Lunedì, 28 aprile
Uno
Jonas Crane era quasi sicuro che fosse una perdita di tempo, ma aveva promesso a Stella di recarsi all’appuntamento dal dottor Bent. E lo avrebbe fatto, nonostante la cosa non lo convincesse affatto. A differenza della moglie, non era un seguace della medicina omeopatica, ma neppure un suo dichiarato detrattore. In qualche caso funzionava, in altri no. Stella tornava sempre rilassata e soddisfatta dalle sue visite dal dottor Bent. Tuttavia, per la storia del bambino, non c’era stato niente da fare: nessuno aveva potuto aiutarli. A volte certe cose è destino che non accadano.
Jonas aveva dovuto aspettare piuttosto a lungo, e questo lo aveva innervosito e indispettito. L’appuntamento era fissato per le undici, e mancavano venti minuti a mezzogiorno quando venne finalmente il suo turno. Stella lo aveva avvertito. «È molto scrupoloso con i pazienti. Per questo a volte bisogna aspettare un bel po’. In compenso dedica tutto il tempo necessario a ognuno. Non ti sbatte fuori dall’ambulatorio solo perché c’è un altro che aspetta.»
Lei lo trovava un approccio fantastico, mentre Jonas giudicava questo comportamento parecchio discutibile. Cercò tuttavia di convincersi di essere stato fortunato a ottenere un appuntamento al mattino. Quelli messi peggio erano i pazienti del tardo pomeriggio, che dovevano subire l’accumulo di tanti ritardi. A confronto, i suoi quaranta minuti di attesa erano ben poca cosa.
A parte questo, anche lui trovò il dottor Bent molto simpatico. Appassionato e sensibile. Concentrato. Un medico che prendeva sul serio i pazienti e voleva aiutarli davvero.
Esaminò l’elettrocardiogramma che Jonas aveva portato con sé. «Direi che va tutto bene.»
«Già, è proprio questo il problema» rispose Jonas. Cercò di non pensare che all’una aveva un importante appuntamento di lavoro e che prima doveva attraversare mezza Londra. Finalmente toccava a lui e doveva concentrarsi su questa storia. «Sembra tutto a posto. Sono già stato da diversi specialisti. Cuore, circolazione, pressione... Tutto okay. Ecco» proseguì tirando fuori un altro foglio piegato dalla tasca interna della giacca e porgendolo al medico, «questi sono esami del sangue che ho fatto due settimane fa. Tutti i valori nella norma.»
«Proprio così» concordò il dottor Bent. Poi guardò serio Jonas. «Sembra che lei sia in perfetta forma. Eppure, c’è qualcosa che la preoccupa?»
«In effetti sì» confessò Jonas. Che momento imbarazzante. Un quarantaduenne, in perfetta salute, seduto nello studio di un medico molto rinomato, sul punto di rivelare la sua convinzione di essere malato, sebbene finora nessun altro avesse trovato il benché minimo indizio. Ipocondriaco cronico? Incipiente crisi di mezz’età? Aveva tuttavia la sensazione che il dottor Bent non lo avrebbe giudicato e questo cominciò a fargli capire perché Stella glielo avesse consigliato con tanto entusiasmo: trasmetteva l’impressione che gli si potesse dire qualunque cosa, senza sentirsi ridicoli né suscitare il suo biasimo.
«Ecco... sono un po’ preoccupato. Da qualche tempo... in pratica dall’inizio dell’anno, accuso strani sintomi. Vertigini. Orecchie tappate. Un formicolio al braccio sinistro, poi un senso di paralisi. La prima volta ho creduto che fosse un infarto. Ma la cosa è stata esclusa. Gli esami non hanno rilevato niente che possa giustificare questi disturbi. Ma continuano. Certo, sono più tranquillo sapendo che non si tratta di niente di grave. Però mi preoccupo lo stesso. Secondo Stella non potevo far finta di niente.»
Il dottor Bent sorrise. «Come sta Stella?»
«Bene, grazie.»
«E il piccolo Sammy?»
«Anche lui sta bene. Anzi molto bene. Tra pochi giorni compirà cinque anni. È già in fibrillazione per la sua festa di compleanno.»
«Siete sempre contenti di questa decisione? Di aver adottato un bambino?»
«Sì, assolutamente. È la cosa migliore che potessimo fare. E ha messo fine a quell’eterno e inutile calvario...» Non aggiunse altro. Il dottor Bent era al corrente della situazione.
«Otto tentativi di inseminazione artificiale, giusto?» disse il medico.
«Sì, per diversi anni. Eravamo così esausti alla fine... Stella a un certo punto ha accettato di smettere e di pensare all’adozione. Abbiamo salvato il nostro rapporto. E il conto in banca. Non avremmo resistito ancora per molto, anche finanziariamente.»
«È riuscito a sistemare la sua situazione economica? Ormai sono passati diversi anni.»
Jonas scosse la testa. Scoprì che gli faceva bene parlare liberamente una volta tanto. Non doveva interpretare la parte di Mr Sistemo-Tutto-Io. Poteva dire le cose come stavano.
