Lunedì, 9 giugno
Uno
Kate aveva passato tutta la domenica a svuotare la casa. Aveva portato via sacchi pieni di indumenti del padre, svuotato cassetti, eliminato montagne di documenti, appunti, vecchie lettere. Nel corso di una vita si raccolgono un sacco di cose, e Richard era una persona meticolosa, ordinata, di quelle che non buttano via mai niente.
Kate aveva prestato particolare attenzione a tutti i documenti che aveva trovato. Si chiedeva se da qualche parte ci fosse una traccia di Melissa Cooper: una lettera di Richard, un incontro annotato su un taccuino, magari una foto... qualunque cosa. Forse trovare una testimonianza del genere non le avrebbe fatto bene, ma Kate era ansiosa di scoprire qualcosa. Che cosa aveva significato Melissa per suo padre?
Non trovò niente. In fondo, Richard Linville sapeva perfettamente che i colpevoli vengono incriminati soprattutto perché lasciano delle tracce, perché dimenticano di eliminare un indizio, perché si distraggono e non pensano che qualunque cosa potrebbe essere usata contro di loro. Per questo aveva nascosto con grande attenzione anche il proprio tradimento. Kate si rese conto che non sarebbe mai riuscita a scoprire i segreti di suo padre se Melissa non si fosse rivolta a lei e se il figlio non le avesse dato tutte le informazioni necessarie.
Avrebbe voluto controllare il computer di Richard, ma era stato sequestrato dalla polizia all’epoca dell’omicidio, nella speranza di trovare indizi utili per il caso. Kate si era sempre dimenticata di farselo restituire. Ma era convinta che non avrebbe trovato niente. Gli specialisti lo avevano esaminato a fondo: se avessero incontrato il nome Melissa Cooper o tracce dell’esistenza di una sconosciuta, avrebbero sicuramente chiesto informazioni a lei, Kate. Inoltre Caleb era rimasto sorpreso quando era venuto a sapere di Melissa. Alla fine degli anni Novanta lo scambio di e-mail tra privati era ancora piuttosto raro, pertanto era probabile che Richard e Melissa non avessero usato questo strumento per comunicare. In ogni caso Richard sarebbe stato molto cauto. Nel corso della carriera gli era capitato troppo spesso di vedere come gli esperti fossero in grado di riportare alla luce tracce compromettenti sui computer di persone convinte di aver cancellato tutto ciò che poteva essere messo in relazione a un crimine.
Richard era stato molto furbo. Molto prudente.
Questo pensiero l’aveva aiutata quando aveva dovuto disfarsi dei vestiti del padre. Oltre alla tristezza, provava una rabbia sempre più profonda. La rabbia per ciò che Richard aveva fatto a sua madre. Ma anche per ciò che aveva fatto a lei, a sua figlia.
Mentre svuotava e sistemava la casa si era chiesta come interpretare le informazioni che aveva raccolto dalle amiche di Melissa. Per un verso sentiva che facevano bene anche a lei. Le sembrava che suo padre non fosse tornato dalla moglie malata solo per senso del dovere, che non avesse deciso per la famiglia solo perché costretto dalla situazione. Tra lui e Melissa era successo qualcosa che aveva cambiato tutto. La loro relazione era finita.
Meglio così, si disse di cuore.
Ma ciò che aveva messo fine alla loro relazione era legato in qualche modo a quegli omicidi?
Dovrei informare Caleb, pensò a disagio.
Lui non sarebbe stato entusiasta di venire a sapere del suo viaggio a Whitby. E lei non aveva voglia di sentire i suoi rimproveri.
Verso sera le era capitato tra le mani qualcosa che avrebbe potuto utilizzare per compiere un altro passo avanti, dovunque l’avrebbe condotta. In pratica aveva frugato e rovistato dappertutto in cerca anche del minimo segreto, poi, aprendo un cassetto in cucina alla ricerca di un cavatappi – aveva deciso di concedersi una delle bottiglie della cantina di suo padre – aveva trovato una cartolina che qualcuno aveva messo lì per chissà quale motivo. Era un biglietto di Natale: una ghirlanda di agrifoglio appesa sopra una porta. Tutt’intorno fiocchi di neve che cadevano da un cielo notturno. A coronare quell’immagine così kitsch, una scritta obliqua a lettere d’oro svolazzanti: Buon Natale.
Kate girò la cartolina. Era indirizzata al padre. Il timbro postale era del 2004. «Auguro a te e ai tuoi un sereno Natale» c’era scritto in inchiostro blu «e un felice 2005.» Poi la firma: «Norman».
Norman Dowrick. Sovrintendente e per anni stretto collaboratore del padre. Richard stesso si riferiva a loro come alla «squadra imbattibile». Erano stati anche molto amici.
Kate si dimenticò del vino, si sedette in veranda con la cartolina e s’immerse nei pensieri. Era una serata tiepida, le pietre trattenevano a lungo il calore del sole. Nelle giornate che precedevano il solstizio d’estate la luce durava anche dopo il tramonto. Era bello stare seduti lì a guardare il giardino in fiore.
Per diversi anni Norman era stato la persona con cui Richard passava più tempo. D’altra parte lavoravano insieme e la loro professione richiedeva un grande affiatamento. A volte la madre di Kate diceva scherzosamente: «Vorrei essere Norman! Così magari potrei scambiare più di tre parole di fila con te, prima che ti chiamino dalla centrale».
Nell’estate del 2004 era tutto finito. Mentre Richard era in vacanza con Brenda, Norman aveva partecipato a un’azione contro dei trafficanti di droga. Nel corso della sparatoria che ne era seguita Norman era stato colpito. Era rimasto tra la vita e la morte per due giorni e poi era stato sottoposto a diversi interventi. Alla fine i medici avevano ammesso di non poter fare più niente per lui e che era condannato a rimanere per tutta la vita su una sedia a rotelle. Paralizzato dalla vita in giù.
Avrebbe potuto rimanere in polizia, con un lavoro d’ufficio. Kate ricordava come Richard avesse fatto di tutto per convincerlo. Ma ogni volta che parlava Norman era sempre più scoraggiato.
«Non vuole capire. Sta buttando tutto al vento. Vuole vivere della sua misera pensione d’invalidità e passare le giornate a guardare il muro. È pazzo. Sta commettendo un errore madornale.»
Alla fine Richard non era riuscito a far cambiare idea a Norman. Il sovrintendente Dowrick non si era spezzato solo la spina dorsale, bensì soprattutto lo spirito. Ad appena quarant’anni aveva rinunciato a lottare, gettando via il futuro, il lavoro, la vita. A poco a poco perse tutti gli amici. Quella cartolina natalizia a Richard doveva essere stato uno degli ultimi gesti di pura cortesia dell’ex partner. Alla fine del 2004 Norman Dowrick era già un uomo profondamente amareggiato. Non voleva più avere a che fare con nessuno: si era rinchiuso sempre più in se stesso, non rispondeva alle e-mail, non ritelefonava, a volte non apriva nemmeno la porta quando Richard andava a trovarlo. A un certo punto il padre di Kate ci aveva rinunciato.
Aveva rispettato la decisione dell’amico di un tempo di troncare ogni legame con il passato.
In quel momento, tuttavia, Norman rappresentava una pista interessante per Kate. I due uomini, infatti, avevano lavorato fianco a fianco negli anni decisivi in cui Melissa Cooper era entrata nella vita di Richard. Kate si domandava se il padre avesse tenuto all’oscuro della propria relazione anche Norman. Per portare avanti una relazione come quella con Melissa, era necessario un complice, qualcuno che coprisse le sue assenze con i superiori. E anche se Richard non avesse lasciato trapelare niente, Norman poteva essersi accorto di qualcosa. Più di chiunque altro. Forse suo padre si era confidato proprio con lui.
Caleb aveva dichiarato che Norman non aveva alcuna rilevanza nelle indagini, dato che i casi a cui aveva lavorato con Richard erano già documentati. Questo era vero. Ma qui si trattava della vita privata, non della professione.
Forse Norman Dowrick sapeva cosa aveva messo fine alla relazione tra Richard e Melissa.
Dopo essere rimasta in veranda per un’ora a riflettere su queste cose, Kate cercò il numero di telefoni di Norman. In casa c’erano diverse rubriche. Per prudenza non le aveva buttate via. Stando alle informazioni di Caleb, Norman non viveva più a Scarborough, ma forse la moglie abitava ancora al vecchio indirizzo. Kate trovò il numero dei Dowrick e provò a chiamare, ma non le rispose nessuno. Non aveva dimenticato l’indirizzo. Decise che l’indomani ci sarebbe andata di persona.
Lunedì mattina, alle otto, era già davanti alla stretta facciata della casetta a schiera dei Dorwick. Si trovava in uno dei quartieri meno eleganti della città. Infissi e porte scrostate. Giardini invasi dalle erbacce e attraversati dai fili per stendere il bucato. Le abitazioni erano addossate le une alle altre, e le recinzioni così basse da garantire ben poca privacy. Richard aveva raccontato a Kate di come Norman sognasse una casa di proprietà, ma che non si era potuto permettere altro che quella misera sistemazione. Forse ce l’avrebbe fatta dopo qualche promozione.
Ma non aveva fatto in tempo.
Kate aspettò le otto in punto, poi suonò alla porta. Sperava che gli inquilini fossero già svegli.
Qualcuno venne subito ad aprirle. Nonostante fossero passati tanti anni, Kate riconobbe subito la donna che aveva di fronte.
«Mrs Dowrick?» chiese con un sorriso.
Anche la donna sembrò aver riconosciuto Kate.
«Kate? Kate Linville?»
«Mi deve scusare se la disturbo a quest’ora» disse Kate, «ma ho bisogno di sapere con urgenza dove posso trovare suo marito.»
«Sì, non abita più qui da molto tempo. In pratica sono quattro anni che non ci sentiamo più» disse Susannah. Aveva invitato Kate in cucina, dove si era appena preparata una tazza di caffè. Poteva concederle un quarto d’ora, le aveva detto, poi sarebbe dovuta uscire. Lavorava in una drogheria e doveva arrivare un’ora prima dell’apertura. «Cioè adesso» aveva dichiarato dando un’occhiata all’orologio. «Ma non importa. Il proprietario non se la prende se ogni tanto arrivo in ritardo.»
