11.
UNA BUONA RAGIONE
È legge del regno dei cieli che se entri nella vigna all’ultima ora riceverai la paga dell’intera giornata, ed è legge del mondo degli uomini, in particolare di quelli che lavorano per una grossa ed esigente casa editrice, che se entri nella vigna il sabato sera e incasini le cose con una pessima intervista alla televisione nazionale ti beccherai un lunedì mattina pieno di rogne.
È lunedì mattina.
Siamo nello studio di Enrico. La massiccia porta dalle modanature inizio secolo ci isola dal brulichio di redattori, segretarie e impiegati frustrati che popolano le Edizioni L’Erica. Fuori: il solito termitaio del lunedì. Dentro: l’atmosfera del processo di Norimberga, e noi.
Attorno alla cattedra-scrivania di Enrico siamo in tre: lui al centro, Olga alla destra del padre, cioè del capo, e io alla sinistra. Mi sento un’imbecille ad attendere così, come una giurata, che Marotta varchi la porta dello studio. Enrico l’ha convocato per le nove e un quarto, me e Olga invece per le nove, perché potessimo farci trovare tutti già schierati al suo arrivo. Sembriamo una cazzo di commissione d’esame, una trimurti di professori alla maturità. O il panel di giudici del concorso finale di Flashdance. A meno che Marotta non entri con una tutina aderente e uno stereo sulla spalla, non potrà che mettersi subito sulla difensiva.
È che Enrico ogni tanto è così scemo. Stupido capo con manie di controllo. Vuole far capire a Marotta che ha sbagliato, che ha piantato grane, che sta tradendo la fiducia della casa editrice che ha investito su di lui e altre frasi standard da imprenditore che la sera prende sonno stringendosi al cuore lo Speciale Finanza. Così adesso Marotta arriverà, si chiederà che diavolo avrà mai fatto di così terribile per meritarsi di essere ricevuto da questa specie di plotone d’esecuzione, si siederà davanti a noi già risentito in partenza per l’accoglienza di merda, e ciao, prima ancora di cominciare il clima sarà già andato a puttane.
Sto giusto per decidermi a farlo notare a Enrico e a spostare la mia sedia dall’altra parte della scrivania, quando la porta mi anticipa aprendosi e Marotta entra.
Ci squadra fra lo stupito, il perplesso e l’ostile.
E certo. Proprio come avevo previsto.
«Professor Marotta, buongiorno», dice Enrico, serio, sporgendosi appena da dietro la scrivania per stringergli la mano.
«Buongiorno», dice Marotta. Saluta Olga con un cenno stitico, perché è questo che fanno gli stronzi con le ultime ruote del carro: le salutano come se il loro budget di cortesie ne venisse gravemente depauperato, e non sia mai che un domani non riescano a omaggiare adeguatamente un cardinale perché hanno sprecato un decoroso «buongiorno, dottoressa» con te. Poi arriva a me. È la prima volta che mi vede. Appena mi inquadra ha un guizzo nello sguardo, che da preoccupato si fa sarcastico, e dice: «Cos’è, volete già farmi fuori? Vedo che avete chiamato la Signora con la Falce».
La cosa buffa è che non ha voluto essere veramente offensivo. Non che io mi sia offesa – me ne sono sentite dire di molto peggio, sai quanto me ne frega – ma, ecco, è una constatazione oggettiva: Marotta non si è nemmeno accorto di quanto fuori luogo potesse suonare una battuta simile verso una perfetta sconosciuta, oltretutto una sconosciuta in una posizione autorevole (se non altro per quel che può saperne lui, visto che siedo al fianco di Enrico). Ha solo colto l’occasione per dire qualcosa di disinvolto, e l’ha cannata in pieno.
Eccezionale. Quest’uomo dev’essere dotato di una sorta di superpotere che lo rende costantemente, straordinariamente, incontrovertibilmente inopportuno. C’è chi corre come il fulmine, chi salta un metro e mezzo da fermo; lui ti fa girare psicocineticamente i coglioni. Sono impressionata.
A questo punto succedono un sacco di microcose in velocissima sequenza. Enrico e Olga temono che mi sia offesa per quella che è stata, in effetti, una battuta tremenda, così esitano: visto che in teoria oggi io e loro giochiamo dalla stessa parte, si sentono chiamati a difendermi. Ma io li anticipo: «Per essere precisi, professore», dico a Marotta, «io non sono la Signora con la Falce, ma il suo Fantasma dei Natali Passati: o mi ascolterà bene o potrà aspettarsi un gran bel futuro di merda». Al che Marotta sogghigna e ribatte con enorme prontezza di riflessi: «E cos’avrei di così grosso da perdere?». Al che sogghigno anch’io. Enrico mi vede e sogghigna anche lui. E anche Olga sogghigna, per riflesso condizionato, perché vede sogghignare Enrico ed è felice che Enrico sia felice, in quanto un capo felice è un capo meno rompipalle.
