22.
IL MOVIMENTO È
LA SOLUZIONE
Arrivo a casa e noto subito qualcosa di strano. La porta è chiusa a una mandata sola, mentre io di solito do due giri di chiave. Il mazzo di chiavi di riserva, quello che affidi ai tuoi parenti o amici perché siano in grado di salvarti la vita se hai una fuga di gas o scivoli nella doccia, io mi sono ben guardata dal darlo a mia madre o a mia sorella, e da anni l’ho consegnato a Morgana. Infatti sotto la porta c’è un biglietto scritto nella sua calligrafia, che dice Ti giuro che è stata l’ultima volta. Non odiarmi! ed è firmato M.
Apro la porta.
Casa mia è tutta viola e arancione e nera.
Morgana ha drappeggiato foulard viola sopra le lampade, un intrico di finte ragnatele sul lampadario, tende di vampiresco velluto nero sulle porte. Ci sono piccole zucche ornamentali – zucche vere, a febbraio? – sui mobili e peluche a forma di ragno sul divano (peluche piuttosto buffi, a dirla tutta). In cucina la tavola è apparecchiata per uno, con strane posate dall’aria antica, di un argento brunito, e un calice che sembra strappato al set di un horror gotico; davanti al piatto stanno un candelabro irto di candele spente e una serie di vassoi di ogni ben di Dio, dolcetti dalle forme bizzarre – pipistrelli, teschi, gatti neri di cacao – e tartine altrettanto bizzarre, sagomate come Jack O’Lantern o arrotolate come dita mozzate, in una sinistra reinterpretazione del concetto di finger food.
Fra il piatto e il calice c’è un biglietto in una busta listata a lutto.
Buon Halloween, dice la grafia di Riccardo. Lo so, stasera non è Halloween, ma San Valentino. Solo che a te San Valentino non piace. Così ho pensato di trasformarlo, solo per te, nella tua festa preferita.
PS: per ringraziare Morgana e Laura di avere allestito la scenografia ho regalato loro un sacchetto di dolci di zucca, salvo poi scoprire che a Morgana la zucca fa venire l’orticaria. Magari controlla che perlomeno non se li sbafi tutti in una sera.
PPS: domani hanno detto che ci pensano loro a portarti via tutta la roba. Però se vuoi la puoi tenere: i foulard viola ti starebbero benissimo.
Mi accascio sulla sedia con un gemito e mi prendo la faccia fra le mani. Qualcuno mi uccida pietosamente e mi faccia smettere di soffrire. O dovrò farlo da sola, magari per crisi iperglicemica mangiando davvero tutta questa roba.
È evidente che di questo passo Riccardo non la smetterà mai. E forse, come diceva Morgana, sono davvero un’idiota io a sperare che lo faccia. Forse dovrei sul serio buttare nel cesso questo mio snobismo da damina del cazzo, che mi fa tanto somigliare a Marotta, e riconoscere la bellezza delle sue trovate. Guarda qua che messinscena ha organizzato. Halloween a San Valentino, tutto per me. Che idea. Un vero romanziere. I foulard di seta sono effettivamente stupendi. E le tende di velluto sulle porte: magari posso davvero tenermene una e farmici un tubino, come Rossella con i suoi cosi verdi.
Sarebbe tutto più semplice se decidessi di assecondare Riccardo, penso mentre mastico un affare che sembra un bulbo oculare ma è fatto di marzapane (e poi lo sputo in un tovagliolo perché io, con buona pace di Riccardo, mi sono appena ricordata che lo odio, il marzapane). Sarebbe un po’ come quando al liceo stavo con quel tizio, come diavolo si chiamava?, Marco Baronti, ecco. Il rampollo d’oro della Torino-bene, che per qualche oscura ragione aveva voluto proprio me – o aveva creduto di volermi, come gli avevo fatto notare io mandando ovviamente tutto a puttane in capo a pochi mesi – e mi aveva aperto così, di colpo, le porte dell’accettazione sociale. Mi ricordo mia madre, quant’era euforica. Sembrava avesse sniffato polvere da sparo. E poi i gruppi di amici con cui uscire la sera o la domenica, le cene in famiglia. Non aveva funzionato, ovvio – sempre di Vani Sarca si parla, e in più di una Vani Sarca adolescente, saccente e brutale ancora più di adesso; ma per un pochino, giusto un po’, avevo avuto l’illusione di avere trovato un posto nel mondo anch’io.
