Domenica, 4 maggio

Aveva dormito nel letto del padre assassinato, nella speranza di sentirlo più vicino a sé. In realtà lo avrebbe sentito dappertutto. Ci sono persone che, dopo la perdita di un congiunto, sostengono di avvertirne la presenza: Non se n’è andato, anche se non riesco più a vederlo. Mi è sempre vicino.

Kate non aveva provato niente di simile nemmeno per un secondo dalla morte di Richard. Lui era lontanissimo e lei si sentiva completamente sola. Non lo percepiva, non lo vedeva, non lo udiva. Lo ricordava, sì, ma era un ricordo che sembrava sussurrarle all’orecchio: È passato, passato, passato...

Le lenzuola non erano state cambiate dalla notte dell’omicidio. Kate non ci era riuscita a febbraio, e probabilmente non lo avrebbe fatto nemmeno ora. Le sembrava di cogliere una vaga traccia del bagnoschiuma di Richard, ma forse era solo la sua immaginazione. Rimase ancora un po’ tra i cuscini, mentre la luce del mattino rischiarava la camera. Letto, armadio, comò, non c’erano altri mobili. Sul comò la foto incorniciata della madre di Kate. Una foto prima della malattia. Era ancora la donna dalle guance rosee e lo sguardo luminoso. In seguito si era spenta, come sbiadita, gli occhi incavati, segnata dai dolori e dalla disperazione.

Kate si alzò alle otto, si fece la doccia, si vestì e scese di sotto. Aveva fatto riparare subito la porta del soggiorno, ma quella della cucina continuava a chiudersi male. Kate avvertì lo spiffero freddo che penetrava dalle fessure. Quella porta era una tragedia, divorava il calore ed era un rischio per la sicurezza, ma l’omicida non l’aveva usata per entrare in casa. Kate ne dedusse che non conosceva l’abitazione di Richard. Era stato più difficile, più rumoroso e più rischioso rompere il vetro della sala da pranzo; la porta della cucina invece avrebbe potuto essere sfilata dai cardini senza rumore. L’assassino voleva colpire Richard, ma non era fra le conoscenze più vicine, altrimenti lo avrebbe saputo. Potevano essere esclusi pure gli artigiani che avevano lavorato in casa le settimane precedenti all’omicidio e i conoscenti della donna delle pulizie. Kate sapeva che erano state compiute subito indagini in quella direzione, ma senza ottenere risultati, come previsto. Era convinta che il delitto fosse legato al passato di Richard. In pratica era come andare alla ricerca di un ago nell’enorme pagliaio accumulato in più di quarant’anni di attività investigativa.

Per cena Kate si era riscaldata una scatola di fagioli al pomodoro che aveva trovato in uno degli armadietti della cucina, ma per colazione non c’era nulla. Avrebbe dovuto seguire il consiglio di Caleb Hale e fare un po’ di spesa al supermercato. Le sarebbero bastati una fetta di pane tostato e un po’ di marmellata, ma di sicuro non avrebbe trovato niente di simile. C’erano solo scatole di fagioli. Kate sorrise suo malgrado. Dopo la morte della moglie, Richard aveva trascurato del tutto la propria alimentazione.

Lei non era da meglio, se proprio doveva essere sincera. Era passato molto tempo dall’ultima volta che aveva gustato veramente un pasto decente preparato con cura. A Natale. Aveva trascorso le feste dal padre, avevano cucinato insieme e lui l’aveva portata per due volte in un bel ristorante. Come sempre avevano parlato di tutto tranne che dei problemi personali. Kate aveva intuito che il padre si sentiva molto solo, ma lui non ne aveva fatto parola, proprio come lei non aveva trovato il coraggio di dirgli quanto stesse male. Ovviamente si era convinta di non averlo fatto perché non si preoccupasse per la sua unica figlia. Dentro di sé, tuttavia, sapeva che il motivo era un altro: non voleva deluderlo. Non doveva sapere che la sua vita era un fallimento. Voleva che Richard fosse fiero di sua figlia.