Quindi, per riassumere, Marotta pronuncia quella battuta e in un nanosecondo nella stanza stiamo tutti sogghignando come a una convention di sosia del Joker di Batman.
Solo che Enrico e Olga, naturalmente, non hanno capito un accidente. Pensano che io abbia contro-sogghignato a Marotta per dimostrargli che le sue uscite mi divertono, non mi fanno né caldo né freddo, non mi intimidiscono. Ma certo che non mi intimidiscono, figuriamoci, solo che non è quello il punto.
Il punto è che ieri mattina mi sono portata a casa dalla riunione con Enrico un quesito da un milione di dollari: “Qual è il punto debole di questo piantagrane di un Marotta? Su cosa posso fare leva per convincerlo a collaborare?”, e gli ho anche trovato una risposta. O perlomeno ho creduto di averlo fatto, ma con un certo margine di dubbio – fino a questo momento. Ecco perché ho sogghignato: le parole di Marotta sull’avere qualcosa da perdere, e la spigliatezza ostentata con cui le ha pronunciate, hanno appena stampato il timbro di conferma sulla risposta in questione, sono state la pacca sulla spalla del mio intuito. E ho la sensazione che conoscere questa fatidica risposta mi tornerà utile, diciamo, fra meno di venti minuti.
Marotta si siede.
«Dunque», sospira Enrico, sbloccando l’impasse. «Professor Marotta, si sarà accorto che sabato non è andata molto bene. Il conduttore ha dovuto tagliare tutte le sue risposte, e il risultato è che, parliamoci chiaro, la sua prima apparizione pubblica è risultata molto insoddisfacente. La buona notizia», continua senza che nessuna variazione dell’espressione facciale sottolinei che si tratta di una buona notizia, «è che non ha sprecato l’occasione in modo irreparabile. Vorrà dire che le interviste che concederà da adesso in poi a maggior ragione andranno gestite bene.»
Diciannove.
Enrico si mette a cercare un file sul suo laptop. Marotta potrebbe approfittare del momento di pausa e prendere la parola, ma non lo fa. Non però perché abbia deciso di stare buono e beccarsi la predica. Semmai con l’aria di un petulante rompipalle che sta solo annotandosi una lista mentale di obiezioni e si prepara a sganciarle a grappolo al momento giusto.
Se penso a tutte le volte che Enrico ha detto che sono io una rompipalle con cui è faticoso interagire. Per un momento sono grata a Marotta. Come quelle adolescenti che vengono stracazziate dai genitori solo perché il sabato sera tornano all’una anziché a mezzanotte e mezza, e poi quando la figlia della vicina viene ricoverata per coma etilico a un rave quasi sono contente perché così in casa vengono subito ristabilite le giuste proporzioni.
Enrico sospinge il proprio laptop verso Marotta, in modo che possa vedere il monitor insieme a lui. «La prima intervista che ci hanno chiesto è per “Tuttolibri”», dice Enrico. «Buon per noi, perché con quelle scritte è più facile. Qui sullo schermo vede la lista delle domande. Sarà di certo molto simile a tutte le altre interviste che dovrà rilasciare. Se impara a rispondere a una, impara a rispondere a tutte. Però il punto è proprio questo: deve imparare.»
Enrico fissa Marotta dritto nel cranio.
Diciotto.
«Rilasciare interviste è una cosa delicata, professore. Ora useremo questa qui come palestra. La affronteremo insieme e lei imparerà come si risponde.»
Marotta inspira come quando hai trattenuto troppo a lungo il fiato in una latrina pubblica e ti rassegni a introdurre dell’ossigeno con la consapevolezza che ti farà schifo.
Enrico guarda Olga in un modo che significa che le sta passando la palla. Si vede che è il momento della bassa manovalanza. Olga si schiarisce la voce e si protende verso il monitor. È girato in modo che lo vedano Enrico, Marotta e lei. Il che significa che io non leggo un accidente, ma questo mi dà una buona scusa per continuare a scrutare Marotta. Se io fossi uno zoologo e lui un unicorno non potrebbe affascinarmi di più.
Diciassette.
«Chiaramente la prima riguarda la sua storia», esordisce Olga. La legge: «“Com’è accaduto che lei scrivesse Verrò a trovarvi sul lago per Ruggero Solimano? Quali motivazioni o circostanze hanno fatto sì che lei si nascondesse dietro a Solimano, per vent’anni?”».