Me lo ricordo bene, com’era stato.
Chissà mia madre, se le dicessi che sua figlia sta con Riccardo Randi.
Sarebbe tutto così semplice.
Solo che.
Di colpo ho un attacco di reflusso. Non gastrico: di ricordi, come al solito. L’anno di Baronti. Le lezioni d’inglese. Il professor Reale, il migliore che abbia mai avuto. I suoi sermoni esistenziali. La lezione sul Paradiso perduto.
Adamo che sceglie – sceglie consapevolmente, sceglie perché sì, perché Dio gli ha dato il libero arbitrio e ora sono affari Suoi – di seguire Eva, nonostante sia stata rinnegata. Adamo ed Eva che guardano il mondo che gli si apre davanti, e un po’ sono spaventati, ma un po’ anche felici, diciamocelo, e si prendono per mano e vanno insieme per la loro strada, che sarà una strada di merda piena di rovi – niente tappeti rossi per i due umani – ma è la strada che si sono scelti loro, sotto gli occhi dell’arcangelo Michele che li osserva dalle mura dell’Eden e li guarda camminare e non sa cosa sarà di loro, perché forse non lo sa nemmeno Dio...
Mi blocco a metà di un boccone di teschio. Tossisco. Deglutisco. Ho un brivido che è il padre, il re, l’imperatore galattico di tutti i brividi, una roba a voltaggio misurabile che non solo mi solleva i peli sulle braccia ma per un attimo temo mi stacchi tutta quanta la pelle dall’apparato muscolo-scheletrico. Di certo sarebbe in tema con il décor della serata.
Cazzo.
Mi sa che ho appena risolto il caso di Berganza.
Per prima cosa corro a fare una ricerca su Google. “Se un’idea ti sembra valida, vai a controllare: di sicuro qualcun altro deve averci già scritto sopra.” E infatti. Un sacco di voci a favore. Solo, non esattamente nel settore letterario che pensavo io. Bene. L’intuizione è stata promossa. Poi corro al telefono e cerco frenetica il numero del commissario. Sto per chiamarlo, quando fra il polpastrello del pollice e il touchscreen si insinua un’idea. Cioè, un’altra. Che però stavolta è più che un’idea: è una specie di consapevolezza omnicomprensiva, di illuminazione superlucida in cui di colpo, ai miei occhi, appare perfettamente chiaro cosa devo fare – cosa voglio fare – perché tutti i pezzi del puzzle vadano a posto.
E non solo riguardo al caso Mastrofanti.
Riguardo a tutto.
Ma proprio tutto.
Annullo il numero di Berganza. Prima, ce n’è un altro che devo chiamare.
«Speravo proprio che fossi tu», mi risponde Riccardo appena vede il mio nome sul display. «Piaciuti i dolci? Devo purtroppo segnalarti che non sono fatti per conservarsi a lungo. Se ti secca buttarli ma hai paura che a mangiarli tutti ti si rovini la linea, io guardacaso stasera non ho niente da fare e...»
«Riccardo», lo interrompo. Sorrido fra me. «Grazie.»
«Uh.» Questa non se l’aspettava. «Questa non me l’aspettavo», dice infatti. Ha accantonato di colpo il tono giocoso; ora è più docile, più cauto. «Ero già pronto a ricevere insulti e commenti sul fatto che in ogni caso i pasticcini alla zucca ti facessero schifo, sai?»