«No. Abbiamo ancora parecchi debiti. Non abbiamo nemmeno finito di pagare la casa e ho dovuto accendere una seconda ipoteca, per pagare Bournhall.» Era la clinica dove avevano cercato di concepire un bambino, fondata dai medici che avevano creato la prima bimba in provetta, Louise Brown. Nel caso di Stella e Jonas, tuttavia, non avevano avuto successo. «Faccio molta fatica a pagare le rate. Non posso permettermi nemmeno il più piccolo errore professionale, ecco come stanno le cose.»
«Lei lavora come sceneggiatore freelance?»
«Esatto.»
«È bravo nel suo lavoro?»
«Sì, però...» Scrollò le spalle con rassegnazione.
Il dottor Bent lo osservò con espressione tranquilla. «Se un giorno il telefono non suona, comincia a preoccuparsi. E anche quando non riceve e-mail dalle case di produzione. Quando i dati di ascolto non sono buoni. Immagino tuttavia che si senta vicino alla catastrofe persino quando le cose vanno bene. Più la situazione è positiva, più aumenta il terrore di non essere all’altezza delle aspettative. Di precipitare. Non è così?»
Jonas lo fissò incredulo. Era stupefatto di come quell’uomo fosse riuscito a cogliere la realtà oltre la facciata nel giro di pochi minuti. A individuare con tanta chiarezza e precisione le sue paure.
«Sì» confermò, «è così. Vivo sempre in attesa di una catastrofe.»
Rifletté sulla parola che aveva appena usato. Catastrofe. Troppo drammatico? No. Corrispondeva esattamente a quello che provava. Si aspettava la catastrofe. Il crollo finanziario. Il declino professionale. Il fallimento completo. Il collasso su tutta la linea.
Catastrofe, crollo, declino, fallimento, collasso... Erano queste le paure che a volte dominavano la sua mente razionale e il suo subconscio continuamente? Non c’era da stupirsi.
«Riesce a dormire?» chiese il dottor Bent.
«Poco e male. La sera mi addormento abbastanza facilmente, ma verso le due mi sveglio. Tachicardia, attacchi di panico. E poi continuo a rimuginare. In genere non chiudo più occhio fino al suono della sveglia.»
Mentre Jonas parlava, il dottor Bent prendeva appunti. Poi il medico posò la penna, appoggiò i gomiti alla scrivania e guardò Jonas con espressione grave.
«Mr Crane, deve abbandonare la modalità catastrofica. È fondamentale. Fisicamente è ancora in forma, ma il suo corpo le sta inviando numerosi segnali d’avvertimento. L’insonnia, la tachicardia, le vertigini, l’insensibilità al braccio. La situazione è seria, a dispetto di quanto possano dirci questi referti» disse indicando l’elettrocardiogramma e gli esami del sangue. «Manca ancora un po’ di tempo all’ora X, ma è il momento di tirare il freno d’emergenza.»
Abbandonare la modalità catastrofica.
«Come posso fare?» chiese Jonas.
«Un modo c’è» lo tranquillizzò il dottor Bent. «Ma non è semplice.»
«Com’è potuto accadere? Insomma, capita a tutti di essere preoccupati, è normale. Ma lei ha ragione, anche quando tutto sembra andare bene, io mi aspetto sempre un disastro. Prima non era così. È una sensazione che è cresciuta a poco a poco. Senza che me ne accorgessi.»
Il dottor Bent annuì. «Certi fenomeni non avvengono mai dall’oggi al domani. Le tensioni si accumulano lentamente, abbiamo l’impressione di poterle gestire, crediamo di avere tutto sotto controllo. E poi, quando il corpo all’improvviso segnala: Non ce la faccio più!, di solito è troppo tardi. Gli ultimi anni non sono stati facili per lei, Mr Crane, Stella me ne ha parlato. Lei e sua moglie avete sperato per anni di avere un figlio. E poi vi siete sottoposti ai logoranti trattamenti di inseminazione artificiale. Avete affrontato diverse delusioni. Costi molto elevati. Quindi c’è stato l’iter dell’adozione, tutt’altro che semplice. Nel frattempo doveva continuare a lavorare con successo, e pagare i debiti che aveva accumulato. Scommetto che ha tenuto per sé questi problemi finanziari, per non caricare sua moglie di ulteriori angosce, ma l’ansia l’ha profondamente stressata.»
Jonas annuì. Era andata proprio così.
«Possiamo permettercelo, Jonas?» gli aveva chiesto Stella preoccupata dopo il quinto, il sesto, il settimo, l’ottavo tentativo. Lui aveva sempre risposto con un sorriso: «Nessun problema. Guadagno abbastanza. Non preoccuparti!»
Lei era stremata dalle iniezioni di ormoni, le visite infinite, i prelievi di ovuli, gli impianti di quelli fecondati, l’attesa e la speranza e la delusione. Da un punto di vista clinico il processo era stato molto più semplice per lui, per questo aveva ritenuto suo dovere evitare a Stella tutte le altre preoccupazioni. Questa era la sua parte e, a quanto sembrava, lo aveva logorato.
«Le prescriverò delle gocce. Le prenda tutte le mattine prima di colazione» disse il dottor Bent strappando un foglio dal ricettario. «Ma non è tutto...»
«Mi dica.»
«Pensa sia possibile staccare la spina del tutto per un paio di settimane?»
«Staccare la spina?»
