoscere a tutti i costi il piccolo Sammy, che «comunque è una parte di te, tesoro». A essere sinceri, Terry era rimasta un po’ stupita che per tutto il pomeriggio lui non avesse dimostrato il minimo interesse per il bambino, facendo domande sullo stile di vita e le abitudini di Stella e Jonas. In seguito, vagando per la brughiera dello Yorkshire alla ricerca della casa dei Crane, le aveva spiegato: «Lo faccio soprattutto per te, Terry. Loro hanno il tuo bambino. E vogliono tagliarti fuori completamente. Hai potuto mettere al mondo il piccolo Sammy, ma adesso vogliono che ti faccia da parte e lasci in pace la loro piccola famiglia felice. Hai intenzione di permetterglielo? Ha il diritto di veder crescere tuo figlio. E io farò in modo che questo diritto ti venga riconosciuto».

In quel momento si era sentita lusingata. Da tempo non le capitava che qualcuno si interessasse così della sua vita. Che si preoccupasse per lei. Che lottasse per i suoi diritti. Era fantastico.

Ma ora... non c’era più traccia di tenerezza in lui, nemmeno l’ombra di un complimento. Non parlava più di Sammy né del fatto che Terry avesse il diritto di stare con suo figlio. A pensarci ora, sembrava che il suo interesse per i Crane avesse un solo scopo: scoprire cosa ottenere da loro.

Alla fine gli avevano rubato l’identità.

Come succedeva sempre, lei non osò ribellarsi neppure quel mattino. Una volta che Denis fu sceso a fare colazione, raccolse tutte le loro cose e si guardò intorno. Dopo il ridicolo tentativo di tingersi i capelli, il bagno aveva un aspetto spaventoso: la tinta era ovunque, nel lavandino, sugli armadietti, sullo specchio, sul pavimento di mattonelle bianche e sugli asciugamani in origine bianchi. Terry aveva ripulito alla meno peggio in preda al panico e aveva infilato gli asciugamani ancora umidi e macchiati in un sacchetto di plastica che poi aveva nascosto in fondo alla borsa da viaggio, per non destare sospetti. Prese anche due teli da bagno puliti. Sapeva che non era giusto, ma sperava di guadagnarsi l’approvazione di Denis. Se non avevano più soldi, dovevano approfittare di tutto quello che potevano ottenere gratis. Dopotutto non faceva molta differenza, visto che non avrebbero pagato nemmeno il conto.

Scese le scale con la sacca, fermandosi a ogni pianerottolo e rimanendo in ascolto. Dalla sala da pranzo giungeva un brusio di voci, dalla cucina il tintinnio di posate e stoviglie. C’era un profumo irresistibile di caffè, uova strapazzate con pancetta, pancakes allo sciroppo. Terry aveva l’acquolina in bocca. Chissà se sul traghetto ci sarebbe stato qualcosa da mangiare? L’importante ora era che la coppia che gestiva il bed & breakfast e la ragazza che si occupava delle pulizie fossero impegnati.

Terry uscì senza essere notata e andò alla macchina in cortile. Erano le nove in punto, come concordato. Dato che non si fidava, Denis si era portato dietro le chiavi dell’auto.

In quel momento arrivò. Sembrava piuttosto nervoso. «Tutto a posto? Hai preso tutto?»

Aprì la macchina, sistemarono la borsa sul sedile posteriore e salirono in tutta fretta.

«Ho avuto un’idea geniale» annunciò Denis mentre accendeva il motore. «Ho spiegato che ti sentivi malissimo. Nausea, diarrea, tutto il repertorio. Per questo non sei scesa a fare colazione. Mi hanno fornito le indicazioni per uno studio medico a Stranraer e sono convinti che voglia portarti lì. Non pensano nemmeno lontanamente che abbiamo intenzione di scappare.» Uscì dal cortile. «Erano molto preoccupati. Ti fanno gli auguri di una pronta guarigione.»

«Grazie» mormorò Terry. Diversamente da Denis, non considerava tutta quella messinscena come un’abile e raffinata mossa diversiva. D’un tratto rimpianse di aver portato via i teli da bagno.

Mancavano tre ore alla partenza del traghetto. Terry temeva che la loro fuga sarebbe stata scoperta troppo presto, ma Denis scacciò questa preoccupazione. «Mi hanno detto che potrebbe volerci parecchio tempo, perché è un dottore molto richiesto. E poi non staranno a pensare ogni minuto a quanto tempo ci mettiamo. Dopotutto hanno altro da fare.»

Nonostante queste parole, era agitato. Avevano raggiunto un parcheggio isolato a nord del porto e Denis aveva detto che avrebbero aspettato lì. Terry si rassegnò all’idea che per un po’ non avrebbe potuto né bere un caffè né mangiare un pezzo di pane. Il sole aveva lasciato il posto alle nuvole, e ora pioveva.

Terry non si era mai sentita così sconsolata.

Quando giunse l’ora dell’imbarco, Denis era ancora più nervoso e Terry cominciò a temere che questo sarebbe bastato a trattenerli: chiunque avrebbe riconosciuto Denis come un criminale in fuga. Invece nessuno sembrò fare caso a lui. Mostrarono i biglietti e salirono senza problemi sul traghetto. C’erano pochi passeggeri. La pioggia era aumentata e la temperatura era scesa bruscamente. Non era certo il tempo ideale per una gita in mare.

Terry riuscì almeno a bere un caffè sul traghetto. Si scaldò le dita intorno alla tazza di plastica e si riprese un po’ grazie alla caffeina.

Forse prima o poi tutto sarebbe finito bene. Lei e Denis si sarebbero sistemati dalle parti di Dublino, in una casetta bianca in mezzo a prati verdi, un muretto di pietra intorno al giardino, bambini che ridevano e giocavano...

Una volta in Irlanda, l’umore di Denis migliorò. Non avevano ancora lasciato la Gran Bretagna, ma erano quasi in Irlanda e lui sembrava sollevato.

Abbandonando il progetto iniziale di passare da Belfast, trovare una sistemazione e partire per il Sud il giorno dopo, decise di mettersi subito in viaggio per Dublino.

«Abbiamo quasi finito i soldi. Se ci fermiamo a Belfast per la notte, non ci rimarrà più niente. Inoltre mi sentirò più sicuro solo dopo aver lasciato l’Irlanda del Nord. Ci mettiamo in viaggio subito.»

Fecero il pieno, intaccando così ulteriormente le loro magre sostanze. Erano quasi le tre del pomeriggio e la pioggia continuava a scrosciare. Terry aveva sentito dire che in Irlanda pioveva molto spesso. La sua ondata di passeggero ottimismo svanì di nuovo. La casetta bianca si allontanò all’orizzonte, insieme ai bambini che si divertivano sotto il cielo estivo. Ciò che rimase era la strada deserta che girava intorno a Belfast e un paesaggio quasi invisibile oltre la fitta cortina di pioggia grigia. A Terry parve di riconoscere prati e muretti. Qua e là un casolare adagiato in un avvallamento, le finestre vuote e inanimate. A Terry tornò in mente di colpo il suo piccolo appartamento di Leeds e certe serate divertenti trascorse con Peggy ed Helen, le vicine del piano di sopra. A quell’epoca non si era sentita felice, ma a ripensarci ora si rendeva conto che non era stato un brutto periodo. Aveva avuto qualche amica, un lavoro e un appartamento piccolo ma accogliente. Si vedeva spesso con Peggy ed Helen a bere un bicchiere di vino, ed erano state una buona compagnia. Nelle fredde sere d’inverno Peggy preparava della cioccolata calda con il rum e poi si sedevano tutte insieme davanti al camino a chiacchierare, mentre fuori nevicava. Terry si lamentava sempre perché aspettava che le succedesse qualcosa di straordinario, qualcosa che le cambiasse la vita.

Adesso era accaduto. Ed era cambiato tutto. Era a bordo di una macchina rubata, aveva fame e freddo, e viaggiava sotto la pioggia in Irlanda del Nord in compagnia di un criminale ricercato dalla polizia.

Erano in viaggio da più di mezz’ora in mezzo a un paesaggio disabitato, quando Denis imboccò una stradina laterale e si fermò.

«Prendi la borsa. Mi serve uno dei pullover di Jonas. Fa un freddo tremendo.»

Per risparmiare carburante non avevano acceso il riscaldamento, e anche Terry moriva di freddo nella sua maglietta leggera. Prese la borsa dal sedile posteriore, Denis la aprì e si bloccò.

«Cos’è questo?»

«Cosa?» chiese Terry.

Lui tirò fuori uno dei due soffici teli da bagno che aveva preso Terry. «Non saranno quelli della nostra camera?»

«Sì. Io...»

«Tu cosa?» la fissò. Era furioso. «Cosa?»

Lei credeva di aver avuto una buona idea, e invece non sembrava affatto così. Nemmeno lontanamente.

«Pensavo...»

«Che cosa pensavi

«Che... potevano servirci. Cioè... hai detto che non abbiamo più soldi... così non dovremo comprarli...»

Lui rovistò meglio nella borsa e trovò il sacchetto di plastica con gli asciugamani sporchi. «Non ci credo! Hai rubato tutti gli asciugamani?»

Lei non disse niente, ma se ne avesse avuto il coraggio, gli avrebbe chiesto per quale motivo se la stava prendendo tanto. Per il furto? Denis era stato condannato a otto anni di reclusione per l’omicidio della sua ex fidanzata, aveva preso in ostaggio un’intera famiglia, gli aveva rubato la macchina e i documenti.

E adesso se la prendeva per qualche asciugamano?

Ma ben presto si rese conto che il problema non era di certo di carattere morale.

«Quanto sei stupida» le disse. «Sei di un’idiozia paurosa. Dovrei buttarti fuori dalla macchina e lasciarti qui, a cavartela da sola. Così non rischieresti di mandare tutto all’aria!»

Lei avrebbe voluto dire qualcosa, ma riuscì a pronunciare solo un singhiozzo e un flebile: «Denis...»

Lui guardò la pioggia oltre il parabrezza, come se si stesse domandando per quale motivo si fosse portato dietro un’imbecille come lei, poi si voltò senza preavviso e le sferrò due violenti schiaffoni in faccia.

«Sei una cretina, non sai nemmeno contare fino a tre!» gridò. «Prova a indovinare che cosa avrà pensato stamattina quella stupida che rifà le stanze a Cairnryan, vedendo che sono spariti tutti gli asciugamani. Credi che si sia detta: Oh, i Crane se li saranno portati dal dottore? Secondo te?»