In piedi in cucina, si scaldò le dita intorno alla tazza di caffè bollente. Se non altro quello non mancava. Con uno sforzo di volontà, si costrinse a non guardare la sedia sulla quale il padre era stato legato ed era morto. Qualcuno l’aveva spinta sotto il tavolo, forse la donna delle pulizie che aveva riordinato dopo che la scena del crimine era stata sgomberata. Quando era arrivata, Kate aveva visto le macchie di sangue sul pavimento, si era sentita mancare ed era stata accompagnata in salotto da un’agente. Qualcuno le aveva dato del tè. Tutti erano stati molto gentili e premurosi.

Ora le macchie di sangue erano sparite. La cucina aveva un aspetto pulito e ordinato. Non c’erano più tracce del dramma che vi si era svolto. Dovrei aprire porte e finestre, pensò Kate, qua dentro fa troppo freddo e c’è odore di muffa.

Si strinse nelle spalle con un brivido. Era ancora mattina presto, ma per qualche motivo aveva l’impressione che il freddo lì dentro non dipendesse dalla temperatura esterna. Era legato al fatto che niente e nessuno abitava più in quella casa, che per più di due mesi tutto era rimasto ermeticamente chiuso e il riscaldamento era stato tenuto al minimo. Kate ripensò a quanta vita c’era stata un tempo, sebbene fossero una famiglia di appena tre persone. Sua madre era una fonte di allegria e calore e suo padre era sempre di buonumore anche dopo le giornate più faticose. L’infanzia era stata un’epoca felice e protetta per Kate. Ancora oggi si chiedeva come mai poi la sua vita fosse andata così a rotoli. Non c’era un motivo apparente.

Il suo bilancio: a trentanove anni era ancora single, senza un marito, senza figli, senza un compagno, senza amici. Lavorava alla Metropolitan Police, fino a un anno prima con l’imbarazzante qualifica di agente investigativo, cosa piuttosto bizzarra per la sua età e gli anni di servizio nel dipartimento. Nel settembre precedente aveva finalmente superato l’esame e ottenuto la promozione a sovrintendente. Non che la situazione fosse cambiata. I colleghi mantenevano le distanze da lei, nessuno la cercava, se non quando era strettamente necessario. Non le erano sfuggite le parole a mezza voce e le occhiate furtive quando prendeva la parola durante le riunioni. Quello che diceva sembrava sempre sbagliato, chissà perché, oppure formulato in maniera antipatica. Ormai era così insicura che spesso non diceva niente e cercava il più possibile di non prendere decisioni, nel timore che fosse il contrario di ciò che diceva o faceva. Anche questo atteggiamento era irritante, perché da una funzionaria di polizia, che tra l’altro prestava servizio presso il dipartimento più prestigioso del Regno Unito, ci si aspettava determinazione e intraprendenza. Intuiva che molti si chiedevano come diavolo avesse fatto una come lei a mettere piede a Scotland Yard. I colleghi, ne era convinta, sospettavano che avesse sfruttato i contatti del padre. Invece non era così. Kate aveva fatto tutto da sola. Le sembrava passato un secolo, ma un tempo era stata davvero più sicura di sé e più intraprendente. Poi c’era stata qualche battuta d’arresto, paralizzandola lentamente. La sua parte razionale le aveva ripetuto che non c’era niente di insolito a sbagliare e che non era l’unica ad aver combinato qualche pasticcio, ma non c’era stato niente da fare: aveva perso la fiducia in se stessa, in una spirale perversa. Senza fiducia in se stessa si sentiva inadeguata. Ormai aspettava quasi ogni giorno che le venisse consigliato di cercarsi un altro lavoro. Aveva guadagnato un po’ di tempo perché dopo l’assassinio del padre tutti la trattavano con i guanti di velluto e persino i colleghi che meno la tolleravano al momento provavano solo compassione per lei. Ma il capo aveva acconsentito più che entusiasta alla sua richiesta di ferie prolungate: per sistemare le cose di suo padre e per riprendere le forze. Di sicuro lui si augurava che non tornasse.

A furia di riflettere con lo sguardo fisso sul giardino, la tazza si era raffreddata. Assaggiò un sorso di caffè e fece una smorfia: tiepido e amaro. Lo versò nel lavandino e guardò l’ora. Erano passate da poco le nove. Un po’ presto considerato che era domenica, ma avrebbe azzardato ugualmente una visita a qualcuno.