Kate si era accomodata e aveva accettato volentieri una tazza di caffè. Susannah era rimasta in piedi. «La mattina sono sempre così agitata.» Era magrissima, il viso affilato e occhiaie profonde. Una donna perennemente tesa, anche senza un motivo preciso. A un certo punto Susannah Dowrick aveva ingranato la quarta e adesso non riusciva più a rallentare. Almeno questa era l’impressione che faceva a Kate. Di sicuro non era una donna felice. Ma si sforzava di scacciare i pensieri che la tormentavano.
«Siamo separati da molto tempo» proseguì. «È stato Norman a volerlo. Non l’ho lasciato perché era rimasto su una sedia a rotelle. Per me era chiaro che avremmo affrontato insieme la situazione. Anche se non sarebbe stata una passeggiata. Lui brontolava tutto il giorno, incolpava Dio e il mondo, era sempre di pessimo umore, aggressivo e irascibile.» Chiuse gli occhi per un istante. «No» confermò, «era spaventoso. Ma lo capivo. Capivo la sua disperazione, il desiderio di ribellarsi al suo destino. Peccato che... non servisse a niente. Prima o poi bisogna rassegnarsi, non è così? Altrimenti ci si ammala.»
«Ha ragione» disse Kate. Si chiese se fosse il caso di domandare a Susannah qualcosa su Richard, ma la donna riprese a parlare.
«Voleva parlare con Norman? Be’, dovrà andare a Liverpool.»
«A Liverpool?»
«Siamo nati entrambi lì. In realtà della sua famiglia non è rimasto nessuno. Non ho capito la sua decisione. Però, ecco, forse voleva tornare nei luoghi della sua infanzia. Magari per ritrovare qualcosa di familiare...»
«Ha detto che non vi sentite più da quattro anni?»
«È stato lui a volerlo. L’ho detto a tutti. Alcuni colleghi sono venuti a trovarlo. Io dicevo loro: ‘Posso darvi il suo indirizzo, ma molto probabilmente non vorrà vedervi’. Quasi tutti erano contenti di avere un pretesto per non dover andare a Liverpool e affrontare un uomo amareggiato e chiuso in se stesso.»
«Lei invece è voluta rimanere in questa casa, vero?» chiese Kate. Subito dopo si rese conto che non c’era da stupirsi. Lei stessa era morbosamente attaccata alla casa del padre, anche se l’unica cosa sensata sarebbe stata metterla in vendita.
«Sì, è incomprensibile, lo so» rispose Susannah con un sospiro. «Non so... Questa casetta, per quanto squallida, il minuscolo giardino, la sensazione che ci appartenga un pezzetto di terra... una volta era il sogno mio e di Norman. Questa... è l’unica cosa che mi rimane.» Scrollò il capo. «I miei genitori mi danno una mano, da sola non ce la farei. Mi capita spesso di pensare che sarebbe il caso di vendere, ma non ce la faccio. È l’ultima traccia di un passato sereno. Ma forse mi sto condannando da sola, non crede?» Aveva rivolta questa a se stessa, più che a Kate, che preferì rimanere in silenzio. Ma conosceva fin troppo bene le emozioni e i pensieri che si agitavano nell’animo di Susannah.
Frattanto la padrona di casa ormai si era resa conto che la sua ospite non era lì per parlare del suo stato d’animo.
«Ero sconvolta, quando ho letto dell’omicidio di Richard» esclamò di slancio. «Chi può aver fatto una cosa del genere? Ho letto che stanno cercando questo Shove. Ci sono prove concrete contro di lui?»
«In passato lo aveva minacciato» disse Kate. «Aveva detto che avrebbe ucciso mio padre. Per questo la polizia lo ritiene il principale indiziato.»
«È venuto da me un investigatore» la informò Susannah. «Un certo... sovrintendente Stewart, se non sbaglio.»
«Esatto, il sovrintendente Robert Stewart» confermò Kate.
«Proprio lui. Norman e Richard avevano lavorato insieme per molto tempo e voleva sapere se ero al corrente di qualche episodio che potesse avere un legame con l’omicidio di Richard. Purtroppo non sono stata in grado di aiutarlo. Norman parlava sempre molto del suo lavoro con me, ma non ricordo niente di significativo. Naturalmente avevano dei nemici, questo è evidente, ma nessuno in particolare.»
«Posso solo sperare che la polizia risolva in fretta il caso di mio padre» dichiarò Kate.
Susannah la guardò interessata. «Lei partecipa alle indagini, vero? Ora ricordo, lavora ancora a Scotland Yard?»
«Sì, ma qui non ho alcuna giurisdizione. In queste cose bisogna essere molto corretti» rispose Kate, con l’impressione di essere una brava scolaretta che ripete la lezione imparata a memoria. «In realtà ho scoperto qualcos’altro che mi ha turbata molto, e pensavo che Norman avrebbe potuto aiutarmi...»
«Forse posso farlo io?»
Norman le aveva raccontato tante cose. Kate fece un salto nel buio. «Il nome Melissa Cooper le dice qualcosa?»
Susannah trasalì visibilmente. «Santo cielo» rispose.
«Presumo che sia un sì» dedusse Kate.
«Sì» confermò Susannah.
Due
Jane guidava, mentre Caleb era al telefono. Lo sentì dire «sì», «hm» e poi «c’era da aspettarselo. Quindi aveva ragione a sentirsi spiata».
Infine chiuse la conversazione e la guardò.
«Era la scientifica. Sono sicuri che qualcuno abbia cercato di entrare nel cottage di Melissa Cooper. C’erano tracce sulle porte che davano sul giardino posteriore. Sembra che qualcuno abbia tentato di forzare la porta, ma abbia rinunciato. Secondo il collega non dipende dal fatto che fosse impossibile. È evidente che il colpevole o i colpevoli sono stati interrotti.»
«Dall’arrivo del figlio quella sera» concluse Jane.
«È molto probabile. Melissa Cooper sarebbe stata aggredita nel suo letto quella notte. Sfortunatamente il suo omicidio è stato solo rimandato.»
Rimasero in silenzio. Caleb pensò con angoscia all’anziana signora sola in quella casa isolata. Sarebbe stata una facile preda. Il destino l’aveva salvata all’ultimo istante. Ma il suo persecutore si era mosso con più determinazione. Assalire Melissa in pieno giorno a scuola era stato un gesto assai rischioso.
«Siamo quasi arrivati a Newcastle» disse Jane. «Da qui in avanti sarà difficile. La fattoria dev’essere in mezzo al nulla.»
«Immagino che nemmeno la sua conoscenza dei luoghi possa esserci d’aiuto» osservò Caleb. Sapeva che Jane era originaria di Newcastle, dove aveva trascorso l’infanzia.
«Infatti» confermò Jane. «Conosco bene la città, ma i dintorni non mi hanno mai attratto.»
Lei e Caleb Hale erano diretti da Neil Courtney. Il vero Neil Courtney, con un pizzico di fortuna. Dovevano ringraziare Robert Stewart se erano riusciti a rintracciarlo. All’inizio sembrava che le sue indagini del venerdì precedente nella prigione di Hull non avessero dato risultati significativi. Non era stato individuato nessun contatto fra i tre giovani autori della rapina a Scarborough e Denis Shove. Quest’ultimo non aveva parlato con nessuno delle sue minacce di vendetta nei confronti di Linville, e secondo il direttore della prigione Shove non gli aveva dato l’impressione di essere ossessionato dal pensiero di uccidere l’ispettore capo. Non era stato possibile appurare se fosse al corrente della relazione tra Richard e Melissa. Il direttore era rimasto sorpreso quando lo aveva saputo. «Linville aveva una relazione con la donna che è stata massacrata la settimana scorsa qui a scuola? Ma pensa! Questo rende tutto più difficile, no?»
Stewart aveva confermato.
Nemmeno i colloqui con gli altri testimoni della rapina alla sala giochi avevano dato alcun risultato. Nessuno aveva notato nulla di strano nelle settimane e nei mesi precedenti, non si era sentito spiato, osservato o in qualche maniera perseguitato. Era positivo sapere che questa gente non era in pericolo, ma ciò significava anche che quel caso di tanti anni prima non aveva alcuna rilevanza per le indagini, e quella pista non avrebbe portato da nessuna parte.
Finalmente, però, lunedì mattina la psicologa che aveva seguito Denis Shove aveva telefonato come promesso. Aveva confermato anche con Robert la prognosi sociale favorevole che Shove si era guadagnato al momento della scarcerazione. «Non credo che sia stato lui a uccidere il poliziotto. Stando a ciò che ho letto, si tratta di un delitto premeditato e portato a termine con grande accuratezza. Non è nello stile di Shove. Il suo problema è che nelle situazioni di stress perde facilmente il controllo. Si scatena quando si sente criticato o messo in discussione, quando è sotto pressione. Oppure semplicemente se le cose non vanno come vuole lui. È stato questo il suo comportamento anche nei confronti dell’ex compagna. La sua morte a causa delle gravi ferite è stata un tragico incidente. Da parte di Denis non c’era alcuna volontà di uccidere.»
Perché gli psicologi penitenziari, si era domandato Stewart, davano sempre l’impressione di giustificare il comportamento violento del colpevole, come se fosse stata la vittima a essere in torto?
«Con lei non ha mai espresso la volontà di vendicarsi nei confronti di Richard Linville?»
«No.»
Stewart aveva poi parlato di Melissa Cooper, ma la psicologa non aveva mai sentito quel nome. «Chi era? L’amante del poliziotto ucciso? Denis non l’ha mai nominata. Non credo ne sapesse nulla. E in ogni caso, perché avrebbe dovuto ucciderla? Non avrebbe avuto senso per il presunto movente della vendetta.»
È proprio questo il problema, pensò Stewart.
Se non altro era riuscito a ottenere qualcosa facendo il nome di Neil Courtney.
