21.
EROI

Pensare che io la tivù manco la guardo. E adesso ci sono dentro.

«Ricordami cosa ci facciamo qui», sibilo a Riccardo mentre mi guida verso l’ingresso ospiti dello studio televisivo in cui Marotta verrà intervistato fra qualche decina di minuti.

Me li aspettavo più sciccosi, gli studi della tivù. Questo posto si trova in un grande cortile interno di un ex complesso industriale, ha muri in cemento grezzo, rampe per carico e scarico, ufficetti ritagliati con pannellature mobili e illuminati da neon da mensa molto poco glamour. Ci sono lucette colorate dappertutto che segnalano cosa sta andando in onda, cosa viene registrato, dove si può fare rumore e dove no – una pletora di codici steganografici che non sono addestrata a riconoscere. Il corridoio principale che si snoda dall’ingresso ai set è stato dipinto di fucsia in uno sforzo di creatività, ma solo fino a un metro e mezzo d’altezza. Qua e là dei poster senza cornice o delle foto di vip stampate su carta da fotocopie e fissate al muro con dello scotch cercano di ricordare ciò che questo luogo ha fatto per la storia dei media. Nell’insieme però sembra un po’ il capannone di un carrozziere, un po’ l’entrata posteriore di una palestra scolastica.

La receptionist ha l’aria stressata. Per forza: ha appena ricacciato in sala trecento spettatori, di quelli che vengono in pullman dalla provincia per comparire nelle riprese. È come ricondurre all’ordine trecento bambini in gita. Ha una giacca dalle maniche leggermente troppo lunghe e si vede lontano un miglio che muore dalla voglia di arrotolarsele. Mi correggo: è così stressata che l’impressione è che, potendo, le maniche se le strapperebbe a morsi. Mi ricorda vagamente Olga. Poi vede Riccardo e sulla faccia le si dipinge l’espressione che dicono abbiano i moribondi nel momento in cui gli appare il tunnel di luce.

«Ma lei non è...?»

«Oggi faccio semplicemente parte dello staff di Edoardo Marotta», la interrompe Riccardo pacato, modesto, mostrandole la carta d’identità. «Vorremmo solo assistere all’intervista da dietro le quinte. Le seccherebbe...» – getta un’occhiata al cartellino appuntato sulla giacca da grande magazzino – «...Rosangela, fare in modo che non si sparga la voce?» E le sorride complice.

Mi giro per non assistere allo spettacolo indecoroso che si verifica ogni volta che Riccardo sorride a una femmina impreparata.

«E lei, signorina, è...?» mi chiede Rosangela non appena ripresasi. Ripresasi bene, a giudicare dall’occhiata al laser con cui mi squadra da testa a piedi.

«La mia fidanzata», dice Riccardo.

Guardo Riccardo con occhi traboccanti di scandalo.

Rosangela guarda me con occhi traboccanti di scandalo.

«Okay, è un killer a pagamento. L’ho assoldata per uccidere Marotta se il suo indice di gradimento dovesse superare il mio», dice Riccardo strizzandole l’occhio.

«Sei un idiota», gli sibilo non appena sgusciamo nel corridoio sul quale si affaccia lo studio del talk show.

«Per la storia del killer? Pensavo apprezzassi l’anonimato», dice Riccardo.

«Non fare finta di non capire.»

«Mi stai facendo una scenata perché ho fatto l’occhiolino a una donna? Mi piace.»

«Sei un idiota.»

Il pubblico sta ancora sistemandosi. La sala frigge di un lieto brusio. I cameraman si stanno rimettendo le cuffie per riprendere la registrazione dopo l’intervallo. Il programma va in onda in leggera differita e la pausa fra una sezione e l’altra del talk show nella realtà dura più dei pochi minuti della pubblicità. La differita è comunque troppo ridotta perché l’intervento di Marotta possa essere tagliato se si comporta di merda (è la prima domanda che ho fatto).