«Lo sapete già», replica Marotta. L’espressione di sprezzo misto a lesa maestà che gli aleggia sulla faccia è perfettamente accompagnata dal tono di voce. Fra l’altro: cazzo, se ce l’ha brutta, la voce. L’ho pensato anche domenica, ma l’audio di un video girato col cellulare saprebbe trasformare anche Ella Fitzgerald in Paolino Paperino. Solo che Marotta anche dal vivo sfoggia questo timbro nasale e acuto che suonerebbe molesto pure se stesse cantando una romanza. C’è gente che sembra assemblata da Madre Natura solo con pezzi di serie b.
Sedici.
Olga pesa le parole. «Sì, be’, professore, certo, a noi l’ha già raccontato. Ma possiamo tentare di mettere giù le risposte in un modo che vada bene per il pubblico? Insieme? Per favore.» Lei ed Enrico sembrano una parodia del cliché del poliziotto buono e poliziotto cattivo. Bah. Io e Berganza sappiamo fare molto di meglio.
«Marotta, andiamo al punto, per cortesia», interviene il cattivo. «Secondo la sua versione Solimano era, senza tanti giri di parole, uno stronzo che l’ha presa per il culo. Che ha intuìto il suo talento, l’ha convinta a scrivere il libro e poi l’ha mandato all’editore spacciandolo per proprio. Ma non possiamo dirlo in questo mo...»
«Possiamo eccome, perché è proprio così!» lo interrompe Marotta. Poi si gira verso di me.
Quindici.
«Solimano veniva a trovarmi durante l’orario di ricevimento genitori», sibila a denti stretti. «Si presentava e chiacchieravamo per un’oretta, di storia, di studi recenti, di libri appena usciti. Lui era felice di avere un interlocutore appassionato delle sue stesse cose, io ero felice perché potevo prendermi una pausa da quel branco di capre dei genitori dei miei allievi.» Ha recitato quest’ultima parte fissandomi. Cioè fissando l’unica persona nella stanza che già non sappia una storia che a lui, evidentemente, non è bastato raccontare una volta sola.
Quattordici.
«Solimano mi ripeteva sempre quanto gli sarebbe piaciuto essere capace di scrivere un libro sulla sua passione, anzi, la nostra passione, la storia, in particolare quella del risorgimento. Mi diceva che era il suo sogno sin da quando era un ragazzino. Un ragazzino che a scuola quasi non c’era potuto andare, perché aveva iniziato a lavorare alle medie, ma che a un certo punto aveva preso a leggere i libri che trovava nelle case o che gli prestavano gli ingegneri del cantiere – Salgari, Nievo, e poi crescendo I cannoni d’agosto e i memoriali di Churchill –, e moriva d’invidia per quegli scrittori che facevano tornare vive le grandi battaglie, le guerre, le rivoluzioni.» Annuisco per fargli capire che lo seguo, visto che è esattamente il quadro della personalità e della formazione di Solimano che mi ero già fatta anch’io. Nel frattempo, per la seconda volta in due giorni, da un angolo della scatola cranica mi si riaffaccia alla mente anche il professor Reale. Con quella sua lezione sulla carta che precede i grandi moti della storia. Quanto aveva ragione. In effetti, mi viene da riflettere ora ascoltando Marotta, non solo è vero che le grandi rivoluzioni sono anticipate dalla carta: più sono degne di questo nome, più abbondante è anche la carta che le segue. Si scrivono grandi libri su grandi cose ispirate da grandi libri e così via, un lungo affascinante serpente di fatti e parole che si morde la coda e fra le cui spire ipnotiche indugerei volentieri, se non fosse che quello che Marotta sta raccontando non voglio perdermelo.
Tredici.
Marotta fa una smorfia. Cioè, la sua faccia perennemente bloccata in una smorfia di sprezzo si contorce in un’ulteriore smorfia di sprezzo. «Non era uno scemo, Solimano, sa? A suo modo era colto, anche se la cultura se l’era fatta da solo, e sveglio poi lo era di sicuro. Era diventato imprenditore perché la vita ce l’aveva portato, e ci si trovava anche bene, per carità: un manovale che diventa un palazzinaro, figuriamoci se non era contento, e poi fare il manager era proprio nelle sue corde, da quello squalo opportunista che era. Ma il suo amore per la storia era sincero, lo devo ammettere, e forse in un’altra vita – magari una in cui avesse potuto studiare con tutti i sacri crismi – avrebbe fatto il ricercatore o il professore universitario. Tutto questo per dire che parlare con lui dei nostri interessi comuni a me piaceva davvero.»