«È un lontano parente. Ne parlava spesso. Il suo unico familiare ancora in vita, a quanto ne so.»
La reazione di Stewart era stata immediata. Finalmente un appiglio. «Ne è sicura?»
«Sì, certissima. Ne abbiamo parlato spesso. Si tratta del terzo marito di una cugina di sua madre, o qualcosa del genere. Un parente alla lontana, ma non importa. Dovrebbe essere anziano e vive in una fattoria nei dintorni di Newcastle. Denis non aveva mai avuto molti contatti con lui, così ho cercato di convincerlo a riallacciare i rapporti dopo la scarcerazione. È importante per qualcuno come Denis, che ha trascorso molti anni in prigione, avere un punto d’appoggio una volta tornato in libertà. La libertà può essere molto problematica, se non ci si è più abituati.»
«È probabile» concordò Stewart. «Lei sa se poi Shove abbia davvero cercato questo parente?»
«Dopo il rilascio non ho più avuto notizie di Denis. Ero già in Australia. Ma anche se fossi stata qui, avrei evitato qualunque contatto. Non posso occuparmi dei pazienti dopo la loro uscita dal carcere, non sarebbe giusto. Devono imparare a vivere senza di me. A diventare indipendenti.»
Be’, Shove ci è riuscito molto bene, pensò Stewart cinico. Forse ha commesso due omicidi, di sicuro ha sparato a una donna per rubarle la macchina. Bel modo di rendersi indipendenti.
Avevano trovato l’indirizzo del vecchio Neil Courtney, un’abitazione isolata nei dintorni di Newcastle. Caleb non pensava di trovare Denis Shove nascosto lì. Quell’uomo era furbo, e doveva aver immaginato che prima o poi la polizia sarebbe risalita a quel vecchio contadino. Di sicuro ci avevano messo molto tempo, troppo, pensò Caleb frustrato. Era stato un peccato che la psicologa penitenziaria avesse trascorso tutti quei mesi all’estero, ma forse da parte loro avrebbero dovuto cercare di contattarla con più insistenza. Il fatto che invece gli investigatori non ci fossero arrivati da soli era un particolare che Caleb era disposto a perdonarsi: il grado di parentela era così lontano che senza un aiuto esterno sarebbe stato impossibile ricostruirlo. Inoltre la polizia sapeva che Shove usava il nome di Neil Courtney solo da una settimana.
Robert Stewart li aveva preceduti, accompagnato da due agenti. Anche lui era convinto che Denis Shove non si trovasse alla fattoria, ma non voleva correre rischi. Shove era armato e sapeva usare la pistola. La loro speranza era che il vecchio Neil Courtney potesse dare loro qualche indizio prezioso, qualcosa che conducesse finalmente al nascondiglio di Shove.
Jane aveva cercato su Google Maps il tragitto fino alla fattoria, ma ciò nonostante si erano persi due volte nel dedalo di stradine e viottoli dissestati. Alla fine avevano rischiato di non vedere il cancello d’ingresso quasi completamente inghiottito dalla vegetazione. Sebbene Stewart e i due agenti fossero passati di lì poco prima, cespugli, felci e cardi erano già tornati a ingombrare il passaggio.
«Non sembra esserci un gran viavai qui» osservò Caleb. Anche la stradina era quasi completamente invasa dalla vegetazione. A destra e a sinistra un tempo dovevano esserci stati pascoli recintati, come facevano intuire resti di muretti e qualche paletto marcio. L’azienda agricola però non era più in funzione da molto tempo. Sembrava che la natura volesse riappropriarsene e sommergerla.
Quando infine raggiunsero il casolare, si trovarono di fronte una catapecchia cadente. Nessuno avrebbe immaginato che ci potesse vivere qualcuno. Intonaco scrostato, vetri sporchi, il tetto scoperchiato in vari punti. I ciottoli dell’aia erano quasi del tutto nascosti dalle ortiche. Al centro era parcheggiata un’auto della polizia. Robert Stewart andò incontro a Caleb e Jane.
«Un ambientino confortevole» osservò. «Sembra che in casa non ci sia nessuno.»
«Se vuoi la mia opinione, qui non ci vive nessuno» disse Jane guardandosi intorno con un brivido. «È come essere sepolti vivi. E secondo me sono anni che nessuno dà una sistemata a questo posto.»
«Un vecchio solo non ce l’avrebbe fatta in ogni caso» disse Caleb.
«Se è ancora vivo, sarà ricoverato in una casa di riposo» proseguì Jane.
«Be’, il suo indirizzo è ancora questo» dichiarò Stewart agitando nella mano un plico di fogli. «Erano nella cassetta delle lettere.»
«C’è una cassetta delle lettere?» chiese Caleb. «E dove?»
«Giù all’entrata. Completamente nascosta dalla vegetazione. L’ho notata per caso passando e ho dato un’occhiata.»
Caleb prese le buste che Stewart aveva già aperto e aggrottò la fronte. «Che cosa sono?»
«Estratti conto della pensione. Dimostrano che Courtney è vivo e risiede ancora qui. Ogni mese gli arrivano i soldi. Una pensione molto modesta, ma sufficiente per vivere.»
«Non molto di più» commentò Jane dando un’occhiata alla casa, che sembrava sul punto di crollare. «La famigerata povertà della vecchiaia. Non attende solo noi, è già arrivata. E non è certo un bel biglietto da visita per la nostra società.»
«Nessuno dovrebbe vivere così» concordò Stewart, «soprattutto se sei anziano.»
«Dobbiamo entrare» decise Caleb. «Ho il sospetto che il vecchio sia morto e che nessuno se ne sia accorto. Magari da mesi.»
«La porta è chiusa a chiave» disse Stewart.
«Dove sono gli agenti?»
Uno dei due poliziotti spuntò proprio in quel momento accanto alla casa. Riferì di avere fatto il giro, per quanto possibile, e aver sbirciato dalla finestra. Secondo lui la casa era disabitata.
«Lo spiazzo sul retro è un’unica discarica» proseguì. «Un sacco di scatoloni di cartone pieni di bottiglie vuote, e altre sparse dappertutto. Soprattutto whisky di pessima qualità. Il tizio che abita qui beve un po’ troppo.»
Ci fu un istante di silenzio impacciato. Caleb non capì subito che Jane e Robert tenevano lo sguardo basso ed erano imbarazzati a causa sua.
Nonostante la faticosa disintossicazione, l’etichetta di alcolista gli era rimasta appiccicata. Probabilmente per sempre.
Robert Stewart si schiarì la gola.
«Dov’è Patrick?» chiese riferendosi al secondo agente.
«Sta perlustrando la proprietà. Ma non credo che troverà qualcosa o qualcuno. Se proprio volete saperlo, penso che qui non venga più nessuno da mesi.»
«Entriamo» disse Caleb.
Gli agenti impiegarono non più di trenta secondi per forzare la serratura arrugginita. Tutti trattennero il fiato per un istante, poi si rilassarono: l’odore che li raggiunse era di aria stantia, mista a un puzzo assai sgradevole di qualcosa in decomposizione. Ma non poteva essere l’odore del cadavere del vecchio Neil Courtney in putrefazione.
Dalle finestre sporchissime filtrava una luce fioca, ma appena gli occhi si furono abituati alla penombra, fu chiaro che nessuno era stato stato più lì: i pavimenti e i mobili erano ricoperti da uno spesso strato di polvere. Il disordine era indescrivibile: cassetti sfilati dai comò e gettati in mezzo alle stanze, il contenuto sparso in giro, i ripiani svuotati, tappeti appallottolati negli angoli, vasi di fiori rovesciati, un paralume strappato dal soffitto. Sembrava scoppiata una bomba, almeno nelle due stanze al pianterreno e in cucina, dove tutti gli utensili erano stati scagliati sul pavimento. Avanzi di cibo ammuffiti erano ancora riconoscibili sulla vecchia cucina economica. Sul tavolo c’era un piatto dal contenuto indefinibile ricoperto da uno strato di muffa biancastra. E anche qui innumerevoli bottiglie di whisky vuote. In netto contrasto con la scena, su un davanzale c’erano alcuni vasi di piante aromatiche. Nonostante fossero rimasti solo pochi steli anneriti, l’immagine era quasi commovente, soprattutto per il piccolo annaffiatoio giocattolo sistemato tra i vasi: Courtney, che a giudicare dal consumo di alcol doveva essere un relitto ambulante, aveva trovato la forza di mantenere in vita delle piante in mezzo a tutta quella decadenza.
«I casi sono due, o Neil Courtney è un incredibile casinista» disse Stewart, «o qualcuno è venuto qui a cercare qualcosa.»
«Propendo per la seconda ipotesi» affermò Caleb. «È probabile che sia stato il nostro amico Shove a fare questo macello. L’interrogativo è: che ne è stato del vecchio Courtney?»
Mentre gli uomini ispezionavano il pianterreno alla ricerca di un accesso alla cantina, Jane salì la ripida scala di legno che conduceva al primo piano. Nel bagno ricavato nel sottotetto una persona di statura normale non sarebbe riuscita a stare in piedi. La tazza del gabinetto era incrostata di sporcizia. Non c’erano oggetti personali, nemmeno uno spazzolino da denti. Il vecchio Courtney non doveva curare troppo assiduamente l’igiene personale, pensò Jane.
Sotto il tetto c’erano altre due stanze, dal soffitto così basso che Jane dovette chinare la testa per entrare. Erano completamente vuote e sembrava che non fossero state mai utilizzate. La vita di Courtney doveva limitarsi principalmente alla cucina e al soggiorno.
Jane tornò di sotto.
«Niente cantina» stava dicendo Caleb. Si rivolse all’agente Scapin. «Di sopra?»
«Niente. Nel vero senso della parola. A parte il bagno, le altre stanze non sono utilizzate.»
Udirono dei passi e si girarono. Patrick, il secondo poliziotto, entrò in casa e rivolse un cenno di saluto a Caleb e Jane. «Ispettore. Agente. Ho trovato qualcosa. Dietro, in giardino.»
«Che cosa?» domandò Caleb impaziente.