Il conduttore rientra in studio lisciandosi il completo sul petto. Ci passa di fianco senza nemmeno notarci e io sbarro gli occhi. «Quello lo conosco!» esclamo, ma piano.

«Per forza, tutta Italia lo conosce. È Ottavio Castaldi, fa televisione da trent’anni, credo che sia un filo meno famoso di Gesù, ma solo perché non in tutto il mondo prendono le tivù italiane.» Riccardo ci pensa un secondo. «E lui e Gesù lavorano anche per la stessa azienda, mi sa, visto che Castaldi è noto per essere un cattolico super conservatore. Anzi, diciamocelo, proprio un baciapile.»

«No, io intendevo dire che lo conosco proprio. Cioè, ho lavorato per lui, qualche anno fa.»

«Vuoi dire che il suo libro...? Uh. Sono quasi geloso. Odio tutti gli autori che hai avuto prima di me.»

Lo guardo con l’aria esasperata che si merita uno che ti sta facendo battute gratuite a sfondo sentimentale da mezz’ora.

«Ecco gli ospiti», sillaba.

Il pubblico è tornato di colpo attento e ora sta applaudendo. Tre persone stanno entrando nello studio. Una è una biondina che credo di avere visto su qualche cartellone pubblicitario. Non sono certa di riconoscerla solo perché sul cartellone pubblicitario non era il viso la parte anatomica che di lei veniva maggiormente messa in risalto. Il secondo è un uomo alto dai capelli lunghi e brizzolati legati in una coda. Indossa una camicia di lino con collo alla coreana, di un bianco così bianco da causarmi una fitta alle retine.

Il terzo è Marotta.

Lo studio è allestito in una maniera che nel resto del mondo ha smesso di essere originale nel 1990. Su imitazione dei vari Letterman e Leno, c’è una specie di cattedra sulla destra, alla quale sta seduto Castaldi, mentre sulla sinistra, anziché lo scontato divanetto, in uno slancio di originalità sono state posizionate tre poltroncine, di quelle tonde e con un basso schienale-bracciolo che funziona alla perfezione per segarti in due la colonna vertebrale. Forse i produttori del programma vogliono essere certi che gli ospiti non siano tentati di trattenersi un istante in più del dovuto.

La bionda si siede appoggiandosi mollemente allo schienale con un braccio e allungando dalla parte opposta le gambe accavallate. Sembra una sirena. Se lo schienale le sta tranciando i fasci nervosi della metà sinistra della schiena, lei è l’unica a saperlo, perché dal suo radioso sorriso non trapela alcuna sofferenza.

Il fricchettone si deposita sulla poltroncina con maschia nonchalance, allargando gli avambracci lungo il bordo dello schienale e assumendo la posa, per proseguire nella metafora marina, di un gabbiano ad ali mezze spiegate.

Marotta si avvita in punta alla poltroncina. L’area di contatto fra i suoi pantaloni e il sedile sarà sì e no di cinque centimetri quadrati. Poi accavalla le gambe e si annoda le dita delle due mani sopra il ginocchio.

Sembra impalato sopra un dente di narvalo.

Cominciamo bene.

Castaldi saluta e inizia a presentare gli ospiti. Trattandosi della rubrichina culturale di metà programma, i tre prescelti sono tali in quanto autori di libri. Quello della bionda, freschissimo di stampa, si intitola Giro del mondo in cerca di me e racconta dell’impresa che l’ha vista protagonista lo scorso anno: da frivola valletta, a seguito di quella che lei ha definito «la Chiamata» si è trasformata in avventurosa esploratrice delle zone più discusse e disastrate del mondo. Ha visitato le favelas di Rio, le periferie di Calcutta, i villaggi del Centrafrica. Intento: ritrovare sé stessa e fare opera di denuncia e informazione sociale. Per essere proprio proprio sicura di adempiere bene a questa seconda missione, la bionda si è fatta seguire da un pool di cameraman che hanno documentato in tempo reale le sue esplorazioni, rendendone così possibile la divulgazione a cadenza settimanale in un apposito reality show che ha dominato il palinsesto degli ultimi mesi.