Tira su col naso. Per un attimo sembra una zitella che rievoca il latin lover da cui è stata sedotta e poi tradita. E in un certo senso intuisco sia andata proprio così. Non solo perché Solimano ha retto egregiamente la parte dell’esperto storiografo e narratore per una decina d’anni dopo l’uscita di Verrò a trovarvi sul lago, e nessuno riesce a sostenere un’impostura così a lungo a meno che non ami davvero quello che fa – parola di una ghostwriter che sa quanto si stia stretti in panni non propri. È che lo stizzoso professore che ho davanti non si sarebbe mai fatto avvicinare così tanto da qualcuno che non avesse saputo conquistarlo con gli unici argomenti in grado di suscitarne la stima.
Dodici.
«Solo che lui a parlare ci riusciva», riprende, di nuovo acido, «ma a scrivere no. Per niente. Era incredibile la differenza fra la sua abilità nell’esprimersi a voce – ce lo ricordiamo tutti, era un affabulatore nato – e la sua goffaggine nello scritto. A voce era capace di ipnotizzarti anche solo riferendoti cosa aveva mangiato a pranzo: ma gli chiedevi di trasporlo per iscritto e il pensiero gli si annodava tutto, perdeva un capo e una coda e naturalmente ogni fascino, e poi si infarciva di tempi verbali sbagliati, errori sintattici grossolani, paroloni di cui non conosceva l’ortografia. Ho anche pensato che Solimano fosse parzialmente disgrafico. Ma forse non c’è nemmeno bisogno di spingersi fino a quest’ipotesi, perché la verità è che le persone così sono più comuni di quanto si pensi: ne conosciamo tutti, vero?» Oh, vero eccome. Mi viene persino da sbirciare Enrico, che, per quel che ne so, appartiene in buona misura alla categoria: lascialo parlare e venderebbe ghiaccio agli eschimesi, ma con una penna in mano sa a malapena fare dei disegnini sui Post-it, e si rivolge alla segretaria anche per buttar giù un invito a pranzo. Certo, lui magari errori di ortografia non ne fa – ma ora che ci penso, non ci giurerei.
Undici.
«Io, invece, ero il suo opposto speculare. Mai saputo essere mellifluo e incantatore come lui, a voce, mentre con la penna, modestamente...» e passa a un’espressione così poco modesta che è un vero peccato che stia solo dicendo la verità e non lo si possa sbugiardare. «Solimano mi diceva che leggeva gli appunti di suo figlio e, oh!, quanto li trovava meravigliosi! Proprio con quella verve, quello stile che avrebbe avuto in mente lui, che lui riusciva a trasmettere a parole ma per iscritto neanche piangendo in cinese. “Perché non scrivi un libro tu, Edoardo? Io non sono in grado, ma tu saresti favoloso!” E io gli ho dato retta e il libro che ne è venuto fuori, sì: era favoloso.»
Dieci.
Marotta si agita sulla sedia.
«Poi un giorno arriva a scuola. Ha l’aria contrita, ma io vedo che ha come una scintilla negli occhi. “Devo darti una notizia buona e una cattiva”, mi dice. “La buona è che il tuo manoscritto è stato apprezzato da un grosso editore, che ha deciso di pubblicarlo.” Il grosso editore eravate voi. Il suo predecessore, credo», dice rivolgendosi a Enrico.
Enrico annuisce. Marotta ora sta guardando nel muro, oltre la spalla destra di Enrico.
Nove.
«Io non credo alle mie orecchie. Sono felice come un bambino. Mi metto a ringraziare Solimano con un trasporto che ancora adesso, a ripensarci, mi fa sentire ridicolo.» Risatina amara. «Mentre lo ringrazio mi ferma, mi solleva il mento con le mani, come un cardinale. “C’è anche la notizia cattiva”, mi dice, con quei suoi occhi porcini pieni di finto rammarico. “Vedi... l’editore non avrebbe mai accettato di visionare un manoscritto non sollecitato, firmato da – perdonami – un oscuro professorino di provincia. Così, perché si degnasse di farlo, ho dovuto dirgli che l’avevo scritto io, che sono sempre stato suo amico.”»
Otto.
Enrico aggrotta la fronte. «Non sapevo che Ruggero Solimano fosse amico di lunga data del vecchio direttore editoriale...»
«Per me poteva essere amico pure del demonio!» sbotta l’omino, spruzzando saliva. «Fatto sta che Solimano mi disse così, e poi aggiunse che l’editore era stato così contento, ma così contento. Che gli aveva detto che lui, con la sua parlantina e la sua personalità, sarebbe stato un ottimo autore su cui investire. Che uno come lui avrebbe potuto funzionare benissimo anche alla televisione. Uno come lui, capite? Sottinteso: non certo come me.» È diventato livido. Cioè, se il suo colorito naturale non fosse già simile a quello di un asciugapiatti liso.