«Quando è stato in vacanza l’ultima volta, Mr Crane? Intendo veramente in vacanza? Senza cellulare, portatile, o altro. Senza essere rintracciabile o reperibile in ogni momento?»
Jonas ci pensò su. «Mai, credo. Da quando esiste la tecnologia. Tutte le volte che andavamo in vacanza, mi portavo dietro l’ufficio, in pratica. E non smettevo mai di lavorare.»
«È esattamente quello che volevo dire. Diversi dei miei pazienti, Mr Crane, presentano i suoi stessi sintomi. Lei non è un caso isolato. L’era digitale ci ha garantito un sacco di comodità, ma ci ha precluso la possibilità di isolarci, di trovare un posto dove poterci concentrare solo su noi stessi e sul momento. Controlliamo la posta continuamente, fino a tarda sera, e ricominciamo la mattina dopo. Non stacchiamo mai, non siamo mai soli con noi stessi.»
Jonas anticipò la proposta del medico. «Mi consiglia di prendermi una pausa? Di andare da qualche parte lontano, di non essere raggiungibile?»
«Tutti i miei pazienti che lo hanno fatto, sono rimasti entusiasti del risultato. Si sono sentiti rinati. Hanno ritrovato l’equilibrio, hanno imparato di nuovo a distinguere tra ciò che è importante e ciò che non lo è. Anche i problemi. Hanno ritrovato la serenità.»
«L’effetto dura per tutta la vita?»
«Ogni tanto bisogna rifarlo, ma poi diventa naturale. La cosa difficile è compiere il primo passo.»
Jonas non riusciva neppure a immaginarselo. «Io impazzirei se mi ritrovassi in un deserto tagliato fuori da tutto!»
«I primi giorni, forse. Ma poi arriva la pace. Vedrà.»
«La cosa migliore allora sarebbe affittare una casa da qualche parte. In mezzo al nulla. Senza telefono né altro. È questo che intende?»
«C’è chi sceglie anche di andare in un monastero» rispose il dottor Bent, ma Jonas scrollò il capo. «Non fa per me. Ma una specie di isola deserta... posso portare la famiglia?»
«Sarebbe consigliabile andare da solo. Ma per cominciare è meglio di niente. Magari la seconda volta sceglierà la solitudine.»
Jonas si alzò e prese la ricetta del dottor Bent. «Grazie, dottore. Le gocce le prenderò di sicuro. Per il resto... devo rifletterci su. Credo a ciò che mi ha detto. Ma non posso immaginare di riuscire a mettere in pratica il suo suggerimento.»
«Cominci a pensarci» disse il dottor Bent. «Vedrà che la prospettiva diventerà man mano sempre più allettante.»
Figuriamoci, pensò Jonas. Guardò l’ora e trasalì. «Com’è tardi! Devo andare. Ho un impegno urgente, sa.»
«Arrivederci.»
Una cosa era certa: anche Hamzah Chalid viveva in modalità catastrofica, e senza dubbio gli avrebbe fatto bene trovare un modo qualunque per uscire da quella situazione. I suoi occhi scuri vagavano instancabili qua e là, sembrava incapace di tenere lo sguardo fisso sull’interlocutore per più di mezzo minuto. Sussultava al suono di una voce forte, e quando una cameriera del bar dove Jonas aveva proposto di incontrarsi aveva fatto cadere una tazza di caffè, Hamzah era stato assalito da un tremito incontrollabile. Era un ometto magro, poco più che cinquantenne, le tempie brizzolate. Era in preda all’ansia continua che da un momento all’altro dovesse piombargli addosso una terribile sventura.
Come se gli dessero ancora la caccia. Gli scagnozzi del dittatore ormai defunto. Saddam Hussein.
Jonas conosceva la storia di Hamzah, destinata a essere raccontata in un film-documentario, di cui lui doveva scrivere la sceneggiatura. Quando gli era stato proposto il lavoro, aveva accettato subito, sebbene non avesse mai fatto niente del genere. Scriveva gialli per la televisione, ideandone la trama, oppure adattandola dai romanzi. Una storia a sfondo politico non gli era mai capitata, e non aveva mai lavorato a un documentario. Ma aveva ricevuto un’offerta molto generosa e questo era stato decisivo.
Tuttavia si rendeva perfettamente conto che in quel momento sarebbe stato meglio non affrontare una sfida di tale portata.
La casa di produzione gli aveva riassunto la storia di Hamzah. Nel settembre del 1998 Hamzah Chalid era stato prelevato a casa sua in piena notte dalla polizia segreta e rinchiuso in carcere. Era rimasto per molto tempo all’oscuro delle accuse, ma alla fine gli sembrava di aver capito che c’entrasse un suo amico, il quale aveva manifestato opinioni critiche nei confronti del regime in maniera assai poco prudente ed era stato a sua volta arrestato. Chiunque avesse avuto contatti ravvicinati con lui era finito sotto la lente dei servizi segreti. Hamzah era stato torturato, riportando lesioni che avrebbero gravemente minato la sua salute per sempre. Alla fine era stato giudicato politicamente non pericoloso ed era stato rimesso in libertà. Non era più tornato come prima; soffriva di attacchi di panico, disturbi alimentari e una grave depressione, e non riusciva a riprendere la vita normale di un tempo. Andava spesso dal medico, che lo metteva in malattia, e mancava dal lavoro. Non riuscì mai a scoprire se proprio questa circostanza lo avesse reso nuovamente sospetto; un giorno qualcuno lo avvertì che il suo arresto era imminente. Hamzah riuscì a fuggire letteralmente all’ultimo istante da una finestra sul retro del suo appartamento, mentre la polizia segreta era già davanti alla porta. Venne accolto da alcuni amici, ma doveva spostarsi spesso, perché tutti temevano per la propria incolumità. A questo punto ebbe luogo la scena che si sarebbe impressa in maniera indelebile nella sua mente. La raccontò subito a Jonas, anche se lui, naturalmente, la conosceva già.
