Capitolo 18
«Andiamo a casa», suggerisco.
«No, andiamo da Joan», risponde Clemmy, e inserisce il codice postale nel navigatore.
«Ma possiamo andarci un altro giorno, quando avrai…».
Clemmy si gira verso di me, con un sorriso troppo largo. «Il momento non potrebbe essere più adatto».
La tensione è palpabile durante il viaggio di una ventina di chilometri verso il paese di Joan.
Clemmy sta rimuginando su Ryan e sulla sua amica bionda. Io, invece, ho le farfalle nello stomaco al pensiero di vedere Joan.
All’arrivo, Clemmy parcheggia vicino al parco e dice che farà una passeggiata lungo la via dei negozi mentre io sono da Joan.
«È tutto ok?», mi chiede prima di salutarmi.
Annuisco. «E tu?».
Lei scrolla le spalle senza dire niente.
«Quello sembra un bel pub», dico indicando un locale al di là del parco. «Magari dopo possiamo farci una bevuta».
«Anche due o tre», risponde lei convinta, sicuramente pensando al modo in cui Ryan stava abbracciando la biondina.
«Cerca di stare tranquilla. Gli parlerai quando torna. E ti darà una spiegazione valida, ne sono sicura».
Con un mezzo sorriso, Clemmy dice: «Buona fortuna con Joan. Chiamami quando hai finito».
Annuisco, anche se vorrei che Clemmy venisse con me, a darmi supporto. Mi arriva un messaggio sul telefono e sorrido nel leggerlo.
«Ma che sorpresa. Toby ha deciso di andare in ufficio anche oggi, alla fine. Dice che le pecore gli stanno dando ai nervi».
Nonostante tutto, Clemmy si mette a ridacchiare. «Belano troppo forte?»
«Probabile».
L’ultima volta che ho visto Joan è stato al funerale della mamma, quando poi è rimasta a dormire per farmi compagnia. Ma a dire il vero, io ero come su un altro pianeta e non mi sarei accorta neppure se si fosse presentata la Regina in persona a farmi le condoglianze.
Quando Joan apre la porta, il suo viso si illumina di un caldo sorriso di benvenuto, ma allo stesso tempo i suoi occhi sono pieni di lacrime. Sapevo che sarebbe andata così. Sapevo che Joan si sarebbe commossa vedendomi, pensando alla mamma.
«Daisy, che bello vederti! Prego, entra».
I capelli castani di Joan hanno dei riflessi ramati e color miele e lei indossa un top simile a un caftano, color turchese e con delle pietre intorno alla scollatura, su pantaloni di lino morbidi. Ci abbracciamo nel piccolo corridoio e respiro a fondo il suo profumo floreale, che ricordo dall’ultima volta che ci siamo viste. Mi riporta alla mente il ricordo del funerale, ma cerco allontanare il pensiero e le sorrido.
Joan accarezza il mio cardigan. «Questo me lo ricordo. Era il preferito di tua madre. Diceva che si sentiva una regina con questo addosso!».
«Oh, questo?», dico con leggerezza, come se avessi notato il cardigan solo in quel momento. «Sì, è molto comodo. Va bene sui jeans o anche su vestiti più eleganti. Molto versatile». Sto chiacchierando a vanvera, lo so, ma sono in preda al panico. Il dolore di Joan è come una creatura vivente, presente nella stanza con noi, e io non sono sicura di riuscire ad affrontarlo.
Il suo sorriso viene meno per un istante. Poi mi accarezza il braccio con forza. «Vieni tesoro, facciamoci un tè. O preferisci una bibita?»
«Mi… mi dispiace se non mi sono fatta sentire», dico mentre Joan versa della limonata in un bicchiere rosa. «Sono stata… indaffarata».
Ma Joan mi fa capire che le mie scuse non sono necessarie. «Il tempo vola. Tua mamma e io dicevamo sempre che dovevamo vederci più spesso, ma non riuscivamo mai più di una volta all’anno. La vita si mette sempre in mezzo!».
«Lei adorava venire a trovarti qui».