«No, quello è il marzapane, ma non importa.» Sto ancora sorridendo. «Riccardo. Te lo dico subito: non ti ho chiamato per quello che pensi tu. Ma nemmeno per insultarti. Volevo dirti che su una cosa hai vinto: non ti odio più, non ce l’ho più con te. Qualsiasi cosa ci sia stata fra noi, la dichiaro ufficialmente conclusa. Vai in pace, Riccardo. E sii felice. Giuro che te lo auguro davvero.»
Riccardo esita. «E... da cosa deriverebbe questa serenità olimpica con cui – devo confessartelo – mi stai lasciando a bocca aperta?»
Inspiro. «Dal fatto che mi sa che ho appena fatto una scelta. Credo di essere giunta a una conclusione, di avere preso una decisione. E la mia decisione implica che fra me e te possa esserci l’armistizio, ma anche che non torneremo mai più insieme.» L’ho detto proprio come volevo. Ferma, ma gentile. «Okay? Ti sto chiamando per questo. Per chiederti di prenderne atto, ma veramente, stavolta. Fine delle ostilità, ma anche fine dei giochetti e delle porte aperte. Mi ha lusingata la tenacia che ci hai messo, davvero. Ora lo posso riconoscere. E tu resterai per sempre la favolosa rockstar che ha trasformato San Valentino in Halloween apposta per me.»
«Non dimenticare i fiori quotidiani», dice Riccardo. «Anche quella è stata una gran mossa.»
«Anche quella, certo. Ma... be’, hai capito.» Faccio una pausa. «Va bene?»
Anche Riccardo fa una breve pausa. «C’entra quel commissario di vent’anni più vecchio di te?»
«Sedici. Sì. Anche.»
«Anche? Chi altro?»
«Milton, credo. E un ghostwriter solo e anaffettivo che mi ha fatto capire come non voglio diventare. Ma lascia perdere, diventa troppo lunga da spiegare.»
Riccardo tace. Io taccio.
«Non posso prometterti che le bizzarrie di Vani Sarca non mi mancheranno abbastanza da cercare di tornare alla carica in futuro, sai. Ma, se è davvero questo che vuoi, ci provo. Buona fortuna, Vani.» Di colpo estrae nuovamente dal cilindro il tono scherzoso: «Che poi, sedici anni! Quanto dovrò mai aspettare prima che gli piglino problemi di prostata?».
«Buonanotte, Riccardo», sorrido, chiudendo la chiamata.
Inspiro tutto l’ossigeno del mondo.
E questa è fatta.
Ora viene la parte interessante.
Sono le nove e un quarto quando suono il campanello di casa di Ofelia Berganza. Se ricordo bene la conversazione avvenuta in questa stessa casa una settimana e qualche ora fa, stasera il commissario dovrebbe essere di nuovo a cena qui. «Scusa, ma tu aspetti qualcuno?» sento dire a Ofelia dall’interno, e spero che si tratti del tu giusto. Sento dei passi, la chiave nella porta. La porta si apre e il commissario mi guarda con un misto fra lo stupore e un’emozione lievemente meno pacata del solito che potrebbe ascriversi all’area della contentezza.
Ha un maglione blu scuro che gli sta molto bene.
«Sarca! Si vergogni, presentarsi a cena senza nemmeno avvertire. Ora mi toccherà cederle la mia porzione d’arrosto, ed è solo la terza volta che lo mangio in una settimana grazie a Ofelia. Venga dentro.»
«Non si disturbi, capo, non mi sto autoinvitando, le rubo solo un attimo. Ma credo che questo attimo le piacerà, perché le ho appena risolto il caso.»
Berganza sbarra gli occhi. Conoscendolo, tutte queste emozioni di fila potrebbero esaurire il suo budget fino al 2050. Pazienza, si vede che ho appena deciso di voler passare il resto della vita con un uomo molto composto.