«Qualcosa che somiglia a una tomba. Non proprio recente, ma nemmeno tanto vecchia. Potrebbe anche esserci sepolto un cane... ma doveva essere bello grosso...»
Tutti seguirono Patrick nel giardino posteriore. Alla vista degli scatoloni pieni di bottiglie vuote accatastati contro il muro, Jane fu assalita da un brivido.
Anche il giardino, che si estendeva su una collinetta, era del tutto trascurato, ma qui l’effetto era di un idilliaco ambiente naturale. Vecchi alberi da frutto nodosi, robuste querce dalle ampie fronde, cespugli di lamponi, campanule, violette. Felci e muschio. Tutto era cresciuto in modo selvaggio. Un paradiso per uccelli, insetti, lumache e altri animali. Da un punto imprecisato si udiva il gorgogliare di un ruscello. Possibile che in mezzo a un simile paradiso ci fosse una tomba?
Patrick li condusse lungo il pendio fino al confine della proprietà, delimitata dai resti di un muro coperto di muschio. Proprio lì davanti, seminascosta da un arbusto di ginestra, c’era una montagnola di terra, smossa di fresco ma già ricoperta da erba e trifoglio rigogliosi. Patrick aveva ragione: non si era ancora consolidata e a guardare da vicino si riconoscevano le zolle di terra chiaramente scavate con una vanga.
«È piuttosto lunga» disse Jane. «Un po’ troppo per un cane.»
«Direi che l’opera risale all’autunno scorso» osservò il sovrintendente Stewart e Jane trovò bizzarro l’uso del termine opera in quel contesto.
Caleb aveva l’aria sfinita, ma anche sollevata.
«Sarei pronto a scommettere che abbiamo trovato il vecchio Neil Courtney» dichiarò.
Tre
Lunedì Stella ebbe la certezza che Terry e Denis se ne fossero andati, lasciandoli completamente soli alla fattoria, prigionieri in quella buia rimessa, con acqua e viveri che sarebbero bastati al massimo per tre giorni. Non aveva sentito il rombo del motore, ma quella notte aveva dormito molte ore, completamente sfinita, ed era probabile che non si fosse accorta della partenza della coppia. Domenica sera aveva ricostruito la torre per sbirciare dalla finestra. Aveva visto entrambe le macchine dei sequestratori, ma non significava niente: erano sicuramente fuggiti con la vettura dei Crane.
Stella aveva portato con sé un mucchio di stracci che aveva trovato nella rimessa, se li era avvolti intorno alla mano destra e al sesto o settimo tentativo era riuscita a rompere il vetro. Era in una posizione molto pericolosa, senza un punto d’appoggio stabile, ma alla fine il vetro andò in pezzi e con la mano fasciata liberò l’intelaiatura dalle schegge buttandole all’esterno. Provò un enorme sollievo quando sporse la testa fuori, respirò l’aria tiepida e limpida e sentì qualche raggio di sole sul viso. Guardò ovunque con la massima attenzione, ma in giro non c’era anima viva. Solo qualche uccello, spaventato dal rumore dei vetri infranti, si era alzato in volo infastidito. La fattoria si rivelava ancora una volta all’altezza della sua fama di perfetto rifugio in totale isolamento.
Stella scese dall’impalcatura, ma perse l’equilibrio quando era arrivata quasi in fondo e cadde sul pavimento. Per fortuna se la cavò solo con qualche escoriazione alle gambe. L’episodio però la rese più cauta: se fosse caduta da un’altezza maggiore, si sarebbe potuta fare male davvero. Non poteva arrampicarsi solo per prendere una boccata d’aria fresca. Forse avrebbe dovuto restare lassù più a lungo, a montare la guardia in attesa di aiuto. Impossibile stabilire le probabilità di riuscita di quell’impresa, soprattutto rispetto ai rischi di un volo simile.
Ma le probabilità sono pari a zero, pensò sconfortata. Ecco l’amara verità.
Per il resto della domenica si era occupata di Jonas. Aveva sempre la febbre alta e aveva dormito quasi tutto il giorno. Stella si era fatta coraggio e aveva controllato la ferita all’addome. Aveva paura, ma le bende andavano cambiate a intervalli regolari. Grazie alla cassetta del pronto soccorso, aveva a disposizione materiale sufficiente. Jonas aveva lanciato un gemito quando gli aveva staccato la fasciatura incrostata di sangue. Alla fine Stella aveva usato un po’ d’acqua per facilitare l’operazione e alleviare le sofferenze di Jonas, ma le era sembrato uno spreco inutile. Nella loro situazione nulla era più prezioso dell’acqua. Tuttavia, vedendo la brutta ferita di Jonas, capì che era necessario usarne un po’ per pulirla. Non aveva conoscenze mediche, ma temeva che la parte si sarebbe infettata se non fosse stata tenuta relativamente pulita – ammesso che la febbre alta non fosse il sintomo di un’infezione già in atto. La rimessa era piena di polvere e sporcizia ed era l’ambiente peggiore per una persona gravemente ferita. Stella non aveva a disposizione nemmeno una goccia di disinfettante. Non le restava altro da fare che immergere un batuffolo di cotone nell’acqua e tamponare delicatamente e con cura tutta la zona intorno alla ferita. Non aveva idea se fosse sufficiente per evitare una sepsi. Pensò a tutte le descrizioni che aveva letto dei soldati feriti negli ospedali da campo durante la Seconda guerra mondiale. Nonostante le circostanze avverse, soprattutto per mancanza di attrezzatura medica adeguata, molti di loro erano sopravvissuti. Sperava davvero che Jonas fosse abbastanza forte da superare il peggio.
Per tutta la domenica Jonas non disse una parola. Sembrava volesse solo dormire. In diverse occasioni Stella dovette calmare il povero Sammy, che avrebbe voluto giocare o parlare con il papà. Non capiva perché non volesse stare con lui e la mamma. Stella cercava di distrarlo come poteva. Nel cesto delle provviste aveva trovato un mazzo di carte e cercò di tenerlo occupato con quello. Gli diede la parte di cena destinata a Jonas, che si rifiutò ostinatamente di mangiare. Al marito destinò una razione d’acqua un po’ più abbondante rispetto alle loro. La febbre non accennava a scendere e le labbra erano secche e screpolate.
Lunedì le condizioni di Jonas sembravano leggermente migliorate. Aveva mangiato qualche biscotto a colazione e la fronte non scottava più come prima. Anche lo sguardo era più lucido. Di prima mattina Stella gli aveva cambiato la fasciatura, sempre con l’aiuto dell’acqua. Si sforzava di nascondere i propri timori, ma era disperata vedendo quanta ne avevano già consumata. Denis Shove avrebbe dovuto avvertire la polizia e chiamare i soccorsi il prima possibile, altrimenti sarebbero stati perduti.
Finora Jonas aveva parlato solo per chiedere acqua o medicine. Adesso sembrava finalmente rendersi conto di dove si trovava.
«Che casino» disse. «Mi spiace, Stella. Mi spiace tanto.»
«Non è stata colpa tua. Non hai fatto niente di sbagliato.»
Lui scosse la testa. «Invece sì. Tu non volevi venire qui, perché avevi un brutto presentimento su Neil Courtney. Ho fatto di tutto per convincerti, pur avendo qualche dubbio. Ma non volevo ammetterlo.»
«A proposito, non si chiama Neil Courtney» lo informò Stella, «ma Denis Shove.» Poi gli raccontò cosa sapeva di lui.
Jonas sgranò gli occhi. «Ha ucciso un poliziotto?»
«Sostiene di non essere stato lui, ma che la polizia non gli crede. Per questo è scappato.»
«E perché la polizia dovrebbe ritenerlo colpevole?»
«Parecchi anni fa la vittima lo aveva arrestato e fatto condannare. Shove aveva picchiato a morte la sua compagna, e disse che si sarebbe vendicato.»
«Oddio. Terry lo sa?»
«Adesso sì. Ma è rimasta con lui.»
«Dove sono andati?»
«Sono scappati. Con la nostra macchina.»
Jonas cercò di mettersi seduto e fece una smorfia di dolore. Girò lo sguardo per la rimessa. «Siamo rinchiusi qui dentro?»
Stella si strinse nelle spalle. «Per ora sì. La porta e la serratura sono a prova di scasso. Mi ci sono buttata contro diverse volte. Ho cercato di forzare la serratura. Niente da fare. In questa maledetta rimessa c’è di tutto, ma neppure un attrezzo utile.»
«E io non posso aiutarti.» Jonas strinse il pugno. Bastò questo sforzo per farlo impallidire. «Che idiota che sono, Stella. Un idiota colossale. Lanciarmi su Neil... o Denis... credendo di fare l’eroe. Sono un perdente nato.»
«Non sei un perdente. Non potevi avere la meglio su un uomo armato.»
«Non ce l’avrei fatta nemmeno se fosse stato disarmato, lo sappiamo entrambi.» Si lasciò cadere sui cuscini, la fronte imperlata di sudore. «Non so che cosa mi sia venuto in mente. Probabilmente niente...»
«Hai visto la tua famiglia minacciata e hai reagito istintivamente. Adesso smettila di rimproverarti» lo consolò Stella, evitando di dire quanto lei stessa si fosse infuriata per quel gesto insensato. Non aveva alcun senso affrontare ora l’argomento. Dovevano conservare le energie per scopi più importanti.
«Come siamo messi con le provviste?» chiese Jonas.
Stella valutò se fosse il caso di minimizzare la gravità della situazione, ma Jonas si sarebbe reso conto ben presto della verità.
«Non bene. Possiamo tirare avanti ancora tre giorni.»
«Tre giorni?»
«Denis Shove mi ha promesso che informerà la polizia e manderà i soccorsi. Farà una telefonata anonima appena lui e Terry saranno al sicuro.»
«Tu gli credi?»
Stella gettò un’occhiata a Sammy, che era impegnato a costruire aeroplanini di carta stagnola e non li ascoltava.
«Non lo so» rispose sincera. «Credo che sia intenzionato a farlo. Ma a un certo punto potrebbe rendersi conto del pericolo che corre e cambiare idea. È un criminale. Fino a che punto ci si può fidare di un uomo simile?»