Codalunga invece è un teorico della vita illuminata. Il suo manuale si intitola Io dentro Dio e mira a fornire all’uomo occidentale le chiavi per comprendere gli errori che sta commettendo e la guida per ritrovare la giusta direzione. È articolato come un dizionario, dalla a di amore alla z di aenzero (perché le istruzioni di igiene esistenziale vanno da princìpi di varie tradizioni spirituali ai trucchetti nutrizionali per sentirsi sempre in forma). Per la sua ricerca, Codalunga ha viaggiato in Oriente e in Sudamerica; ora si sta sporgendo verso il generoso décolleté della bionda per esaminare il ciondolo etnico che ella indossa e che sicuramente, a giudicare dal sommesso chiacchiericcio in cui i due indulgono fino a qualche secondo prima dell’inizio dell’intervista, ricorda a entrambi un qualche paese esotico.

Marotta fissa un punto nel vuoto.

Biondina e Codalunga vengono intervistati per primi. Marotta continua per tutto il tempo a fissare lo stesso punto nel vuoto. La buona notizia è che, se un giorno il museo delle cere di madame Tussaud gli dedicherà una statua, sarà un capolavoro indistinguibile dall’originale.

Fino a quando Castaldi si rivolge direttamente a lui. «Professor Edoardo Marotta», esordisce, quasi esclama. «Diamo il benvenuto al protagonista del caso editoriale più clamoroso dell’anno!»

Il pubblico applaude entusiasta – un po’ per Marotta, un po’ perché c’è una scritta lampeggiante che chiede APPLAUSI e ha un effetto imperativo.

«Be’, dell’anno... siamo solo a metà febbraio», ridacchia Codalunga. Il concept è «intervista informale», ossia: i personaggi più impertinenti possono permettersi di intervenire anche quando ufficialmente il loro tempo è scaduto. Naturalmente Marotta non ha detto una parola durante le porzioni di rubrica dedicate ai primi due ospiti.

E invece, adesso: «Magari questa sarà un’annata scarsa», ribatte senza esitare Marotta a Codalunga. «Io non saprei, è lei quello che s’intende di oroscopi.»

Codalunga rimane un istante interdetto. Probabilmente non s’aspettava che il tizio secco col naso adunco sapesse anche parlare.

Riccardo mi dà una gomitatina.

Io naturalmente mi scanso, ma ho gli occhi fissi sul palco.

«Professor Marotta, lei è un personaggio unico», riprende Castaldi, mentre qualcuno fra il pubblico finisce di ridacchiare. «Abbiamo già tutti letto sui giornali chi è lei e della sua incredibile storia. Un autore che credevamo morto, e che invece ora in qualche modo risorge...»

«Mah, proprio lei, definirmi unico», dice Marotta, la stessa identica espressione sprezzante di un istante prima. «Ce n’è almeno un Altro, famoso, che è risorto, che non sarebbe mica felice di sentirla parlare così.»

Riccardo mi dà un’altra gomitatina.

Se Marotta continua a lanciare frecciate, a fine intervista io avrò il braccio livido e Riccardo un occhio nero.

Ma la gente ha riso.

«Non starà esagerando?» sussurro. «Castaldi non ha detto nulla di provocatorio. Il fatto che lui e quell’altro fricchettone in studio gli stiano semplicemente sulle palle non giustifica...»

Riccardo mi fa segno di stare zitta. La gente ha riso. Fine del discorso.

«Mi dica», continua Castaldi dopo essersi ripreso dalla frazione di secondo di stupore che la battuta sul suo ipercattolicesimo gli ha causato. «Com’è stato fare il ghostwriter di Ruggero Solimano? La maggior parte di noi non riesce nemmeno a immaginare come possa essere, scrivere un libro che poi viene firmato da qualcun altro. Un libro così corposo e impegnativo, poi. Bisogna forse non tenerci troppo, al libro che si scrive, per riuscire a cederlo?»