Sette.
«“Lo faccio per il libro”, mi ha detto. “Se questo è l’unico modo perché il mondo si accorga della tua opera, io presterò il mio volto, e tu potrai vedermi come un umile servitore del tuo capolavoro. Perché il nostro vero, unico interesse è che il libro ottenga il successo che merita, giusto?” E io... io, imbecille, con un filo di voce, io gli ho risposto: “Giusto”.»
Fa una pausa. Si guarda i piedi e poi guarda di nuovo me.
Sei.
«Dopodiché il libro è uscito e io mi sono detto che tutti i premi che riceveva erano moralmente miei, che ero fiero del mio lavoro e che poco m’importava che a Solimano andasse tutta la gloria. Lo so, la volpe e l’uva, vero? Di tanto in tanto mi versava sottobanco qualche migliaio di euro di diritti d’autore; solo in seguito ho iniziato a sospettare che fosse una cifra irrisoria rispetto a quanto doveva prendere lui. Comunque, cosa volete che m’importasse dei soldi. Il libro era idolatrato, e tanto bastava... o mi doveva bastare. E poi in fondo, anche se mi fossi fatto avanti, come avrei potuto dimostrare di esserne io l’autore? Mica lo sapevo, che da qualche parte nei vostri archivi ci fossero delle prove capaci di darmi ragione. E anche se ci fossero state, ero più che sicuro che l’editore avrebbe provveduto a farle sparire, pur di tenersi Solimano, la sua gallina dalle uova d’oro. Insomma... chi mi avrebbe mai potuto credere?»
Cinque.
«Ma quando Solimano è morto...» dice Enrico.
Marotta lo fredda con lo sguardo come se avesse pronunciato qualcosa di sconveniente su sua madre. «Quando Solimano è morto semmai è stato anche peggio», bercia. «Si sta chiedendo perché io non ne abbia approfittato per uscire allo scoperto in quel momento, vero? Già, e cosa sarebbe cambiato? Senza prove, senza un editore che avesse interesse a sostenermi, avrei fatto esattamente la stessa figura da mitomane. Anzi, peggio: da patetico sciacallo che cerca di cavalcare il successo di un defunto.»
Tace.
Mi guarda.
Io taccio e continuo a guardare lui.
Quattro.
«Ma adesso è tutto diverso.» Sulla faccia di Marotta si apre un sorriso ottimista, intriso di riscatto sociale. Cioè: in verità quello che compare è un ghigno che farebbe scappare un gatto affamato. «Adesso voi le prove le avete trovate. E per una serie di ragioni di immagine e di ricadute legali avete bisogno di me. Ora possiamo dichiarare al mondo insieme, io e voi, che l’autore di Verrò a trovarvi sul lago sono io. E Solimano è morto, mentre io sono vivo e pronto a riprendermi il posto che mi spetta!»
Ho visto un telefilm, una volta, con un reuccio fastidioso che si esprimeva più o meno con quella spocchia là. Se non ricordo male in una puntata lo accoppavano e nessuno versava una lacrima.
Tre.
Enrico tossicchia. «Sì, be’, il problema, come le dicevo, è che non possiamo raccontarla così. Solimano sarà stato uno stronzo, ma per anni è entrato nei cuori della gente come l’emblema dell’uomo di grande cultura ma anche simpatico, gran comunicatore... Mi perdoni, Marotta, ma la sua versione, così come la racconta lei, è talmente livorosa...»
«È esattamente così che dev’essere!» sbotta l’omino. «Io sono livoroso! Io sono stato derubato! Cosa vuole che faccia, che mi tenga buoni gli estimatori di Solimano dicendo che era come sembrava, un amabile bonaccione?» Sbarra gli occhi. «O, peggio... che cerchi di rendermi simpatico come lui?»
Enrico fa una faccia che vuol dire “be’, sì”.
Due.
Olga allinea freneticamente due biro al bordo del tavolo. Enrico è costretto a incastonarsi nello schienale della sedia dallo sguardo di Marotta. Il volto di Marotta si sta di nuovo accartocciando in un impeto di collera. Ora mi ricorda un altro brutto telefilm che ho visto una volta, su certi vampiri che un attimo prima di attaccare diventavano mostruosi. Con l’aggravante che, a differenza di Marotta, i vampiri partivano da belli.
«Dottor Fuschi, io non sono simpatico! E non voglio nemmeno sforzarmi di essere simpatico!» Marotta si esprime per corsivi. Tanti e acuminati. «Perché non voglio essere il doppione di Solimano! Mai più! L’ho già fatto una volta e ne ho avuto abbastanza!»