«Maledizione» esclamò Jonas. Cercò nuovamente di sollevarsi, ma ricadde stremato. «Dobbiamo uscire da qui, Stella. Quel tipo non si farà più sentire. Né con la polizia né con nessun altro. Cercherà di mettersi in salvo, non gliene frega niente di noi.» Girò la testa per osservare la stanza. «Hai costruito un’impalcatura per raggiungere la finestra... è aperta?»
«Sì, ma non serve a nulla. Pensavo di chiamare aiuto se fosse passato qualcuno, ma finora non si è visto un cane. Più tardi proverò a salire di nuovo, ma... non ho troppe speranze.»
«Sammy» disse Jonas sottovoce. «Secondo me Sammy potrebbe passare dalla finestra.»
«Sì, ma lo sai quanto è alta? Non può saltare da quell’altezza. Si romperebbe tutte le ossa, ammesso che sopravviva. È escluso, Jonas.»
«È la nostra unica possibilità. Non ne vedo altre.»
«Non è possibile.»
«Con una corda...»
«Qui non ci sono corde.»
«Però ci sono dei pezzi di stoffa che possiamo annodare insieme. Possiamo usare anche i nostri vestiti, se necessario. Potremo inventarci qualcosa per calarlo dall’altra parte.»
«Ha solo cinque anni! È troppo alto! Non possiamo rischiare, Jonas.»
«Rischiamo di più se non facciamo niente.»
«E comunque, una volta fuori, che cosa potrebbe fare?»
«Forse Terry e Neil hanno lasciato la casa aperta. Potrebbe prendere il tuo cellulare, correre in cima alla collina e chiamare la polizia. Puoi dargli indicazioni dalla finestra.»
«Dubito che Denis Shove abbia lasciato qui un cellulare.»
«Allora Sammy può raggiungere la strada. Prima o poi passerà una macchina. Stella, l’alternativa è morire di sete e fame qui dentro.»
Stella si nascose il volto tra le mani. Con gli occhi della mente vide Sammy che piangeva, sdraiato in cortile con le ossa fratturate. La chiamava, e lei non poteva aiutarlo.
«Con il tuo collega, il proprietario della fattoria, come siete rimasti d’accordo?»
«Niente di preciso. Ci saremmo sentiti per telefono al nostro ritorno. E poi ci saremmo accordati per la restituzione delle chiavi.»
«Credi che si preoccuperà se non lo chiami entro oggi?»
«Non credo. Penserà che debba occuparmi della posta che ho ricevuto in queste settimane, per non parlare delle e-mail. Immaginerà che sono oberato di lavoro.»
«Ma tra qualche giorno comincerà a innervosirsi, se non ti farai sentire.»
«Tra qualche giorno sarà troppo tardi, Stella.»
«Hai qualche appuntamento?»
«Settimana prossima. Nei prossimi giorni volevo finire due soggetti. Dovrò presentarli tra una decina di giorni.»
«Quando devi spedirli?»
«Venerdì. Stella, prima di allora nessuno si accorgerà della mia assenza.»
«Non puoi saperlo. Magari qualcuno ti ha scritto un’e-mail e vuole una risposta urgente.»
«È vero. Ma secondo te chi si rivolgerebbe alla polizia perché non ho risposto a un’e-mail?»
Era proprio questo il quesito. Quando la gente comincia a preoccuparsi perché un’intera famiglia è sparita? Quando le persone non hanno più il timore di apparire ridicole segnalando la cosa alla polizia?
«La nostra vicina» disse Stella, «sono sicura che è in ansia già da ieri sera.»
«Penserà di non ricordarsi la data, e di sicuro non immaginerà che un omicida in fuga ci ha rinchiusi in una fattoria sperduta.»
«Cercherà di chiamarmi sul cellulare e si stupirà che io non le risponda.»
Jonas alzò debolmente la mano e se la passò sulla fronte sudata. Stella si rese conto angosciata che parlare gli costava troppa fatica.
«Jonas...» disse cercando di calmarlo.
Lui scosse la testa. «Ci vorrà troppo tempo, Stella. A parte il mio collega, nessuno sa dove siamo. E se non ricordo male, forse la segretaria di una delle decine di case di produzione con cui collaboro mi ha sentito parlare delle vacanze con lui. Quindi, se qualcuno si mettesse a fare ricerche su di noi – e prima che accada potrebbe passare molto tempo – dovrebbe riuscire a individuare le persone giuste a cui chiedere per arrivare a questo posto. Secondo te potrebbe succedere tutto in tre giorni?»
Stella tacque. Non sapeva cosa dire.
«L’idea di usare Sammy» riprese dopo un po’ «non mi piace per niente.»
«Ne hai una migliore?» chiese Jonas sfinito.
«Aspettiamo ancora un po’. Possiamo resistere qualche giorno.»
Sammy li raggiunse. Si era stufato di costruire aeroplanini. «Papà, quando torniamo a casa?»
«Presto» lo tranquillizzò Jonas.
«La polizia verrà a liberarci?» Sammy continuava a sognare l’avventura più incredibile della sua vita.
«Non manca molto, vedrai» disse Stella.
«Io ho fame, mamma!»
«Aspettiamo ancora un pochino. Mangeremo tra un paio d’ore, va bene?»
Con un sospiro Sammy tornò nel suo angolino, dove distrusse con gesti rabbiosi tutti i suoi aeroplanini.
«Stella, c’è un’altra cosa.» Ormai Jonas parlava con un filo di voce. «Sto male. Ho bisogno di un dottore.»
«Ma oggi stai meglio!»
«Non è come sembra, credimi. Ho bisogno di un dottore.»
Lei gettò un’occhiata alla finestra. Jonas aveva ragione. Forse Sammy sarebbe riuscito a passare di lì.
L’unica alternativa era la fine.
Quattro
Non avendo altro da fare che starsene a casa del padre a rimuginare, decise di andare a Liverpool. Non aveva idea se un colloquio con Norman Dowrick avrebbe dato qualche risultato, ma non aveva niente da perdere. Nemmeno il tempo, in effetti. Nelle ultime settimane il tempo aveva assunto una dimensione del tutto diversa rispetto a prima. Non stava lavorando. Stava cercando di rimettere in ordine la propria vita.
Quel giorno Susannah avrebbe fatto tardi al lavoro. Alla fine si era seduta e aveva riempito di nuovo le tazze di caffè.
«Sì, sapevo di Melissa. Me ne aveva parlato Norman. Richard si era confidato con lui fin dall’inizio. Aveva bisogno di parlarne con qualcuno e di trovare un appoggio incondizionato. E per i suoi incontri segreti a Whitby... gli serviva qualcuno che lo coprisse. Che gli fornisse un alibi.»
Norman aveva sofferto molto della situazione, proseguì Susannah. E anche lei.
«Eravamo molto affezionati a Brenda. Spesso Norman si sentiva molto a disagio.»
«All’epoca frequentavate ancora mia madre?»
Susannah scrollò il capo. «Era molto malata. A volte le mandavo dei biglietti con frasi incoraggianti, libri, un mazzo di fiori... Lei ne era molto contenta. Mi rispondeva subito. Ma mi aveva fatto capire chiaramente che preferiva non incontrarmi. ‘Ci rivedremo quando starò meglio’, scriveva, ‘adesso sono senza capelli e sono sempre stanca’. Era chiaro che non voleva farsi vedere in quelle condizioni. E spesso le mancava persino la forza di parlare. Per me era quasi un sollievo. Non sarei riuscita a guardarla negli occhi. Anche per la storia di Richard. Sarebbe stato orribile: andare a mangiare una pizza, oppure vederci a casa nostra, come ai vecchi tempi. Richard, Norman, Brenda e io. Seduti tutti insieme allo stesso tavolo. Non ce l’avrei fatta. E nemmeno Norman. Per questo... non abbiamo mai insistito con Brenda per rivederci. Era già abbastanza difficile così.»
«Non le è mai venuto in mente di rivelare la verità a mia madre?» chiese Kate.
Susannah sospirò. «Certo. Più di una volta. Anche Norman ci aveva pensato. Ma in fondo l’amicizia era nata grazie a Norman e Richard. Brenda e io eravamo molto legate, ma senza i nostri mariti non ci saremmo mai conosciute. Norman non se la sentiva di mettere in difficoltà l’amico che, tra l’altro, era anche il suo superiore. Non voleva tradirne la fiducia. E anch’io temevo le conseguenze, fra cui quelle professionali. Era impossibile. Così tirammo un sospiro di sollievo quando la loro relazione finì e Richard, per così dire, tornò sulla retta via.»
Era l’aggancio che aspettava Kate. «Perché mio padre e Melissa Cooper si lasciarono all’improvviso?»
«In effetti fu strano» riconobbe Susannah. Si riempì di nuovo la tazza di caffè, mise lo zucchero e mescolò assorta. «Provai a chiedere a Norman. Ma lui non diceva niente. Niente di convincente.»
«Secondo lei era al corrente del vero motivo ma non voleva parlarne?»
Susannah esitò. «Non saprei. Sosteneva di non saperne più di me. Però avevo la sensazione... non so spiegarglielo... avevo l’impressione che non volesse parlarne. Forse aveva promesso a Richard di tenere la bocca chiusa. Non capivo perché. Che cosa poteva essere successo di tanto grave?»
«Ufficialmente il motivo della separazione fu il peggioramento delle condizioni di mia madre» disse Kate ripensando alle parole di Doreen.
«Sì» confermò Susannah. «Questa era la versione di Richard. Ma per me era strano. Dopotutto Brenda era guarita. Norman mi disse soltanto che Melissa pretendeva da Richard una decisione definitiva e che Richard temeva che Brenda si ammalasse di nuovo se l’avesse lasciata.»
«Può essere una spiegazione logica» disse Kate.
«Infatti. Per questo parlo di una sensazione. Vede, io e Norman eravamo sposati da dodici anni. Stavamo insieme da quando ne avevamo diciassette. Lo conoscevo troppo bene. Sentivo che mi stava nascondendo qualcosa. Evitava il discorso. Non voleva parlare più della faccenda di Richard e Melissa, si arrabbiava quando gli chiedevo qualcosa. Prima invece ne parlavamo sempre. Dopo la fine della storia, era diventato una specie di tabù. E poi...»