Dalla cucina sbucano Ivano, che esclama: «Ehi! Che bello! Sei venuta a cena con noi?» e sua madre, che ha fra le mani un coltello da carne e sulla faccia l’espressione dell’ispettore Callaghan quando sta per sparare a un teppista.
«Le è mai capitato di avere un’epifania letteraria, capo?»
«Tipo Philip Marlowe che mi appare in sogno e mi dice il nome del colpevole? Magari.»
«Be’, a me è appena successo. Con il finale del Paradiso perduto. Lei lo conosce il finale del Paradiso perduto, capo?»
«Romeo, falla almeno entrare», dice Ofelia esasperata. Probabilmente vuole uccidermi col coltello da carne senza che vedano tutti i vicini. La ignoro. La ignora anche Berganza, fremente, che mi ascolta e mi fissa in quel suo modo unico che mi scalda dentro, come se fossi la pagina finale di un thriller.
«Sarca, per cortesia. La suspense mi sta uccidendo.»
«Non s’imbarazzi, capo, non lo conosce quasi nessuno. Io l’ho letto a scuola solo grazie a un professore molto speciale. Per farla breve, nel finale del Paradiso perduto Adamo si allontana dal’Eden camminando per mano a Eva verso l’ignoto sotto gli occhi dell’arcangelo Michele.»
«Le faccio notare che non ho detto che mi interessa conoscere il finale del Paradiso perduto, Sarca. Non in questo momento, perlomeno. Ma immagino che mi toccherà stare a sentire dove vuole arrivare.»
«Come se non sapessi che nei gialli la parte della rivelazione la legge sempre avidamente. Be’, il Paradiso perduto mi ha appena ispirata, direi folgorata, per ben due motivi. Il che, per inciso, nella storia delle risoluzioni dei gialli sospetto sia un record. E il primo motivo è proprio l’immagine di Adamo ed Eva che camminano, insieme, sotto gli occhi dell’arcangelo che li osserva.» Nel dirlo, ho allargano le mani, come a dipingere la scena a mezz’aria. Okay, sto prendendoci troppo gusto. «E va bene, ha ragione, vengo al punto: Mastrofanti comunica attraverso la badante. Solo che la badante non lo sa.»
«La badante? E... e come sarebbe a dire che non lo sa?»
«Cos’è che Mastrofanti può cambiare ogni giorno, che non può essere immortalato dalle fotografie di Antonutti e quindi notato da noi, e di cui anche Antonutti difficilmente avrebbe potuto accorgersi?»
Il commissario scuote la testa. «Nulla, Antonutti fotografava tutta la casa... Ma cosa fa, le domande trabocchetto per aumentare la tensione? Me lo dica lei, forza!»
«La piccola camminata mattutina che fa a braccetto dell’infermiera attraverso il suo salotto per aiutare la circolazione.»
Saltello del sopracciglio sinistro del commissario.
«Mi segua, capo. Noi finora abbiamo pensato che usasse le cose, cambiandole di posto e mimetizzandole con altre. Tant’è che abbiamo chiesto ad Antonutti di scattare ogni giorno quelle foto della casa. Ma a quel che ne sappiamo questo non ha mai preoccupato Mastrofanti. Credevamo che fosse perché Mastrofanti riteneva comunque impossibile che capissimo qualcosa dalle foto. Invece era perché dalle foto non c’era nulla da capire.» Pausa a effetto. Anche Ivano si avvicina un po’ per ascoltare meglio. «Il movimento, invece. Il movimento non è documentabile – se non su filmati, chiaro, ma Mastrofanti sapeva che non avremmo potuto spingerci fino alla famigerata videosorveglianza. Le sue camminate definivano dei percorsi che erano in sé stessi i segni del codice.»
«Ma allora perché tutto quell’ingombro di oggetti e mobili nel soggiorno?» rimugina il commissario. «Tutta quella messinscena era solo per depistarci?»