«Professore, la prego, si renda conto che combattiamo dalla stessa parte. A noi come a lei preme solo che il libro continui ad avere il successo che...»
«È proprio quello che sto cercando di farle capire: a me no! Questa faccenda del “dobbiamo agire nell’interesse del libro” mi ha già fregato una volta: ora non me ne importa più nulla, neanche se le vendite precipiteranno!»
Enrico si porta una mano sul cuore, ossia sul portafoglio, senza nemmeno accorgersene. «Ma finora ha sempre detto che era per i soldi che...»
«Mentivo!» Uno. «Dio, solo un affarista ottuso che pensa che il denaro sia tutto avrebbe potuto crederci!» Qui non posso dargli torto. Spiacente, Enrico. «È che la vera ragione era semplicemente troppo lunga e personale da spiegare, soprattutto a uno come lei. Perché sa qual è, l’unica cosa che voglio? Guardare in faccia la gente che verrà a sentirmi alle conferenze e leggere nei loro occhi la consapevolezza: “È questo, l’autore del libro che abbiamo tanto amato. È lui, quello vero”.» Olga sta osservando il delirio di Osceno Riporto con la stessa espressione da “mio Dio, cos’ho fatto” di una Pandora davanti al vaso stappato. «Ci voleva un piacione come quell’impostore per far pubblicare il libro, per portarlo al successo? D’accordo! Così è stato! Ma adesso Solimano è morto, defunto, crepato!, e io posso finalmente togliermi la soddisfazione di essere me stess...»
«No, non può.»
Zero.
Marotta si gira a guardarmi come se mi volesse incenerire con gli occhi solo perché uccidermi a mani nude, implicando un contatto umano, gli farebbe senso.
«Non può essere sé stesso», spiego, «perché lei, a differenza di quello che ha detto all’inizio di questa conversazione, se non si sforza almeno un po’ di piacere al pubblico ce l’ha eccome, qualcosa da perdere.»
Marotta mi guarda. Olga mi guarda. Enrico mi guarda, e nello specifico mi guarda in quel suo modo particolare che significa: “Questa farà bene a essere una delle tue trovate geniali, perché se è un bluff e Marotta decide definitivamente di non collaborare ti strangolo con queste mie mani”. Enrico non è come Marotta. A lui sembra che l’idea di toccarmi per farmi fuori non causi alcuna repulsione.
«E quale sarebbe questo qualcosa che avrei da perdere, sentiamo?» mi sfida Spalle Spioventi.
«La possibilità di pubblicare il suo secondo romanzo.»
Attimo di silenzio.
Lungo.
«Lei... ha in mano un secondo romanzo?!» Enrico si agita sulla sedia. Ha un tintinnio di slot machine nella voce.
Mi chino ed estraggo una cosa dalla mia borsa. È un quaderno. Olga trasale, perché lo riconosce. È il quaderno di storia di terza media di Alessandro Solimano. Nessuno si è mai preoccupato del fatto che, da quando l’abbiamo ritrovato, me lo sia tenuta io.
Lo apro a una certa pagina che so, avendola trovata ieri. Guardo Marotta e poi mi metto a leggere.
...E così arriviamo a lui. A Giuseppe Garibaldi. Un uomo piccolo, bassino e minuto, rossiccio di barba, molta, e capelli, meno. Dall’aspetto innocuo, quasi gentile. Un uomo che quando non era impegnato a compiere le imprese più eroiche del suo tempo faceva l’insegnante di calligrafia. Un uomo che leggeva tanto, tantissimo, ma che aveva smesso di studiare per andare a fare la guerra, anzi le guerre, perché ovunque al mondo si richiedesse di menar le mani per una buona causa il suo cuore lo portava lì, quasi fosse una bussola interna con l’ago puntato sull’ingiustizia da raddrizzare. Un uomo che andò di fronte allo stesso re che aveva firmato la sua condanna a morte a offrirgli i suoi servigi spassionati, in nome dell’unica sua passione vera: la libertà.
Tanti libri sono stati scritti su Giuseppe Garibaldi, per studiarlo, scomporlo, criticarlo, talora ridimensionarlo e talaltra esaltarlo. Il mio umile parere, quello che vi consiglio vivamente di ripetermi davanti durante l’interrogazione se vorrete un buon voto, è che nessun altro eroe, sconosciuto o celebrato, non solo del risorgimento italiano, non solo della storia d’Italia, ma addirittura della storia del mondo, sembra fatto per stare in un romanzo più di Giuseppe Garibaldi.
Chiudo il quaderno.
Guardo i presenti.
Non hanno capito un tubo.
Tranne Marotta, ovviamente. Marotta ha le labbra serrate così strette che sembra che qualcuno gli abbia tagliato la faccia.
