Capitolo 27

 

 

 

 

 

 

 

 

Facciamo il viaggio di ritorno immerse in un silenzio carico di tensione.

Clemmy mi chiede se voglio dormire da lei, ma le dico che voglio stare da sola a pensare. Perciò mi lascia controvoglia alla mia tenda, facendomi promettere di chiamarla, se dovessi sentire il bisogno di parlare con qualcuno.

Ma mentre mi preparo per la notte, so benissimo che non chiamerò Clemmy.

Sono stanca di parlare.

Voglio solo tornare a casa. Voglio andarmene da questo posto il prima possibile.

Questa settimana è stata un disastro, non mi sono mai sentita così vuota dentro. Sto sprofondando in un pozzo di disperazione. Mi ci vorranno secoli per rialzarmi, per tornare verso la luce.

Toby, Jake, la mamma, Sylvia. Sono in lutto per ciascuno di loro, in modi diversi.

E dopo essermi tormentata tutto questo tempo sul cercare o meno la mia vera mamma, dopo aver finalmente trovato il coraggio di farlo, ho ottenuto la mia risposta, forte e assolutamente chiara.

La mia madre biologica non vuole avere niente a che fare con me.

La mattina seguente mi sveglio sotto un cielo plumbeo e una pioggerellina fine.

Voglio arrivare all’autonoleggio all’apertura, perciò Clemmy e io partiremo alle otto. Dopo la nottata quasi insonne, non vedo l’ora di mettermi in marcia verso Manchester.

Sono davanti a casa di Clemmy con la valigia e la prima cosa che lei mi dice quando apre la porta è: «Sei sicura di non voler fare un salto all’hotel prima di andare via?»

«Per vedere se c’è Sylvia?», chiedo scettica. «E perché? Mi sembra che si sia espressa chiaramente. E comunque è partita per il convegno. Lo ha detto la receptionist».

Clemmy annuisce comprensiva e mi aiuta a mettere la valigia nel portabagagli.

Poi saliamo a bordo e Clemmy avvia il motore. «Sono contenta che tu sia venuta al campeggio». Si gira verso di me, sorridente, e all’improvviso mi tornano in mente tutte le cose belle che sono successe durante la vacanza.

È stato fantastico ritrovare l’amicizia di Clemmy, ad esempio. Si è comportata da vera amica in questa orribile situazione riguardante la mia vera mamma. E sono stata felice di incontrare il resto della sua famiglia. Non dimenticherò mai le parole sagge di Ruby.

Ma pensando a Jake sento una fitta al cuore, che oscura i miei pensieri felici.

«Anch’io sono contenta di essere venuta». Sorrido. «Non vedo l’ora di tornare per il gran giorno».

«Ottobre», dice con un gridolino. «Mamma mia, è sempre più vicino».

«Il tempo volerà, vedrai. Sono felice che tu e Ryan siate di nuovo tranquilli insieme».

Lei sorride. «Sì, credo che lui abbia capito che detesto me stessa per aver dubitato di lui».

«Ne ero certa».

Clemmy si gira a guardarmi. «Peccato per Jake, però. Potresti mandargli una e-mail e…». Lascia la frase in sospeso.

«E?», chiedo in tono cupo. «Gli chiedo se vuole prendere un caffè, se per caso passa dalle mie parti? Cosa che non capiterà mai dato che viviamo a chilometri e chilometri di distanza!».

Clemmy sospira, innesta la prima e parte. «Se è destino, vi troverete».

Scuoto la testa. «Non è destino. Altrimenti non se ne sarebbe andato via senza dire niente e… Oh, mio Dio!». Ho appena notato qualcosa nello specchietto retrovisore.

«Che c’è?».

Mi volto a bocca aperta, alla vista di Sylvia che corre lungo la strada, agitando le braccia come per cercare di fermare l’auto.

«È Sylvia», grido. «Sta correndo in mezzo di strada».

Guardo davanti a noi e vedo un’altra auto che ci viene incontro a tutta velocità. Il mio cuore quasi si ferma per lo spavento. «La metteranno sotto! Fermati!».

Clemmy reagisce all’istante e inchioda dopo aver guardato nello specchietto retrovisore. Poi accosta al ciglio della strada e spegne il motore.

Ci scambiamo uno sguardo allibito e poi ci giriamo verso il finestrino del passeggero, dove è comparsa la faccia di Sylvia, paonazza e affannata.

«Le vuoi parlare? Vuoi darle un’altra possibilità?», chiede Clemmy senza muovere le labbra.

Sospiro e abbasso lo sguardo. «Forse è meglio se ascolto cosa ha da dire».

«La facciamo salire?».

Faccio segno di no con la testa. «Scendo io».

«Ok. Torni da me quando avete finito?».

