3.
SORPRESE

Arrivo a un isolato dal mio palazzo e telefono a Morgana. «Sto arrivando, sei pronta?»

«Scendo subito», esclama la mia controfigura in miniatura, la quindicenne dark e secchiona che Dio ha voluto mettere a vivere nell’appartamento sopra al mio, forse per farmi sentire meno sola, nel caso Dio sia buono, o meno unica, nel caso non lo sia. Quali che fossero le intenzioni di Dio, a me è andata bene, perché Morgana mi piace, e lei addirittura mi idolatra.

Contenta lei.

«Ricordati la chitarra. Laura è già lì?»

«Nessuna delle due si è scordata, ah ah.»

«Morgana, sarai anche la mia erede spirituale, ma sia chiaro che le battute cretine e gratuite le faccio solo io.»

Morgana tace.

Accosto al marciapiede sotto la mia palazzina proprio mentre Morgana, cappotto nero e lungo su imitazione del mio e custodia nera della chitarra in spalla, e la sua amica Laura escono dal portone. Solo che, anziché individuare la mia macchina e trotterellarle incontro come mi aspetterei, si mettono di colpo a guardarsi i piedi e a confabulare animatamente.

«Che diavolo succede?» chiedo sporgendomi.

Non si stanno guardando i piedi. Stanno indicando qualcosa per terra.

«Vani! Vani, presto, vieni a vedere!»

Sospirando, scendo dalla macchina e guardo per terra anch’io.

«È per te, vero? È sotto casa nostra, certo che è per te!»

Qualcuno ha dipinto sul marciapiede una gigantesca freccia viola che punta verso l’isolato più avanti. Sopra la freccia, sempre in viola, ci sono le lettere x vs.

Per Vani Sarca. Non ci vuole un genio.

«Indica di là!» esclama Laura che sta già saltellando in quella direzione.

«Oh mio Dio.»

«Devi seguirla! È per te!» mi incita Morgana. «Ma chi può averla fatta?»

«Lo so io», bofonchio, facendo per tornare all’auto.

«Venite! Qui c’è la seconda!» chiama Laura che è già schizzata avanti.

Col cavolo che mi seguiranno in macchina, anche se dico che non ho nessuna intenzione di stare al gioco. Tanto vale dar retta a loro e alle maledette frecce.

Che ci portano per circa mezzo chilometro verso il centro di Torino. Qualcuno, questa mattina, mentre Morgana e Laura erano a scuola e io all’appuntamento con Enrico, deve essersi preso la briga di marchiare i marciapiedi di Torino centro-nord con le mie iniziali, sotto gli occhi dei passanti perplessi.

«Là! Guarda! La prossima dice di girare all’incrocio!»

Che imbarazzo.

Se almeno Laura e Morgana stessero buone.

Il fatto è che è evidente chi sia l’autore della bella pensata. Perché, con ogni probabilità, è l’autore anche di quell’altra pensata, quella che ha caratterizzato tutto il mese di gennaio e che ha strappato esclamazioni incredule non solo alle due ragazzine ma a ogni occupante del nostro condominio.

L’ho già detto che imbarazzo? Mai abbastanza.

È iniziata il 3 gennaio, quando Riccardo ha inviato le prime tre rose rosse. Il postino me le ha recapitate a domicilio, e c’era un biglietto. Come ti ho detto, c’era scritto sopra. La notte precedente Riccardo si era fatto trovare sotto casa mia per avvertirmi di prepararmi psicologicamente, perché avrebbe fatto qualsiasi cosa per riconquistarmi. Il giorno dopo: tre rose.

Gestibile. Tre rose le butti e finita lì.

Il giorno dopo ancora, quattro.

Il cinque gennaio, indovina indovinello.

E poi sei il sei.

Sette il sette.

Il giorno quindici, un altro biglietto. Se hai finito i vasi e vuoi farmi smettere, dimmi che accetti di uscire a cena con me.

Dal giorno venti in poi, ho dovuto fare quotidianamente avanti indietro dai bidoni della differenziata, nello specifico quello marrone, ossia «Sfalci e potature». Mi sono pure dovuta informare, non l’avevo mai usato prima. Incredibile quanto debba essere capiente un sacco della spazzatura per contenere trentun rose.