«Co... come ci è arrivata?»
Sventolo il quaderno. «So leggere. Avevo già notato la somiglianza fra le lezioni che aveva tenuto in classe sulle Cinque Giornate di Milano e brani interi del suo primo libro, e il trasporto, l’approfondimento che le caratterizzava. Anzi, le avranno già spiegato che è proprio da quello che abbiamo evinto che dietro a Verrò a trovarvi sul lago ci fosse lei.» Marotta annuisce a malapena, sempre in stato di semi-trance. «Be’, ieri sono andata a controllare anche il resto del quaderno, e mi sono resa conto che quelle lezioni non sono dettagliate e passionali nemmeno la metà di quelle che ha tenuto su Giuseppe Garibaldi. E infatti anche quelle lezioni erano il frutto di una ricerca molto più vasta, pensata per qualcosa di più, molto di più, che per un compito in classe. Non è così?»
Marotta deglutisce, poi si impettisce. Gesù. Anche nei momenti emotivamente intensi ha sempre quest’aria da zitella vittoriana scandalizzata dalle insolenze di un facchino.
«Solimano sapeva che stavo scrivendo un libro su Garibaldi e ha cercato fino alla morte di convincermi a consegnargli anche quello», ammette. «Per le stesse motivazioni del primo, capite. Perché, se volevamo “agire davvero nell’interesse del libro” – ancora una volta –, sarebbe stato logico presentarlo come la nuova opera dell’autore già affermato. Se fosse uscito col nome di uno sconosciuto, anziché apprezzarlo tutti l’avrebbero preso per una patetica imitazione. Anzi, probabilmente gli editori l’avrebbero direttamente respinto. Questo mi diceva.» Abbassa gli occhi. L’aria da damina piccata si attenua un po’. Un bel po’, in effetti. Di colpo mi fa quasi pena. «Solo che io non mi sono mai deciso a consegnarlo a Solimano. Mi faceva troppo male l’idea di rivivere tutto daccapo. Continuavo a fare come Penelope, a dirgli che era quasi finito, ma quasi, che dovevo rimaneggiare una parte, ricontrollarne due...»
«Ma perché non ha cercato di pubblicarlo nemmeno dopo la morte di Solimano?» sbotta Enrico. Lo guardo: sta fumando dalle narici. Ah, ma certo: per lui, essere stato privato per anni di un potenziale secondo bestseller è una specie di offesa personale.
«Oh mio Dio, ancora?» Marotta sbuffa come se Enrico fosse l’allievo tardo che fa sempre la stessa domanda. «E cosa sarebbe cambiato? Sarei passato lo stesso per l’imitatore provinciale del grande autore estinto.» Scuote la testa, amaro come un tamarindo. Il riporto cede un po’.
Olga è tutta protesa in avanti. Pende dalle labbra praticamente inesistenti di Marotta come me da quelle di Mrs Christie la prima volta che arrivai al finale di Dieci piccoli indiani. È affascinata. Lo so, baby. Le rivelazioni fanno quest’effetto. Dillo a me, che da quando sto in polizia ne sono praticamente drogata.
«Ma adesso è tutto cambiato, professore», intervengo. «Adesso Solimano è morto e tutti hanno saputo che è lei quello vero. Adesso la casa editrice potrebbe pubblicare il suo secondo libro in pompa magna, come il nuovo grande romanzo dell’autore di Verrò a trovarvi sul lago, e sarebbe suo. Non mi dica che non ci aveva pensato.»
Marotta esita. «Io... Credevo che voi non avreste mai...»
Enrico esclama: «Ma è ovvio che saremmo più che interessati a pubblicare il suo...». E a quel punto, che Dio mi perdoni, faccio una cosa che sogno dal 2006.
Sotto la scrivania, tiro un calcio laterale fortissimo nello stinco di Enrico.
Forse un filo troppo forte, ripensandoci, ma pazienza. Sono incidenti del mestiere.
«...Se», aggiungo in fretta, senza distogliere gli occhi da Marotta, «se lei accetterà di collaborare.»
Marotta continua a guardarmi ma si irrigidisce impercettibilmente. Nel frattempo, al margine destro del mio campo visivo, mi pare che Enrico stia agonizzando in silenzio.