«Al contrario», dice Marotta. «È proprio perché tenevo al mio libro che ho accettato di affidarlo a Solimano. Vede, Solimano era un personaggio: imponente, comunicativo, dalla risata contagiosa. Io gli ho dato il libro perché sapevo che nelle sue mani avrebbe prosperato più che nelle mie. Un po’ come...»

«...Un po’ come quando un re è anziano e abdica a favore del figlio per il bene della nazione», conclude Castaldi, che ha preso ad annuire già a metà della risposta di Marotta. È quello che fanno i conduttori quando decidono che sei noioso e non vedono l’ora di interromperti.

«...Pensavo dicesse “come Mosè”», ribatte Marotta, interrompendo a sua volta Castaldi mentre è intento a raccogliere gli sguardi di approvazione per la brillante metafora. Castaldi si gira. «Ma sì», continua Marotta, «Mosè che viene affidato al Nilo, e quindi al faraone, dai genitori perseguitati che sanno che così camperà meglio.» La metafora di Marotta è più brillante di quella di Castaldi. Marotta sorride. «Ma di sicuro non devo spiegarlo a lei. Sappiamo che è cintura nera di catechismo.»

Uh oh.

Il pubblico ride, di nuovo e di più.

Castaldi esita, con un mezzo ghigno di cemento, come a chiedersi se poterla considerare ancora una battuta e andare avanti.

Alla fine opta per il sì. «Parliamo un momento dei contenuti del suo romanzo. Cosa l’ha spinta a dedicarsi a una storia così poco nota? Non è un episodio del risorgimento che ricordino in mol...»

«Oh, su, Castaldi, le Cinque Giornate e la prima guerra d’indipendenza sono roba che si studia a scuola. Se lei giocava con le macchinine anziché stare attento in classe, se vuole dopo possiamo fare insieme un ripassino sul sussidiario.» Dopodiché Marotta se la ride da solo, perché è da quando è cominciata questa storia che non vede l’ora di mandare a quel paese chiunque gli abbia mai fatto questa stessa domanda e ora si è palesemente liberato di un peso.

E, siccome ha riso, il pubblico ride con lui.

Riccardo fa per darmi un’altra gomitata ma io che l’ho immaginato mi scanso. Tuttavia si gira anche a guardarmi con un sorriso raggiante, e, maledizione, quello non lo posso ignorare.

«Cosa gli abbiamo fatto? È un rullo compressore!» mi sussurra.

«Sharon, lei l’ha letto Verrò a trovarvi sul lago?» chiede Castaldi a bruciapelo alla bionda, perché è così che si fa quando ci si sente affrontati, si tira dentro un terzo, possibilmente uno debole, in modo da potersi rivalere su di lui, all’occasione.

«Confesso di no», ammette la bionda alzando le spalle. «Quando è uscito io avevo otto o nove anni, ero ancora troppo piccola...»

«Lei sa che esiste la possibilità di leggere libri scritti anche nel passato, vero?» chiede Marotta. «Voglio dire, è così che funziona la stampa. Il libro viene, come dire, fissato e lo possono leggere anche le persone che vengono, sa, dopo.» Risate. La sta evidentemente, cioè, evidentemente per me, trattando come deve trattare di solito i suoi studenti più scemi.

Riccardo deve accorgersi che improvvisamente la mia espressione si è fatta catatonica, perché mi rifila un’altra piccola gomitata. Anzi, no, non è una gomitata: mi sta proprio toccando il braccio. «Tutto bene?»

«Ti piace quello che vedi?» chiedo indicando ciò che sta avvenendo sul palco, il che fra le altre cose è anche un ottimo modo per divincolare il braccio.