«Sì?» la incoraggiò Kate vedendola titubante.
«E poi avevo l’impressione che anche fra Richard e Norman fosse cambiato qualcosa. Naturalmente continuavano a vedersi tutti i giorni al lavoro, ma per il resto... Di solito uscivano almeno una volta alla settimana a bere una birra insieme, e ogni tanto la domenica facevano una passeggiata nella brughiera. Da quel momento smisero di vedersi dopo il lavoro. E non ci furono più uscite in quattro nemmeno quando le condizioni di Brenda migliorarono. Devo dire che ne fui contenta. Mi sarei sentita troppo a disagio.»
«E poi...» accennò Kate. Susannah comprese al volo. «E poi, poco tempo dopo, ci fu la tragedia. Norman rimase paralizzato. Da allora... cambiò tutto.»
Kate aveva avuto qualche remora a formulare la domanda che più le stava a cuore, ma poi lo aveva fatto. Era solo una supposizione, forse meno. «Secondo lei è possibile che per qualche motivo Norman ritenesse mio padre responsabile di quello che gli era accaduto?»
Susannah la guardò stupita. «Assolutamente no. Suo padre non era nemmeno presente. Era in ferie, quando accadde.»
«Appunto. Proprio per questo. Richard non c’era, non era con lui.»
«Non credo» replicò Susannah. «No. In ogni caso non ha mai detto niente del genere. Ce l’aveva con tutti e con tutto, praticamente con chiunque stesse meglio di lui, persino suo padre. All’inizio non era così, ma quando fu chiaro che le sue condizioni non sarebbero più migliorate, cominciò a odiare tutte le persone sane.»
Kate pensò alla cartolina di Natale. Era stata scritta all’incirca quattro mesi dopo l’incidente. Probabilmente all’epoca Norman Dowrick sperava ancora di guarire. Ma le cose sarebbero andate diversamente. Susannah aveva descritto un uomo pieno di risentimento che non sopportava più la presenza degli altri. Kate sapeva che i rapporti tra Norman e Richard erano cambiati. Ma evidentemente era già successo qualcosa che aveva allontanato i due amici. Norman disapprovava la relazione di Richard con un’altra donna, ma nonostante questo all’inizio la loro amicizia non ne aveva risentito. Le prime crepe si erano aperte quando Richard si era separato da Melissa.
Doveva essere accaduto qualcosa immediatamente prima della separazione, qualcosa che aveva portato alla crisi. Kate capì che avrebbe dovuto parlare con Norman.
Arrivò nei sobborghi di Liverpool nel primo pomeriggio. Susannah le aveva dato l’indirizzo di Norman, ma aveva aggiunto che non sapeva se abitasse ancora lì.
«In effetti» aveva detto, «non so nemmeno se è ancora vivo.»
Susannah aveva detto che Norman se la cavava appena con la pensione d’invalidità. Kate si era preparata allo squallore che l’aspettava, ma rimase ugualmente turbata. Un tempo il quartiere doveva essere una zona manifatturiera, ormai dismessa. Vide un grande complesso industriale abbandonato, i muri di mattoni ricoperti da graffiti e scritte violente, i cortili interni inghiottiti da ortiche ed erbacce. A una solitaria fermata dell’autobus, i vetri della pensilina erano stati distrutti e i cartelli degli orari ridotti a brandelli. Nessuno sembrava preoccuparsi delle riparazioni, ma probabilmente non sarebbe servito a nulla. La furia dei vandali avrebbe di nuovo devastato tutto.
Di fronte alla fabbrica e alla fermata si stendeva una serie di palazzine plurifamiliari, i cortili sul retro ingombri di spazzatura. Su un edificio all’angolo si leggeva l’insegna «Bar», ma sembrava chiuso. A poca distanza, un distributore di benzina.
Kate aveva parcheggiato in un sottopassaggio per tenere l’auto all’ombra. Scese e percorse la strada fino alle prime palazzine. Fece appello a tutto il proprio coraggio per affrontare l’incontro con Norman Dowrick. Un relitto d’uomo che odiava l’umanità. E soprattutto cercò di prepararsi a ciò che le avrebbe raccontato di suo padre.
Non fu facile trovare la casa giusta, perché i numeri civici erano così sbiaditi da essere quasi illeggibili. Alla fine Kate decise di provare alla prima palazzina. Il campanello non funzionava, ma il portone d’ingresso era aperto. Entrò in un atrio buio e puzzolente con le pareti scrostate. C’erano due appartamenti, e altrettanti dovevano essercene al primo piano. Norman era su una sedia a rotelle, quindi doveva abitare a pianterreno.
Kate provò a bussare alla porta di sinistra. Udì dei passi e una donna venne ad aprire.
«Sì?» domandò con un tono di voce diffidente. Era evidente che non riceveva spesso visite, e quando succedeva era solo per avere cattive notizie.
Kate le rivolse un sorriso accattivante. «Salve. Mi scusi se la disturbo. Cercavo Mr Dowrick. Norman Dowrick.»
La donna scrollò il capo. «Mai sentito nominare.»
«Deve abitare a pianterreno. È su una sedia a rotelle.»
La donna ci pensò su. Kate si accorse che non era affatto lucida. Avvertì l’odore di grappa e riconobbe i segni della dipendenza nel volto gonfio e arrossato della donna. Era completamente ubriaca. Doveva essere in quello stato a tutte le ore del giorno e della notte. Si stava scavando la fossa da sola.
Non aveva altro modo per affrontare la vita.
Alla fine riuscì a concentrarsi. «Ah, lui. Non abita qui.»
«E dove?»
La donna fece un gesto vago con la mano. «Laggiù.»
«In una delle altre case?»
«Sì, ma...» Si sforzò di pensare. La frase che voleva pronunciare le era sfuggita di mente.
Kate rimase in paziente attesa.
«È da parecchio che non lo vedo» disse infine la donna. «Prima passava per strada, ogni tanto. Con la sedia a rotelle. Ma è da un bel po’ che non si vede più in giro.»
«Da quanto?»
«Ma... sarà un anno.»
Kate si augurò che Norman fosse ancora vivo.
Salutò la donna e si allontanò sempre più scettica. Trovare Norman dipendeva anche dalla disponibilità e dalla collaborazione dei vicini di casa, e non era così sicura di riuscire a trovarne molti che non fossero ubriachi.
In realtà dovette ricredersi. Era stata troppo pessimista. Quasi tutti quelli che abitavano nella via sembravano sobri, ma non seppero darle informazioni. C’era chi non conosceva nemmeno Norman, o non ricordava di aver mai visto un uomo sulla sedia a rotelle. Altri sapevano chi era, ma non dove abitasse di preciso. L’unica cosa che gli dissero tutti era che non lo vedevano da diverso tempo.
«Era un poveraccio» disse un giovane indiano magrissimo e con lo sguardo fisso nel vuoto seduto su un muretto di cemento. «Un poveraccio. Di sicuro se n’è andato. Se fai una vita di merda, non può che andarti sempre peggio.»
«Dove potrebbe essere andato?»
«Non lo so.»
«Sa in quale casa abitava?»
«Credo laggiù.» Indicò un’altra serie di palazzine. Poi sorrise. «Mi chiamo Kadir Roshan.»
«Grazie per le informazioni, Mr Roshan.»
Suonò anche alle ultime porte. In due appartamenti a pianterreno non c’era nessuno. Una donna due palazzine più in là disse che forse un uomo in carrozzella abitava lì.
«Però è da un’eternità che non lo vedo. È sicura che abiti ancora qui?»
«Purtroppo no» rispose Kate.
Il suo viaggio era stato un buco nell’acqua.
Chiamò Susannah sul numero di cellulare che le aveva dato e le chiese se secondo lei Norman poteva essersi trasferito.
Susannah non seppe risponderle. «Come le ho detto, ha smesso di farsi vivo con me da molto tempo. Certo, potrebbe essersene andato. Il quartiere è molto deprimente, vero? Una volta sono andata a trovarlo... ero scioccata. Solo che non saprei per quale motivo dovrebbe essersene andato, visto che non può permettersi niente di meglio. Si ritroverebbe comunque in un posto come quello. Non avrebbe senso.»
Forse aveva conosciuto una donna? Kate non la riteneva un’ipotesi molto plausibile. Norman era amareggiato e diffidente. E dalle poche informazioni che aveva raccolto, la situazione non sembrava cambiata. Quale donna poteva sentirsi attratta da un uomo come lui? E a quale donna Norman avrebbe permesso di avvicinarsi?
Decise di lasciar perdere, almeno per ora. Il mattino dopo sarebbe tornata e avrebbe fatto un ultimo tentativo. Come di consueto dubitava profondamente di se stessa: stava insistendo con Norman Dowrick solo perché non aveva nient’altro per le mani? Oppure era il suo istinto di poliziotta a guidarla? L’istinto che lei, sempre disfattista, credeva di non possedere? Una voce interiore le diceva che Norman poteva essere la chiave per risolvere il caso, ma il nemico che da tempo si era annidato nella sua testa, ossia la scarsa autostima, aveva prontamente obiettato. Come fai a saperlo? Stai sprecando il tuo tempo. Come criminologa non vali niente. Nel migliore dei casi non arriverai a nulla. Nel peggiore, combinerai qualche altro casino.
Salì in macchina e si diresse verso il centro. Doveva cercare una camera per la notte e decidere cosa fare il giorno dopo.
Trovò una pensione che da fuori sembrava buona, ma che all’interno si rivelò fatiscente. Lunghi corridoi stretti e bui, la moquette troppo spessa e soffice che aveva tutta l’aria di non venir pulita spesso. Camere piccole e tetre, l’arredamento scadente. Il bagno era in fondo al corridoio, ma perlomeno nella stanza c’erano un lavandino e uno specchio. E un piccolo televisore.
Per una notte poteva andare.