«Professore», proseguo, ignorandolo e sporgendomi invece verso L’Uomo Senza Mento. «Faccia questo sforzo. Ci venga incontro. Impari come si rilascia un’intervista decente, come si compare in pubblico senza scatenare un attacco di panico in un conduttore televisivo, come si diventa affidabili. Okay, l’abbiamo capito: per Verrò a trovarvi sul lago siamo noi ad avere bisogno di lei, è lei che ha il coltello dalla parte del manico, perché dobbiamo risolvere questo casino e un autore vivo ci torna in ogni caso più comodo di uno morto. Ma se questo autore diventasse affidabile, appunto, se non si autosabotasse a ogni frase, se imparasse a non far proprio proprio scappare il pubblico a gambe levate, le Edizioni L’Erica potrebbero sentirsi abbastanza sicure da decidere di pubblicare anche il suo secondo romanzo.» Allargo le braccia, lasciandomi ricadere all’indietro sullo schienale della sedia. «Altrimenti naturalmente non possiamo rischiare», aggiungo cambiando tono. «Già le vendite del primo libro si abbasseranno drasticamente così, non appena la gente scoprirà che il suo autore è uno stronzo, ma almeno potremo prevenire ogni scandalo mostrando che abbiamo agito correttamente, che abbiamo legittimato il ghostwriter non appena ne abbiamo scoperto l’esistenza. Però investire da zero in un secondo romanzo di un autore già odiato da tutti, questo no, sarebbe pura follia.»
Il sordo mugolio di dolore alla mia destra si zittisce. Anche attraverso il male allo stinco, lo squalo dell’editoria che mi stipendia deve avere finalmente capito la mia strategia. Prendo il fatto che Enrico sia ammutolito come un complimento. Con Enrico d’altra parte devi saperti accontentare.
«Veramente voi sareste disposti a...?» Marotta è incerto. «Voglio dire, io nemmeno impegnandomi potrei diventare come Solimano...»
«...Oh, di questo ci ha già tutti convinti da un pezzo, mi creda. Quello che però lei non sa, Marotta – ed è qui che Solimano l’ha presa per il culo – è che essere come Solimano non è nemmeno necessario.»
Marotta strizza le labbra con sospetto. Che è il suo modo per dire educatamente “la sto ascoltando”. Non c’è niente da fare, essere uno stronzo gli viene proprio spontaneo. Involontario. La gente normale respira, ha un battito cardiaco, suda; Marotta è uno stronzo.
Ma in questo momento è uno stronzo per cui provo una certa empatia.
«Perché ora devo dargliela io una notizia, professore», dico. Adesso sono molto seria. «Il pubblico non è stupido. Ogni tanto piacerebbe pensarlo anche a me, ma la verità è che i lettori capaci di apprezzare un buon libro perché è un buon libro e non perché il suo autore sa gigioneggiare davanti a una telecamera sono tanti, più di quanti lei possa immaginare. Solimano l’ha abituata a pensare che uno come lei non ce l’avrebbe mai fatta perché gli tornava comodo, ma sono balle. Certo, lui era uno showman nato e flirtava con le platee come una battona in una balera, ma lei non ha bisogno di arrivare a tanto. Nessuno si aspetta che un professore di storia sia anche un trascinatore di folle. Lei non deve misurarsi con Solimano. Le basterebbe un piccolo sforzo. Imparare a non essere proprio proprio così inopportuno e caustico e drastico; e questo, se lo lasci dire, è qualcosa che le farebbe bene anche nella vita di tutti i giorni.»
Sospiro.
Sento che ho un’ultima cosa da aggiungere.
«Creda a me che, modestamente, sono un’esperta del trovarsi sempre fuori posto.»
Silenzio.
Ci guardiamo per un istante, specchio nello specchio.
Si impettisce.
«Se davvero lei pensa che possa funzionare, per il mio manoscritto sono pronto a fare questo e altro.»
Gli sorrido.
Non dico che lui mi sorrida a sua volta, ma fa una cosa con gli angoli della bocca che non gli viene naturale e che va più o meno in quella direzione.
«Sì, ecco, a questo proposito, si può vedere, questo fantomatico libro?» dice Enrico, al quale delle tortuose giustificazioni psicologiche di Marotta non frega più niente da un pezzo e per il quale, per inciso, un libro non si legge, ma si vede o si visiona, dato che per leggerne uno intero ha smesso di trovare il tempo all’incirca nel ’92.
Marotta si illumina di colpo. L’aria da agnellino contrito se ne va a quel paese con la velocità del lampo. «Ma certo! Posso farglielo avere anche domani. Me lo dico da solo, ma vedrà, è un capolavoro. Glielo garantisco.» E fine della metamorfosi. A quanto pare è tornato lo spocchioso supponente che tutti ricordavamo senza alcuna nostalgia.
«E come si intitolerebbe?»
«Il rosso regge bene il sangue.»
«Originale», si lascia scappare Olga.
Enrico non riesce a celare un sorrisino soddisfatto, e io capisco che nessuno mi ucciderà a mani nude nemmeno questa volta.