«Oh, certo che no. E non era nemmeno una messinscena. Serviva a creare strade.» Dio, potrei vivere per momenti come questo, in cui gli strappo questi sguardi. «Se Mastrofanti si fosse mosso in un ambiente sgombro – che sarebbe stata la cosa più logica, trattandosi di un tizio con grosse difficoltà di deambulazione – i suoi segnali sarebbero potuti consistere di molte meno combinazioni; che so, “raggiungiamo il divano”, “arriviamo fino al tavolo”, e così via. Ma l’infermiera avrebbe potuto facilmente trascinarlo per un metro in più o farlo deviare verso destra o verso sinistra nel sorreggerlo. Invece così, creandosi quella specie di circuito, di labirinto, Mastrofanti ha reso più numerosi e più complessi i suoi tragitti, che so, “arriviamo al divano girando intorno alla cassettiera di destra”, “facciamo il giro del tavolo fino alla sedia accanto al termosifone”, eccetera, e più inequivocabili agli occhi di chi lo osservava. Scommetto che, se chiede alla Borlengo o alla badante attuale, le diranno che Mastrofanti ha l’abitudine di decidere lui che percorso fare ogni giorno, e che ha una rosa di percorsi preferiti che replica di tanto in tanto, alternandoli senza logica apparente.»
«...Inoltre, la camminata avviene ogni mattina più o meno alla stessa ora: molto pratico per chi, in questo modo, sa esattamente quando appostarsi in osservazione», conclude Berganza.
«E infine, in questo modo Mastrofanti non aveva nemmeno bisogno di un complice consapevole, perché non occorreva che la Borlengo fosse al corrente di nulla; niente spiegazioni da dover dare nemmeno ad Antonutti, e nemmeno problemi particolari per il fatto che gli aveste cambiato badante.»
Berganza sembra euforico.
«In più, capo, mi conceda una piccola chicca personale. Si ricorda del mio motto?»
«Che motto?»
«“Se un’idea ti sembra valida, qualcun altro ci avrà già di sicuro scritto sopra.” Sono andata a controllare nei libri se un codice di questo genere sia mai stato attestato in passato.»
«Ma certo, ora ricordo. E lo è stato?»
«Oh, eccome. E pure da un’autrice molto molto importante. Sa chi è?»
Mi fa cenno di dirglielo.
«Madre Natura. Il movimento è uno dei più antichi mezzi che la natura ha insegnato agli esseri viventi per lanciare segnali e inviare comunicazioni. Pensi agli schemi del volo delle api o delle corse delle formiche: si sa che disegnano tragitti diversi che per le compagne hanno significati precisi, come appunto ideogrammi o segni in codice. Esistono un sacco di libri che confermano l’uso del movimento per inviare segnali, solo che non si tratta di romanzi o di manuali di crittografia: sono semplicemente saggi di etologia.»
«Be’, con John Milton e Madre Natura dalla sua parte, direi che la sua intuizione è più che avallata, Sarca! Corro a telefonare a Rovato per farmi mettere in contatto con la nuova infermiera», conclude il commissario raggiante. Fa per scattare di là, a recuperare il cellulare, quando si blocca e si gira. «Ma... mi scusi: e la seconda ispirazione?» Esita. «All’inizio ha detto che il finale del Paradiso perduto l’ha ispirata per due cose. Qual era la seconda?»
Mi mordo un labbro. «Gliela dico un’altra volta. Corra pure a telefonare, capo.»
Berganza non se lo fa ripetere due volte e scompare oltre la porta del corridoio.
Io resto sulla porta, soddisfatta e consapevole che Ivano e Ofelia mi stanno fissando.
«Oddio, hai davvero appena risolto il caso? Qui, sul nostro pianerottolo? Che figata!» esulta Ivano. Ofelia cerca di scoccargli un’occhiata burbera che lui non nota.