Terry non osò obiettare che anche le tracce della tintura per capelli avrebbero suscitato sospetti e che non era stato del tutto stupido da parte sua sbarazzarsi degli asciugamani sporchi. Vedendo che non rispondeva, lui la colpì di nuovo. Terry sentì il sapore del sangue in bocca.

«Si sarà guardata intorno e avrà notato che non c’erano nemmeno i bagagli. E allora quegli scemi del bed & breakfast avranno capito che ce la siamo filata. Basterebbe un briciolo d’intelligenza in più per capirlo!»

«Ma...» Terry non riusciva a parlare. Le labbra le si erano gonfiate in un istante. «Ma... se ne sarebbero accorti in ogni caso» biascicò. «E comunque adesso siamo qui.»

«Perché siamo stati fortunati! Ma avresti potuto rovinare tutto! Avrebbero potuto chiamare la polizia e ci avrebbero potuto bloccare sul traghetto! Sai che ti dico? Se la stupidità puzzasse, non si resisterebbe vicino a te!»

Lei si rannicchiò il più possibile sul sedile. Era andato tutto bene. Erano saliti sul traghetto. Nessuno si era accorto di loro.

Erano in Irlanda.

Denis stava dando sfogando la tensione degli ultimi giorni e soprattutto delle ultime ore. Era quasi sollevato di aver trovato un pretesto per farlo. Terry glielo leggeva negli occhi. Non aveva ancora finito con lei. La sua compagna precedente l’aveva ammazzata di botte.

Terry spalancò la portiera e si lasciò cadere di schiena sull’erba alta e bagnata. La pioggia, il freddo e un vento forte la assalirono, ma lei si rialzò subito. Anche se le girava la testa e le faceva male tutta la faccia. Sputò il sangue che le si era raccolto in bocca. Le sembrò di sputare anche un dente.

Lo spirito di sopravvivenza aveva preso il sopravvento. Tardi, molto tardi, ma, questo era ciò che sperava, non troppo.

Si mise a correre il più veloce possibile. Corse sotto la pioggia in mezzo al nulla. Sentì che lui la inseguiva.

Sapeva che l’avrebbe raggiunta.

Nonostante questo, continuò a correre.

Lontano da Denis Shove, il più lontano possibile.

Lontano da lui. Per sempre.

Quattro

Era ormai sera e non l’avevano richiamata né Caleb né Jane. Kate non aveva osato telefonare di nuovo per non sembrare importuna. Poteva immaginare quanto avessero da fare dopo il ritrovamento del cadavere di Norman Dowrick. Il caso aveva assunto proporzioni allarmanti: tre morti e un unico sospettato che non era più tale. Caleb doveva avere l’impressione di essere tornato alla casella di partenza.

Alla fine Kate si fece coraggio e richiamò l’interno di Caleb alla centrale, ma non le rispose nessuno. Provò sul cellulare, ma trovò la segreteria. Era frustrante, ma forse aveva deciso di staccare prima. Probabilmente negli ultimi due giorni non aveva chiuso occhio e aveva bisogno di una pausa.

Nella sua mente si affacciò un piano ardito, ma impiegò mezz’ora, vagando tra la casa e il giardino, prima di trovare il coraggio di metterlo in pratica: sarebbe andata a casa di Caleb. Poteva dirgli che si trovava a passare da quelle parti.

Ho pensato di venire a dare un’occhiata.

Dopotutto aveva appena deciso che doveva comportarsi in modo più deciso se voleva cambiare qualcosa nella propria vita.

Lui le aveva dato il proprio biglietto da visita quando era stato a trovarla la prima volta e l’aveva avvertita dei possibili pericoli. Lei così sapeva dove abitava, sul South Cliff di Scarborough, oltre la schiera di grandi alberghi a prima vista raffinati e signorili, ma che in realtò mostravano tutti i segni del tempo dietro la lussuosa facciata. Kate ci era andata spesso con il padre. Lasciavano la macchina e raggiungevano a piedi la scogliera subito dopo le ultime case. Quanto le piaceva la luce del crepuscolo delle serate estive. Quel giorno, però, non c’era nessun tramonto. Cupe nubi temporalesche si stavano ammassando da ovest. Poco dopo cominciò a piovere.

Caleb abitava in Wheatcroft Avenue, una via residenziale dove le ultime case erano affacciate direttamente sul mare. Quella di Caleb era a metà, e da lì si poteva vedere al massimo uno spicchio d’acqua dalle finestre del piano superiore. In ogni caso il quartiere, le dimensioni e l’eleganza delle abitazioni erano sicuramente fuori dalla portata dello stipendio di un poliziotto, anche di un ispettore capo. I casi erano due: o la moglie era ricca, o Caleb aveva ricevuto una grossa eredità.

La sua macchina era davanti all’ingresso, perciò doveva essere in casa. Kate sperava che non fosse già andato a dormire: in quel caso non sarebbe stato particolarmente felice di essere tirato giù dal letto. Ferma davanti alla porta, Kate esitò a lungo, cercando di cogliere un indizio qualunque a confermarle che Caleb era ancora sveglio. A un certo punto le parve di sentire una specie di brusio monotono dall’interno della casa: forse la radio, o la televisione. Poi si accorse che il rumore proveniva dalla casa accanto, dove due persone chiacchieravano in giardino.

Okay. Non aveva importanza. Per ottenere qualcosa, bisognava rischiare.

Suonò il campanello e rimase in attesa.

Caleb le aprì quando Kate era sul punto di andarsene. Si accorse subito di non averlo svegliato: era completamente vestito e niente affatto assonnato. Ciò nonostante non sembrava contento di vederla. La lunga pausa prima di aprire indicava molto probabilmente che era infastidito all’idea di ricevere visite e aveva dovuto fare uno sforzo per andare alla porta.

Ho sbagliato, pensò Kate. Ho sbagliato anche stavolta, naturalmente. È stravolto dopo gli ultimi giorni e voleva passare una serata in santa pace. Ed ecco che io gli piombo in casa.

«Ah, sei tu, Kate. Che succede?»

«Io... ecco, passavo... da queste parti...» Si vergognava del proprio tono balbettante. «Ho provato a telefonarti un paio di volte...»

Lui si passò una mano tra i capelli. Kate si accorse di quanto fosse esausto. Ma la sua non era solo stanchezza. Sembrava tormentato. Infelice. Non stava affatto bene e non dipendeva solo dallo stress del lavoro.

«Sì, oggi è stata una brutta giornata. Praticamente non sono mai stato in ufficio. Sono accadute tante cose.» Fece un passo indietro. «Vuoi entrare?»

Lei si augurò che non lo dicesse solo per buona educazione.

«Se non disturbo...»

«Niente affatto. Oggi sono tornato a casa un po’ prima del solito. Sono sfinito. Avevo bisogno di staccare.»

«Forse allora è meglio se torno in un altro momento...»

«No, no. Non preoccuparti. Vieni.»

Kate si era aspettata che la facesse accomodare in veranda, invece le aprì la porta della cucina. «Prego.»

Passandogli vicino, avvertì l’odore. Fin da subito aveva percepito qualcosa... qualcosa che non era stata in grado di definire, e che non era da lui. Poi capì. Puzzava di alcol. Caleb aveva bevuto.

Kate non fece in tempo a mascherare il proprio stupore e Caleb rise. «Sì. È la prima volta dopo sei mesi. È già qualcosa. C’è chi ci ricade prima.»

Che cos’è successo, avrebbe voluto chiedergli, in nome di Dio, cos’è successo? Invece rimase in silenzio e si guardò intorno a disagio. Il vasto ambiente era stato ricavato da due stanze. La parete divisoria era stata abbattuta e il soffitto era sorretto da un massiccio palo di legno verniciato di scuro. La cucina a vista aveva un lungo bancone d’acciaio e una comoda zona pranzo arredata con un tavolo, sedie di legno e mensole bianche alle pareti. Un’intera parete era occupata da una grande vetrata che dava sul giardino.

Kate era decisamente impressionata. «È... è una casa bellissima, Caleb.»

«La mia ex moglie aveva molto gusto. E molti soldi. La casa appartiene a lei, ma dopo la separazione non ha più voluto abitare qui. Le pago l’affitto, ma in realtà... vorrei andarmene anch’io. Finora non ho avuto il tempo di cercare un’altra sistemazione e di organizzare il trasloco. Il lavoro, sai. E poi sono stato ricoverato per mesi...» Scoppiò in una risata senza allegria. «Me lo sarei potuto risparmiare.»

Lei guardò la bottiglia e il bicchiere sul bancone.

«La mia cena» annunciò Caleb. «Vuoi favorire?»

«No, grazie.»

«Mi era sembrato che nemmeno tu disdegnassi la compagnia di un buon whisky.»

«Caleb...»

«Scusa. Divento antipatico quando bevo. Per questo mia moglie mi ha lasciato, sai? Diceva che divento cinico e offensivo. E aveva ragione. Ma non è tutto. È questo il problema.» Afferrò la bottiglia, versò un po’ di whisky nel bicchiere e lo bevve tutto d’un fiato. «Oltre a diventare uno stronzo, divento anche un poliziotto maledettamente bravo. Più bevo, più ragiono in maniera geniale. I più grandi successi professionali li ho collezionati quando ero completamente ubriaco. Il mio cervello ha bisogno di questa merda per girare a pieno regime. È questa l’amara verità.»

La voce era diversa dal solito. Più dura, più forte. Con una nota aggressiva. Aveva già bevuto parecchio, prima della visita inaspettata di Kate. Per fortuna sono venuta io, pensò, per fortuna non qualcun altro.

«Lo sai qual è un’altra amara verità?» proseguì Caleb. «Il rovescio della medaglia. Senza bere sono un fallimento. Una nullità. Un perdente. Una catastrofe.»

«Questo non è vero.»

«Ne sei proprio sicura? Lo sai che cosa è successo oggi?»

Lei scrollò il capo. «No.»

«Shove» disse. «Denis Shove» ripeté, ascoltando il suono di quel nome.

«L’avete trovato?» chiese Kate. «È stato arrestato?»

«No, ma è solo questione di tempo. Sappiamo che si è imbarcato sul traghetto da Cairnryan a Belfast. È probabile che voglia passare in Irlanda. Viaggia su un’auto rubata. Abbiamo la targa. Non può sfuggirci.»