«Da morire», annuisce Riccardo. Mi sorride. Non ero preparata. «Che c’è, a te no?»

Aggrotto la fronte. «Non so. So che dovrebbe. So anche che quella bionda è un’idiota e se lo merita, di essere trattata male da Marotta. Però, non so. Mi sento come se l’avessimo sbattuto in guerra.»

«Sì, solo che adesso è diventato John Rambo. Che succede? Tutto questo ti mette a disagio?» Socchiude gli occhi, sornione. «Non mi starai mica diventando buona

E all’improvviso mi coglie questa bizzarra consapevolezza, come una sospensione temporale, una di quelle esperienze di pre-morte in cui la tua anima si appiccica al soffitto e vede tutto dall’alto, te stesso compreso. Vedo Enrico ripetere una, due volte, che io e Marotta siamo uguali. Lo sento affermare da Marotta e anche dalla mia stessa voce. Ora Marotta ha trovato la sua identità, quella della iena assetata di sangue, e non si può nemmeno dire che sia un errore, perché, tecnicamente, è palese che Marotta non si sia mai sentito così libero, così sé stesso.

Bene. Niente in contrario.

Solo che, caro professore col riporto, mi sa che le nostre strade si dividono qui.

Che Marotta se ne vada pure incontro alla sua realizzazione brandendo la scimitarra, facendosi con entusiasmo terra bruciata intorno, rincorrendo il suo successo come un rottweiler il postino. Ha la mia benedizione, è sicuramente la strada giusta per lui; solo, ora mi accorgo di quanto poco lo sia per me. Perché a me la gente farà mediamente schifo quanto a lui, e questo, okay, lo possiamo concedere; anch’io avrò provato un perfido piacere nello svergognare Castaldi a mio tempo, o nel tappare il becco a qualche sciacquetta con la segatura nel cervello, e dubito che nel breve periodo cambierò idea e mi trasformerò in una hippie esaltata piena d’amore per il Creato tutto, che abbraccia compulsivamente uomini, donne, bambini, cani e alberi. Però – ora l’ho capito – io non voglio nemmeno vivere esclusivamente per vincere o essere vinta. Per attaccare o essere vittima. Per umiliare o sentirmi umiliata. Per essere in guerra e mai in pace. Marotta ha appena scoperto l’ebbrezza del buttarsi nel mondo a spada sguainata; io lo faccio da sempre e adesso mi accorgo di quanto sterile e sfiancante stia diventando.

Questa è la verità. Pura e semplice.

Forse inizio ad averne abbastanza di vivere in guerra.

Forse a me un po’ di pace non farebbe più tanto schifo.

Quindi buona fortuna, al professore e anche a me, ognuno per la sua strada. Alla fine, dopotutto, non è vero che siamo così uguali.

Uno strano senso di liberazione mi dilaga dentro come quando bevi del punch bollente.

La voce di Codalunga mi riporta sulla crosta terrestre. «No, lo confesso, nemmeno io», sta sbuffando. Castaldi deve avere chiesto anche a lui se abbia mai letto Verrò a trovarvi sul lago. «E, il professor Marotta non me ne voglia, ma la mia è stata proprio una scelta. Ho preferito fare altro che sorbirmi un lunghissimo romanzone d’intrattenimento.» Uh oh. Okay. È evidente che, vista la débâcle della sua amica bionda, Codalunga ha deciso di buttare nel cesso la sua maschera di profeta del pacifismo e di attaccare per primo. Evidentemente anche lui conosce l’arte del combattimento. «E poi, un romanzo su una guerra, abbia pazienza. Su questi eroi risorgimentali, tutti così bellicosi, invasati, no, no. Nulla di personale, eh, è chiaro che al mondo c’è posto per tutti, ma io ho altri interessi, preferisco approfondire altre cose, che riguardino la qualità della vita, la sopravvivenza di questo nostro povero pianeta, l’ecologia, gli animali...»