Un’ora più tardi ne sapeva quanto prima. Si era recata da Robin Spencer, il vicino di casa la cui amante aveva notato l’automobilista sospetto. Sebbene Caleb Hale non avesse fatto nomi quando le aveva parlato della cosa, Kate aveva capito subito di chi si trattava. Dopotutto era cresciuta in quella via e grazie a suo padre era sempre rimasta ben informata sugli avvenimenti e gli abitanti del luogo anche vent’anni dopo essersi trasferita a Londra. Robin Spencer era sempre stato un cascamorto: cambiava fidanzata in continuazione, ed evitava accuratamente qualsiasi legame duraturo o impegnativo. Una storia con una donna sposata era tipica per uno come lui, perché rappresentava la forma di relazione meno rischiosa.

Kate non riuscì a scoprire da lui più particolari di quanti già avesse raccolto. Robin non si era mostrato affatto contento di trovarsela davanti quella domenica mattina, ma l’aveva invitata ad accomodarsi, le aveva fatto le condoglianze per la morte del padre e poi le aveva offerto un caffè. Per fortuna era solo. No, non le avrebbe rivelato il nome della sua amante, la poveretta aveva già avuto abbastanza problemi per quella storia. La polizia era stata da lei, e tanto bastava. Le aveva riferito tutto ciò che sapeva. No, non era sicura che si trattasse di una Peugeot, ma lo riteneva probabile. Sì, di sicuro era verde scuro. Il guidatore? Molto probabilmente un uomo. Altre persone a bordo? No. Niente da fare per la targa. Non ci aveva fatto caso. Chi avrebbe potuto immaginare che sarebbe accaduto qualcosa di tanto raccapricciante in una zona così perbene?

Kate era andata via in preda a un mal di testa sempre più forte, forse per il caffè bevuto a stomaco vuoto. La temperatura intanto era salita e con calzoni lunghi, pullover e impermeabile era troppo coperta. Il sudore le colava sulla schiena mentre camminava per strada. Si sentiva stanca e frustrata.

Be’, cosa ti aspettavi, pensò. Proprio tu, la poliziotta più incapace di tutta Scotland Yard, ti presenti qui, fai le domande giuste e... ottieni la risposta decisiva che ti conduce direttamente al colpevole? L’amica di Spencer aveva detto tutto ciò che sapeva. Non era possibile tirarle fuori altro a comando.

Già a una certa distanza si accorse di un’auto parcheggiata davanti a casa sua e, avvicinandosi, vide che era quella di Caleb Hale. L’ispettore era in piedi davanti alla porta, un sacchetto di carta in mano che, a giudicare dalla scritta, era di un take-away indiano.

Quando scorse Kate, sorrise sollevato. «Per fortuna! Temevo già di dovermene andare senza trovarti. Vedi» agitò il sacchetto, «l’idea che stessi morendo lentamente di fame non mi ha dato pace. Spero che il curry ti piaccia.»

Kate si incamminò lungo il vialetto, augurandosi di non avere un aspetto così terribile come si sentiva. Aveva i capelli appiccicati alla fronte e la faccia sudata.

«Non sono nemmeno le dieci» replicò invece di salutare. «Non è un po’ presto per pranzare?»

«Possiamo aspettare e riscaldare tutto più tardi. Ce l’hai il microonde?»

Lei aprì la porta trattenendo un sospiro. A quanto sembrava, lui non solo aveva portato qualcosa da mangiare, ma era deciso a restare e a impedire che lei pranzasse da sola. Sapeva di avere un atteggiamento scostante e antipatico, ma il modo in cui Caleb manifestava la propria compassione la irritava. Aveva un’opinione estremamente obiettiva di se stessa, e sapeva di non essere né una bellezza né di emanare un fascino irresistibile. Per tutta la vita era sempre stata invisibile per gli uomini. A eccezione di quelli che provavano pena per lei. La compassione era peggio dell’indifferenza, e adesso anche Caleb Hale sembrava volersi aggiungere alla schiera dei samaritani. Avrebbe tanto voluto pregarlo di lasciarla sola, ma lui era a capo delle indagini sull’omicidio del padre. Caleb era importante. Era una fonte di informazioni. Sarebbe stato stupido contrariarlo.

Si sforzò di sorridere. «Scusa. Non volevo essere così brusca. Sei stato molto gentile. Ecco... vedi... trovarmi qui...»