«Ma... è una bellissima notizia!»

«Ha preso in ostaggio una famiglia, nelle brughiere dello Yorkshire» disse Caleb. «In una fattoria isolata. Ha sparato al marito e poi lo ha rinchiuso insieme alla moglie e al figlio in una rimessa. Hanno rischiato di morire di sete. Jane li ha soccorsi appena in tempo.»

«Jane?»

Lui confermò con un cenno del capo. «Esatto. Ha seguito una pista secondaria, con tenacia e da sola. È davvero una donna fantastica! Dovrebbe essere lei a dirigere le indagini al posto mio. Non solo ho sbagliato a sospettare di Shove, ma non sono neppure riuscito ad avvicinarmi a lui. Jane, invece... ha la stoffa del poliziotto. Davvero!»

Prese di nuovo la bottiglia. Prima che la timidezza glielo impedisse, Kate fece un passo avanti e gli posò la mano sul braccio. «No, Caleb. Non farlo. Hai bevuto abbastanza per oggi.»

Lui la guardò sorpreso. «Credi di poter essere tu a decidere?»

«È un consiglio.»

Lui lasciò la bottiglia. «Il marito di questa famiglia... non si sa ancora se ce la farà. È in ospedale. In condizioni critiche.»

Lei gli teneva sempre la mano sul braccio. «Che cos’è successo, Caleb? Che cosa ti ha ridotto in questo stato? Perché ti tormenti?»

«Perché mi tormento? Lo sai anche tu. In questa indagine ho commesso un errore dopo l’altro. Ho ragionato in maniera unidirezionale. Mi sono fissato su una pista. Fin dall’inizio. Nella mia mente da sobrio c’era posto soltanto per Denis Shove. Persino quando mi sono trovato davanti il cadavere martoriato di Melissa Cooper e non riuscivo a stabilire un collegamento con Shove, ho continuato a insistere su di lui. Prima non mi sarebbe successo, Kate. Mai.»

«Shove è un uomo pericoloso. Non hai dato la caccia a un innocente.»

«Sai quali erano le accuse contro di lui prima che cominciassi a dargli la caccia? Truffa ai danni dell’istituto previdenziale. Una truffa ridicola, per somme irrilevanti. Naturalmente andava punita. Ma non così! Non organizzando una squadra speciale per dargli la caccia giorno e notte.»

«Ma tutto il resto...»

«Tutto il resto non sarebbe accaduto se non lo avessi messo alle strette. Shove era ed è un imbecille, e naturalmente si è reso molto sospetto sparendo sotto falso nome dopo l’omicidio di Linville, ma ha cominciato a sragionare solo dopo che la sua foto è apparsa sui giornali e non sapeva più dove nascondersi. Allora ha aggredito Peggy Wild e le ha rubato la macchina. Poi si è barricato da questa famiglia nella brughiera. Ha sparato a Jonas Crane. Ha compiuto una fuga rocambolesca in Irlanda. C’è il rischio che durante l’arresto spari a qualcuno e causi altri feriti e altri morti.» Senza curarsi dello sguardo severo di Kate, Caleb prese di nuovo la bottiglia, la rovesciò con un gesto impulsivo, versando del whisky sul bancone. Svuotò il bicchiere in un sorso.

«Vuoi che ti tratteggi il mio fantastico bilancio, Kate? Il bilancio del primo caso dell’ispettore capo Caleb Hale dopo la disintossicazione. Vediamo, che cosa abbiamo?» Elencò contando sulle dita. «Abbiamo Peggy Wild, una giovane donna gravemente ferita, ancora ricoverata in ospedale. Abbiamo un uomo in fin di vita, padre di famiglia, che non si sa se supererà la notte. Abbiamo una moglie traumatizzata e un bambino sotto choc. Non abbiamo ancora arrestato il colpevole, che si trova in compagnia della fidanzata, che non sappiamo se considerare un complice o un ostaggio. È armato e pericoloso. Ah, stavo quasi per dimenticarmene: non conosciamo ancora l’identità dell’assassino di tuo padre, Kate. Da febbraio non abbiamo fatto un solo passo avanti. A meno che non consideriamo la mia ridicola fissazione per Shove come il primo passo verso una ricerca del colpevole per esclusione. Già, niente male, vero? Ora sappiamo di poter eliminare Shove dalla lista dei sospetti. Non è un grande progresso?»

«Smettila, Caleb. Non ne vale la pena.»

Lui la fissò. «Che cosa non vale la pena?»

«Ricominciare a bere. Qualunque cosa sia andata storta, non può riportarti al punto in cui eri prima.»

«E dov’ero?»

«A quanto ho sentito, eri sull’orlo dell’abisso. Ora puoi benissimo credere che fossi un geniale investigatore, ma ti illudi. Il tuo era un suicidio a tappe.»

Lui guardò pensieroso il bicchiere. «Quando sono uscito dalla clinica, il mio terapeuta mi disse che la vera prova sarebbe arrivata nel momento in cui avrei dovuto affrontare dei problemi seri. Quando sarei stato sconvolto da qualcosa, quando mi sarei sentito scuotere nel profondo, quando avrei creduto che non ci fossero altre vie d’uscita a parte l’alcol... non è vero, è cominciato molto prima. La prova è iniziata fin dal primo giorno. Sono tornato in ufficio e tremavo di paura. Il caso di tuo padre era sulla mia scrivania e io provavo solo un’abissale disperazione. Non mi sentivo all’altezza. Ero fragile e inerme. È questo il punto cruciale, Kate: senza alcol non ho alcuna fiducia in me stesso. Non credo di poter ottenere o raggiungere qualcosa. Ho delle idee, ma mi sembrano sciocche, inconcludenti. Resto letteralmente paralizzato. Non sono in grado di dire a nessuno che cosa fare, non so prendere decisioni. Me ne sto seduto lì a sperare che succeda qualcosa.»

«Ma tu hai preso delle decisioni, Caleb. Ti ho visto io. Sei sempre sembrato convincente. E perfettamente padrone della situazione.»

«Mi sono fissato su Denis Shove. Era lì, e io mi ci sono letteralmente aggrappato. Era come un faro nella notte.» Scrollò il capo. «È assurdo che dica una cosa simile proprio di Denis Shove.»

Lei avrebbe voluto dirgli che lo capiva. Avrebbe voluto interromperlo, quando aveva parlato della sua mancanza di autostima. Sono così anch’io! Stai descrivendo me. So esattamente quello che provi. Non sei solo.

Ma lui aveva già ricominciato a parlare. «La mia ex moglie cercava sempre di analizzare da dove derivasse la mia mancanza di autostima, la mia incapacità di credere in me stesso e nelle mie doti. Ripercorreva regolarmente la mia infanzia e la mia giovinezza. Dov’era il problema? Dov’era stato commesso l’errore decisivo? Sai una cosa, Kate? Non c’era niente. Nella mia vita non c’è niente che possa spiegare come sono fatto. Perché solo quando bevo non mi sento un fallito. Non ho avuto un’infanzia difficile. I miei genitori erano affettuosi e premurosi. Il rapporto con i miei fratelli era splendido. Nessun insegnante cattivo. Tutto è sempre andato bene. Bel casino, vero? Niente di niente che potesse giustificare il mio comportamento.»

Lei allungò di nuovo la mano e gliela posò sul braccio. Stavolta non per impedirgli di prendere la bottiglia. Stavolta era un gesto d’affetto, di partecipazione. Di comprensione.

«A volte succede, Caleb. Capita di non trovare una spiegazione. Perché sono tanto sola? Perché mi è così difficile aprirmi con le altre persone? Perché non riesco a credere in me stessa? Ho cercato spesso una risposta a questi interrogativi. Esiste. Per me come per te. Ma è nascosta e non riusciamo a trovarla. Probabilmente non la troveremo mai. E dobbiamo rassegnarci a conviverci.»

Non sapeva se lui l’avesse ascoltata, perché cambiò subito argomento. «Ho sempre avuto la sensazione che Jane non fosse del tutto convinta della colpevolezza di Shove. Ma ha seguito i miei ordini e ha fatto del suo meglio. Ha salvato questa famiglia. All’ultimo momento. Lei e quell’iracheno in esilio. Lui sapeva che c’era qualcosa di sospetto. E Jane gli ha creduto.»

Kate, che non era al corrente dei particolari, non aveva l’impressione che fosse il momento migliore per chiedere spiegazioni più precise. Così si limitò ad annuire. «Sì, okay.»

«Liberando la famiglia Crane, Jane ha scoperto con che macchina sono fuggiti Shove e Malyan. Therese Malyan è la madre biologica del figlio adottivo dei Crane. Capisci?»

A Kate girava la testa. «Più o meno.»

«Fino a stamattina erano ancora a Cairnryan, in Scozia. Lì hanno preso il traghetto per Belfast. Non hanno pagato il conto del bed & breakfast e si sono portati via anche qualcosa. Li hanno già denunciati. Inoltre sono stati così stupidi da presentarsi con il nome dei Crane. Stella e Jonas Crane. Una volta inseriti i loro nomi nel computer, è stato facile risalire ai loro movimenti. I colleghi scozzesi ci hanno informato subito. Per questo sappiamo con precisione dove si trovano.»

«Questo è un successo, Caleb!»

«Un successo di Jane. Non mio.»

«Siete una squadra.»

«Sì, sì» borbottò. Se non altro non si riempì di nuovo il bicchiere. Era abbattuto e sconfortato.

Lei ritirò la mano. Non poteva lasciarla lì in eterno. Comprese che lui non l’avrebbe mai presa. Né stasera né mai.

«Dovresti andare a riposare, Caleb. Domani forse tutto ti sembrerà diverso.»

«Domani» disse Caleb «dovrò pensare a come procedere.» Indicò con un cenno della testa la bottiglia di whisky.

«Dovresti buttare via quello che resta.»

«Forse.» Non sembrava troppo convinto.

«Vuoi che resti?»

«No. Torna a casa. Voglio rimanere solo.»

«Ho paura che tu possa...»

«Cosa?»

«Che continui a bere.»

«Andrò a dormire.»

Si guardarono negli occhi. Kate non avrebbe saputo dire se lui si sarebbe ripreso da quello scivolone o se la sua fosse stata una ricaduta vera e propria. Con conseguenze imprevedibili. Tutto era possibile.