Fuori c’era il sole e faceva caldo, così Kate uscì per fare una passeggiata. Era nei pressi del fiume, quindi percorse qualche via residenziale fino a un parco. Da una scaletta si poteva scendere a un parcheggio e quindi in riva al fiume. Un viottolo asfaltato e con una balaustra di ferro costeggiava il corso d’acqua. Kate si sedette su un tronco abbattuto. Il posto era molto tranquillo. C’era una sola macchina parcheggiata, di tanto in tanto passava qualcuno che faceva jogging, andava sui pattini o portava a spasso il cane. Era lunedì pomeriggio, e la maggior parte della gente era al lavoro.
Il fiume scorreva lento. Ogni tanto una brezza leggera soffiava verso la riva.
Kate si mise a riflettere e, come le capitava sempre, non arrivò a nessuna conclusione concreta. Doveva rimanere a Scotland Yard o dare le dimissioni? Doveva tornare a Londra, nel suo vecchio appartamento che odiava tanto? Oppure trasferirsi a Scalby, nella casa dei genitori che amava? Certo, non era più tanto sicura di amare davvero quel posto. Lì aveva vissuto un’infanzia felice, ma era stato anche il teatro di un tradimento.
Senza volerlo ripensò a Caleb e a una cosa che le aveva detto: «Mi sono accorto che lei è molto sola. Forse dovrebbe cercare di cambiare le cose». Lei gli aveva risposto in modo sarcastico, e anche ora le affiorò un sorriso sprezzante sulle labbra. Sembrava così semplice, e invece per lei era incredibilmente difficile. Un traguardo irraggiungibile. Dio solo sapeva quanto desiderasse avere un uomo. Qualcuno che condividesse la sua vita. Che la sera le chiedesse come fosse andata la giornata, che a colazione le si sedesse di fronte e le leggesse i film in programma per il fine settimana. Un uomo con cui fare progetti, viaggiare. Con cui stare seduta davanti al camino nelle serate d’inverno. Accanto al quale sentirsi protetta. A casa. Al sicuro.
Arrivata in porto.
Forse suo padre aveva intuito qualcosa dei suoi desideri. Quasi tutti la consideravano una donna chiusa e austera, a cui non interessava allacciare rapporti con gli altri. Una persona troppo concentrata su se stessa. Aveva colto brandelli di conversazioni tra le colleghe, parole pronunciate volutamente a voce troppo alta. La gente si era fatta un’immagine di lei che non corrispondeva affatto alla donna che sentiva di essere.
Caleb Hale. Aveva dovuto allontanarsi da Scarborough e andare fino a Liverpool per ammettere con se stessa quanto le piacesse. Non sapeva come fosse successo, non era stato un colpo di fulmine. Caleb era intelligente e simpatico. Corrispondeva perfettamente al modello maschile da cui si era sentita attratta negli ultimi vent’anni. Uomini di bell’aspetto, quanto bastava per rendere la storia impossibile. Perché qualcuno avrebbe dovuto interessarsi a quella donna scialba e goffa che cercava disperatamente di attirare l’attenzione? Quegli uomini frequentavano donne alla loro altezza, belle, affermate, sicure di sé.
Il contrario di Kate.
Invece Caleb... non era solo bello e affermato. Non era solo un vincente. Caleb aveva un passato difficile. Non si diventa alcolisti per caso. Un uomo di bell’aspetto, una carriera impeccabile: questo era ciò che si vedeva da fuori. Ma dovevano esserci delle crepe. Caleb Hale era arrivato a distruggere il proprio matrimonio a causa dell’alcol. E non aveva perso il posto solo perché si era disintossicato.
C’era anche il Caleb Hale perdente.
Forse Kate poteva cercare qui la sua occasione. Avevano qualcosa in comune. Entrambi conoscevano il lato oscuro della vita. Le difficoltà che avevano condotto Kate al totale isolamento, e Caleb all’alcolismo.
Guardò al di là del fiume. Nella caligine estiva gli edifici sull’altra riva apparivano sfuocati. Smise di pensare a Norman Dowrick e alle questioni legate al caso. Svuotò la mente, sentì il calore del legno su cui era seduta, il sole sul viso, annusò l’odore dell’acqua e delle alghe, dell’erba appena tagliata. Per la prima volta dalla morte di suo padre, si sentì rilassata e in armonia con se stessa. Sapeva che tensione, paura e dolore sarebbero tornati, ma comunque era stato un bel progresso riuscire a vivere una mezz’ora come quella in riva al fiume Mersey. Era il primo passo, una minuscola fessura che si era aperta verso l’esterno. Si domandò se dipendesse dai suoi sentimenti per Caleb o dal viaggio a Liverpool. O più semplicemente da quella calda giornata estiva. Ma in fondo non era così importante. Forse erano tutte queste cose insieme.
Si alzò e guardò l’ora. Erano le quattro e mezzo. Aveva ancora il tempo di fare qualcosa di diverso dal solito.
Non aveva nessuna voglia di tornare in quella squallida pensione. Una volta tanto si sarebbe presa cura di sé. Non era mai stata generosa con se stessa. Forse, concedendosi qualcosa, lentamente la sua vita sarebbe cambiata in modo più decisivo.
Avrebbe cercato un parrucchiere e si sarebbe fatta fare un taglio moderno. Magari con qualche mèche bionda e ramata.
Un investimento che non da ultimo aveva come obiettivo Caleb Hale, anche se in quel momento non poteva ammetterlo con se stessa.
Cinque
La polizia del Northumbria riesumò dalla fossa i resti di un cadavere e li consegnò all’istituto di patologia. Era assai probabile che si trattasse di Neil Courtney, il proprietario della fattoria, ma non c’erano ancora conferme ufficiali. Non era nota neppure la causa della morte.
Caleb e Jane erano tornati a Scarborough, mentre Robert Stewart attendeva gli esiti degli esami autoptici. Jane nel frattempo aveva esaminato la posta recuperata nella cassetta nascosta tra i cespugli, scoprendo alcuni elementi interessanti.
«Ha un conto corrente in una banca di Newcastle su cui risulta accreditata la pensione fino allo scorso giugno. Questo significa che ufficialmente Neil Courtney è vivo, anche se, come tutti presumiamo, è lui il morto trovato in giardino.»
Era seduta nell’ufficio di Caleb. Era sera, ma fuori c’era ancora molta luce. Il cielo era di un blu luminoso, l’aria tiepida. Una serata per fare una passeggiata o sedersi fuori da un pub a bere una bella birra scura. Invece aspettavano la telefonata di Robert. Entrambi erano in ansia e non volevano lasciare la centrale prima di aver parlato con il collega.
«Qualcuno ha seppellito Courtney nel giardino della fattoria e non ne ha denunciato la morte» disse Caleb, giocherellando con una matita che aveva pescato da un contenitore pieno di mozziconi. Caleb non temperava le matite, Jane lo aveva notato subito. «Qualcuno che lo ha ucciso?» ipotizzò.
Jane inclinò la testa da una parte all’altra. «Questo non lo sappiamo. La cosa interessante però è che fino a due settimane fa qualcuno ha prelevato regolarmente del denaro dal conto di Courtney. Non sono un’esperta, ma il cadavere che abbiamo rinvenuto doveva trovarsi in quella fossa già da diversi mesi. Significa che chiunque si sia servito del conto, non può essere stato Courtney.»
«Può averlo fatto solo una persona» dichiarò Caleb. «L’uomo che ha preso il nome di Courtney. Denis Shove. Il lontano nipote. Questo spiegherebbe anche la storia dell’eredità. Shove non aveva un lavoro, ma disponeva di introiti regolari che in qualche modo doveva giustificare. Naturalmente non poteva permettersi granché con la misera pensione di Courtney, ma visto che, stando alle dichiarazioni di Helen Jefferson, attingeva generosamente ai soldi di Therese, di sicuro non se la passava tanto male.»
Jane annuì. «Tutto torna. Secondo me è stato sempre lui a rovistare in casa, per trovare il bancomat. E anche il PIN, che forse Courtney si era annotato da qualche parte. Shove seppellisce il vecchio zio in giardino, per evitare che qualcuno di passaggio noti qualcosa, e se la svigna con il bancomat. Ci sono buone probabilità che passi parecchio tempo prima che la faccenda venga scoperta, perché questo pover’uomo era completamente solo. Potevano passare anni, prima che qualcuno si accorgesse che era morto.»
«L’unico che andava lì regolarmente era il postino» aggiunse Caleb. «E non sembra si sia mai stupito più di tanto che la cassetta delle lettere non venisse svuotata.» La sua voce tradiva tutto il suo sconforto. Storie come quella lo deprimevano sempre. Vedere l’indifferenza con cui le persone trattano il prossimo. Sarebbe stato pretendere troppo chiedere a un postino di essere più attento e controllare se un vecchio completamente solo stesse bene? Ovvio, non c’erano obblighi di legge in tal senso, era una questione di senso morale. E Caleb aveva l’impressione che ben pochi ne avessero ancora.
Jane prese le difese dello sconosciuto postino. «In realtà la cassetta delle lettere avrebbe dovuto essere molto più piena. Se presupponiamo che Courtney sia morto lo scorso autunno, dovevano esserci quantomeno gli estratti conto della pensione e della banca da ottobre in avanti. Invece abbiamo trovato solo la posta degli ultimi mesi. Secondo me Shove, se è lui l’autore di questa truffa, è stato abbastanza accorto da recarsi ogni tanto alla fattoria per svuotare la cassetta delle lettere. Il postino non aveva motivo di credere che Courtney fosse morto né si sarebbe sorpreso del fatto che controllasse la posta di rado. Non deve dimenticare, signore, che Courtney era quasi sempre...» Si interruppe e avvampò in viso.
Caleb non ne poteva più. Quelle reticenze e quelle pause impacciate tutte le volte che si toccava l’argomento. «Lo so, era quasi sempre ubriaco fradicio. E il postino lo sapeva. Secondo lei questo è sufficiente per spiegare il fatto che la cassetta venisse svuotata così di rado? È possibile. Proverò...» Fu interrotto dallo squillo del telefono. Rispose, rivolse un cenno a Jane e mise il vivavoce. La voce di Robert Stewart risuonò per l’ufficio.
