PROLOGO
SETTEMBRE 1997
«Qualcuno di voi sa dirmi a che temperatura brucia la carta?» chiede il professor Reale.
La classe reagisce con un brusio variegato. Nessuno risponde, ovvio, perché la prima regola in una classe di tardoadolescenti che stanno mettendo alla prova il professore nuovo è fare muro. Occorre consultarsi internamente prima di stabilire se dargli o no la soddisfazione di rispondere. Funziona così da quando Noé mise a sedere Cam, Sem e Jafet accanto alla gabbia delle giraffe e cercò di iniziarli alla geometria, e funziona così anche se i Cam, Sem e Jafet di turno sono i ventiquattro diciassettenni della seconda b, che di solito si stanno sulle palle a vicenda e passano gli intervalli a bisticciare a gruppi. Ma fare muro davanti al nuovo prof è più importante, è un’union sacrée. Perché non vorremo mica che poi si senta autorizzato a interrogare in questa maniera barbara per tutto il resto dell’anno, senza fissare giorni né niente, sparando domande a caso nel mucchio.
«Coraggio. Lo sapete, ma non sapete di saperlo», dice il professor Reale, che, per la cronaca, è un tizio minuto, non altissimo, con la faccia gentile e un cardigan che di certo non è mai stato avvistato sulle passerelle della settimana della moda.
Il brusio della classe in realtà è già una risposta. Significa:
1) “No, non è vero, non lo sappiamo e basta; voi adulti siete così odiosi, pensate sempre di conoscere quello che abbiamo dentro”;
2) “Che razza di domanda è? Sei un insegnante d’inglese, quindi insegna inglese, no?”;
3) “Perché mai dovremmo saperlo? Ah, per fisica, ci scommetto. Ce l’avranno detto a fisica e noi sicuro che ce lo siamo perso. Perfetto, così ora il nuovo prof d’inglese farà la spia e saremo nella merda pure con la prof di fisica”.
Il professore nuovo sembrerà anche un tipino innocuo, ma quella di fisica è un sanguinario ufficiale della Wehrmacht, quindi qualcuno comincia a ventilare la possibilità di ammutinarsi e dare la risposta. Se non fosse che proprio non la sa.
«Secondo me tu sì che lo sai», dice il professore fermandosi accanto a un banco.
Al banco è seduto un pipistrello.
Un pipistrello enorme oppure un vampiro in miniatura. Una cosa a forma di adolescente ma tutta nera e lucida e chiusa su sé stessa come un origami di vinile. La cosa si sente osservata, tira su la testa e si dispiega pian piano, rivelandosi per una ragazzetta dai capelli corvini, rossetto viola, occhi incatramati e un gigantesco impermeabile nero, con un libro aperto davanti.
Nemmeno sulle ginocchia. Proprio sul banco. Così, senza ritegno.
«Stavo leggendo», dice la ragazzetta. Interessante. È seccata per essere stata interrotta.
«Ho notato», dice Reale.
«Stavo leggendo la Radcliffe», specifica la ragazzetta. «È nel programma.»
«Ma io non stavo spiegando la Radcliffe.»
«In effetti, lei non stava spiegando ancora nulla.»
«Come fai a dirlo se non eri attenta?»
«Perché invece lo ero.»
«Ma se stavi leggendo.»
«Ma ero anche attenta.»
La ragazzetta è serissima.
A Reale scappa un mezzo sorriso.
«Com’è il libro?»
«Carino. Datato, ovviamente, ma ha i suoi numeri. Mi piace il modo in cui tutti gli eventi straordinari vengono spiegati razionalmente.»
«Anche a me», dice Reale. «Ho sempre trovato buffo che l’inventrice del romanzo gotico fosse in realtà una lucida smascheratrice di fenomeni soprannaturali. È come se si prendesse un po’ gioco di tutti noi.»
La ragazzetta annuisce.
Il professore annuisce.
«La carta brucia a 451 gradi Fahrenheit», dice la ragazzetta.
«Perché non hai risposto subito, se lo sapevi?»
«Perché stavo leggendo.»
Reale non riesce a non farsi scappare di nuovo un sorrisetto.
La ragazzetta è sempre serissima, ma sembra favorevolmente colpita, quasi suo malgrado.
La ragazzetta si chiama Silvana Sarca.
«Per la cronaca», riprende Reale, ricominciando anche a camminare fra i banchi, «451 gradi Fahrenheit equivalgono a circa 230 gradi Celsius, cioè i nostri, e la vostra compagna iperalfabetizzata lo sa perché Fahrenheit 451 è il titolo di un famosissimo romanzo di Ray Bradbury in cui si parla, appunto, di libri che finiscono al rogo.» Nuovo brusio. Qualche coniglio finge di averne almeno sentito parlare. Il modo in cui Reale non ha fatto la paternale a Vani gli ha procurato qualche punto. Perché Vani sarà un personaggio discutibile, ma è l’autorità intellettuale della classe e nessuno, men che meno un professore arrivato da dieci minuti, deve permettersi di fare la paternale a Vani.