Prese la borsetta. Poi le tornò in mente il motivo per cui era lì. «Ascolta, Caleb, ero venuta a dirti una cosa. Stamattina ho parlato con Kadir Roshan. È quello strano individuo che sta sempre seduto sul muretto davanti a casa di Grace Henwood. Un tipo singolare, ma un ottimo osservatore.»

Si accorse che Caleb si sforzava di seguirla. Anche lui se ne rese conto. «Ecco l’unico risultato della disintossicazione! Maledizione, non reggo più niente. Prima, dopo mezza bottiglia di whisky, ero brillante. Adesso ho l’impressione di avere la testa a mollo. Come parlo? Si sente? Che sono ubriaco?»

«Un pochino. Forse per stasera faresti meglio a non parlare più con nessuno. Non c’è bisogno che si venga a sapere.»

«Sì. Certo. Mi sembra ragionevole. Che cosa mi volevi dire? Del tizio sul muretto?»

«Mi ha detto...»

Caleb la bloccò con un gesto della mano. «Stammi a sentire, Kate, credo di non essere in grado di sostenere una conversazione importante stasera. Meglio che ti rivolga a Jane. Oggi è Jane l’eroina. Si merita una promozione.»

Kate avrebbe voluto dire che Jane era troppo giovane per una promozione a sovrintendente, ma ricacciò in gola quelle parole. La cosa non la riguardava.

«Secondo te dovrei chiamare Jane?»

«Sì, è la cosa migliore. Oppure puoi andare da lei. Sta a Burniston. Limestone Grove numero... Per la miseria, non me lo ricordo...» Si afferrò la testa come se così potesse concentrare i pensieri. «15, credo. Oppure 5. 25.»

«Secondo te posso presentarmi così, senza avvertire?»

Lui scoppiò a ridere, ma era una risata quasi ostile. «Con me non hai avuto problemi a farlo.» Vedendo l’espressione di lei, si affrettò a rimediare. «Non dicevo sul serio. No, penso che le farà piacere. La sera non può uscire. Jane è molto sola. A causa di Dylan. È questo il suo grande problema.»

Cinque

Almeno il nome della via corrispondeva. Fin lì la memoria di Caleb era stata precisa. Kate riconobbe la casa grazie all’auto di Jane parcheggiata davanti all’ingresso. Il numero cinque, invece, non c’entrava nulla. Burniston, alla periferia di Scarborough, era un sobborgo pulito e ordinato, costruito di recente. Casette di mattoni rossi con bovindo e portoncini bianchi, i giardini ben curati. Non era un ambiente in sintonia con Jane, almeno per quanto Kate poteva giudicare. Ma forse Jane ci si era ritrovata senza volerlo. Le case erano piuttosto piccole e quindi poco costose. Una giovane poliziotta come Jane non guadagnava molto, ma forse preferiva abitare in una villetta anziché in un appartamento nel centro di Scarborough. Se non altro per il bambino. Non si poteva avere tutto. Burniston era il compromesso giusto per Jane.

Sebbene non piovesse ancora, le nubi che si ammassavano sempre più dense e nere preannunciavano un acquazzone.

Per la seconda volta nel corso della serata, Kate si trovò davanti a una porta sconosciuta, suonò e si domandò se stesse facendo la cosa giusta. Caleb non era stato troppo contento di vederla. Forse avrebbe dovuto telefonare a Jane. Ma in cuor suo sapeva perché non lo aveva fatto: dopo aver trascorso mesi in completa solitudine a casa del padre, d’un tratto sentiva di non poterne più. Non voleva più restare sola. Voleva vedere altre persone. Voleva vivere.

Un rumore di passi frettolosi e la porta si aprì. Jane. Guardò Kate con espressione stupefatta. Almeno Kate si augurava che fosse stupore, e non sgomento.

«Kate? Ma che sorpresa.» Non si mosse dalla soglia. «È successo qualcosa?»

«Be’, no. O almeno spero. Avrei dovuto telefonarle...» balbettò Kate. Ecco, il suo è sgomento, pensò a disagio. Non sarei dovuta venire.

«Sì?»

Dall’interno della casa si udì un tonfo violento seguito da un frastuono. «Santo cielo» esclamò Jane, girandosi e correndo dentro.

Kate rimase qualche minuto sulla soglia, indecisa. Era certa di essere l’ultima persona che Jane voleva vedere quella sera. Era una seccatura. Ma forse chiunque lo sarebbe stato. Jane aveva l’aria stressata. Sfinita. Stanca. Come se a casa sua si fosse tolta la maschera della poliziotta sicura di sé, impegnata, decisa, che fa il proprio lavoro in maniera affidabile e precisa. Dietro quella maschera si celava una donna che doveva ricorrere a tutte le proprie energie per far fronte ai problemi quotidiani. Alla vita.

Vedendo che Jane non tornava, Kate pensò che forse era il caso di andarsene. Richiudere la porta in silenzio e sparire.

Ma poi cambiò idea. Entrò, percorse il corridoio e arrivò in cucina. Si fermò sorpresa.

Jane era accovacciata sul pavimento cosparso di cocci. Dovevano essersi rotti diversi oggetti di vetro e porcellana. I frammenti si erano infilati dovunque. Jane era in mezzo a quel disastro e raccoglieva con cautela i pezzi più grossi per gettarli nel sacco della spazzatura accanto a sé.

Alzò la testa. «Ah, Kate. Mi scusi. Un piccolo incidente.»

Un giovane era seduto al tavolo della cucina. A giudicare dall’altezza e dalla corporatura doveva essere un ragazzo di diciotto o diciannove anni. L’espressione del viso, però, era quella di un bambino. Un sorriso ebete era stampato sui lineamenti morbidi e flaccidi, privi di contorni. Ciuffi di capelli biondi erano appiccicati alla fronte e intorno alla grossa testa rotonda. Il ragazzo indossava una tuta blu che con ogni probabilità era l’unico capo di vestiario in grado di contenere la sua mole. Era incredibilmente grasso. Mani enormi e carnose, braccia come grosse salsicce.

Lanciò una specie di singulto e arraffò un cibo non meglio identificato ridotto a un ammasso informe mescolato a pezzi di vetro e ceramica.

«Fame» biascicò. «Fame!»

Jane balzò in piedi e gli fu accanto. Gli prese le mani. «No! Ci sono i vetri. È pericoloso!»

Lui la fissò. «Fame.»

«Abbi pazienza. Tra un attimo ti do da mangiare. Prima devo mettere in ordine. Non infilarti niente in bocca, hai capito?»

Lui mise il broncio, ma tolse la mano da quel composto pericoloso spiaccicato sul tavolo.

Kate era paralizzata dallo spettacolo.

Rimpiangeva di essere entrata. Capiva perché Jane non l’avesse invitata ad accomodarsi.

Jane si girò verso di lei. Si scostò i capelli spettinati dalla fronte sudata.

«Già» disse. «Eccolo. Lui è Dylan.»

C’era un metodo infallibile per farlo calmare: focaccine con panna montata e marmellata di prugne.

«Non è il metodo più indicato» osservò Jane, «vista la sua mole. Ma è l’unico modo. Ho bisogno di qualche momento per me. Oddio, per me è un’espressione impegnativa. In realtà devo tagliare il prato, fare la doccia, dare un’occhiata ai documenti che non sono riuscita a controllare in ufficio. Per farlo ho bisogno di tranquillità. Allora lo rimpinzo del suo cibo preferito. Poi diventa pacifico come un agnellino.»

Dylan era seduto in cucina e divorava focaccine coperte da una montagna di panna montata. Kate aveva aiutato Jane a riordinare, raccogliendo i cocci, ripulendo la cucina dal cibo sparso ovunque e infine passando l’aspirapolvere. All’arrivo di Kate, Dylan e Jane stavano cenando e lui aveva lanciato sul pavimento tutto quello che c’era in tavola.

«Perché ho suonato alla porta?» disse Kate. «Oddio, quanto mi dispiace.»

«Non so se sia stato per quello» osservò Jane. «Qualcosa lo ha contrariato. Quando succede diventa imprevedibile. Scene come questa non sono una novità per me.»

Erano sedute in salotto. La porta era aperta, come quella della cucina, in modo che Jane potesse tenere d’occhio il figlio.

«Vuoi qualcosa da bere?» le chiese. Da quando avevano ripulito il campo di battaglia, tra di loro si era creato un nuovo affiatamento. Kate era preoccupata per aver scatenato la crisi di Dylan, ma si rendeva conto anche di una cosa: Caleb aveva ragione, Jane era molto sola. E non sembrava più tanto ansiosa di liberarsi il prima possibile di Kate. Ormai non deve più nascondere niente, pensò Kate.

«No, grazie» rispose. «Rimani seduta qui tranquilla e riposati almeno un attimo.»

Jane annuì e si appoggiò allo schienale della poltrona. «Durante la settimana lo porto in un centro per disabili. Gli danno sempre qualcosa da fare, e lui è contento. Costruisce piccoli oggetti, mollette per il bucato, sottopentole intrecciati. Cose così. La mattina passa a prenderlo il bus che lo riporta nel tardo pomeriggio. Torna alle cinque e mezzo. Purtroppo non riesco sempre a essere a casa per quell’ora. L’ispettore Hale lo sa e cerca di lasciarmi uscire prima. È un capo davvero premuroso. Ma non sempre riesce ad accontentarmi.»

«E allora?»

Jane si strinse nelle spalle. «Ho una vicina di casa. Finora mi ha sempre aiutato. Brontola e protesta, ma posso contare su di lei. Per fortuna è sola e si annoia parecchio. E poi le piace esercitare il potere sugli altri. Le piace sapere che qualcuno dipende da lei, e io mando giù i suoi commenti velenosi e vado a bussare umilmente alla sua porta più volte alla settimana, per farmi aiutare. Naturalmente anche lei, per farlo stare tranquillo, lo rimpinza a volontà. A guardarlo così, sembra che debba esplodere da un momento all’altro, e invece riesce a mangiare quantità incredibili di cibo. Che cosa posso fare? Non posso certo pretendere che lei lo tenga occupato. Sono già fortunata se lo sorveglia.»

Kate era allibita. Aveva creduto che Jane fosse una madre single, stressata come la maggior parte delle donne nella sua situazione, ma nel contempo felice per il fatto di avere un figlio, un piccolo essere umano che aveva bisogno di lei e l’amava. E invece... quel gigante d’uomo, quel colosso obeso dipendeva completamente da lei. Era un fardello pesantissimo per quella giovane donna delicata. Un parassita che la consumava. Senza darle niente in cambio. Senza riuscire a dare niente.

