9.
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Arrivo a casa e c’è qualcosa che sporge dalla mia cassetta della posta. Di domenica. Strano. Forse c’era già quando sono uscita, forse no, non ci ho fatto caso. Alle otto del mattino non farei caso nemmeno a un brachiosauro che masticasse la siepe del cortile condominiale. Apro la casella, e questa mi vomita in mano un mezzo metro cubo abbondante di volantini e dépliant pubblicitari, che finiscono per piastrellare anche il pavimento dell’atrio.

Li sfoglio. È tutta roba su San Valentino. In effetti, fra sei giorni sarà la maledetta festa e sembra che non ci sia esercizio commerciale o azienda di ristorazione che non abbia in serbo offerte clamorose per i piccioncini insicuri. Torino è tutta cuori rossi e fucsia. La sua allure sabauda è ovunque violata da stucchevoli decorazioni rosa. Maria Callas agghindata per un tragico errore dalla costumista di Minnie Mouse.

Per come la vedo io, San Valentino è quando dai appuntamento al tuo partner in un luogo pubblico perché sia meno probabile che diventi pericoloso. Come coi criminali.

Guardo le caselle degli altri condòmini. Naturalmente sono vuote. Fossero anche passate orde di volantinisti a consegnare foglietti, non si capisce perché avrebbero dovuto ficcarli solo nella mia. No, è evidente che tutto questo materiale è stato religiosamente raccolto nell’arco dei giorni scorsi da qualcuno che ha voluto intasarci la mia buca delle lettere, proprio la mia e solo la mia. Riccardo, ovviamente. Riccardo che vuole che non mi scordi che fra sei giorni sarà San Valentino. Se questo significa che fra sei giorni dovrò aspettarmi un altro gesto eclatante di cui questo è una specie di trailer, forse non mi spiace se il nuovo lavoro con Marotta mi uccide prima.

Pigio la tonnellata di carta nel cestino dell’atrio e la presso con l’anfibio.

Entro in ascensore e mi ritrovo a riflettere su Marotta. Enrico la fa facile, la fa. Insomma: il tizio se ne sta nell’ombra per vent’anni. Dice che esce allo scoperto per i soldi che Enrico gli offre. Ma per piacere. Gli sarebbe bastato ricattare Enrico, allora. Dirgli che avrebbe dovuto pagare il suo silenzio e rimanersene nell’ombra tranquillo e pieno di grana. D’altro canto non è nemmeno a caccia di fama, del plauso popolare: non fa il minimo sforzo per rendersi simpatico al pubblico, vuole che lo vedano così com’è (ossia un impresentabile snob imbottito di spocchia, contento lui).

Però bisogna. Che Marotta faccia almeno uno sforzo, intendo. Non foss’altro perché altrimenti Enrico lo strangolerà con le sue stesse mani e per me diventerebbe un casino farmi pagare lo stipendio da uno in carcere.

Quindi la domanda è: su cosa diavolo posso fare leva per convincere Marotta a rendersi meno odioso?

Rifletti, Vani.

Una scintilla mi si accende sul fondo della scatola cranica. C’è una cosa che devo verificare, e credo di aver capito quale sarà il mio prossimo passo.

Intanto rientro in casa. Ormai sono le dieci: il condominio inizia a vibrare di aspirapolveri e centrifughe, e Morgana dal piano di sopra si sta esercitando con canto e chitarra. A giudicare da come interrompe e riprende il pezzo, scommetto che è nuovo e lo sta studiando. Magari è quello su cui ha lavorato con Ivano quando siamo stati al compleanno di Berganza.

Il cui nome, manco a farlo apposta, compare di colpo sul mio display.

Immagine. Immagine. Immagine. Berganza mi sta inoltrando una serie di foto. Le apro e riconosco le stanze di una casa, o meglio non le riconosco, perché si tratta di una casa che non ho mai visto. In una delle foto – quella del bagno – grazie a un gioco di specchi si vede un quarto di sagoma del tizio che le sta scattando con il suo cellulare, e non mi pare di riconoscere nemmeno lui.

Lo chiamo.

«L’ho svegliata?» esordisce il commissario.

«No, capo, non si preoccupi, a quello ha pensato Enrico due ore fa.»

«Due ore fa erano le otto, che bella rottura di palle. Ma conoscendo Enrico Fuschi immagino che le sue telefonate siano una rottura a qualsiasi ora.»