«Già, certo», annuisce Marotta. È allegro. Ha la faccia di uno che ha appena incassato bene la prima critica della sua vita. Chiaramente, che c’è qualcosa sotto. «Lo capisco, è giusto. A ognuno il suo settore. Anzi, le posso fare una domanda io?»

«Ma sicuro», gongola Codalunga.

«Il tema del rispetto della natura in realtà tocca molto anche me. Posso chiederle se sa chi fu il primo storico promotore della Società per la protezione degli animali in Italia?»

Codalunga si schermisce, con un sorriso compiaciuto. «Purtroppo non arrivo a tanto, ma non...»

«Benissimo. Glielo dico io: è stato Giuseppe Garibaldi.»

Coretto di «oh» e «ah» e «ma dai» in sala, stupore sui volti di Castaldi e persino della bionda. E anche di Codalunga, anche se non è un bel genere di stupore.

«Lei dice di essere uno che approfondisce», sussurra Marotta chinandosi un pochino verso di lui, quasi compassionevole, a dargli un consiglio da amico. «Allora approfondisca. Prima di giudicare quelli che sono stati, veramente e a tutto tondo, dei modelli e degli eroi della nostra storia.» Poi torna a sedersi dritto come un fuso, e ha una faccia così serena e superiore che dal pubblico scoppia un focolaio autonomo di applauso, che si seda solo quando la gente si accorge che la scritta APPLAUSI non si è affatto illuminata.

Accanto a me, Riccardo sta ridendo di cuore, una di quelle risate trionfali e rilassate che fai quando vinci un rally e sei felice contemporaneamente di avere vinto e di non essere morto.

Io ci penso un attimo e mi accorgo che, in effetti, non solo non siamo morti, ma è proprio così: abbiamo vinto. Abbiamo vinto, anche se è una vittoria di cui ho appena deciso che non mi vanterò mai.

Quando l’intervista termina, non appena l’insegna lampeggiante di turno annuncia che le telecamere sono spente, Castaldi si alza di scatto e marcia verso i camerini senza salutare nessuno. Codalunga sgattaiola via evitando di guardare il pubblico; quanto alla bionda, nemmeno la vedo andarsene – è possibile che dopo la figuraccia si sia semplicemente disintegrata sulla poltrona. Marotta invece cammina verso di noi e fa in tempo a ricevere un pollice alzato e un sorriso radioso da parte di Riccardo prima che la receptionist ci sospinga tutti verso un camerino che si apre lungo il corridoio (è preoccupata che il pubblico in libera uscita per l’intervallo riconosca Riccardo e lo assalga. Quanta premura).

Nel camerino ci troviamo Olga. «Non riesco a crederci», esordisce. «Professore, è diventato un mattatore senza inibizioni!» Si gira verso me e Riccardo. «Come avete fatto?»

«Merito suo», diciamo contemporaneamente io e Riccardo indicandoci a vicenda. Lui ride. Io sbuffo.

«Sei qui per riferire a Enrico?» chiedo a Olga, mentre mi accascio su una sedia e mi rendo improvvisamente conto di essere stanca come quando nel mio condominio si ruppe l’ascensore.

«Be’, sì, anche», ammette la ragazza, «ma non solo. Ci sono un paio di cose che volevo dirvi di persona.» Si schiarisce la voce, cerca delle carte nella borsa. Noi la guardiamo, in attesa.

«Ecco, la prima è per lei, professore», dice Olga porgendogli un foglio. Marotta lo esamina, inizialmente senza capire.

Egregio Direttore Editoriale,

è con grande entusiasmo che Le sottopongo il manoscritto che troverà allegato a questa lettera. Lasci innanzitutto che mi presenti: mi chiamo Ruggero Solimano...

Marotta solleva lo sguardo su Olga. La quale si schiarisce la voce di nuovo. «Professore, si ricorda del giorno in cui ha conosciuto la dottoressa Sarca, nella sede delle Edizioni L’Erica, e le ha raccontato di quando Solimano le ha rubato il manoscritto?»