«Quanti anni ha Dylan?»

«Ne ha compiuti diciotto in aprile.»

«È...»

«Mio fratello. Il mio fratellino.» Jane rise di fronte all’assurdità di quella definizione. «Praticamente l’ho ereditato dai miei genitori. Insieme all’obbligo di prendermi cura di lui per sempre.»

Kate era sconvolta. «Hanno preteso da te che...?»

«Mia madre» la interruppe Jane. «Mio padre se n’è andato quando Dylan era ancora piccolo. Mia madre da allora ha dedicato tutta la vita a lui. Poco prima che morisse ho dovuto prometterle che non lo avrei mai messo in un istituto.»

«È una promessa molto impegnativa» sussurrò Kate.

«Già. E non so se riuscirò a mantenerla per sempre.» Jane si alzò, prese un bicchiere da un armadietto e si versò un po’ di gin. Gettò un’occhiata interrogativa a Kate, che scrollò il capo. «Le cose si stanno complicando con lui. È sempre più forte. Più aggressivo. Prende un sacco di medicine. Un po’ è per questo che è obeso. Ma dipende anche dal fatto che per calmarlo lo riempio di cibo. È un circolo vizioso, ma non so proprio come uscirne.»

«Sei sola con questo problema?»

«A eccezione della mia simpatica vicina di casa, sì» rispose Jane.

«È nato così?»

«Una complicazione durante il parto.»

Rimasero in silenzio. Dalla cucina giungeva il lieve tintinnio del piatto da cui mangiava Dylan. Jane fissava il vuoto davanti a sé. Kate provò a immaginare le sue serate: tornava a casa trafelata dal lavoro. Lungo il tragitto si fermava a comprare il minimo indispensabile. Difficilmente ce la faceva prima delle cinque e mezzo. La vicina di casa si lamentava perché era dovuta intervenire per l’ennesima volta. Jane doveva incassare le sue risposte sgarbate, non potendo permettersi di perdere la collaborazione della donna. Poi rimaneva bloccata lì. A sorvegliare il fratello e i suoi scatti imprevedibili. Non poteva organizzare niente: una passeggiata sulla spiaggia. Un corso in palestra. Una pizza veloce con gli amici. Un cinema. Men che meno un appuntamento galante. Tanto più che poteva scordarsi del tutto qualunque relazione con un uomo: chiunque sarebbe scappato non appena avesse scoperto la dote che Jane portava con sé. Kate era convinta che Dylan fosse anche il motivo della fine del matrimonio di Jane.

«Ah, Jane» mormorò Kate.

Lei si voltò a guardarla. «Ti stanno bene i capelli. Sei stata dal parrucchiere, vero? Bravissima. Sembri molto più giovane.»

«Grazie!»

«Per quale motivo sei venuta qui?» domandò Jane. «Cioè, mi fa piacere, davvero. Come puoi ben immaginare raramente ricevo la visita di qualcuno. Ma volevi parlare di qualcosa, giusto?»

«Infatti.» Kate le riferì brevemente ciò che aveva saputo da Kadir Roshan a proposito dell’uomo misterioso che andava in giro per il quartiere facendo domande su Grace.

«Mi interessava chiarire se si trattava di un poliziotto. In quel caso non ci sarebbe da preoccuparsi. Sono stata da Caleb, ma...» Si interruppe e si morse il labbro. Non avrebbe dovuto accennare al loro incontro.

Jane si accorse subito del suo imbarazzo. «Sei stata da Caleb? Stasera?»

«Sì.»

«E lui ti ha mandata da me?»

«Ha detto che potevi chiarire la cosa facendo una telefonata alla responsabile delle indagini a Liverpool.»

«Perché non ci ha pensato lui? Gli bastavano due minuti.»

«Ecco...» Kate esitò, ma poi le tornò in mente ciò che Jane aveva detto di Caleb qualche minuto prima: è un superiore davvero premuroso. Anche l’espressione del suo viso tradiva la stima per Caleb. Non lo avrebbe mai tradito. Forse poteva aiutarlo.

«Era ubriaco, Jane. L’ho trovato in cucina che si scolava una bottiglia di whisky. Era abbastanza lucido per capire che stasera avrebbe fatto meglio a non telefonare a nessuno. La sua voce l’avrebbe tradito.»

«Accidenti» disse Jane. «Che casino!» Posò il bicchiere senza averne bevuto nemmeno un sorso. «Oggi pomeriggio avevo un brutto presentimento. Per via della storia di Shove. Era sconvolto.»

«Ho saputo che oggi hai salvato una famiglia.»

«Esatto. E adesso Caleb è convinto che a quella famiglia non sarebbe successo niente se non avessimo messo alle strette Shove. Forse in parte è vero, ma resta il fatto che Shove è un pericoloso criminale. Verrà arrestato in Irlanda ed è giusto che sia così. È un successo per la nostra squadra. Vorrei che anche Caleb riuscisse a vederla in questo modo.»

«Lui non ha ancora trovato l’assassino di mio padre. Né quello di Melissa Cooper e di Norman Dowrick.»

«Secondo me Shove non è una falsa pista. È estremamente violento. Prima o poi si sarebbe ritrovato comunque in una situazione in cui avrebbe sparato o aggredito qualcuno. È fatto così. Un delinquente cronico. Non cambierà mai.»

«Jane, per favore, nessuno deve venire a sapere quello che ti ho appena detto di Caleb» si raccomandò Kate.

«Io non lo farò di certo. La domanda è se domattina Caleb sarà di nuovo lucido. E se non ci ricadrà.»

Le due donne si scambiarono un’occhiata. Caleb era sull’orlo del precipizio.

«Fame.» Dylan era entrato in salotto in silenzio. La sua mole sembrava riempire lo spazio, facendo sembrare la casa ancora più piccola. Aveva la faccia impiastricciata di panna. Anche la felpa era macchiata, mentre i pantaloni erano costellati di chiazze indefinibili. Kate si domandò come facesse Jane a tenere pulito quel ragazzo.

Jane prese il fratello per il braccio. «Per oggi basta così, Dylan. Che ne dici di guardare un po’ di tv?»

«Tv» ripeté Dylan. Si lasciò cadere sul divano che sotto il suo peso si piegò fino a sfiorare il pavimento.

«Nella sua scuola è scoppiata un’epidemia di scarlattina» spiegò Jane, «e hanno chiuso per qualche giorno. Dovrò fare in modo di convincere la mia vicina a badare a lui domani.»

«Tv!» ripeté Dylan con un tono più deciso, quasi aggressivo. Kate capì che poteva diventare molto nervoso. «Tv!»

La sorella inserì un dvd e accese l’apparecchio. Il trenino Thomas. Dylan ridacchiava divertito e imitava i rumori del treno.

In quel momento squillò il telefono di Kate. Uscì dalla sala, perché il volume del televisore e gli schiamazzi di Dylan le impedivano di sentire alcunché.

«Pronto? Sono Kate Linville.»

Un sussurro. Incomprensibile.

«Pronto! Chi parla? Sono Kate Linville.»

«Sono Kadir.» L’uomo parlava sottovoce. Kate andò in cucina. Dylan nel frattempo sembrava un treno espresso che sferragliava proprio davanti alle finestre.

«Kadir? Che succede? Puoi parlare più forte?»

«È qui» sussurrò Kadir. «L’uomo. Cerca Grace.»

«È lì con te?»

«Non deve sentirmi. È pericoloso.»

«Kadir, devi...»

«So dov’è Grace.»

«Ne sei sicuro?»

«Penso di sì.»

«Puoi chiamare la polizia di Liverpool?»

«Sto per finire i soldi...»

Kate udì uno scatto. Naturale. Kadir non aveva un cellulare. Era una fortuna per lei che avesse trovato una cabina telefonica funzionante in quel quartiere fatiscente. E che avesse qualche spicciolo con sé.

«Okay, Kadir. Rimani dove sei. Ci penso io. Dov’è Grace?»

Un altro scatto sulla linea. La voce di Kadir era un sussurro. Kate avvertiva tutta la sua paura. Era quasi in preda al panico.

«...prima... sotto il Canada Dock... lungo il fiume...»

Fu tutto ciò che riuscì a comprendere.

Poi cadde la linea.

Sei

Un altro appuntamento cancellato per il sovrintendente Robert Stewart, che non aveva nessuna voglia di tornare a casa. Il solito problema con le conoscenze su Internet. Ci si scambiava e-mail per settimane, ci si convinceva che potesse nascerne qualcosa di concreto, ma quando si trattava di trasferire il rapporto virtuale nella vita reale, ecco le prime difficoltà. Il suo attuale contatto, se così si poteva chiamarlo, continuava a sfuggirgli da quando lui le aveva proposto un incontro. Finalmente aveva accettato per quella sera, ma all’ultimo momento gli aveva scritto un messaggio per annullare tutto adducendo pretesti fumosi. Sembrava avesse paura, e le ragioni potevano essere moltissime. Esperienze negative, oppure il terrore che la magia di quella storia virtuale potesse svanire di fronte a un piatto di pasta e un bicchiere di vino. La spiegazione più probabile, tuttavia, era che le informazioni fornite su di sé non corrispondessero del tutto alla verità e che incontrandosi venisse smascherata.

Sulla strada del ritorno doveva passare dallo Scarborough General Hospital. Poiché non aveva intenzione di starsene tutta la sera davanti alla tv, Robert decise di fermarsi a trovare Stella Crane, per sapere come stava e soprattutto per informarsi sulle condizioni del marito e del figlio. Erano le otto, un orario che gli pareva ancora accettabile per una visita. Se Mrs Crane dormiva di già, o preferiva non parlare, se ne sarebbe andato senza troppi problemi.

Quel giorno Jane Scapin era stata eccezionale, questo le andava riconosciuto. Davvero un ottimo lavoro: aveva seguito in silenzio una pista secondaria e grazie a lei era stato arrestato anche Denis Shove; quaranta minuti prima Robert aveva saputo che i colleghi irlandesi avevano fermato Shove e la sua compagna a uno dei numerosi posti di blocco intorno a Belfast. Per fortuna non c’erano state altre vittime. Il ricercato, profondamente scosso, non aveva neppure tentato di opporre resistenza, ma si era consegnato subito. La sua compagna era scoppiata a piangere. I due non potevano certo essere considerati dei moderni Bonnie e Clyde.