Non terminò la frase. Caleb annuì. «Me lo immagino. Per questo ho pensato che non dovresti restare troppo da sola. E almeno mangiare come si deve.» La seguì dentro casa. «Inoltre vorrei parlarti di una cosa.»

Posò il sacchetto sul tavolo della cucina e si guardò intorno. Distolse gli occhi alla vista della sedia dove era stato seduto Richard. Pur non essendo stato presente sul luogo del delitto, aveva visto le foto. Erano bastate per sconvolgere anche lui, che di cose brutte ne aveva viste tante.

Kate rimase immobile in mezzo alla stanza. «Per quanto tempo hai lavorato con mio padre?» domandò brusca.

«Non molto» rispose Caleb. «Sono entrato nella sua squadra un anno prima che andasse in pensione. Non abbiamo avuto molto tempo per conoscerci bene. Ma lo stimavo molto e mi è spiaciuto che se ne andasse. Era un poliziotto esperto e un collega decisamente simpatico.»

«Era anche un padre stupendo» disse Kate sottovoce, «un marito meraviglioso per mia madre. Erano molto felici insieme. Eravamo una famiglia felice.»

Caleb annuì, poi aprì la bocca per dire qualcosa, ma ci ripensò. Rimasero entrambi in silenzio per un istante. Poi Caleb disse: «Non voglio immischiarmi, ma credo che dovresti fare qualcosa per cambiare l’atmosfera di questa casa. È rimasta chiusa per mesi, l’aria è fredda e stantia, e sarebbe deprimente anche senza... ecco, tutto quello che è successo. Guarda com’è bello il giardino. Tutto fiorito. E non fa affatto freddo! Perché non apriamo la porta?»

Kate rispose con un cenno affermativo, poi aprirono la vecchia porta traballante, che Caleb guardò con la fronte aggrottata, e uscirono in terrazza. Kate fu subito circondata dal profumo di erba e lillà, e un calabrone le volò ronzando davanti al viso.

La vita. Non provò gioia né fiducia, al contrario il groppo che aveva in gola diventò ancora più grosso. Come sarebbe stata la vita d’ora in avanti?

«Non avresti... tuo padre aveva dei mobili da giardino?» si informò Caleb.

«Nella rimessa. Li teneva lì durante l’inverno.»

«Potremmo sistemarli in giardino e poi mangiare fuori» propose Caleb.

Lei si sentiva scavalcata, forzata, come se qualcuno cercasse di curarla contro la sua volontà, ma si rimangiò le parole taglienti che aveva a fior di labbra. Voleva essere informata di tutti i progressi delle indagini e al momento Caleb era il suo unico punto di riferimento. Si costrinse ad annuire. «D’accordo» disse.

Trascinarono insieme sulla terrazza il tavolo e le quattro sedie che Richard aveva riposto con cura nella rimessa, proteggendoli con un telo. Kate prese un secchio d’acqua calda e tolse il velo di polvere invernale, mentre Caleb spingeva la base dell’ombrellone sul vialetto. Per finire sistemarono i cuscini sulle sedie e aprirono l’ombrellone. Il sole era sempre coperto dalle nuvole, ma l’ombrellone rosso gettava una luce calda sulla terrazza.

Era ancora presto, così Kate preparò un altro caffè e si sedettero fuori. In cuor suo doveva ammettere che l’idea di Caleb non era stata poi così sbagliata. In giardino si stava molto meglio.

«Stamattina sono stata da Robin Spencer» disse Kate senza preamboli. «Sai, la sua amante...»

«Lo so chi è» sospirò Caleb. «Kate, non sei qui come detective. Sei un poliziotto, per di più di Scotland Yard. Ma la tua giurisdizione...»

«Sì, non ho alcuna giurisdizione. Ma non sono andata da Robin Spencer come poliziotto, bensì come la figlia di mio padre.»

«Ti capisco, sai. E so anche per quale motivo sei venuta qui. Non vuoi solo occuparti della casa e valutare che cosa farne, vero? Secondo te le nostre indagini procedono troppo lentamente, e sei venuta per metterci in riga e magari per... sì, per contribuire in qualche modo. Non è così?»

Lei non rispose. Aveva centrato il punto, perché obiettare?