«Mi stavano portando di nuovo da un nascondiglio all’altro. Sulla macchina di un conoscente. Ero rannicchiato sotto il sedile posteriore, nascosto sotto una coperta. Ci fermammo al semaforo. Sembrava tutto normale. Sotto la coperta era buio e faceva caldo. Soffocavo. I rumori mi arrivavano ovattati e lontani...»
«Però all’improvviso avvertì un pericolo...» lo interruppe Jonas con tatto. Aveva letto attentamente la storia.
«Sì. Ho avvertito il pericolo. L’ho percepito. Ancora oggi non so spiegarmi che cosa mi abbia messo in allarme. È stata come una certezza improvvisa: sono qui. Sono vicinissimi. Cominciai a tremare. Mi mancava l’aria...» Hamzah si bloccò, gli occhi ancora più scuri, il volto ancora più pallido. La fronte gli si imperlò di sudore.
«L’inconscio. Sensori che aveva sviluppato dall’epoca del suo primo arresto» spiegò Jonas. «Come gli animali selvatici. Avvertono il pericolo molto prima di vedere o sentire qualcosa. Il suo istinto ha funzionato in maniera sorprendente, Mr Chalid.»
Hamzah aveva gettato via la coperta, spalancato la portiera ed era saltato giù dalla macchina. La fortuna aveva voluto che fossero fermi a un incrocio accanto a un piccolo parco dalla folta vegetazione. Hamzah si nascose tra gli arbusti. Come venne a sapere in seguito, l’auto della polizia segreta era solo a due veicoli di distanza da lui. L’attacco sarebbe stato sferrato nel giro di pochi secondi. Ancora una volta Hamzah si era salvato per un soffio.
In seguito era stato aiutato a varcare il confine con il Pakistan, in maniera decisamente rocambolesca, rischiando di finire nelle mani degli agenti governativi. Era riuscito a raggiungere l’Inghilterra, dove aveva chiesto e ottenuto asilo politico. La sua storia era avvincente e un giornalista l’aveva raccolta e pubblicata, suscitando così l’interesse di una casa di produzione cinematografica. Jonas aveva l’impressione che Hamzah aspettasse con trepidazione questa opportunità. Era la sua occasione per raccontare. Per essere ascoltato. Per rendere nota la propria vicenda. Soprattutto per rendere nota l’ingiustizia di cui era stato vittima. Hamzah era un individuo profondamente traumatizzato, al quale era stata strappata l’esistenza normale. Era sopravvissuto, senza tuttavia ritrovare una vita degna di essere vissuta. Non riusciva a rielaborare gli avvenimenti, non aveva mai compreso perché il mondo non si fosse indignato di fronte a storie come la sua. Ora, ora finalmente avrebbe sentito il grido di protesta. E allora le cose sarebbero migliorate, lui avrebbe potuto chiudere quel capitolo e pensare al futuro.
Jonas dubitava che le speranze di Hamzah si sarebbero realizzate, ma preferì non parlargliene subito. Il film non avrebbe mai suscitato l’eco che l’iracheno immaginava. Tante cose erano accadute da allora nel suo paese... Il dittatore di un tempo non esisteva più, la regione era sconvolta da altri problemi e altre crisi. Hamzah e la sua storia appartenevano ormai al passato per l’opinione pubblica. Sicuramente la vicenda avrebbe destato interesse e avrebbe attirato un pubblico abbastanza numeroso, ma non avrebbe suscitato discussioni né riempito le pagine dei giornali. Hamzah sognava di essere ospite di talk show, tenere conferenze e rilasciare interviste. Sognava di guarire, se non fosse stato più solo con il terrore che lo dominava.
«Lei scriverà la sceneggiatura?» chiese più volte. «Il film si farà? È sicuro?»
«Allo stato attuale delle cose, tutto andrà come previsto» rispose Jonas. «Non deve preoccuparsi.»
Hamzah continuava a girarsi, esaminava ansioso gli ospiti del bar, scrutava i passanti fuori dalla vetrina.
«L’istinto» disse, «l’istinto che mi salvò a Baghdad, ecco... Non posso più staccarmene. C’è sempre. È sempre vigile.»
«È comprensibile» rispose Jonas in tono tranquillo. Naturalmente ciò che Hamzah definiva istinto non era più tale. Hamzah immaginava nemici inesistenti. Il suo era un comportamento nevrotico, forse paranoico. Credeva di essere circondato dai tirapiedi di un dittatore morto da tempo. Quando si portò la tazza alla bocca, le mani gli tremavano così forte che si versò il caffè sulle gambe. Appena posò la tazza sul tavolo, il suo sguardo ricominciò a vagare inquieto per il locale.