Dopo aver appreso la notizia, Robert aveva cercato ripetutamente di chiamare l’ispettore capo Caleb Hale, ma senza riuscirci. Era tornato a casa prima del solito, ma in genere era raggiungibile. In particolare in una giornata come quella, coronata dall’arresto dell’uomo al quale tutti – e Caleb con particolare tenacia – davano la caccia da mesi. Non era da Hale sparire proprio in quel momento. D’altro canto era stato di pessimo umore per tutto il giorno e Robert, che non era particolarmente sensibile alle emozioni altrui, non riusciva a capirlo. Finalmente lo avevano preso, avevano Denis Shove! D’accordo, molto probabilmente non era l’assassino di Linville, questo era vero. Non avevano fatto grandi progressi su quel fronte. Ma la situazione poteva cambiare radicalmente, se fossero riusciti a scovare la testimone di Liverpool. Era solo questione di tempo. In ogni caso Shove era un bastardo, ed era un bene che finisse di nuovo in galera. E poi la macabra scoperta del cadavere di Norman Dowrick. Due successi, uno da attribuire a Jane Scapin, l’altro ottenuto da quella donnetta scialba e insignificante, Kate Linville.

Era questo il problema di Hale? Il fatto che due donne fossero risucite laddove lui aveva fallito? No, il capo non era mai stato così meschino.

Si era messo a piovere. Robert, che non aveva niente per coprirsi, scese dall’auto e corse lungo il vialetto fino all’ingresso dell’ospedale. Dopo aver parcheggiato, aveva provato a chiamare Hale per l’ennesima volta, inutilmente. Per un attimo aveva valutato l’idea di informare Jane, ma poi aveva deciso di lasciarle la serata libera. Negli ultimi tempi sembrava davvero sfinita, poverina.

Stava per chiedere il numero di stanza di Stella Crane, quando la incontrò nell’atrio. Ne fu stupito, ma la riconobbe subito. Quella mattina Stewart era fra i poliziotti che avevano risposto alla chiamata di Jane alla fattoria. Aveva visto i paramedici trasportare Jonas Crane privo di sensi fuori dalla rimessa surriscaldata e puzzolente di escrementi umani. Aveva fatto un paio di domande preliminari a Stella, molto provata dall’esperienza. Aveva regalato al bambino una figurina del Manchester United che aveva trovato per caso in macchina. Il piccolo aveva sorriso e Stella lo aveva ringraziato sottovoce.

E ora eccola di nuovo lì, in jeans, scarpe da ginnastica e maglia a maniche lunghe. Era ancora molto pallida, gli occhi troppo grandi nel volto tirato, ma rispetto al mattino si era ripresa in maniera sorprendente. Si era lavata i lunghi capelli biondi e li aveva raccolti in una treccia. Si era persino truccata.

«Buonasera, sovrintendente» disse non appena lo vide. «Stavo per andare a fare una passeggiata. Ma vedo che ha cominciato a piovere.»

«Il tempo non è dei migliori» confermò Robert scrollandosi la pioggia dai capelli. «E fa anche più freddo. Al posto suo non uscirei. Non si è ancora ripresa del tutto. Si prenderebbe un raffreddore.»

«Sono d’accordo con lei» riconobbe Stella. Parlava in maniera stranamente lenta. Dovevano averle dato un forte tranquillante.

«Sono passato per informarla che lo abbiamo preso» disse. «Denis Shove. Lo hanno bloccato in Irlanda del Nord.»

Lei non si mostrò particolarmente entusiasta, ma era chiaro che la notizia le faceva piacere. Poi le venne in mente qualcosa e i suoi occhi si fecero ancora più grandi. «Ha cercato...?»

Robert sapeva cosa voleva chiedergli. «No, non ha opposto resistenza. Non è stato sparato nemmeno un colpo. Verrà processato e riceverà una lunga condanna, immagino.»

«Che ne sarà di Terry? Therese Malyan? La ragazza che era con lui?»

Robert esitò. «Non se la caverà tanto facilmente. Sarà accusata di complicità.»

«Era completamente succube. Lui l’aveva in pugno.»

«La sua posizione verrà esaminata con attenzione. Sarà presente anche uno psicologo. Di sicuro anche lei è una vittima, e il giudice ne terrà conto. I colleghi in Irlanda dicono che è messa male. Ha dichiarato di aver tentato la fuga, ma Shove l’ha sorpresa e l’ha picchiata selvaggiamente. Però non deve preoccuparsi per lei. È giovane, ma è una donna adulta. È giusto che si prenda le sue responsabilità.»

Stella annuì.

È ancora sotto choc, pensò Robert.

Chiese con delicatezza: «Come sta suo figlio? E soprattutto... suo marito?»

«Mio figlio è con una delle infermiere. Stanno disegnando. Qui sono tutti molto gentili. E mio marito...» Sollevò le braccia. «Sta molto male. Sperano che superi la notte.»

«Ce la farà» disse Robert, nella speranza di dare un po’ di fiducia a quella donna pallida e impaurita. «Andrà tutto bene.»

«È tutto un incubo. Un incubo terribile.» Rabbrividì. «Volevamo riposarci. Jonas, soprattutto. Era stressato per il lavoro e tormentato dalle preoccupazioni. Il medico gli aveva consigliato di prendersi una pausa. Di trovare un posto isolato dal mondo. Senza telefono, senza Internet. Dove fosse possibile pensare solo a se stessi e ritrovare il proprio equilibrio interiore. Già, e guardi invece che cos’è successo.» Rimase in silenzio a guardare la pioggia.

«L’idea però era buona» disse Robert. «Non potevate immaginare quello che sarebbe successo. Nessuno avrebbe potuto. Il fatto è che c’è del male nel mondo. Purtroppo.»

Cosa avrei potuto dire di più banale? si domandò subito dopo.

Lei invece annuì seria. «Ha ragione. Però pensiamo che non ci riguardi, che a noi non possa succedere. Malattie, incidenti mortali. Capitano sempre e solo agli altri. Finché...»

«È tutto finito.»

Stella si riscosse. Le era venuto in mente qualcosa. «Devo assolutamente parlare con la sua collega. Quella donna fantastica che ci ha trovato. Crede sia possibile?»

«L’agente investigativo Jane Scapin. Certo che è possibile. Dobbiamo comunque convocarla alla centrale. Abbiamo bisogno della sua testimonianza. Se vuole, sarà Jane a occuparsi della cosa.»

«Sarebbe bello. Le sono molto grata. Vorrei dirglielo.»

«Jane è fantastica» riconobbe Robert, «e ha risolto il caso in maniera spettacolare.»

Rimasero in silenzio, ciascuno immerso nei propri pensieri. Alla fine Robert si schiarì la voce. «Bene, allora...»

Lei gli sorrise. Il suo era un sorriso stanco, che le costò molta fatica. «Vado a sdraiarmi. Meglio rinunciare alla passeggiata.»

«Ero venuto solo per informarla che abbiamo preso Shove» disse Robert. «Se non altro pagherà per ciò che ha fatto.»

«La ringrazio.» Gli strinse la mano, poi si girò e si allontanò con passi lenti e strascicati.

Robert pregò che il marito ce la facesse.

Uscì dall’ospedale e corse verso la macchina, dove cercò nuovamente di chiamare Caleb Hale.

Niente da fare.

Non era un comportamento consueto per il capo, e Robert cominciava a preoccuparsi. Ma poi pensò che forse Hale voleva soltanto stare un po’ in pace. Negli ultimi tempi aveva dormito poco.

Forse per una volta era andato a letto presto.

Sette

«Sotto il Canada Dock» disse Kate. «È tutto quello che ho capito. Crede di sapere dove si nasconde Grace. E ha paura, era evidente. Quel tipo è tornato. L’uomo che non siamo ancora riusciti a identificare.»

«Dobbiamo informare i colleghi di Liverpool» disse Jane nervosa. «Questo Kadir Roshan deve portarli al nascondiglio.»

«Gli ho detto di rimanere dov’è. Spero che mi dia retta.»

«In ogni caso abbiamo un indizio. Sotto il Canada Dock. Loro sapranno dove si trova.»

«Hai il numero della responsabile delle indagini?» chiese Kate.

Jane annuì. «La chiamo subito.» Indicò le scale. «Tengo il cellulare di sopra, per evitare che Dylan lo rompa.»

Dylan continuava a imitare i rumori di un treno e si agitava sul divano. Mentre Jane saliva di sopra, Kate ebbe un’idea. Tornò in cucina e compose il numero di Susannah Dowrick. La donna le rispose al secondo squillo.

«Susannah, sono Kate Linville. Sono addolorata per quello che è successo.»

Susannah aveva una voce controllata. «Grazie, Kate. Sono turbata, certo. Ma non ci sentivamo da anni. Quindi...» Non terminò la frase. Era chiaro: la morte di Norman non cambiava niente nella vita di Susannah. E dopo tutto quel tempo non era in grado di provare neppure dolore.

«Susannah, dovrei farle una domanda. Mi ha detto che ogni tanto qualche ex collega veniva a chiedere di Norman. Anche quelli che lei non conosceva. Si ricorda quand’è stata l’ultima volta che è venuto qualcuno? Prima che il sovrintendente Stewart venisse da lei per la morte di mio padre?»

«Dunque, vediamo» disse Susannah. «L’ultima volta... non è stato molto tempo fa. All’inizio di gennaio, direi. Sì, se non sbaglio a gennaio venne qualcuno.»

«Lei lo conosceva?»

«No. Mi disse che da giovane aveva lavorato per un po’ insieme a Norman e che gli doveva molto. Avrà avuto al massimo una trentina d’anni.»

Kate trattenne il respiro. «Che aspetto aveva?»

«Era molto alto» rispose Susannah. «E biondo.»

«Le ha detto come si chiamava?»

«Si presentò, certo. Ma in tutta sincerità non ricordo più il suo nome. Non ci ho fatto molto caso.»

Probabilmente non avrebbe fatto differenza. Se l’uomo voleva scoprire dove viveva Norman per ucciderlo, di certo non si era presentato con il suo vero nome.

«E lei gli diede l’indirizzo di Norman?»

«Esatto. Io...» Susannah tacque sgomenta. «Vuol dire... vuol dire che era lui quello che poi...?»

«Questo non lo so. Non si preoccupi, Susannah. Anche se si fosse trattato di lui, sarebbe comunque riuscito a raggiungere il suo scopo. Mi creda.»