«Come fosse ieri», dice Marotta.

«A un certo punto lei ha detto che una delle ragioni che l’ha convinta ad accettare la proposta, anzi, la truffa di Solimano, era che Solimano le aveva detto di essere un vecchio amico del direttore editoriale dell’epoca. Che, siccome lui e l’editore si conoscevano già, magari gli avrebbe pubblicato il libro per fargli un favore, perché è così che funziona nella grande editoria, si va per conoscenze, per fiducia personale, mentre lei, un anonimo professore di provincia, da solo non avrebbe avuto alcuna speranza di farsi notare.»

«È vero», ricorda Marotta.

Olga sorride. «Ecco. Rimettendo a posto i materiali d’archivio ho trovato questa lettera, che è evidentemente la lettera con cui Solimano ha contattato l’editore per presentare sé stesso e il manoscritto. E, come vede, non è affatto vero che si conoscessero da tempo. È stata solo una delle bugie che Solimano le ha raccontato per convincerla a cederle il romanzo. Ma significa anche che Verrò a trovarvi sul lago non è affatto stato pubblicato perché Solimano era amico dell’editore. Verrò a trovarvi sul lago è stato pubblicato solo perché era un capolavoro.»

Marotta la fissa. Serra i denti.

«Quindi avrei potuto davvero presentarlo io», sussurra. «Sconosciuto per sconosciuto, avrei potuto essere io a inviarlo all’editore, non Solimano, e sarebbe stato accettato lo stesso...» Si massaggia la fronte con una mano.

«Già», mormora Olga, gentile. Vedi, quando non c’è Enrico che la inibisce. Ha un bel modo delicato di fare. Dice le cose come stanno, ma con dolcezza. Se Enrico non la costringerà a indurirsi come una crosta su un ginocchio, un giorno potrebbe diventare un’ottima caporedattrice. «Ma la veda in questo modo: ora sa di non avere mai avuto alcun debito con Solimano. Verrò a trovarvi sul lago si è fatto notare da solo. Solimano avrà poi contribuito a procurargli l’immenso successo che ha avuto, con la sua verve e la sua parlantina, ma il fatto che sia stato apprezzato e pubblicato si deve solo alla scrittura di Edoardo Marotta. E questa, professore, è la prova definitiva che lei può rifarlo, che non le serve veramente nessun altro se non sé stesso, e che la sua bravura è tutto ciò di cui ha bisogno.»

Marotta deglutisce, poi, senza dire niente, esce nel corridoio. Scommetto i miei rossetti viola che non vuole farsi vedere piangere.

«E a questo punto», prosegue Olga, «c’è una cosa che volevo dire a te.»

«Te», stavolta, sarei io. Non riesco a ricordarmi se ci dessimo del tu o del lei, ma mi sembra giustissimo così. La guardo come per farle segno di dire pure, ma lei esita. Prima mi si avvicina, con le mani intrecciate, e poi, dato che io sono seduta, o meglio disciolta come piombo fuso sulla sedia, si accovaccia per guardarmi negli occhi, da pari a pari, anzi, un po’ da sotto in su.

«Ho finito di leggere Il rosso regge bene il sangue.»

Ora ha tutta la mia attenzione.

«Ed è... bellissimo.» Sorride. Giurerei che si inumidiscano un po’ gli occhi anche a lei. «Semplicemente meraviglioso. Sul serio. È un romanzo straordinario. Marotta aveva ragione.»

«Quindi abbiamo davvero lavorato per una buona causa», conclude Riccardo avvicinandosi anche lui e mettendomi una mano sulla spalla.

E ce ne stiamo così, per un momento, una triade di eroi del cavolo di questo assurdo mondo di carta, che una volta pensavo fosse un rifugio e un porto sicuro, e invece è la cosa più spossante alla quale abbia mai preso parte, forse anche più che la vita vera.