Jonas ripensò ancora una volta alla definizione di modalità catastrofica del dottor Bent, riconoscendo che in fin dei conti lui e il povero Hamzah Chalid non erano poi tanto diversi. Entrambi erano in preda a timori del tutto irreali nella loro presente condizione, ma che per loro erano tangibili. Hamzah e Saddam Hussein. Jonas e il fallimento professionale e sociale. Due storie completamente diverse, due uomini esteriormente diversi.
Entrambi però convivevano con una piccola bomba a orologeria, la cui presenza era nota soltanto a loro, di cui solo loro sentivano il ticchettio.
«Ora che cosa succederà?» si informò Hamzah.
«Scriverò un trattamento» spiegò Jonas. «In pratica si tratta di una storia già suddivisa in immagini e scene, basata sulla ricostruzione della sua vicenda. Non appena sarà terminato, ne riceverà una copia. Poi ci incontreremo di nuovo, per definire i particolari, quindi inizierò il lavoro vero e proprio.»
«Quanto tempo ci vorrà? Voglio dire, quando terminerà di scrivere il trattamento?»
Jonas trattenne un sospiro. Non sarebbe stato facile avere a che fare con Hamzah.
«Ci vorrà un po’ di tempo. Bisogna ancora decidere se dare un taglio documentaristico alla storia o se proporla come un film, e come alternare le due parti. Ho un appuntamento con il produttore la settimana prossima. Affronteremo anche questa questione.»
Hamzah annuì, ma non sembrava soddisfatto. Al di là del suo incessante terrore di un pericolo in agguato, doveva essere una di quelle persone che pensano sempre al peggio e non si fidano di niente e di nessuno.
«Non deve diventare un progetto affrettato» aggiunse Jonas, «bensì una storia solida, e per questo non bisogna essere precipitosi.»
«Però ci terremo in contatto, vero?» si accertò Hamzah. La prospettiva di starsene rinchiuso per mesi nella sua stanzetta londinese senza sapere che cosa stesse succedendo gli risultava insopportabile, e Jonas lo comprendeva benissimo.
«Certo. Sarà informato di tutte le fasi e di tutte le variazioni. In fondo lei è il protagonista!» Quest’ultima frase era una bugia bella e buona. Nessuno alla casa di produzione considerava Hamzah Chalid come il protagonista, e neppure come una persona importante. Lui aveva venduto i diritti della propria storia e adesso non rivestiva più la minima importanza per nessuno. Al contrario, tutti sarebbero stati più felici se non si fosse immischiato. Era un po’ come accadeva per gli autori di romanzi da cui venivano tratti film: protestavano per ogni modifica che veniva introdotta, volevano dire sempre la loro, si lamentavano e creavano solo difficoltà. Avrebbero dovuto farsi da parte e starsene in silenzio, ma non era facile. Tutt’altra faccenda, invece, era questo profugo impaurito, sull’orlo di un esaurimento nervoso. Nessuno se lo sarebbe filato. Jonas prevedeva già che sarebbe stato l’unico a starlo a sentire per pura compassione. Hamzah si sarebbe attaccato a lui come una piattola. E se tutto si fosse concluso con un’amara delusione, Jonas ne avrebbe subito le drammatiche conseguenze.
Scacciò quel pensiero. Troppo presto, troppo imprevedibile. Non aveva senso pensare già a possibili sviluppi.
Il concetto di protagonista aveva in parte rincuorato Hamzah. Il suo sguardo non era più così sconsolato. Finì di bere il caffè, poi gettò un’altra occhiata frenetica intorno a sé.
«Sono contento che ci siamo incontrati» disse.
«Anch’io» rispose Jonas. Rivolse un cenno alla cameriera, pagò per entrambi e si alzò. «Le farò avere mie notizie» promise.
Anche Hamzah si alzò. Jonas si rese conto che l’iracheno non riusciva a raddrizzare la schiena. Pensò alle torture che doveva aver subito. Era un mondo così distante dal suo, difficile da immaginare, difficile da comprendere. Per un istante si vergognò.
I due uomini si separarono fuori sul marciapiede. Era una nuvolosa giornata d’aprile, ma l’aria era tiepida. Jonas guardò Hamzah allontanarsi zoppicando.
Quindi si diresse verso la propria auto.
Altri due appuntamenti. Poi sarebbe potuto tornare a casa a dedicarsi al suo vero lavoro: la scrittura.
Due
Arrivati a casa, Stella e Sammy andarono in cucina dove il bambino, che non aveva chiuso la bocca per tutto il tragitto in macchina, si arrampicò sul seggiolone davanti al tavolo e continuò a chiacchierare. Stella era andata a prenderlo alla scuola materna, dove quella mattina era stato festeggiato il compleanno di un compagno di classe e questo, semmai ce ne fosse stato bisogno, aveva riacceso in Sammy la trepidazione per la grande festa di venerdì. Sammy sciorinò per la centesima volta l’elenco sempre più lungo dei suoi desideri, inventando i giochi più incredibili per la festa. A Stella piaceva vederlo così, pieno di trepidazione e traboccante di energia e creatività. Sammy avrebbe potuto mangiare all’asilo, ma lei andava a prenderlo quasi sempre, soprattutto quando Jonas non tornava a casa per pranzo. Per quale motivo avrebbe dovuto sedersi da sola a tavola a mandare giù svogliatamente qualche cucchiaiata di yogurt? Era molto più divertente condividere il pasto con il figlio e godersi la sua compagnia. Quel giorno aveva previsto patatine fritte e crocchette di pollo, il piatto preferito di Sammy.