Il commissario non è al corrente della mia teoria su telefonate e rottura di palle, ma mi viene da sorridere lo stesso.

«Be’, Sarca, visto che voleva essere coinvolta. Ieri ho parlato con Antonutti, sa, l’agente che va da Mastrofanti ogni mattina. A parte il fatto che quando gli ho spiegato del sotterfugio della domestica ci è rimasto di sasso anche lui per non essersene accorto, gli ho chiesto fra le altre cose di scattare un po’ di foto della casa. Per inoltrarle a lei. Non mi dispiacerebbe se le guardasse e mi dicesse cosa ci vede.»

Wow. Berganza sta cercando di coinvolgermi. Quindi è vero che ha ancora bisogno di me. La mia mattinata ha appena subito un’impennata in positivo.

Metto in vivavoce e sfoglio per bene le foto mentre Berganza parla.

Il commissario mi descrive la pianta della casa: un piano solo per evitare al quasi infermo Mastrofanti di fare le scale; ingresso, cucina e salotto fusi assieme in una specie di unico grande open space sempre con l’obiettivo di evitargli ostacoli alla deambulazione; una camera da letto in fondo e un bagno comodo.

«Arredamento orribile, tanto per cominciare», dico appena Berganza ha finito. «I narcotrafficanti dei film sul Centroamerica hanno più gusto. Come diavolo fa a possedere tante chincaglierie?» Faccio un paio di zoomate. «Guardi gli scaffali in soggiorno. Libri quasi zero, in compenso una decina di fermacarte, delle palle di vetro con la neve, soprammobili che farebbero inorridire mia madre – che, mi creda, in fatto di decorazione domestica aveva un gusto davvero discutibile...»

«Già. È proprio questo il problema, per noi. Cioè, non i gusti di sua madre, Sarca, prima che la faccia lei, la battuta stupida.» Sorrido. Sorride. Cioè, io so che ha sorriso. «Come le dicevo la teoria, anzi, la quasi certezza, è che questo stronzo abbia trovato chissà che modo di scambiare messaggi con l’esterno. Il che significa che da qualche parte questi messaggi, prima di uscire da casa sua, devono stare. Allo stesso modo, anche lui probabilmente riceverà dei messaggi dall’esterno, perché, anche posto che abbia trovato il modo di incontrarsi furtivamente con qualcuno per lo scambio, dubito che si tratti di incontri così lunghi da consentire una conversazione. C’è quasi sempre qualche agente che sorveglia la casa, e se gli emissari hanno trovato il modo di avvicinarcisi dev’essere di sicuro questione di cogliere l’attimo. Quindi, appunto, anche gli emissari lasceranno a Mastrofanti dei messaggi scritti che lui possa poi leggersi con calma. Bene: dove sono quei messaggi? Sia quelli che partono da Mastrofanti, sia quelli che gli arrivano? Da qualche parte in questo bordello di casa, di sicuro.»

Annuisco. Mi è venuta la pelle d’oca, ovviamente. La solita febbre da rompicapo da risolvere. Potrebbe essere patologico. Forse dovrei farmi vedere da qualcuno.

«Aspetti, capo. A lei interessa trovare quei messaggi o farli smettere? Perché, se l’obiettivo ultimo è interrompere le comunicazioni fra Mastrofanti e la sua rete, basterebbe monitorare intensivamente la casa, magari con delle telecamere, e beccare lui e l’emissario quando avviene lo scambio...»

«Fosse facile», brontola Berganza. «Gliel’ho detto: già la faccio sorvegliare, la casa, ma di uomini per coprirla ventiquattr’ore su ventiquattro non ne ho. Se le dicessi a quante altre cose la mia squadra deve stare dietro al momento, inorridirebbe, mi creda. Quanto alle telecamere, a parte l’ovvio problema dei costi, la legislazione sulla privacy e sulla videosorveglianza domiciliare è un vero macello, persino in caso di detenzione. Anche solo chiedendo ad Antonutti di scattare quelle foto mi sono preso una bella libertà.» Il commissario sospira. «Come vede, Sarca, siamo alle solite: per chiedere un provvedimento del genere bisogna portare le prove che sia assolutamente necessario, e per dimostrare che è assolutamente necessario dovremmo avere già praticamente provato il reato. E anche così non è detto che ci autorizzerebbero. Dovrebbero dirtelo, quando inizi a fare il poliziotto: entri pensando che sgominerai i cattivi, e poi scopri che il tuo maggior nemico sarà la burocrazia.»