Susannah sembrava molto triste quando si salutarono. Kate era quasi certa che lo sconosciuto segnalato da Kadir non fosse un poliziotto di Liverpool. L’omicida era tornato. Cercava Grace Henwood, una testimone troppo pericolosa.

Come fa a saperlo? si domandò Kate. Come ha fatto a scoprire così in fretta che c’è una testimone oculare? E a sapere chi è?

Sulla stampa non era stato pubblicato nessun particolare. E anche ammesso che molti abitanti del quartiere sapessero cosa c’entrava Grace in tutta quella storia e il motivo per cui la polizia la stava cercando, Kate non riusciva a spiegarsi la rapidità con cui il colpevole aveva scoperto ogni dettaglio.

Deve conoscere qualcuno, pensò Kate. Ci dev’essere qualcuno sul posto che collabora con lui.

Una prospettiva inquietante, e in più assurda. Ma doveva essere così. Doveva esserci un complice.

Jane scese le scale tenendo in mano il cellulare. «Manderanno subito qualcuno da Kadir Roshan. E degli agenti al Canada Dock. Non erano molto entusiasti di ricevere l’informazione da noi, ma se non altro non hanno fatto storie. Non mi hanno saputo dire così su due piedi chi possa essere lo sconosciuto. Tra i loro agenti ce ne sono diversi alti e biondi, quindi non possono escludere che si tratti di un poliziotto. Comunque la cosa verrà chiarita entro stasera.»

Kate le riferì della conversazione con Susannah Dowrick e concluse con queste parole: «Sono quasi certa che si tratti del colpevole. Ha raccolto informazioni su Dowrick in gennaio, poi è andato a Liverpool e lo ha ucciso. Quindi ha eliminato mio padre, trovando l’indirizzo sull’elenco telefonico, e infine Melissa Cooper. La successione degli omicidi è determinante, Jane».

«Può darsi» concordò lei. «Al momento però...»

«E poi ha saputo di Grace nel giro di ventiquattr’ore. È ha una rete di contatti molto capillare, non trovi?»

«Non puoi saperlo, Kate. Potrebbe benissimo essere un poliziotto. E l’uomo che è andato da Mrs Dowrick poteva davvero essere un ex collega. Non devi scervellarti. La polizia di Liverpool esaminerà la situazione. Di più non possiamo fare.»

Kate guardò fuori dalla finestra. Aveva cominciato a piovere. Grosse gocce si spiaccicavano sul terreno ancora caldo. Dietro le nubi temporalesche la serata era più buia delle precedenti.

Pensò alla voce di Kadir incrinata di terrore. Pensò a Grace. Negli ultimi giorni l’immagine di quella ragazza fragile le si era affacciata spesso alla mente: il viso pallido, il sorriso angelico. I vestiti troppo stretti e corti per il corpo di un’adolescente. I lividi bluastri sui polsi. Risentì la voce della madre di Grace: «La prego, l’aiuti!»

Era tornata, la certezza istintiva che le indicava che cosa doveva fare, senza una possibile spiegazione logica. Era una sensazione rimasta a lungo sepolta sotto i dubbi e le paure, ma che continuava a riemergere da quando era venuta a Scalby per scoprire chi fosse davvero suo padre.

Doveva partire. Doveva andare a Liverpool. Grace era in pericolo ed era stata proprio lei a metterla in quella situazione.

Per qualche motivo, inoltre, temeva che i colleghi di Liverpool non fossero consapevoli della gravità della situazione. Fin dall’inizio c’era stata molta diffidenza, quando era arrivata la polizia dello Yorkshire a ipotizzare un collegamento con due omicidi avvenuti a Scarborough. E ora, un’altra informazione venuta da loro. Come aveva appena detto Jane, non erano stati particolarmente entusiasti di ricevere l’informazione da loro...

Kate riteneva probabile che avrebbero mandato al Canada Dock una volante qualsiasi. E se gli agenti non avessero notato subito qualcosa di sospetto, avrebbero fatto dietrofront e se ne sarebbero andati.

Dopo un attimo di esitazione, Kate decise di non fare parola con Jane dei propri piani. Jane non sarebbe stata d’accordo, anche perché più tardi ne avrebbe dovuto risponderne all’ispettore Hale. Perché avrebbe dovuto esporsi deliberatamente alla rabbia del suo capo?

Inoltre aveva appena espresso i propri dubbi sul fatto che l’uomo misterioso fosse il colpevole.

«Bene» disse Kate allora, «a questo punto è tutto sistemato. Tienimi informata, se dovesse esserci qualche novità, okay?»

«Ma certo» promise Jane.

«Posso lasciarti da sola?»

«Sicuro. È tutto sotto controllo.» In effetti Dylan si era calmato e seguiva con trepidazione le avventure del trenino sullo schermo. Jane era inquieta. Kate avrebbe voluto dirle qualcosa per incoraggiarla, ma non le veniva in mente niente di adeguato alla sua situazione.

Così si limitò ad augurarle la buonanotte.

Jane non tentò di trattenerla. Sarà stata anche una donna troppo sola, come aveva detto Caleb, ma era non meno terribilmente stanca e stressata. Sera dopo sera.

Di certo non le andava di avere ospiti in casa.

Kate viaggiò a folle velocità sotto la pioggia, e fu un miracolo che nessuno la fermasse. Era uscita dall’abitazione di Jane intorno alle otto ed era passata da casa a prendere la pistola del padre che aveva nascosto nella borsetta. Solo per precauzione, si era detta. Non aveva più mangiato niente da colazione e, pur non avendo appetito, versò una manciata di cereali in una ciotola, vi aggiunse del latte e trangugiò il tutto. Non sapeva che cosa l’aspettava quella notte e voleva essere in forma. Quando partì erano quasi le nove.

Sarebbe potuta arrivare per le undici.

In realtà il suo era stato un pronostico azzardato. Superando tutti i limiti di velocità e senza trovare molto traffico, raggiunse la periferia di Liverpool alle undici e mezzo. Pioveva ancora. Kate aveva fatto solo una sosta per andare alla toilette e bere un caffè e si sentiva perfettamente sveglia. Elettrizzata. Probabilmente era carica di adrenalina.

Quando finalmente arrivò, non sapeva più se ciò che stava facendo avesse senso. Jane aveva avvertito la polizia più di tre ore prima. Kate non poteva pretendere che tutto si fosse fermato mentre attraversava il paese da una costa all’altra, solo perché era convinta che senza di lei sarebbe andato tutto a rotoli. Qualunque cosa fosse successa, ormai doveva essere tutto finito.

La via di Grace era deserta e silenziosa. Nessuna luce alle finestre. Due lampioni erano rotti. Kate parcheggiò e scese. Ricordava bene la casa che le aveva indicato Kadir. Su in cima, sotto il tetto...

La serratura del portoncino d’ingresso non c’era più, Kate entrò senza difficoltà. Provò ad accendere la luce pigiando l’interruttore sul muro a destra. Niente da fare, come aveva immaginato. Brancolando nel buio salì due rampe di scale e si fermò sul pianerottolo su in alto. «Kadir?» chiamò sottovoce. «Sono Kate. Sei qui?»

Nessuno le rispose. Abbassò la maniglia ed entrò nell’appartamento. I suoi occhi nel frattempo si erano abituati all’oscurità e si rese conto di trovarsi in una stanza minuscola sotto il tetto. La pioggia tamburellava contro la finestra. La stanza era in perfetto ordine. In un angolo, un materasso con una coperta di lana. Un tavolo, una sedia. Una cucina economica. Sopra una mensola, un piatto e una tazza. Un’immagine di massima austerità – o di estrema povertà. Un’altra porta conduceva in un bagno minuscolo e squallido. Anche lì non c’era nessuno.

Kate uscì dall’appartamento. Kadir non era in casa. Questo non significava niente: ci stava di rado. Le pareti mi soffocano, aveva detto. Kate l’aveva presa come una manifestazione del suo disturbo mentale, ma adesso comprendeva il vero significato di quelle parole. Nemmeno lei avrebbe resistito in quello spazio angusto, sotto il tetto così basso.

Procedendo cauta al buio, tornò di sotto e quando si ritrovò per strada fece un bel respiro. Proseguì fino al muretto dove si sedeva sempre Kadir. Non c’era nessuno.

Guardò verso la casa dove abitava Grace con i genitori. Le finestre erano buie. Nel caso la polizia avesse rintracciato Grace, era plausibile che l’avesse riportata a casa dalla famiglia. Kate però non se la sentiva di suonare in quel momento.

Prima darò un’occhiata al Canada Dock, si disse. Se non trovo nessuno, torno qui e butto giù dal letto quel padre spregevole.

Inserì l’indirizzo nel navigatore, che le indicò un tragitto di sei minuti. Non era molto lontano; Grace e Kadir potevano tranquillamente arrivarci a piedi.

Kate partì.

Superò altre vie deserte. Negozi chiusi, palazzi bui. Di tanto in tanto incrociava qualche macchina. La pioggia era diminuita, ma continuava a cadere regolare. Non era certo una notte da passare vicino al fiume. Mentre procedeva lungo Regent Street, Kate guardò ripetutamente alla propria sinistra, dove scorreva scuro e imperscrutabile il Mersey. C’erano dei lampioni accesi lungo la riva e, oltre la pioggia, si riconoscevano le luci sulla sponda opposta. Le davano la sensazione di non essere del tutto sola in quella zona sempre più disabitata. Spariti i negozi, i palazzi, i bar. Al loro posto magazzini, gru che svettavano nel cielo buio, un intrico di edifici di mattoni a più piani, probabilmente uffici e quindi a quell’ora completamente vuoti. Alte recinzioni con filo spinato che delimitavano i grandi cantieri navali dove fino al mattino successivo non si sarebbe visto nessuno. Kate rallentò. Sulla sinistra, lungo il fiume, al posto delle costruzioni si susseguivano spiazzi erbosi vuoti oltre i muretti bassi. Di tanto in tanto un container, una baracca, qualche ruspa.

Siete arrivati a destinazione, annunciò la voce del navigatore.

Kate frenò, fece manovra e tornò indietro. Sotto il Canada Dock, aveva detto Kadir. Le gocce di pioggia danzavano alla luce dei fari. Alla sua sinistra scorse un magazzino abbandonato di forma allungata. Sulla destra c’era un muro. A che cosa si riferiva esattamente Kadir? Era difficile trovare un punto di riferimento, non sapendo nemmeno che cosa cercare.