«...ancora niente di decisivo, ma ci sono i primi risultati. Si tratta sicuramente di un individuo di sesso maschile di età avanzata, tra i settanta e gli ottant’anni. L’identità non è stata ancora stabilita, ma l’età corrisponde a quella di Neil Courtney.»
«Secondo me possiamo affermare al novanta percento che si tratta di lui» dichiarò Caleb.
«Sono d’accordo, signore. La morte risale all’autunno dello scorso anno. Più o meno all’inizio di novembre. O dopo la metà di ottobre. Ma non prima.»
«E...?»
Robert sapeva che cosa voleva chiedergli il capo. «La morte sembra dovuta a cause naturali. Neil Courtney, ammesso che sia lui, non è stato ucciso.»
Caleb ne fu quasi deluso. «Ne è sicuro?»
«Come ho detto, le analisi non sono ancora terminate. Ma tutto sembra suggerire che sia morto per cause naturali. Cirrosi epatica a uno stadio avanzato, secondo il patologo, ma per ora è solo un’ipotesi. Dopo tutto questo tempo gli esami sono più difficili. In ogni caso non sarebbe da escludere, vista la quantità di bottiglie vuote che abbiamo trovato.»
Caleb fu grato che stavolta Robert non avesse usato qualche contorta perifrasi. A quanto sembrava Neil Courtney si era scavato da solo la fossa, una bottiglia di whisky dopo l’altra. Aveva seguito esattamente la strada che i medici avevano previsto per lui, Caleb, se non avesse smesso subito.
«Di certo però non si è sepolto da solo» commentò.
«Secondo me è morto all’improvviso» disse Robert, «e lo ha trovato Denis Shove. Forse era passato a trovarlo per spillargli dei quattrini, e poi ha pensato di approfittare della situazione.»
Jane annuì. «Anch’io credo che sia andata così. Shove lo seppellisce, in modo che nessuno, per esempio il postino, venga a sapere della sua morte. Poi rovista dappertutto, trova dei contanti, ma soprattutto il bancomat e il PIN. Dagli estratti conto sa quanto prende Courtney al mese. Non è molto, ma è sempre meglio di niente, soprattutto nella sua situazione. È appena uscito di prigione e non ha la minima intenzione di trovarsi un lavoro. Prima o poi qualcuno si sarebbe accorto che il vecchio Courtney era sparito, ma dato il suo stile di vita solitario, ci sarebbe voluto del tempo.»
«Nel frattempo conosce Therese Malyan» proseguì Caleb. «Perché si presenta con un nome falso? Non ha conti in sospeso con la giustizia, a parte la truffa previdenziale. Ma nessuno ne sa niente. Perché allora assume l’identità del morto?»
«Forse» disse Robert «voleva essere sicuro che Therese non lo collegasse a quel reato. Se ne era parlato sui giornali e di sicuro la notizia era ancora su Internet. Shove voleva evitare che per qualche stupida coincidenza Therese scoprisse che fine aveva fatto la sua precedente compagna. Come l’avrebbe presa?»
«Perché tante precauzioni? Therese Malyan era così importante per Shove?»
Stewart naturalmente sapeva dove voleva andare a parare Caleb. «Secondo lei ha assunto un nome falso perché aveva già deciso di uccidere Richard Linville e Melissa Cooper? E perché sapeva che avremmo sospettato subito di lui?»
«Sapeva che avremmo cercato Denis Shove. Come Neil Courtney era relativamente tranquillo, a patto di riuscire a camuffare il proprio aspetto. Assume l’identità di un uomo che nessuno sa essere morto. Un’ottima copertura.»
«Mica troppo» obiettò Robert. «Infatti, anche se è in possesso dei documenti di Courtney, non può certo usarli. Courtney sarà nato negli anni Trenta o Quaranta. Shove ha cinquant’anni di meno. Non riuscirebbe a convincere nessuno. Inoltre la psicologa del carcere sa dell’esistenza di questo lontano parente. È facile stabilire un collegamento tra lui e il nome ‘Neil Courtney’.»
«Lui però sa anche che la psicologa rimarrà un anno in Australia» osservò Jane, «e che quindi noi non avremmo scoperto subito questo legame. Assumere una falsa identità gli ha dato un certo vantaggio.»
«Non dimentichiamo che abbiamo scoperto la sua falsa identità per caso» ricordò Caleb. «Ha litigato con la sua compagna, lei è scappata, e lui ha bisogno di un’auto. Aggredisce Peggy Wild per rubarle la macchina. Solo grazie a lei siamo venuti a conoscenza del nome Courtney, di dove si è nascosto per tutto questo tempo e del suo legame con Therese Malyan. Non avremmo ritrovato neppure il cadavere dello zio e non avremmo scoperto che ne aveva assunto il nome.»
Mentre parlava, Caleb si domandava se non stesse esagerando. Forse cercava con troppa insistenza le prove per collegare Shove all’omicidio di Linville. In ogni caso, proprio Shove aveva suffragato questa ipotesi con il proprio comportamento. Se non altro non aveva ucciso il vecchio Courtney. Caleb sapeva perché questo fatto lo infastidisse tanto: un altro omicidio da attribuire senza ombra di dubbio a Shove gli avrebbe dato sicurezza. Avrebbe giustificato l’impegno e lo spiegamento di forze con cui gli dava la caccia. Talvolta era assalito dal sospetto di agire con i paraocchi e di non vedere altre strade. Uno dei suoi principi era sempre stato quello di restare aperto a tutte le ipotesi investigative, anche le meno plausibili. Era stimato per la sua capacità di indagare in molte direzioni diverse e di tenersi aggiornato su ogni minimo progresso. Questa volta non era così. Si rendeva conto di essersi concentrato troppo su Denis Shove, nonostante le obiezioni dei colleghi. Ma non vedeva alternative. Perché? si chiese. Perché la colpevolezza di Shove mi sembra così lampante? Perché non sembrano esserci altre strade da seguire? Oppure sono io il problema? Il nuovo Caleb non funziona bene come il vecchio?
Il nuovo Caleb, che aveva dovuto separarsi dal suo migliore amico e sostenitore. L’alcol. Che alla lunga lo avrebbe distrutto. Ma che lo aveva reso forte e capace di sviluppare ragionamenti lucidi e astuti, di immaginare scenari diversi, di giungere a intuizioni inaspettate. Un istinto che nella maggior parte dei casi si rivelava esatto, pur senza saper spiegare perché.
Un istinto che adesso sembrava scomparso. E che Caleb non sapeva come ritrovare.
Certi luoghi comuni, pensava, rimanevano radicati anche quando sarebbe bastato osservare più da vicino per capire come certe dinamiche fossero più complesse e articolate di quanto si immaginasse. Quando pensava a un alcolista, la gente vedeva sempre un relitto umano, un malato cronico incapace di affrontare la vita, destinato lentamente ma inesorabilmente all’emarginazione professionale, privata e sociale. In realtà questo era vero solo in parte, e Caleb lo sapeva bene. Anche lui aveva attraversato momenti di crisi, e probabilmente sarebbero diventati più frequenti se non avesse smesso di bere. Quasi sempre, però, le sue capacità professionali venivano perfino esaltate dall’alcol, spazzando via l’insicurezza e i dubbi, eliminando gli ostacoli. A lungo andare, forse, tutto questo sarebbe sfociato nella presunzione, portandolo a decisioni sbagliate. Forse era così, ma non era ancora successo.
Da quando non beveva più, invece, si sentiva limitato e incerto. Si rendeva conto di dover investire molte energie per nascondere l’insicurezza, in modo che i suoi collaboratori non se ne accorgessero. Ironia della sorte, era più semplice mascherare il fatto che bevesse. Non si era sentito più libero dopo aver scacciato il demone dell’alcol. Era solo diventato vittima di altre catene, di altri vincoli, persino peggiori di prima.
Si accorse che gli altri tacevano. Robert e Jane aspettavano che chiudesse la telefonata.
«Bene» disse, «per oggi non possiamo fare altro. Stewart, torna a Scarborough?»
«Sì, ma mi terrò in contatto con il patologo. Abbiamo già concordato che mi aggiornerà sui risultati degli altri esami autoptici.»
Caleb rimise il mozzicone nel portamatite e si alzò. «Vado a mangiare un boccone» annunciò. «Jane, vuole venire con me?»
Anche Jane si era alzata e scrollò il capo con espressione dispiaciuta. «Torno a casa. Una volta tanto ne approfitto per non fare troppo tardi.»
«Capisco. A domani, allora.» Jane passò dal proprio ufficio per spegnere il computer e prendere la borsa. Da qualche minuto avvertiva una strana agitazione, e non sapeva spiegarsi il perché.
Stava cercando le chiavi dell’auto sulla scrivania in disordine, quando si ricordò.
Non avevano richiamato. I Crane. Sarebbero dovuti tornare la sera prima a Kingston e oggi si sarebbero dovuti fare vivi.
Per sicurezza controllò nuovamente la segreteria del cellulare, ma non c’erano messaggi.
Esitò. Doveva provare a richiamare il cellulare di Stella Crane? Oppure a casa, a Kingston? O la vicina?
Forse i Crane si erano dimenticati di richiamare. Erano appena tornati da una lunga vacanza, chissà quante cose si erano accumulate durante la loro assenza e che andavano sistemate subito. Tuttavia era strano che avessero ignorato la richiesta di un’agente. Di solito la gente preferiva chiarire subito qualunque cosa avesse a che fare con la polizia.
Alla fine chiamò Stella Crane sul cellulare e a casa. In entrambi i casi le rispose la segreteria.
Che seccatura. Al momento i Crane erano l’unica possibilità, per quanto remota, di stabilire un contatto con Shove. Shove, sul quale si era fissato il capo. Era giusto assecondarlo? Oppure sarebbe servito solo a rimandare l’inevitabile, ossia scoprire di aver seguito la pista sbagliata?
E poi?
L’emicrania annunciò il suo arrivo con una lieve fitta alle tempie. Jane trovò finalmente le chiavi della macchina e lasciò l’ufficio.