«Tieni», gli dico, estraendo di tasca le chiavi della mia macchina e facendole ondeggiare a mezz’aria. «Ho l’auto parcheggiata qua sotto, dall’altra parte della strada. Il sedile dietro è pieno di vassoi di dolci: portali su prima che qualche passante a dieta mi scassini la portiera.»
Ivano fa una specie di lungo balzo da lupo famelico verso la mia mano e poi con le mie chiavi scompare alle mie spalle, verso la tromba delle scale.
Io rimango di fronte a Ofelia Berganza.
Siamo sole.
«Immagino di doverla ringraziare», si decide finalmente a sospirare lei. «Non tanto per il... il caso risolto, anche se di certo a mio fratello avrà fatto un gran piacere. Ho saputo che qualche sera fa gli ha salvato la vita.»
Sospira.
Aspetto.
Sospira di nuovo.
«Temo di essere stata molto scortese con lei l’ultima volta. Per quel che conta, sono arrivata alla conclusione di non potermi opporre, se ha intenzione di continuare a frequentare Romeo.» Non che questo le cancelli dalla faccia l’espressione di una che ha appena bevuto una pinta di aceto.
«Esatto», dico. «Non si può opporre. E, anche se avesse continuato a farlo, le dirò: sono recentemente arrivata anch’io alla conclusione che non me ne sarebbe fregato un accidente.»
Ofelia spalanca gli occhi, disorientata. Suppongo, stupita più o meno come me quando è stata lei a chiedermi di levarmi dalle palle. È il karma, baby. Quanto a me, sono perfettamente serena.
«Sa qual è la seconda ispirazione di cui parlavo a suo fratello? Il fatto che, nel Paradiso perduto, Adamo scelga di seguire Eva, anche se Eva è una rinnegata. Ma è lui che lo sceglie. Capisce?»
Ofelia mi guarda con una faccia che potrebbe volere dire “no” oppure “forse sì, ma non mi piace”.
Io continuo, piano, perché Berganza potrebbe sempre riemergere dall’altra stanza da un momento all’altro. «Sa, dopo che lei mi ha parlato, ho pensato davvero che forse sarebbe stato meglio accogliere il suo suggerimento e defilarmi. Non volevo costringere suo fratello a scegliere fra me e un’atmosfera familiare decente. Anche perché so bene come si viva in un’atmosfera familiare tutt’altro che decente. Ma poi ho capito che così avrei scelto io al posto di suo fratello, e a quelli come me e lui non piace che nessuno scelga al posto nostro.»
L’espressione di Ofelia si sposta decisamente sul fronte numero due, quello del “capisco e non mi piace”.
«Io mica lo so se il commissario voglia davvero frequentarmi, sia chiaro, né ho intenzione di fargli pressioni. Ma nemmeno di tirarmi indietro per l’ennesima volta solo perché ho paura che finisca male. Perché quell’uomo è il migliore che abbia mai conosciuto e se sono molto fortunata potrebbe essere anche l’unica persona capace di sopportarmi un po’ più a lungo della media, che, per la cronaca, finora è stata di tre mesi e mezzo. Non credo sia giusto che io sia bloccata da lei, Ofelia, ma soprattutto sono stufa di essere bloccata da me stessa: forse il movimento è la soluzione anche del mio caso, non solo di quello di Mastrofanti.»
Sorrido.
Ofelia mi guarda.
Io guardo Ofelia.
A lungo. Tipo, per tutta la dinastia Ming.