Per un attimo mi immagino una schiera di supereroi in calzamaglia il cui superpotere consista nella capacità di produrre ricorsi o documenti formali alla velocità della luce, per ridurre al minimo le tempistiche dei tribunali, della sanità o dell’assistenza sociale. Ghostwriter iperspecializzati morsi da un burocrate radioattivo. Quelli sì che aiuterebbero, altro che Spiderman.

«Okay, quindi allo stato attuale la cosa migliore che possiamo fare è cercare di scovare i messaggi», riassumo. «Tantopiù che se riuscissimo a leggerne anche solo uno forse potremmo anticipare gli scagnozzi di Mastrofanti e arrestarli.» Sento Berganza annuire. «La conclusione più logica è che quelli che riceve li bruci dopo averli letti.»

«Ma la casa è priva di portaceneri e soprattutto di accendini e fiammiferi», conferma Berganza. «Con la scusa che il medico gli ha proibito di fumare.»

«Ha pur sempre i fornelli in cucina.»

«La badante gli prepara da mangiare cose che poi lui si scalda con il microonde. Sappiamo esattamente in che fascia del giorno il gas di casa sua viene usato e da chi.»

«Vuole dirmi che Mastrofanti non tocca i fornelli? Mai?»

«Perché si stupisce tanto, Sarca? È praticamente quello che fa lei.»

Sorrido. Di nuovo, sono certa che sta sorridendo anche lui.

«Certo, di quando in quando gli capita di accendere un fornello, ma molto di rado: lo sappiamo perché il suo contatore fa uno scatto. Il che significa che, se anche bruciasse i messaggi, lo farebbe ogni tot giorni. Il che, a sua volta...»

«...Significa che ci sono dei lassi di tempo in cui quei messaggi si accumulano dentro casa sua prima di essere bruciati tutti insieme, e quindi bisogna capire dove. E io, guardando queste foto, dovrei aiutarla a immaginare i nascondigli.»

Il commissario tace, cioè annuisce.

«Certo, potrebbe essere anche che sminuzzi i pizzini di carta nel water...»

«...O che li mangi. Un tizio che ho preso nel 2008 lo faceva», sospira Berganza. «Tutto è possibile. Non sai mai cosa riescono a inventarsi, questi.»

Bene. Così a quanto pare alla fine la mia missione l’ho avuta. Quanto mai pretestuosa e complicata, ma se la vita ti dà limoni eccetera eccetera. E poi è la mia unica possibilità per lavorare col commissario, quindi col cavolo che conterò i denti del caval donato.

C’è un attimo di pausa in cui io finisco di pensare ai misteriosi messaggi di Mastrofanti e a dove potrebbero nascondersi, Berganza evidentemente no.

«Cambiando argomento... è andata bene, ieri, vero?» riprende infatti dopo un attimo, con cautela.

Uh oh.

«Intendo, ieri a casa di Ofelia. Sì, insomma, ieri al compleanno. Uh... Morgana si è divertita?»

La sta prendendo larga. Okay. Okay. Posso farcela. La prossima domanda sarà se mi sono divertita io, ma mi sta concedendo del tempo e posso escogitare una linea di fuga.

«Sì, certo. Mi ha detto di essersi trovata molto bene. D’altra parte l’ha vista anche lei.»

«E lei s’è divertita, Sarca?»

«Be’, ha visto anche me.»

«Quindi si è divertita?»

Cazzo. Mai giocare alle domande con uno che di mestiere fa interrogatori. «E lei, s’è divertito?»

«Gliel’ho chiesto prima io.»

«Cavolo, quindi non si è divertito?»

«No, no, certo che mi sono divertito, Sarca, anzi... è stato davvero un bellissimo compleanno. Grazie.»

Fortunatamente mi sono ricordata in tempo che anch’io li faccio, gli interrogatori.

Berganza si schiarisce la voce. «Ofelia ha dei modi un po’ spicci, ogni tanto...»

«Quindi ha parlato con Ofelia?! Cosa le ha de...»

«...Ma credo che lei le sia piaciuta. Cioè, mentirei se dicessi che Ofelia l’ha dichiarato apertamente, perché Ofelia non lo farebbe mai, non sarebbe da lei; ma da come si è comportata direi che ieri è stata anche per lei una bella giornata.»