Le sorrido riconoscente. «Grazie davvero, Clemmy. Non so come avrei fatto, questa settimana, senza di te».

«Neanche io». Le mie lacrime si specchiano negli occhi di Clemmy, anch’essi stranamente lucidi. Poi lei scoppia a ridere. «Ma come siamo messe, tutte e due?». E ci lanciamo d’istinto in un abbraccio lacrimoso.

Lancio un’occhiata di sbieco a Sylvia, che si è allontanata dalla portiera e attende con espressione tesa.

Scendo dall’auto sospirando, non sapendo bene cosa aspettarmi.

Dopo questa settimana di continui stravolgimenti, non mi sorprenderei se ora Sylvia mi dicesse che non solo è mia madre, ma che è anche mia sorella e mia nonna, tutte insieme. Credo che in qualche modo potrebbe succedere, in qualche stramba famiglia multiproblematica.

Chiudo la portiera, Clemmy accende il motore ed è costretta a numerose manovre per girare l’auto nella stradina stretta. Sylvia e io riusciamo a fermarla per un pelo prima che finisca in retromarcia nel fosso laterale.

Le battiamo sull’auto gridando «Stop!» e per fortuna Clemmy ci sente appena in tempo.

Sylvia si passa la mano sulla fronte, sollevata. Nonostante tutto, ci scambiamo un sorriso.

Poi mi ricordo della sua reazione della sera precedente e il sorriso mi si congela sul volto.

«Pensavo che dovessi andare a un convegno», dico simulando sicurezza, ma tremando come una foglia dentro di me. «E per poco non ti sei fatta investire. Devi avere qualcosa di veramente importante da dirmi».

Sylvia deglutisce. «Sì. È la cosa più importante che abbia mai detto a qualcuno. Più importante di qualsiasi convegno».

Sento il cuore che mi sobbalza in petto, ma cerco di rimanere calma.

«Sentiamo». Sono decisa a farla soffrire un po’, dopo quello che mi ha fatto passare. Vedermi respinta dalla donna che mi ha dato alla luce è stata una pugnalata al cuore.

«Mi dispiace, Daisy. Per tutto», dice lei ripiegandosi su se stessa, come sconfitta. «Ti sarei grata se mi lasciassi spiegare».

«Spiegare cosa? Che mi hai abbandonata perché non mi volevi?».

Sylvia mi guarda terrorizzata, sconvolta dalla mia esplosione di rabbia.

«Quindi tu sei mia madre?», chiedo. «La ragazza che ha spaventato a morte la mia povera mamma, cercando di rapirmi?».

Il volto di Sylvia è una maschera di sofferenza. «Ho sempre odiato me stessa per averlo fatto. Ma ero giovane e impaurita e la mia vita era un caos. Anche se questa non è una scusa per come mi sono comportata con tua madre. Lo so bene».

Deglutisco. «La mamma era terrorizzata, dopo che hai cercato di riprendermi. Viveva nella paura costante che tu potessi tornare. Non so come hai fatto a decidere di darmi via, ma neanche come hai potuto pensare di riprendermi». Scuoto la testa allibita. «Anche se ero piccola, ho un ricordo orribile di quella notte. È un incubo che mi accompagna da sempre. La sensazione di aver perso qualcosa, senza sapere cosa. È stata un’agonia. Ecco cosa ci hai fatto passare!».

Sylvia china la testa. «Mi dispiace così tanto, Daisy. La mia mamma aveva la sclerosi multipla e c’ero solo io a prendermi cura di lei. Ero riuscita a trovare il lavoro come governante a casa Watson per arrivare a fine mese, ma poco dopo ho capito di essere incinta». Fa una pausa, portandosi le mani sul viso. «Avevo diciassette anni e tuo padre aveva cinque anni più di me. Inutile dirlo, quando gli ho detto di te è sparito nel niente. La mamma stava sempre peggio e io sapevo che avrei dovuto prendermi cura di lei giorno e notte. Volevo tanto tenerti con me, non hai idea di quanto mi sono tormentata, cercando di trovare il modo per non doverti abbandonare. Ma alla fine ho capito che era tutto inutile. La mia amica Ella lavorava in un’agenzia di adozioni ed è stata lei a convincermi a farlo. Conosceva tutte le procedure e mi è stata di grande supporto in un momento in cui ne avevo estremo bisogno. Sai, non avevo detto alla mamma di essere incinta. Non potevo darle anche quella preoccupazione, quando lei si stava spegnendo giorno dopo giorno».

Ascoltando la sua storia, che senza dubbio è veritiera, inizio a sentirmi più bendisposta nei suoi confronti. Che cosa avrei fatto io al suo posto?

«Sì, ma come hai potuto pensare di tornare a prendermi? Hai idea di cosa ha passato la mamma dopo quel giorno?»