Di certo non finché la classe sta facendo muro.
«Il punto è che la carta brucia», conclude Reale. «La carta è infiammabile. Si usa per appiccare il fuoco. Ci si accendono caminetti, barbecue, falò... e anche rivoluzioni.»
Reale fa una piccola pausa e si guarda intorno. I ragazzi guardano lui.
Vani ha ripreso a leggere distrattamente, ma è arrivata a un punto romantico del quale le frega meno che della parola che ha appena pronunciato Reale. Rivoluzioni. A Vani le rivoluzioni stanno simpatiche. Chiedere ai suoi. In casa ne pianta una al giorno. Così alza gli occhi un momento.
«Il punto è che, se ci facciamo caso, dietro ogni grande rivoluzione della storia c’è stata della carta. Che ha fatto in modo che la scintilla attecchisse e da lì divampasse l’incendio. Prendiamo la più famosa di tutte: la rivoluzione francese. Sapete cos’erano i cahiers de doléances?»
Teste che fanno sì, teste che fanno no. Il muro sta cominciando a vacillare.
«Che cavolo è, francese? Noi mica lo facciamo francese», dice Giovanni che 1) è grezzo come un porcaro, 2) sta cercando da mesi di fare colpo su Ilaria e crede nell’intramontabile appeal del giovane ribelle.
«I cahiers de doléances erano i registri nei quali venivano annotate dai funzionari statali le rimostranze della popolazione francese», prosegue Reale. «Immaginatevi pagine e pagine di insoddisfazioni, amarezze, delusioni. Di pane che non arriva e di tasche che restano vuote dopo l’esazione delle tasse. Pile e pile di fogli così, montagne di rancore verso le istituzioni. Ma non è mica finita», incalza. «Dove si ammucchiava, tutta questa carta scritta con l’inchiostro dell’esasperazione? Sopra dell’altra carta, stavolta però stampata; la carta pregiata di almeno un paio di opere che avevano visto la luce nei decenni precedenti. L’Enciclopedia di Diderot, per dirne una. La summa dello spirito dell’illuminismo, che aveva educato il popolo di Francia, anzi, di tutta Europa, a credere nella scienza e nella ragione. E quindi anche a mettere in dubbio che a decidere delle sorti della gente dovesse essere un re ciccione dalla parrucca ridicola, solo perché “designato da Dio”.»
Qualcuno ridacchia. Muro crollato. Metà della classe sta prendendo appunti come se non ci fosse un domani, perché sarà vero che la seconda b non fa francese ma ovviamente storia e italiano sì, e bisogna essere cretini per non accorgersi che quella roba è oro per far scena anche in storia e italiano.
«Funziona sempre. Dite una rivoluzione e vedrete che dietro c’è sempre qualcosa di scritto», li sfida Reale. «Saggi filosofici, trattati di economia, libelli di denuncia, romanzi e opere teatrali. E non vale solo per le rivoluzioni-rivoluzioni, come la francese, l’inglese, l’americana, insomma quelle che si chiamano proprio così: anche le rivoluzioni sociali, ideologiche...»
«Tipo l’abolizione della schiavitù?» dice Francesca dal fondo classe.
«Ottimo esempio, per il quale si può citare un libro su tutti», dice il professore. «Scommetto che lo conoscete anche voi.»
E che cazzo, non fai in tempo ad abbassare la guardia un attimo. La classe si agghiaccia di nuovo, qualcuno infila la testa nello zaino fingendo di cercare una matita, un quaderno, una pasticca di cianuro, ma grazie al cielo Reale ormai ha capito e ha già spostato lo sguardo su Vani, e Vani ormai ha capito pure lei e sta già dicendo spontaneamente, anzi, pure con una certa sufficienza: «La capanna dello zio Tom».
Reale annuisce. «Sapete cosa disse Lincoln quando incontrò l’autrice, Harriet Beecher Stowe, all’inizio della guerra civile americana? “Allora è questa piccola signora ad aver scatenato questa grande guerra.”»
L’ha pronunciata proprio bene. Solenne ma senza esagerare con l’enfasi. Per dire, Marionato, di greco, non è male, ma quando legge Platone sembra sempre che abbia ingoiato un megafono. Reale è più sobrio e quindi più bravo. E poi a Vani piace moltissimo che una piccola donna possa scatenare una grande guerra, quindi fa una micromossa con le sopracciglia che indica un lieve sbilanciamento emotivo in direzione dell’approvazione.
C’è un attimo di brusio perché qualcuno non ha capito come si scrive Beecher Stowe e sta cercando di farselo dire dal vicino, che però non l’ha capito nemmeno lui ma non osa ammetterlo ad alta voce.
«Il Quarantotto?» dice Antonio.
«No, ti prego, basta col Quarantotto!» esclama istantaneamente Giovanni. La classe ride.
Reale ride. «Lasciami indovinare: vi stanno facendo leggere Verrò a trovarvi sul lago, vero?»