Mentre distribuiva le patate surgelate sulla teglia del forno, ascoltava distrattamente le chiacchiere di Sammy e pensava al proprio futuro. Dall’arrivo di Sammy non aveva più lavorato, ma a settembre lui sarebbe andato a scuola e secondo lei era un ottimo momento per dare una svolta alla propria vita. Non voleva rimanere a casa per sempre, ma non si illudeva che il rientro nel mondo del lavoro sarebbe stato facile. Un tempo lavorava per una casa di produzione cinematografica. Aveva nostalgia del proprio lavoro, ma si rendeva conto che non era sempre facile conciliarlo con gli impegni familiari. Un lavoro part-time sulla carta era sempre molto bello, ma in concreto non sempre sostenibile. D’altro canto, Jonas lavorava spesso a casa. Con una buona pianificazione, accordandosi sempre con largo anticipo sui reciproci impegni...
«E i palloncini» stava dicendo Sammy. «Mamma, mi hai sentito? Apprenderemo dappertutto dei palloncini colorati, sì?»
«Ma certo che lo faremo. Anche in giardino, se il tempo è bello.»
Le patatine erano in forno e Stella stava regolando il termostato, quando il telefono squillò.
Quella scena le sarebbe rimasta impressa per sempre nella memoria, con lo squillo del telefono in apparenza innocuo. Ma in seguito sarebbe diventato un suono molesto. Un suono che interrompeva una serena scena di vita domestica, la cucina luminosa e invitante. I fiori alla finestra. Le patatine che rosolavano in forno. Sammy seduto sul seggiolone che faceva progetti e chiacchierava. Un’auto stava passando lentamente lungo la via. Qualche timido raggio di sole aveva squarciato le nuvole che fino a quel momento avevano dato una luce torbida e lattiginosa alla giornata.
Il telefono era in salotto. Andò a rispondere senza fretta. Doveva essere Jonas. Quando era in giro telefonava spesso, e quel giorno non si era fatto ancora sentire dal mattino. Ormai doveva aver terminato la visita dal dottor Bent. Stella era ansiosa di sentire le sue impressioni.
Sammy intanto continuava a parlare imperterrito in cucina. «E poi la torta di banane ricoperta al cioccolato...»
«Pronto» rispose.
Un breve silenzio. Poi una voce: femminile, giovane, un po’ timida. Che cercava di mascherare la timidezza con una disinvoltura eccessiva e forzata.
«Pronto! Stella? Sono Terry. Terry Malyan. Si ricorda di me?»
Eccome se la ricordava.
La madre biologica di Sammy. Che aveva sperato di non dover incontrare mai più in vita sua.
Era seduta in cucina, davanti a Sammy, senza in realtà rendersi conto della presenza del figlio che aveva ridotto il piatto a una vera e propria orgia di ketchup. Era riuscita a preparare il pranzo e ad apparecchiare, non sapeva nemmeno lei come, aveva agito in uno stato di trance, la mente occupata a chiedersi da cosa derivasse quel senso di minaccia.
Terry Malyan.
«Il 2 maggio Sammy compirà cinque anni» aveva detto al telefono, con quella buffa voce festosa e impostata. «Pensavo che sarebbe un’ottima occasione per rivederlo!»
Terry non si era fatta viva per quasi cinque anni. Non aveva né telefonato né scritto. Né per il compleanno di Sammy né per Natale. Quando Sammy aveva compiuto un anno, Stella le aveva spedito delle foto, senza tuttavia ricevere una risposta. Alla fine aveva interrotto ogni contatto con la donna.
E l’aveva vissuta come una liberazione.
«Casualmente saremo a Londra per il fine settimana...»
Ma davvero, casualmente? E che cosa significava quel saremo?
«Il mio compagno e io. Lui ha degli affari da sbrigare.»
Si riferiva al padre di Sammy? Stella non lo aveva mai conosciuto, non si era fatto vedere neppure allora, all’epoca dell’adozione. Uno studente diciassettenne, annientato dal risultato della sua prima esperienza sessuale, avvenuta con una sedicenne in una tenda durante un campo estivo sulla costa del Galles, e che era stato un centro perfetto: sotto forma del neonato venuto al mondo nove mesi più tardi.
Stella ricordava ancora la telefonata dell’operatrice dei servizi sociali che seguiva il suo caso nell’aprile del 2009. «Abbiamo un bambino per lei. Nascerà all’inizio di maggio. I genitori sono decisi a darlo in adozione subito dopo il parto. Sono poco più che ragazzi, frequentano ancora la scuola e sono sopraffatti dalla situazione.»