«Sì. Mille volte sì! Non ho mai smesso di detestarmi per quello che ho fatto. Non solo per averti data in adozione, ma soprattutto per aver cercato di rapirti. Non sai quante volte ho desiderato di aver fatto le cose in modo diverso, ma allora mi era sembrata la scelta più giusta. Ero sconvolta per la mia perdita. E quando la mamma è morta tre anni dopo, ho perso la testa in preda al dolore e non riuscivo a pensare ad altro che a riprenderti con me. Se ci ripenso adesso mi sembra una cosa orribile, ma allora ero sconvolta per mia madre e quella mi è sembrata l’unica cosa da fare. La mamma non c’era più. Ma se fossi riuscita a riprenderti con me, sarebbe andato tutto bene».

Quelle parole mi toccano dentro. È stato il dolore per la perdita della mia stessa mamma a farmi iniziare la ricerca della mia madre biologica. In un certo senso, è la stessa cosa.

«Comunque, dopo quella notte ho fatto di tutto per dimenticarti. Mi sono dedicata anima e corpo al lavoro, facendone la mia vita. Ero una donna in carriera, single e senza famiglia a cui pensare. Mi sono addirittura convinta che quella vita mi piacesse».

«Quando hai capito che io ero la bambina che avevi abbandonato?»

«Ieri alla fiera. Ti ho sentito parlare con Clemmy della tua mamma biologica e allora ho capito. Mi sono fatta prendere dal panico. Non sapevo cosa pensare, né cosa fare. Ho parlato con Arabella, chiedendole di mantenere il mio segreto». Sylvia alza gli occhi al cielo e aggiunge in tono sarcastico: «È stata gentile e disponibile come al solito».

Provo un moto di simpatia nei confronti di Sylvia. Io stessa ho provato le cattive maniere di Arabella sulla mia pelle e non è stato piacevole.

Grazie a Dio, Arabella non è mia madre!

Quel pensiero mi attraversa tutto il corpo, portando un certo sollievo.

Continuavo a ripetermi che forse Arabella era meglio di quello che sembrava e che tutto sarebbe andato per il meglio, anche se lei si fosse rivelata mia madre. Ma adesso posso smettere di fingere. Non siamo neanche parenti!

Sylvia sta quantomeno mostrando rimorso per quello che è successo. Deve essere stato uno shock per lei, scoprire chi sono. Ma adesso sembra davvero dispiaciuta di non avermi voluto parlare ieri.

In quel momento mi torna in mente la scena del giorno prima. «Ti ho vista litigare con Arabella. Pensavo che lei fosse… la persona che cercavo». Deglutisco. «Sono davvero contenta… che non lo sia».

Sylvia mostra l’accenno di un sorriso.

«Oh, Daisy. Mi dispiace, mi dispiace per tutto. Quando ho capito chi eri ho avuto paura che, se mi avessi trovata, tutta la mia vita, che ho costruito con tanta fatica, sarebbe crollata intorno a me. Arabella è l’unica a conoscere la verità sulla mia gravidanza e sull’adozione, ma ovviamente non le ho detto che tu sei mia figlia». Tira su con il naso. «Anch’io sono molto felice che Arabella non sia tua madre».

Ci guardiamo negli occhi attraverso le lacrime.

«Davvero?», riesco a dire alla fine, con la gola che mi brucia per l’emozione.

Sylvia annuisce. «Certo. Eri la mia piccola. Ti amavo tantissimo. Volevo tanto tenerti, ma la mamma aveva bisogno di me giorno e notte e io sapevo di non potercela fare. Avevo solo diciassette anni. Non sapevo che avrei passato il resto della vita a pentirmi della mia decisione».

Le rivolgo un sorriso triste. «Io sono contenta della tua decisione. Altrimenti non avrei mai…». Imbarazzata, lascio la frase in sospeso.

Lei annuisce in segno di comprensione. «Non avresti mai avuto tua mamma. Doveva… essere fantastica».

«Lo era».

«Bene. Questo mi fa sentire molto sollevata, sono contenta per te. Sapere che con lei hai avuto una vita felice». Fa una risatina amara. «Forse ora posso smetterla di essere così dura con me stessa».

«Dovresti». Capisco il suo dolore. «Eri una ragazzina impaurita. Hai fatto la scelta che ti sembrava più giusta. E in effetti è andato tutto per il meglio».

Sylvia mi guarda attraverso le lacrime. Poi le gambe le cedono e si lascia cadere sulla striscia erbosa al lato della strada. Con le mani sugli occhi, si lascia andare al pianto, come se non dovesse smettere mai più.

Per un attimo la guardo senza sapere cosa fare.

Poi mi inginocchio al suo fianco sull’erba e le appoggio un braccio intorno alle spalle.