Verrò a trovarvi sul lago, di Ruggero Solimano, è il bestseller del momento. Cioè, lo è da quasi un anno ormai, è il nuovo grande e pluripremiato romanzo italiano di cui tutti parlano da mesi e bla bla bla, ma per ragioni di programmi ministeriali i prof hanno dovuto aspettare che i ragazzi fossero almeno al quarto anno per rifilarglielo come lettura obbligatoria. Parla del risorgimento ma in una chiave insolita, quasi adolescenziale, cioè parla dei giovani che combatterono nelle Cinque Giornate di Milano e poi nella prima guerra d’indipendenza; in particolare di quattro ragazzi e una ragazza, la giovane moglie di uno di loro, l’unica che sopravvive abbastanza a lungo da vedere l’Italia unita. Con questa scusa che i protagonisti hanno fra i diciassette e i ventiquattro anni, i prof sperano che gli studenti si identifichino e divorino piangendo di gioia quasi seicento pagine di romanzo. Secondo Vani sarebbe più facile vedere un’aurora boreale sopra Torino prima cintura. I prof sono fortunati che Verrò a trovarvi sul lago è bello sul serio (lei lo sa perché l’ha letto durante l’estate), ma seicento pagine son seicento pagine e i tardoadolescenti hanno di meglio da fare che leggere.
Cioè, credono.
«Mi dite come finisce così lo posso piantare lì?» geme Giovanni.
«Muoiono tutti tranne la tipa», dice Vani, mettendo via il libro della Radcliffe, che tanto ormai per oggi non le interessa più.
«Comunque, sì, anche dietro al risorgimento c’è un sacco di letteratura», dice Reale. «Volendo si va indietro fino a Dante, per non parlare di tutto il romanticismo, così pieno di inviti a seguire gli ideali, a vivere con passione. Foscolo che piangeva sul trattato di Campoformio. Byron che moriva lottando per l’indipendenza della Grecia. I ragazzi del Quarantotto, i protagonisti di Verrò a trovarvi sul lago, quelle cose le studiavano e leggevano tutti i giorni, come voi oggi guardate i film.»
«L’ha letto anche lei?» chiede Filippo. Reale annuisce. «Ma tutto?»
«Ho tre mesi di vacanza l’anno. Ho fatto il professore apposta.»
Tutti ridono perché si capisce subito che non è vero.
«Il nazismo?» dice Vani.
«Ma il nazismo è cattivo», articola Mattia, che non è scemo ma ha un vocabolario di trentotto parole e si spiega da schifo. «Voglio dire, è roba da ignoranti...»
«Intendi dire che, siccome fu un movimento populista e becero, è improbabile che avesse alle spalle qualche opera letteraria?» dice Reale, e Mattia annuisce felice come un tracheotomizzato che finalmente sia riuscito a farsi capire dall’infermiere. «Be’, un paio di fogliacci di carta li ha avuti dietro pure quello. Mica tutta la roba che si scrive è buona per forza, sai. I falsi Protocolli dei Savi di Sion, per esempio, o il Mein Kampf...»
«Ho letto una cosa interessante a proposito del Mein Kampf», dice Vani. Reale le fa segno di dirla pure. Si vede proprio che Reale è nuovo. Se non fosse in seconda b da dieci minuti, per esempio, saprebbe che Vani non interviene mai per raccontare qualcosa di interessante che ha letto. Ma ora sta partecipando alla lezione. Dev’essere il modo di Vani di dichiarare che il nuovo professore ha ufficialmente passato l’esame. «Ho letto che Hitler, che probabilmente scriveva di merda, nella Notte dei Lunghi Coltelli fece uccidere anche il tizio che gli aveva corretto le bozze del libro. Perché avrebbe potuto raccontare in giro di tutte le ingenuità e gli errori, anche grammaticali, che Hitler ci aveva messo dentro.»
«Ma dai. Non lo sapevo. Pensa quanto potere, per un semplice redattore», commenta Reale, che sembra effettivamente colpito. Non le fa nemmeno notare quel «di merda».
“Chissà”, pensa Vani, “forse prima di entrare di ruolo come prof ha fatto il redattore pure lui per arrotondare.” A tanti capita. Non è un brutto mestiere. Tipo, a lei non spiacerebbe, un domani, lavorare nell’editoria.
«E comunque», conclude Reale, «tutto questo per dire: la carta è infiammabile, si usa per dare fuoco alla miccia delle rivoluzioni. Ricordatevelo sempre. Quando studiate letteratura, non studiate soltanto libri: studiate la miccia della storia.»
Svariate facce fanno smorfie di apprezzamento.
«Fine del pistolotto motivazionale. E adesso iniziamo a leggere Tess dei d’Ubervilles», annuncia Reale depositando sulla cattedra un libro praticamente cubico.
«Ma è peggio di Verrò a trovarvi sul lago!» esclama Giovanni.
«Sì, infatti qui muore anche la tipa», sentenzia Vani, che ha già letto anche quello.