Inizialmente era stata concordata una «adozione in anonimato», l’unica opzione presa in considerazione da Stella e Jonas. I genitori biologici non avrebbero conosciuto quelli adottivi, e viceversa. Se successivamente l’adottato avesse voluto conoscere i genitori biologici, naturalmente avrebbe avuto il diritto di farlo; fino ad allora, tuttavia, non ci sarebbero stati contatti. Stella e Jonas non avevano mai pensato di tacere al figlio di essere adottato, ma volevano evitare visite insistenti, scambi, intromissioni. E soprattutto conflitti interiori nel bambino per la presenza di due coppie di genitori.
«No, non è il padre di Sammy» aveva detto Terry. «Non so più niente di lui. Convivo con il mio nuovo compagno da sei mesi. Si chiama Neil Courtney. Molto probabilmente ci sposeremo.»
«Mamma, mi ascolti?» chiese Sammy osservando la madre dall’altra parte del tavolo. Aveva la faccia tutta impiastricciata di ketchup, come se fosse caduto in un secchio di vernice.
Stella si sforzò di sorridere. «Ma certo, tesoro.»
Neil Courtney. Il nuovo fidanzato di Terry. Al quale Terry evidentemente voleva mostrare il bambino che aveva messo al mondo e del quale non si era interessata per anni. Oppure Neil aveva finalmente dato un senso alla sua vita? Ma quale uomo si interesserebbe con entusiasmo di un figlio non suo, un figlio che non aveva mai avuto un ruolo neppure nella vita della madre?
Stella non vedeva l’ora che Jonas tornasse a casa. Doveva parlare con qualcuno. Con qualcuno che potesse tranquillizzarla. Che spazzasse via tutte le paure che finora lei non era riuscita neppure a formulare con precisione.
All’epoca la cosa era completamente sfuggita di mano. Il 2 maggio era nato il bambino tanto agognato, ed era stato subito affidato ai genitori adottivi. Poco prima dello scadere del periodo di prova, durante il quale la madre biologica aveva la possibilità di ripensare alla propria lacerante decisione e cambiare idea, era accaduto proprio questo: i servizi sociali avevano contattato di nuovo Jonas e Stella spiegando che purtroppo Sammy non poteva rimanere con loro.
«Lei lo rivuole. La madre. Non riesce a superare la separazione. Vuole riavere a tutti i costi il figlio.»
Stella si era sentita crollare il mondo addosso. «Non è possibile! È con noi da quasi cinque settimane. Gli vogliamo bene. È nostro figlio. Non potete portarcelo via così!»
L’assistente sociale si era mostrata estremamente comprensiva. «Sono davvero desolata, Mrs Crane. Vorrei potervi risparmiare questo dolore. Ma ho le mani legate. Devo attenermi al regolamento, non posso fare altro.»
«Quella ragazza ha solo sedici anni!»
«Sì. È molto giovane e la situazione non è positiva. Ciò nonostante...»
Erano venuti a prendere Sammy. Stella non avrebbe mai dimenticato quel momento terribile. Era stato come se qualcuno le strappasse un pezzo di cuore. E nonostante quanto sarebbe accaduto in seguito, la ferita sarebbe rimasta. Per sempre.
Dopo tre agghiaccianti settimane, durante le quali Stella era ricorsa ripetutamente all’aiuto del dottor Bent e si era imbottita di tranquillanti, e Jonas non si era azzardato a uscire di casa, temendo che la moglie potesse commettere un gesto disperato, i servizi sociali si erano rifatti vivi. C’erano dei problemi. La madre di Sammy non era all’altezza della situazione e non era più sicura che la decisione di tenere il bambino fosse quella giusta. Era tormentata dall’idea di rovinarsi la vita e di impedirsi qualunque possibilità futura crescendo il bambino, ma nel contempo non sopportava l’idea di separarsi da lui.
«Le piacerebbe molto conoscerla, Mrs Crane. So che sarebbe del tutto contrario agli accordi, ma...»
«Sì?»
«Secondo me, conoscere i futuri genitori e convincersi che Sammy crescerebbe in un ambiente molto positivo con voi potrebbe rappresentare una spinta decisiva per convincerla ad affidarvelo. La ragazza si rende perfettamente conto di non poter offrire alcuna stabilità al piccolo. Ciò che le occorre è sapere di aver preso la decisione giusta, e parlare con voi gliene darebbe la conferma.»
«A quel punto però l’adozione non sarebbe più anonima.»
«Infatti. Potrei capire perfettamente le sue remore se non volesse accettare queste condizioni. Le propongo questa strada soltanto perché il nostro primo obiettivo è il benessere del bambino e...» Si bloccò. Non voleva parlare troppo.
Stella indovinò il suo pensiero. «E secondo lei per Sammy sarebbe meglio venire a vivere con noi.»
«In tutta sincerità, sì.»
A questo punto Stella non aveva più avuto dubbi. Decise di incontrare la madre di Sammy.
Jonas non era d’accordo. «Potrebbe venirne fuori un tira e molla senza fine. Questa ragazza non sa ancora ciò che vuole. Oggi la pensa in un modo, domani in un altro. Che facciamo se ce la ritroviamo in continuazione davanti alla porta, tutte le volte che il suo istinto materno dovesse risvegliarsi?»
«Dopo un certo intervallo di tempo l’adozione diventa definitiva. A quel punto non potrà più fare niente.»