«Anche a me piaceva». Ha lo sguardo perso nei ricordi. «Ora, ovviamente, vorrei che ci fossimo prese quel tempo…», dice scuotendo tristemente la testa. Poi, cercando di rianimarsi: «Ma ormai è fatta. Come stai, Daisy? Che succede nella tua vita?».
Sedute nella cucina in stile country di Joan ci scambiamo le ultime novità e, anche se il ricordo della mamma non è mai del tutto assente dalle nostre chiacchiere, inizio a rilassarmi un po’. È confortante stare in compagnia di qualcuno che voleva alla mamma tanto bene quanto gliene volevo io. Osservo Joan riempire la teiera di acqua calda e vengo presa alla sprovvista da una sorta di desiderio malinconico. In un mondo ideale, la mia mamma biologica sarebbe una persona buona e gentile come Joan o come la mamma di Toby. Non una donna alla moda, fredda e insulsa come Arabella. Voglio dire, come posso essere sua figlia? Io non ho il minimo senso della moda e vivo benissimo lo stesso!
Soltanto dopo un po’, trovo il coraggio di parlarne a Joan. Quando torna al tavolo con la teiera piena, le chiedo senza preavviso: «Joan, la mamma ti ha mai detto chi fosse la mia madre biologica?».
La teiera si blocca a mezz’aria e Joan mi guarda, con una strana espressione che le attraversa il viso. Per un istante, quasi mi aspetto di sentirla dire che è lei mia madre. Che mamma e papà non potevano avere figli, perciò si è offerta di fare da surrogata…
Ma un secondo dopo, le mie sciocche speranze vengono spazzate via, quando Joan dice dolcemente: «Tua mamma non ha mai saputo il nome della ragazza. Anche se…». La frase rimane in sospeso.
«Anche se?».
Joan si alza e si avvicina alla finestra, guardando in giardino.
La osservo mentre cerca di risolvere un conflitto interiore e il mio cuore martella all’impazzata. Nonostante il tè, mi sento la bocca asciutta.
Alla fine, Joan si gira di nuovo. «Tua mamma l’ha incontrata una volta», dice dolcemente. «Era una ragazza giovane, un’adolescente. La ragazza si è presentata a casa vostra quando avevi tre o quattro anni, voleva riprenderti con sé».
Un’ondata di shock mi lascia completamente senza parole.
Joan versa altro tè e si siede al mio fianco, con la sua mano calda sulla mia. «Tua mamma mi ha chiamata subito dopo, era in tilt», dice scuotendo la testa al ricordo.
«Ma come… cioè, ha cercato di rapirmi? La ragazza?»
«Non solo ci ha provato. Ci è quasi riuscita. A quanto pare era come in preda a un attacco isterico. Ma tua madre è riuscita riprenderti, proprio mentre lei ti stava per portare via, con un’auto che la aspettava».
«C’era qualcuno con lei?»
«Un’altra ragazza, credo. Tua mamma non era sicura». Rabbrividisce. «Mi diceva sempre: “Joan, cosa avrei fatto se non fossi riuscita a riprenderla? Avrei perso Daisy per sempre”».
Vengo colpita da un pensiero improvviso. «Oddio, è il mio incubo!».
Joan osserva perplessa la mia espressione scioccata.
«Non avevo mai capito se fosse un ricordo o un incubo, ma mi è capitato di riviverlo almeno una dozzina di volte. Sono al buio e corro lungo un sentiero innevato, con siepi altissime ai lati, e sono terrorizzata. E poi perdo qualcosa. E anche se non so cos’è, quella che ho perso è la cosa più importante al mondo». Inspiro a fondo e poi espiro lentamente. «Adesso so che è successo davvero. È il ricordo di quando mi hanno portato via dalla mamma».
Joan annuisce convinta. «Credo che tu abbia ragione. La casa in cui abitavate si trovava a una certa distanza dalla strada, in fondo a un vialetto affiancato da alte siepi, proprio come dici tu. È successo a gennaio e c’era la neve. Tua mamma diceva che la neve aveva rallentato la corsa della ragazza. Continuava a scivolare perché non aveva le scarpe adatte e così tua madre è riuscita a raggiungerla e a riprenderti. Era a casa da sola, perché tuo padre lavorava fino a tardi».