Lui si sporse in avanti. «Immagino di non poterti impedire di parlare con la gente di qui, di guardarti intorno, di raccogliere voci. Ma sai che potrei escluderti da qualsiasi informazione. Non avrei dovuto parlarti di questa auto misteriosa. E potrei benissimo tenere tutto il resto per me.»

«Ma...?» domandò lei. Lui aveva usato un tono che sembrava implicare un ma.

«Ma con i tuoi contatti a Scotland Yard sono sicuro che troveresti il modo per entrare in possesso di certe informazioni» proseguì lui rassegnato, «e in più potrei approfittare della tua collaborazione. Nessuno conosceva tuo padre bene come te. Se c’è qualcosa nel suo passato che può avere un legame con l’omicidio, tu potresti essere la persona giusta in grado di indicarmelo.»

«Se non sbaglio crediamo che il movente sia da ricercare nel suo passato professionale, no? Naturalmente parlavamo del suo lavoro, ma non mi ha mai raccontato molto e non credo di avere informazioni così dettagliate come quelli che hanno lavorato con lui.»

«Dobbiamo lasciare aperte tutte le ipotesi» disse Caleb, con l’aria di chi recitava una formula imparata a memoria senza tuttavia crederci troppo. «Anche quella che l’omicidio sia legato alla vita privata di Richard.»

Kate mescolò il caffè. «La vita privata di mio padre era del tutto anonima, Caleb. Proprio per contrastare la fatica e lo stress professionali, per il resto viveva in modo tranquillo e prevedibile. Come ti ho detto, lui e mia madre erano molto felici – a prescindere dal fatto che a mia madre pesava molto il fatto che lui non fosse quasi mai a casa. Nelle ore libere, gli piaceva occuparsi del giardino. Tutto quello che vedi crescere e fiorire qui intorno è opera sua. E poi, ogni volta che aveva tempo, faceva qualcosa con me. Mi ha insegnato a nuotare e ad andare in bicicletta, d’inverno mi portava in slitta e a pattinare sul ghiaccio. Andavamo a teatro e al cinema, anche se il film non lo interessava. Era un padre di famiglia, in tutto e per tutto. Viveva per noi e per il suo lavoro.»

«Ma negli ultimi anni... era in pensione. La moglie era morta. La figlia era lontana. Che cosa sai di questo periodo?»

«Ci sentivamo per telefono quasi ogni giorno. Soffriva di solitudine, ma non se ne è mai lamentato. Si occupava di più del giardino. Faceva lunghe passeggiate. Gli piaceva stare all’aria aperta. Si interessava di tutto ciò che accadeva nel mondo, leggeva diversi quotidiani. Parlava molto di politica. Io venivo a trovarlo ogni volta che potevo. Se era successo qualcosa di strano, non me ne ha mai parlato.»

«Capisco.» Caleb la fissava assorto e Kate si rese conto che le stava guardando dentro. Vedeva la sua solitudine e la sua tristezza e comprendeva l’entità della sua perdita.

Assalita da un improvviso impeto di collera all’idea che lui le leggesse dentro come un libro aperto, disse: «Eravamo molto legati. Lui aveva soltanto me... e io non avevo nessuno a parte lui. Non c’è nessuno nella mia vita, Caleb. Ho il mio lavoro e abito nell’appartamento più anonimo che si possa immaginare, nel quartiere di Brexley, nella parte sud di Londra. Non c’è altro. Non c’è nessuno. Mio padre era tutto per me. Il mio rifugio per i weekend lunghi, per le ferie, a Natale, a Pasqua. Per le lunghe serate buie. Chiunque lo abbia assassinato, non ha ucciso soltanto lui ma, in un certo senso, anche me. Voglio che troviate il colpevole. Voglio vederlo. Voglio sapere perché lo ha fatto. Voglio che sia punito. Se in questo momento avessi anche solo una vaga idea di cosa abbia portato a quella notte di febbraio, te lo direi subito. Ma non vedo niente. Non riconosco niente».

«Kate, devi promettermi che se ti venisse in mente qualcosa ti rivolgerai a me.» Quello sfogo sembrava averlo turbato. «Capisco perfettamente la tua rabbia e la tua sete di vendetta, ma sei una donna intelligente e un poliziotto, e lo sai bene: niente iniziative personali. L’ultima parola spetta alla giustizia.»