«Da un punto di vista giuridico. Ma potrebbe importunarci. Telefonate. Visite continue. Richieste di vedere Sammy. Potrebbe cercare di ricattarti con le lacrime. Ne abbiamo già parlato, Stella. C’era un motivo se avevamo scelto l’adozione in anonimato.»
«È vero. Ma le circostanze sono cambiate. Dobbiamo modificare il nostro punto di vista, non abbiamo altra scelta.»
«Sì che ce l’abbiamo. Possiamo aspettare un altro bambino.»
«C’è voluto quasi un anno prima che arrivasse Sammy!»
«E allora ne passerà un altro. Non è un tempo così lungo. E poi magari le cose andranno più velocemente.»
Lei si sentì salire nuovamente le lacrime agli occhi, anche se si era imposta di non piangere per nessun motivo. «Non ce la faccio più ad aspettare, Jonas. Combattiamo da più di sei anni per avere un bambino. Abbiamo avuto solo delusioni. È stata una battaglia logorante. Non ne posso più, sono esausta. E poi voglio bene a Sammy. È stato qui. L’ho tenuto in braccio. Non posso dire, ma sì, aspettiamo un altro bambino. Non è possibile. Non ce la faccio.»
Jonas aveva ceduto. Aveva percepito la profonda disperazione, il totale esaurimento della moglie. Lui stesso era sfinito. Non se la sentiva di affrontare un’altra discussione sull’argomento.
E poi tutto era andato per il meglio, e persino Jonas aveva dimenticato i propri dubbi. Si erano incontrati con la madre biologica, la sedicenne Therese Malyan di Truro, in Cornovaglia.
«Mi chiami Terry. Posso chiamarla Stella?»
Stella era disposta a fare qualunque concessione. A lei importava solo Sammy. Aveva invitato Terry a casa sua a Kingston, alla periferia di Londra, le aveva mostrato la camera del bambino, i giocattoli, le tutine. Terry aveva pianto. «Con voi starà bene, lo vedo. Siete due persone di buon cuore.»
Stella aveva percepito il sollievo della ragazza. La gravidanza indesiderata aveva fatto piombare la sua vita nel caos. Fin dall’inizio l’unica soluzione per ritrovare la libertà era stata quella di affidare il bambino ad altri. Ora che si era accertata che sarebbe stato in buone mani, «le migliori, Stella, veramente, non sarebbe potuto capitare meglio di così!», aveva fatto dietrofront e stavolta in modo definitivo: prima del termine del periodo di prova non c’erano stati ripensamenti.
L’adozione del piccolo Samuel Malyan era stata ratificata. Ora il suo nome era Samuel Crane ed era figlio di Jonas e Stella.
Fino a quel giorno non avevano più avuto notizie di Terry. Si erano quasi dimenticati della sua esistenza.
«Mamma, ma tu non mi ascolti!» protestò Sammy.
Lei smise di fingere. «Devo telefonare a papà. Torno subito, tesoro. Poi ricominceremo a pensare al tuo compleanno.» Con la tua altra mamma e il suo nuovo amico come ospiti d’onore.
Andò in salotto. Aveva il cuore in gola. Aveva bisogno di qualcuno che le dicesse che le sue preoccupazioni erano infondate.
Jonas rispose subito, quasi tenesse il cellulare in mano.
«Stavo proprio per telefonarti, Stella. Ho parlato con un collega della produzione. Che ne diresti di due settimane di vacanza a fine maggio, inizio giugno, nella brughiera dello Yorkshire? In completa solitudine, e stavolta non mi porto dietro il lavoro. Niente computer, niente smartphone, niente di niente. Questo mio collega, anche lui sceneggiatore, ci affitterebbe la sua casa. Sembra fatta apposta per staccare la spina. Che ne dici? Secondo il dottor Bent dovrei...»
Non le importava quello che diceva il dottor Bent, e le brughiere dello Yorkshire le interessavano ancor meno. Interruppe il suo fiume di parole.
«Jonas, mi ha telefonato. Venti minuti fa. Terry Malyan. Vuole venirci a trovare per il compleanno di Sammy.»
Jonas rimase in silenzio per qualche secondo. Evidentemente non aveva capito subito di chi stesse parlando Stella. Oppure gli risultava difficile lasciare la brughiera per tornare alla vita di tutti i giorni. «Va bene» disse infine lentamente. «Va bene.»
«Jonas, non va bene per niente. Ho paura che lei... insomma, che cosa vuole? Perché ha telefonato?»
Lui la interruppe. «Non agitarti, Stella. Di sicuro vuole soltanto venire a trovarlo. Non si è fatta sentire per cinque anni e ora le è venuto questo desiderio. Non ha nessun legame con Sammy né potrà crearselo passando un pomeriggio da noi. Scommetto che poi non la sentiremo più per altri cinque anni.»
«Ha un nuovo fidanzato. Verrà con lei. Jonas, perché ho questa bruttissima sensazione?»
«Perché ti senti in competizione con lei» rispose Jonas, «e questo ti destabilizza. Andrà tutto bene, Stella. Fidati di me.»
Soltanto a distanza di molte settimane avrebbe ammesso di aver provato lui stesso una brutta sensazione. Un oscuro presentimento che tuttavia si affrettò a scacciare.