Ah.

Ecco.

Ora. Per un nanosecondo, uno di quei nanosecondi incredibilmente densi, come l’universo compresso prima del Big Bang, la mia mente sviluppa un’ipotesi assurda. C’è qualcosa, da qualche parte dentro di me, là dove conservo ancora una scintilla di distacco nel giudicare e interpretare i fatti che mi riguardano in prima persona, che mi fa pensare che Berganza stia indagando non tanto per capire se io mi sia divertita o se abbia avuto l’approvazione di Ofelia, quando per capire se Ofelia abbia avuto la mia.

Poi mi ricordo che 1) Ofelia è la sua famiglia, la persona più importante che il commissario abbia nella vita, 2) quando si tratta di giudicare con obiettività roba che mi coinvolge, sono più ottusa di un celenterato. Quindi mi dico immediatamente che Berganza non può che stare accertandosi che io abbia avuto l’approvazione di Ofelia, che poi è la cosa più normale. E il casino è che Berganza potrà non saperlo, ma io l’approvazione di Ofelia col cavolo che l’ho avuta.

Così ora ho tre possibilità davanti.

1) Eludere. Dire a Berganza che non lo so e di chiedere direttamente a sua sorella.

Conseguenze:

Berganza va, appunto, a chiedere a sua sorella.

Sua sorella: «Be’, visto che me lo chiedi», e gli dice quello che ha detto a me, cioè che mi vede come una persona normale di solito vede la deiezione canina che le si è appena appiccicata alla scarpa.

2) Mentire. Dire a Berganza che ho avuto con Ofelia una piacevole chiacchierata e che, sì, non posso giurarlo, naturalmente, ma mi è parso che nell’insieme anch’io fossi piaciuta a Ofelia.

Conseguenze:

Berganza va da sua sorella e si lascia sfuggire un ignaro e sereno: «Allora sabato ti sei trovata bene con Vani, vero?».

Sua sorella: «Be’, visto che me lo chiedi», e gli dice quello che ha detto a me, cioè che mi vede come un chirurgo vede il moccio nasale dell’infermiere che ha appena starnutito fuori dalla mascherina dritto sulla sua incisione addominale.

3) Confessare. Dire a Berganza che no, a sua sorella non sono piaciuta per un cazzo.

Conseguenze:

Berganza va da sua sorella e le dice: «Di’ un po’, è vero che Vani non ti è piaciuta per niente?».

Sua sorella: «Be’, visto che me lo chiedi», e gli dice quello che ha detto a me, cioè che mi vede come una donna delle pulizie vede le impronte di fango appena lasciate dagli inquilini dell’ultimo piano per tutte le scale che lei ha appena lavato.

Ah, no. C’è un’alternativa.

Sua sorella risponde: «Certo che no, te l’ha detto lei? Davvero ha paura di non essermi piaciuta? Cosa si è messa in testa? Con tutto il rispetto, ma penso che quella tua amica stramba sia un po’ paranoica. O forse vuole smettere di frequentarti e cerca di dare la colpa a me, Dio non voglia». Dopodiché cerca mille modi creativi per farmela pagare.

Tutte le strade portano a Roma.

Cioè portano me in una specie di fossa settica esistenziale.

Ma poi: perché a Berganza dovrebbe importare qualcosa, se a sua sorella piace la sua amica, o viceversa?

E qui scopro che c’è una forza più grande e potente di tutti noi, una forza provvidenziale e salvifica che tutto risolve, anche nei vicoli ciechi più ostici e bui: il tempo. Già, perché a furia di rimuginare ho fatto passare talmente tanto tempo dall’ultima frase di Berganza che il commissario deve aver pensato che io non osassi commentare per scaramanzia, per paura di ammettere che io a Ofelia possa essere piaciuta davvero, e così alla fine cambia argomento per levarmi d’impiccio.

«Comunque dica a Morgana che la prossima volta lei e Ivano dovranno farci sentire cos’hanno scritto proprio sotto il nostro naso», dice appunto il commissario.

«Lo farò. Morgana ha giusto bisogno di prendere dimestichezza con l’esibirsi in pubblico», replico.

Ci salutiamo e finiamo la telefonata neutri come due che parlano del tempo in ascensore.

E io non so se sentirmi sollevata o solo preoccupata per aver rimandato il problema, notando che Berganza ha parlato di una «prossima volta».