«Grazie al cielo».
«Ti è caduto l’orsacchiotto lungo il vialetto e tua mamma non l’ha più ritrovato. Deve averlo preso la ragazza», mormora Joan.
«È nel mio ricordo», dico senza fiato. «La disperazione di aver perso qualcosa per sempre. Era il mio orsacchiotto!».
Joann annuisce. «Tua madre era terrorizzata dopo quell’episodio. Aveva capito che la ragazza doveva essere la tua mamma biologica, che in qualche modo doveva aver scoperto il vostro indirizzo. Dopo quel giorno, non è più riuscita ad avere un attimo di pace in quella casa. Soprattutto quando eri a scuola o quando non ti poteva tenere d’occhio di persona».
«Ecco perché ci siamo trasferiti». All’improvviso tutto ha un senso. «Volevano che fossi al sicuro, lontano da quella ragazza».
«Sì. Ovviamente hanno chiamato la polizia dopo l’accaduto, quindi la ragazza deve aver ricevuto come minimo un avviso di diffida, per aver tentato il rapimento. Ma tua madre viveva nel terrore che potesse succedere di nuovo. Voleva trasferirsi in Scozia, il più lontano possibile, ma tuo padre l’ha convinta che Manchester era comunque abbastanza lontana e che sarebbe stato più facile mantenere il contatto con amici e parenti qui». Joan sorride tristemente. «Ma alla fine, hanno mantenuto i contatti solo con me. Credo che tua mamma non volesse far sapere in giro dove ti avevano portata, per paura che la voce arrivasse alla tua madre biologica».
«Ti ha mai parlato di una borsetta?», chiedo di punto in bianco.
Joan mi guarda perplessa. «Mi sembra di no. La borsetta della ragazza?». Prendo la busta dalla tasca e gliela mostro. «Questa era in una tasca interna. C’è il nostro indirizzo scritto sopra. E pensavo che l’indirizzo scritto a macchina fosse della mia madre biologica, ma adesso non ne sono più sicura».
Joan osserva la busta. «Sei andata a vedere questa Maple Tree House?»
«Sì, ci abita una donna di nome Arabella».
Joan mi guarda negli occhi. «E credi che lei possa essere…?».
Faccio un lungo sospiro. «Non so, davvero. Potrebbe. Credo che abbia l’età giusta. Ma c’è qualcosa che non mi quadra». Poi aggiungo scrollando le spalle: «O forse lo spero e basta. Perché non riesco a immaginare di avere una persona… come lei, come madre».
Joan sembra improvvisamente più triste. «Daisy, nessuno sarà mai perfetto come la tua vera mamma», dice dolcemente. «E Maureen era la tua vera mamma. Su questo non ci sono dubbi. Credo che nessuna madre al mondo possa amare sua figlia più di quanto lei amava te».
Joan mi sorride attraverso le lacrime e io mi mordo forte la guancia, per non cedere.
«Eri la luce dei suoi occhi». Mi stringe la mano così forte da farmi male. «Ma forse puoi comunque dare una chance a questa donna».
«Magari non è lei. Anche se fosse la proprietaria della borsetta, non significa necessariamente che sia la mia madre biologica».
Joan annuisce lentamente, pensierosa. Poi spalanca gli occhi. «Ho un’idea, c’è qualcuno che forse ti può aiutare. Una delle signore che frequentano il circolo femminile in paese, si chiama Lottie e abita ad Appley Green, proprio su Acomb Road. Vive nella stessa casa da sempre, quindi potrebbe sapere qualcosa sulla storia della Maple Tree House». Si sporge sul tavolo. «E in effetti, Lottie è una persona piuttosto… curiosa, per così dire».
«Cioè è la pettegola del paese?»
«Sì. Ma non dirle che l’ho detto io». Joan sorride. «Se c’è qualcuno che può sapere di una bambina nata trent’anni fa nella Maple Tree House, quella persona è lei. Vuoi che le parli?».
Lancio a Joan un’occhiata ansiosa. «Non so».
«Prometto di essere molto discreta».
«Va bene allora».
Sento lo stomaco contorcersi, al solo pensiero di essere un passo più vicina alla verità.