Kate intuì che cosa aveva in mente lui in quel momento: la pistola del padre. Era stata ritrovata sul pavimento della sala da pranzo e gli inquirenti ipotizzavano che Richard l’avesse persa durante la colluttazione con l’aggressore. Alla fine delle indagini balistiche era stata consegnata a Kate, insieme alle altre cose del padre. Caleb sapeva che lei era in possesso di un’arma.

«Certo, l’ultima parola spetta alla giustizia» confermò lei.

Il silenzio di quella giornata d’inizio estate era interrotto solo dal ronzio del calabrone che svolazzava ancora in giardino. E dal cinguettio degli uccelli.

«Hai mai sentito parlare di un certo Denis Shove?» chiese Caleb d’un tratto.

«No. Chi è?»

«Era stato arrestato da tuo padre. Nove anni fa. Fu uno dei suoi ultimi casi. È stato rilasciato lo scorso agosto per buona condotta e per la valutazione positiva da parte della psicologa che lo seguiva.»

«Aveva una condanna grave? Non mi sembra trattarsi di un volgare ladruncolo.»

«Omicidio. Aveva ucciso la compagna.»

«Perché?»

«Gelosia. Possessività. Lei voleva lasciarlo e lui non ci ha visto più. L’ha letteralmente picchiata a morte, ma era ubriaco fradicio e non c’era premeditazione. Gli hanno dato dodici anni. Fu Richard a incriminarlo, dopo che Shove aveva tentato di attribuire il delitto a qualcun altro.»

«Doveva nutrire un odio molto intenso per mio padre, allora.»

Caleb annuì. «Infatti. Ma erano in tanti a odiare Richard. Tutti quelli che aveva mandato in prigione nel corso degli anni. Shove, tuttavia, è stato tra i nostri primi sospettati, per due motivi: durante gli interrogatori e il processo, ha minacciato ripetutamente tuo padre, annunciando che si sarebbe vendicato per essere finito in prigione per colpa sua. Inoltre si è reso irreperibile poco tempo dopo l’omicidio di Richard. Ha interrotto i contatti con il suo assistente di sorveglianza e ha lasciato all’improvviso il proprio domicilio, senza dare informazioni.»

«Perché mi parli di lui solo adesso?» Kate si rese conto di avere un tono di voce irritato. «Non è possibile! Perché è stato rilasciato in anticipo, sebbene avesse apertamente minacciato mio padre? Perché non è stato sorvegliato? Perché a mio padre non è stata data una scorta?»

Caleb rispose rassegnato: «Kate, sei del mestiere. Sai bene...»

«Certo, lo so. Organico insufficiente per sorvegliare tutti i criminali che hanno minacciato un poliziotto!»

«Il fatto è che molti fanno minacce, senza poi metterle in pratica. Secondo il rapporto della psicologa, durante la detenzione Shove non ha più menzionato la cosa. Aveva accettato la condanna e se ne era assunto la responsabilità. Sapeva di essere stato lui ad aver commesso un errore. Non Richard Linville.»

«Hai parlato personalmente con la psicologa?»

Caleb scrollò il capo. «Purtroppo no. È partita per un anno sabbatico in Australia subito dopo la scarcerazione di Shove. Dovrebbe tornare a giugno, e la contatteremo immediatamente. Però ho letto attentamente la sua relazione su Shove. Sembra che si sia davvero pentito.»

«Nonostante questo è in cima alla vostra lista dei sospetti, giusto?»

«Sì, certo. Proprio perché è sparito. E perché...»

«...le ottimistiche prognosi sociali degli psicologi penitenziari si basano quasi sempre su una trasfigurazione irreale dei loro pazienti.»

«Io non sarei così categorico. Ma ammetto che gli errori sono possibili.»

Lei tornò alla sua prima domanda. «Perché mi parli di lui solo adesso?»

«Non volevo che ci fissassimo troppo presto su di lui. Sai come si diventa ciechi rispetto alle altre ipotesi quando ci si concentra su un’unica direzione. La sua scomparsa non deve necessariamente essere collegata all’omicidio di Richard. Già prima dell’assassinio della compagna era stato condannato per reati minori. Può darsi benissimo che sia tornato alla sua vita di prima, una vita che gli consente di non lavorare e di mantenersi in un altro modo.»

