Capitolo 43
Wow, c’era davvero una strana atmosfera fra mamma e papà a colazione. Persino Topo se n’era accorta, facendo capolino da dietro il libro per studiarli, alzare gli occhi al cielo e poi tornare nel suo mondo fantastico. Ruby non vedeva l’ora di uscire di lì: non voleva che gli rovinassero il buonumore. Si sentiva più felice dopo una bella notte di sonno e, anche se i suoi genitori avevano in serbo per lei un’altra bella dose di inferno, andò a scuola con lo spirito leggero perché non vedeva l’ora di vedere Harry. Starsene stesa sul letto insieme a lui, la notte prima, senza alcuna intenzione di fare cose, era stato meraviglioso. Sentiva che avevano fatto un altro passo avanti. Ogni volta che pensava che non potessero essere più vicini di così, ecco che succedeva.
Indossò i vestiti per la scuola. Nella fretta, ebbe un repentino moto di disgusto nel vedere le cicatrici sulla parte alta delle cosce, mentre si infilava le calze nere e spesse. Arrivò in stazione quasi saltellando.
Harry, però, non salì alla sua fermata.
Quando scese a Charlton, a ogni passo si lanciava intorno sguardi pieni di speranza, ma non lo trovò da nessuna parte. Si nascose dietro un angolo per truccarsi e indossare la maschera di eyeliner pesante grazie alla quale si sentiva abbastanza sicura per entrare a scuola da sola. Curvò le spalle e inclinò la testa in un angolo calcolato con cura, per trasmettere un senso di annoiata insolenza a chiunque la guardasse. E per non tradire la sua agitazione.
Si avviò verso gli armadietti, superando senza intoppi la folla di studenti di varie età che si scansavano per farla passare. Captò qualche stralcio di conversazione, sussurri nell’aria che le giungevano all’orecchio e la facevano sogghignare.
«…l’ha stesa con un pugno…».
«…una pazza furiosa…».
«…senza nessun motivo…».
Soltanto la lievissima contrazione delle narici di Ruby avrebbe potuto tradire la sua delusione quando svoltò l’angolo in direzione del suo armadietto e vide che… non c’era traccia di Harry. Forse aveva saltato la scuola. Il che significava che la situazione a casa era davvero pessima.
Non si prese nemmeno la briga di fingere di restare per le lezioni. Girò su sé stessa e tornò dritta da dove era venuta, tirando fuori il cellulare mentre camminava.
Le braccia di Harry andavano a fuoco sotto il peso delle buste della spesa. Da un momento all’altro le dita rischiavano di essere tagliate di netto dai manici di plastica, vedeva già le punte che diventavano di un colore a metà tra il viola e il blu. Tirò dritto passando davanti alla madre, che giaceva priva di sensi sul divano sudicio, spaparanzata come un ubriaco su una panchina del parco. Un lieve ronfo le sfuggì di bocca. Le lanciò un’occhiata e notò la bava che le brillava sul mento, ma non rallentò.
Ahi, ahi, ahi! Le dita!
Riuscì a raggiungere la cucina appena in tempo e a lasciare le buste stracolme di spesa sul pavimento, per poi saltellare in giro agitando le mani per far tornare la circolazione nei polpastrelli pericolosamente esangui. Quando il dolore si placò, si mise al lavoro.
Fagioli stufati, zuppe in scatola, una tonnellata di noodle precotti, un filone di pane bianco, un paio di litri di latte. E ne aveva svuotata una. Harry si tuffò sull’altra busta.
Biscotti, pop-corn e patatine…
Hamburger congelati, bastoncini di pesce, patate al forno e roba che poteva infilare nel microonde.
Finalmente tutto era sistemato. Sospirò, si appoggiò al ripiano della minuscola cucina in cui riusciva a entrare solo una persona alla volta e sognò a occhi aperti. Amava ricordare il suo primo incontro con Ruby, quando aveva intravisto nella ragazza nuova una sorta di sguardo perso, nascosto dietro quel fare da dura. Prima ancora di parlarci, si era sentito attratto da lei.
Quello era sempre stato il suo ricordo preferito, ma adesso era stato soppiantato dalla notte appena trascorsa. Rivide il modo in cui l’aveva guardata, mentre appoggiava la testa sul suo petto, e il cuore gli si gonfiò a tal punto che sembrava fluttuare in aria, accidenti. Quel sorriso delicato e gentile che le aveva incurvato gli angoli della bocca lo faceva sciogliere.
Immaginare Ruby era una sorta di fuga dalla sua vita schifosa. L’appartamento in cui viveva era lo stereotipo della casa popolare di città, a partire dagli ascensori quasi sempre rotti e dalle scale che puzzavano di piscio, per arrivare agli spacciatori che vivevano alla porta accanto e che ricevevano costantemente visite, giorno e notte. Aveva sentito dire che c’era anche un laboratorio di metanfetamina, quindi sapeva che rischiavano di saltare in aria ogni momento, nel caso qualcosa fosse andato storto, in stile Breaking Bad.
Con riluttanza, aprì gli occhi per tornare alla realtà. Doveva lavare i piatti.
L’appartamento era angusto e non era certo il più pulito del mondo, perché sua madre non faceva i lavori di casa. Non poteva, nel suo stato. Era Harry a mandare avanti la baracca, badando ai suoi due fratellini e pulendo sua madre con uno straccio quando lei non ce la faceva ad arrivare in tempo al bagno, a volte la teneva stretta quando le venivano quei tremori spaventosi.
«Sei tu, tesoro?», lo chiamò.
Il cuore gli sprofondò nel petto. Sentiva che strascicava le parole, che le labbra faticavano a pronunciare per bene la “s”. Uno sforzo troppo grande nelle sue condizioni. Lanciò un’occhiata all’orologio. Erano solo le nove e mezza del mattino, sarebbe stata una giornata lunga.
«Tesoro? Vieni qui».
Harry si voltò e attraversò di soppiatto l’appartamento, mordendosi il labbro per frenare le lacrime che gli bruciavano gli occhi. Chiuse piano la porta, in silenzio, poi corse via, mentre il senso di colpa gli metteva le ali ai piedi per portarlo lontano, molto lontano. Non ce la faceva a badare a sua madre. Non adesso. Il pensiero di doverle passare un panno umido sul mento per asciugarle la bava, o di pulire il vomito che sarebbe inevitabilmente seguito… Irrigidì i muscoli delle braccia, fece muovere le gambe ancora più in fretta, seminando spacciatori e ciclisti.
Rallentò solo quando Ruby lo chiamò al cellulare.