Si rimise in marcia, lentamente, scrutando intorno a sé. E poi la vide: un’auto parcheggiata che prima le era sfuggita. Una Peugeot.

Le si affiancò e si fermò. Il cuore le salì in gola. Era proprio una Peugeot. Scese, strizzò gli occhi. Nell’oscurità non riusciva a distinguerne il colore, ma aveva con sé una torcia. Si avvicinò camminando rasente al muro, per non farsi vedere, nel caso ci fosse stato qualcuno a bordo dell’auto. Respirò l’odore del fiume. La pioggia rendeva più intenso il puzzo di alghe marce.

Era fradicia quando arrivò all’altezza della macchina. Vide subito che era vuota. La illuminò e rimase paralizzata: era verde.

Una Peugeot verde.

Le tornò in mente all’istante la dichiarazione della fidanzata di Robin Spencer. Una Peugeot verde che aveva percorso più volte Church Close. All’epoca nessuno aveva saputo dire se si trattasse di un particolare rilevante. Ora invece assumeva un peso affatto diverso.

Non poteva essere un caso.

Si annotò velocemente la targa – era di Scarborough – poi si girò. Nel muro davanti al quale era parcheggiata la vettura c’era un passaggio chiuso provvisoriamente con assi di legno e filo spinato. Era l’unico varco nelle vicinanze, almeno a quanto poteva vedere. Maledizione, dov’era la polizia? Oppure era tutto finito? Ma allora perché la macchina era ancora lì? Avevano trovato Grace e l’avevano portata al sicuro, ma non erano riusciti a catturare il suo inseguitore? Oppure era successo come Kate aveva temuto fin dall’inizio: una pattuglia era passata nella zona, aveva dato un’occhiata distratta e si era allontanata?

Si fermò davanti al passaggio e cercò invano di spostare la barricata costruita da chissà chi. Forse c’era un altro accesso, ma non voleva perdere tempo a cercarlo. Decise di scavalcare la recinzione ma, mentre saltava dall’altro lato, rimase impigliata nel filo spinato con la gamba destra. Udì il rumore del jeans che si strappava e avvertì una fitta bruciante. Subito dopo il sangue le gocciolò sulla caviglia.

Imprecò tra sé. In ogni caso ce l’aveva fatta. Era dall’altra parte. Avrebbe voluto accendere la torcia, ma non si azzardava a farlo. Capì di trovarsi su un prato che digradava lievemente verso il fiume. Al centro, una specie di spazio vuoto e un edificio. Una porta o una finestra sbatteva lieve nel vento. Il luogo era completamente abbandonato, cosa che spiegava l’accesso sbarrato.

Kate sapeva che era giunto il momento di chiamare rinforzi. Aveva motivo di credere che da quelle parti si aggirasse un pluriomicida, e lei era da sola. Per precauzione prese la pistola e tolse la sicura. Il problema – come sempre negli ultimi mesi – era che non era in servizio. Pertanto non era autorizzata a chiamare rinforzi. Poteva soltanto fare una normale chiamata d’emergenza come un cittadino qualsiasi.

Okay. Avrebbe rispettato le regole del gioco, ma in maniera da creare un’urgenza tale da innescare finalmente una reazione adeguata.

Non lo aveva sentito arrivare. Era troppo impegnata a cercare il cellulare.

Quando la colpì alla nuca, non ebbe nemmeno il tempo di spaventarsi. Cadde in avanti svenuta.

Otto

Kadir sapeva di non essere mai finito in un guaio simile. Ne aveva passate parecchie in vita sua, e di rado si era trattato di cose positive. Si vergognava del colore della sua pelle praticamente da quando era nato e spesso era stato oggetto degli scherzi degli altri; a volte erano battute innocue, ma più spesso era puro odio razziale. A scuola lo chiamavano curry. A casa piangeva e diceva a sua madre di non farcela più, ma lei ribatteva solo che doveva essere contento se non gli capitava di peggio.

Poi la situazione era degenerata.

Ripensò a quella sera di otto anni prima, quando era andato da un conoscente e poi aveva aspettato il treno per tornare a casa. Era tardi, in una stazione deserta di un sobborgo di Liverpool. Erano spuntati dal nulla: skinhead, cinque tipi tarchiati con la testa rasata vestiti di pelle e con gli anfibi. Kadir aveva capito subito che non lo avrebbero ignorato – un indiano esile, tutto solo, che cercava di allontanarsi inosservato verso le scale fingendo di non averli visti.

Lo avevano circondato. Lo avevano spintonato finché aveva perso l’equilibrio ed era caduto a terra. Allora lo avevano preso a calci. Gli avevano rotto il naso e diverse costole. Poi lo avevano trascinato fino a un sottopassaggio buio non lontano dalla stazione. Ricordava ancora le pareti imbiancate a calce con i graffiti colorati e la notte fuori dal tunnel. Le torce che lo accecavano.

Gli dissero che non aveva il diritto di stare nel loro paese e che doveva rendersi conto di quello che succedeva ai tipi come lui. Che si sarebbe pentito di essere venuto in Inghilterra.

Lo torturarono. Per ore. Senza pietà. Avevano smesso solo quando avevano creduto che fosse morto. Aveva ripreso i sensi molte ore dopo, il mattino successivo, e si era trascinato fino alla stazione lasciando dietro di sé una scia di sangue. A quell’ora i marciapiedi brulicavano di pendolari diretti al lavoro. Ricordava le grida spaventate di alcuni. Poi era arrivata l’ambulanza. La polizia. All’ospedale lo avevano ricucito e il medico aveva detto di non aver mai visto nessuno ridotto così. Il fisico era guarito. Ma la mente no.

In ogni caso era sopravvissuto. Mentre ora non era sicuro di riuscirci.

Aveva mani e piedi legati a un tubo che lo costringeva in una posizione scomoda e sempre più dolorosa con il passare dei minuti. Era rinchiuso in una stanza quadrata di mattoni grezzi. Non vedeva nulla, era immerso nella più totale oscurità. Ma il tizio che lo aveva portato lì aveva una torcia e alla sua luce Kadir aveva scorto il luogo dove ora era tenuto prigioniero. Poi la pesante porta si era richiusa, i passi si erano allontanati. Era stato... quante ore prima? Non ne aveva idea. Forse non erano passate nemmeno delle ore. L’assoluta oscurità intorno a lui lo aveva disorientato completamente, anche nella cognizione del tempo. Ora capiva perché le persone possono impazzire se vengono lasciate al buio.

La cosa peggiore era la totale inerzia a cui era condannato. Sapeva che il tizio cercava Grace. Sperava tanto di sbagliarsi. Che Grace non fosse lì. Che si nascondesse da qualche altra parte. Non l’aveva vista, e forse la sua supposizione era del tutto sbagliata. Si domandava come avesse fatto quel tipo a seguirlo fin lì. Se c’era qualcosa che Kadir aveva imparato, era l’arte di muoversi da un posto all’altro senza farsi notare e in perfetto silenzio. Era scivolato come un’ombra fino alla fabbrica abbandonata sotto il Canada Dock. Aveva utilizzato passaggi segreti che probabilmente conosceva soltanto lui. Nonostante questo, il tizio era riuscito a rimanergli attaccato per tutta la mezz’ora necessaria ad arrivare fin lì. Poi lo aveva aggredito e immobilizzato. Non era stato difficile: Kadir non aveva opposto la minima resistenza. Si vergognava per questo, ma la paura lo aveva paralizzato. Era rimasto passivo. E adesso era rinchiuso lì. Senza la possibilità di fare nulla per Grace.

Ascoltò con inquietudine i gorgoglii e gli scrosci, gli unici suoni che provenivano dall’oscurità. Il Mersey, il grande fiume profondo che scorreva lì fuori. Quella stanza doveva trovarsi sotto il livello del fiume. Kadir provò un nodo alla gola. Cominciò a sudare freddo, pensando alle tonnellate d’acqua sopra di lui. Si disse che di sicuro quella cantina esisteva da molto tempo. E non era mai crollata. Perché sarebbe dovuto succedere proprio adesso?

Udì nuovamente dei passi e si irrigidì. Il tipo stava tornando. Di certo non per liberarlo. Kadir lo aveva visto in faccia. Lo aveva aggredito e rinchiuso. Non lo avrebbe più liberato.

Lo scatto di un chiavistello, e la porta si aprì. Kadir registrò un rumore come se i cardini fossero allentati: una specie di cigolio. Forse era possibile aprirla dall’interno, spingendola con tutte le forze. Ma era una possibilità molto remota, finché rimaneva legato a quel tubo.

La luce della torcia tornò a rischiarare l’ambiente. Kadir sbatté le palpebre accecato. Vide che l’uomo trascinava qualcosa, dopo un po’ capì che era una persona. Una donna. Grace?

Lui la lasciò cadere come un sacco sul pavimento umido. Non era Grace. Era la poliziotta. Kate.

Le sue ultime speranze si spensero. Si era aggrappato a Kate per tutto il tempo. Lei sapeva. Lui le aveva detto che l’individuo sospetto era tornato. Che secondo lui Grace si nascondeva al Canada Dock. E Kate era arrivata. Ma era caduta nella sua stessa trappola.

Sperava solo che fosse riuscita ad avvertire i colleghi.

Senza parlare, l’uomo posò la torcia e cominciò a legare Kate. Lei doveva essere svenuta, perché non reagì in alcun modo. Non la legò al tubo, forse temeva che insieme avrebbero cercato di liberarsi a vicenda. La legò in maniera brutale, bloccandole braccia e gambe dietro la schiena. Il suo corpo formava così un arco che ben presto le avrebbe causato tremende sofferenze.

Kadir approfittò di quegli istanti di luce per guardarsi intorno. Forse poteva trovare una via d’uscita. Ciò che vide non lo rincuorò affatto: sul soffitto c’era una specie di botola dai cui bordi filtrava l’umidità, che penetrava nel muro e sgocciolava sul pavimento. Se i suoi calcoli erano corretti e la cantina si trovava sotto il livello del fiume, quella botola serviva per allagare la cantina. Non sapeva dire a quale scopo, ma per loro sarebbe stata la fine.

Sotto la botola c’era una grata fissata al soffitto. Aprendo la botola l’acqua sarebbe caduta nella cantina e la grata avrebbe impedito loro di uscire, anche nel caso in cui si fossero liberati. Kadir deglutì in silenzio.

Di una cosa era sicuro: dovevano uscire da lì. Il più in fretta possibile.