Il primo febbraio nessun fattorino ha consegnato nulla. Nemmeno un biglietto. Pensavo che Riccardo si fosse stufato, cioè, no, non lo pensavo davvero, perché Riccardo sa che io sono tenace e io so che lo è anche lui, però ecco, ci speravo, che l’avesse finita con i suoi giochetti stupidi, buoni solo a strappare sospiri palpitanti a Morgana e a Laura ogni volta che mi intercettavano imprecante con un sacco di vegetali morti in mano.

Ora però sono spuntate le frecce e ho capito che col cazzo che Riccardo ha gettato la spugna. A quanto pare, ha solo cambiato tattica.

Nel frattempo, Laura sembra avere trovato l’ultima freccia e sta saltellando come una molla, davanti a una vetrina.

La raggiungiamo anche io e Morgana, non in quest’ordine.

La vetrina è quella di un nuovo negozio. Cioè, dev’essere nuovo, perché, in tutta onestà, è il genere di negozio di cui mi sarei accorta se ci fosse stato anche prima. Okay: per dirla proprio tutta, è un negozio fichissimo. È una via di mezzo fra una boutique e un localaccio underground ed espone una favolosa vetrina di capi d’abbigliamento neri. Tutti. Esclusivamente. Neri. Ci sono giubbotti di pelle da motociclista, mantelli gotici, corsetti stringati da vampira steampunk e stivali e stiletti d’ogni forma. L’insegna recita Black Is The Colour Of My True Love’s Eyes, che non solo è suggestivo ma è anche estremamente snob ed elitario, essendo il titolo di una canzone di Nina Simone che credevo di apprezzare solo io. Morgana sta mangiandosi la vetrina con gli occhi. Mi stupisco che il vetro non stia crepando sotto l’intensità laser del suo sguardo bramoso. Laura non ci pensa due volte ed entra, così non possiamo fare a meno di seguirla anche io e Morgana – di nuovo, non in quest’ordine.

Dietro al banco c’è una commessa sottile come una speranza con i capelli – indovina indovinello – nerissimi tagliati a frangetta. È vestita – ovvio – di nero dalla testa ai piedi e ha nero anche il rossetto. Gli occhi però ce li ha grandissimi e verdi. Quando ci inquadrano, si spalancano e si fanno così giganteschi che mi stupisco che non le cadano giù dalla faccia.

«Scommetto che lei è la signorina Vani Sarca!» mi dice esponendo un sorriso così vasto da far sembrare gli occhi due capocchie di spillo. Chissà cos’è stato a tradirmi: “Vedrà arrivare una tizia bionda vestita di nero e col rossetto viola”, o “Vedrà arrivare una tizia bionda con l’espressione di una maestra a cui un bambino ha consegnato il compito dopo averci starnutito sopra”. «La stavo aspettando! Ho una cosa per lei!» Esce da dietro il banco e corricchia sul retro in bilico sugli stivali dai tacchi a spillo. Agita anche un po’ i braccini, come i bambini quando fremono di emozione per qualcosa.

Mio Dio.

Quando torna, dopo un istante, ha le braccia cariche di un grosso pacco floscio. È avvolto in una carta da regalo personalizzata per il negozio, tutta nera ma con fregi lucidi su fondo opaco. Deve costare un casino. La carta. Non oso immaginare quello che c’è dentro.

«Questo è per lei», cinguetta.

Laura e Morgana sono in fibrillazione. Possono due quindicenni avere un infarto? D’altro canto, l’ho visto cos’è successo, l’ultima volta che ho scartato sotto i loro occhi un vestito ricevuto in regalo. Anni e anni di educazione al femminismo, alla non superficialità, alla cultura dell’essere e non dell’avere, tantomeno dell’apparire. Poi ti scartano un abito d’alta moda sotto il naso e queste due mocciose venute su a pane e favole Disney si scordano di tutto e sospirano come due sartine della Bohème.

Stavolta non è un abito d’alta moda.

È un impermeabile nero.

Sarò più precisa. È un impermeabile nero uguale al mio. Qualche cinghia in più qua e là, un numero diverso di bottoni, ma stessa lunghezza, stesso bavero, stesso tutto. Tranne, ovviamente, il fatto che è nuovissimo e stupendo, mentre il mio ce l’ho da quando Giulio Cesare giocava con i soldatini di legno e cade a pezzi.