«Mio padre lavorava con Norman Dowrick all’epoca dell’arresto di Shove?»

«No. Naturalmente abbiamo controllato subito, perché in questo caso sarebbe in pericolo anche Dowrick. Lui non era coinvolto. All’epoca aveva smesso di lavorare da più di un anno.»

«Questo Shove guida una Peugeot verde?»

Caleb scosse la testa. «A quanto ci risulta non possiede un’auto. In ogni caso non ci sono veicoli intestati a Denis Shove.»

Denis Shove. Ascoltò il suono di quel nome, cercando di scoprire se faceva squillare qualche campanello nella sua testa.

Caleb se ne accorse. «È proprio questo il motivo della mia visita quest’oggi. Volevo chiederti se nei mesi precedenti alla sua morte tuo padre ti avesse fatto questo nome. So che era stato informato della scarcerazione di Shove. Resta da chiedersi se Shove si fosse messo in contatto con Richard in qualche modo. Forse senza presentarsi direttamente. Richard ti ha accennato qualcosa? Ha dato a intendere che dall’agosto dell’anno scorso qualcosa nel suo ambiente o nella sua routine quotidiana era cambiato? Telefonate anonime, magari? L’impressione di sentirsi osservato? A volte certe sensazioni si avvertono, ci si sente minacciati senza sapere il perché.»

Lei ci pensò su, ma sapeva già che non era successo niente del genere. Niente che lui le avesse detto.

«Sono sicura di non aver mai sentito quel nome prima di oggi» dichiarò. «E mio padre non mi ha mai parlato di sentirsi osservato o minacciato. Ma questo non significa niente. Senza prove concrete, non avrebbe mai manifestato sospetti. Se non altro per non fare la figura del pazzo che si inventa chissà quali stranezze. E comunque non avrebbe voluto che mi preoccupassi. Entrambi abbiamo...» Lasciò la frase in sospeso. Perché doveva rivelare particolari privati della propria vita a quest’uomo?

«Sì?» la incalzò Caleb.

«Niente. Mi è appena tornato in mente che mio padre e io ci sforzavamo di fingere a vicenda che la nostra vita fosse a posto. E ora mi domando perché lo facessimo.»

«Capita spesso. Proprio con le persone che amiamo. Come hai detto tu stessa, non vogliamo dare loro preoccupazioni. Non vogliamo deluderli. Tuo padre voleva essere forte per te. Il tuo porto sicuro nella tempesta. Credo sia abbastanza normale per i padri, soprattutto verso le figlie, anche se sono adulte. E le figlie... Magari mi sbaglio, ma credo che vogliano sempre rimanere la figura femminile idealizzata che il padre vede in loro fin da piccole. Non vogliono distruggere questa illusione.»

Aveva colto nel segno.

«Tu hai dei figli?» chiese Kate.

Caleb scrollò il capo. «No. E ormai non ho più neppure una moglie. Ci siamo separati. Da due anni circa.»

«Mi dispiace molto.»

«È andata così.» Si alzò. «Che ne dici di scaldare il pranzo? Mi è venuto un certo appetito.»

Kate si rese conto con sorpresa di avere fame. Entrando in cucina, Caleb disse: «Devi assolutamente far riparare questa porta, Kate. È rotta. Potresti benissimo lasciarla aperta e non cambierebbe niente».

«Era quello che diceva sempre mia madre. Ma lui non l’ha mai presa sul serio. E a ben guardare, non lo avrebbe salvato. Il colpevole è entrato da un’altra parte.»

«Adesso però tu abiti qui da sola» precisò Caleb. «E la persona che ha sulla coscienza tuo padre è a piede libero. Non sappiamo che cosa la spinga. Non dovresti commettere imprudenze.»

Lei lo guardò stupita. «Che cosa vorresti dire?»

«Quello che ho detto. Niente di più, niente di meno.» Sostenne il suo sguardo. Era serissimo. «Dico sul serio, Kate. Non essere avventata. Non fare colpi di testa.» Dal portafoglio sfilò un biglietto e glielo porse. «Tieni, questi sono i miei numeri della centrale e di casa. Il mio indirizzo. Per qualunque evenienza, e se notassi qualcosa di strano o sospetto, fammelo sapere subito.»