La commessa mi guarda come se non chiedesse di meglio dalla vita che di abbeverarsi della mia reazione.

Che non c’è. «Bello. Tenga», dico.

«Ma... come? Non lo vuole?»

Io resto col braccio teso e l’impermeabile alla fine del braccio. «Non posso accettare.»

«Ma...!» esclama Laura, il cui spirito pratico in circostanze normali è fonte per me di enorme stima, se non fosse che questa non è una circostanza normale.

Occhi Verdi non fa alcun cenno di volersi riprendere il malloppo, il che è un male perché il cappotto pesa e i muscoli del mio braccio teso sono allenati come possono esserlo i muscoli di una ghostwriter sedentaria, che passa le giornate a muovere un mouse e a spostarsi per il salotto a colpi d’anca su una poltroncina a rotelle.

«Senta», dice. «Lei avrà le sue ragioni, non lo metto in dubbio, ma se fossi nei suoi panni ci penserei bene prima di rimandare indietro questo gioiello. È fatto a mano in edizione limitata ed è pensato per durare vent’anni. Ah... il signore che l’ha comprato per lei si è raccomandato di non dirglielo, ma non posso farne a meno: costa cinquecento euro.»

Morgana e Laura si guardano circospette come se avessero udito qualcosa di immorale. Che poi è vero. È immorale che un capo d’abbigliamento costi cinquecento euro, ed è immorale che un capo d’abbigliamento che costa cinquecento euro venga regalato a una come me.

Sbuffo. «E va bene. Ha ragione. Una roba di questo valore non dovrebbe essere restituita sdegnosamente al mittente. Morgana, vieni qua. Vediamo come ti sta.»

Morgana trasecola. «Stai scherzando?» Ma il doppio cromosoma x si fa sentire di nuovo e sull’acca di «scherzando» sta già tendendo le braccia. Occhi Verdi accenna a protestare, ma la sua missione interiore di commessa non può fare a meno di conferirle un’aria di approvazione non appena constatiamo che a Morgana l’impermeabile va a pennello.

«Non posso andare in giro con un impermeabile da cinquecento euro», esclama Morgana.

«Nemmeno io, e io sono più grande, quindi decido io chi di noi due può meno.»

«La mamma mi ucciderà!»

«Perché? Mica l’ha pagato lei.»

«Non saprei nemmeno quando metterlo...»

«Ai concerti con Ema.» Morgana ha recentemente iniziato a cantare nella band del suo compagno di scuola nonché chitarrista nonché grande amore segreto, Emanuele, ed è in piena fase di autopromozione sociale ed estetica. Ema ha diciott’anni e la mia piccola quindicenne dall’aria infantile ha bisogno di ogni aiuto per competere con delle compagne di scuola maggiorenni e più sviluppate di lei. «Però bada bene: non dire a nessuno che costa cinquecento euro, è una cosa di scarsissima classe. A Ema dovrà essere sufficiente constatare che stai molto bene vestita così.» Morgana arrossisce e scambia un sorrisetto con Laura, che sembra molto fiera dell’amica. «E a questo proposito», proseguo rivolgendomi a Occhi Verdi, «quella cosa del “si è raccomandato di non dirglielo”. Sputi il rospo: il tizio che ha pagato il regalo si era raccomandato di dirmelo eccome, quanto costava, ma anche di dirmi che si era raccomandato di non dirmelo. Giusto?»

Occhi Verdi non dev’essere stupida, perché ci impiega meno tempo del previsto a decifrare le negazioni a catena, scuotere la testa e spalancare gli occhi eponimi. «Oh, no, no! Non è affatto andata così!»

La guardo.

Mi guarda.

«...Ha detto che non sarebbe stata una cosa di classe, ma che, se proprio proprio ci fosse stato bisogno, avrei anche potuto dirglielo, quanto costava», ammette.

Alzo un sopracciglio, a significare “lo sapevo”. Occhi Verdi fa un sorrisino sghembo, a significare “lei sa che tipo favolosamente affascinante sia quell’uomo. Mi scusi, ma non potevo non reggergli il gioco”.

Purtroppo lo so.

«Bene, se ripassa lo ringrazi dell’impermeabile e gli dica che c’è una quindicenne in città che se lo sta godendo tantissimo. E adesso andiamo, ragazze, che abbiamo del lavoro da fare.»