Poi: «È vero», dice Ofelia. «A Romeo ha sempre dato terribilmente fastidio che qualcuno scegliesse per lui.» Esita. Poi mi sorride: pochino, a metà, prima mezza bocca, poi una palpebra. Piccoli passi, immagino. Anche qui. A quanto pare, i piccoli passi sono davvero la soluzione a un sacco di cose. «Senta, non posso dire di avere cambiato davvero idea dalla volta scorsa, ma ammetto che il fatto che lei abbia salvato la pelle a mio fratello aiuta. Chissà, forse non è vero che gli serve una persona che gli dia tranquillità. Forse gli serve qualcuno capace di seguirlo nella sua vita pericolosa e che non esiti a rischiare per salvargliela.» Con una specie di movimento spezzato, due caselle avanti e una indietro come al gioco dell’oca, mi tende la mano. «E poi almeno su una cosa ci troviamo d’accordo: il fatto che mio fratello sia l’uomo migliore che conosciamo.»
Le stringo la mano. Ha una stretta solida, ma non solida come quando cerchi di stritolare il metacarpo a qualcuno. Lo prendo come un buon segno.
«Sarca!» esclama proprio in quel momento Berganza, emergendo dall’interno di casa a passo svelto. Io e Ofelia ci stacchiamo e ci giriamo verso di lui, in fretta, neanche fossimo due adolescenti sorpresi a pomiciare. «Rovato non ha perso un secondo, mi ha tenuto in linea e ha contattato immediatamente la nuova badante dal telefono del commissariato, l’abbiamo interpellata in vivavoce – è stato quasi comico – e insomma la faccenda dei percorsi fissi sembra confermata al cento per cento.» È entusiasta. «Adesso si tratta solo di monitorare le “passeggiate” di Mastrofanti e imparare a decodificarle confrontandole con le mosse di quei suoi vecchi scagnozzi che già stiamo seguendo da un po’, e in capo, direi, a un paio di settimane dovremmo avere le chiavi per cogliere in flagrante tutti gli emissari e neutralizzare la rete al completo. Era seria quando rifiutava l’arrosto, Sarca? Perché ho mentito, ce n’è in abbondanza, e sarei felicissimo se...»
«Niente arrosto, e si tenga leggero anche lei, capo.» Okay, ci siamo. Vai. «Perché vorrei che andassimo a cena, domani sera. Cioè, insieme. Intendo. Io e lei. Fuori. Se le va.» Gesù. Ho la gola arida.
Berganza mi guarda.
«Sì, insomma, capo, mi chiedevo se le andrebbe che io e lei, come dire, uscissimo insieme. Tipo. Qualche volta. Cioè, magari anche tante volte. Se scopriamo che ci piace. A cominciare da domani.» Mi correggo: ho l’intero corpo arido. Arido tipo prosciugato. Arido tipo deserto di Marte. Arido tipo statua di sali minerali. Se Berganza respira forte potrei sgretolarmi come la moglie di Lot.
«Sarca, sta chiedendo a me se voglio uscire con lei?»
«Be’. Sì. No?» Cazzo, è difficile parlare con i molari serrati.
«Ma se è tutta la settimana che io cerco di...! Ah, non importa.» Ride. Perché ride? Però non ride come se mi prendesse in giro. Ride felice. Gli sfavillano gli occhi. «Mettiamola così: non c’è nulla al mondo che mi farebbe più felice che uscire con lei, Sarca. Non c’è nulla che abbia sperato di più in questi ultimi mesi. Nemmeno, be’, nemmeno che di risolvere questo caso.» Poi aggiunge di getto: «Ma perché non adesso? Perché non ce ne andiamo subito via insieme?». E fa una cosa, quella cosa, quella che ogni volta mi blocca le funzioni vitali: mi accarezza il viso e poi lascia la mano lì, sulla mia guancia, e porca miseria, deve avere una soglia del dolore altissima, perché sono certa che la mia faccia come al solito abbia raggiunto in un amen la temperatura dell’uranio che fonde.
Sbatto le palpebre e recupero la favella, e lo sforzo è tale che probabilmente invecchio di due anni in un secondo. «Be’... non ci avevo nemmeno pensato, ma, ecco, lei ha una famiglia e un arrosto che l’aspettano, e io ho un problema con San Valentino. Insomma... doversi ricordare per tutta la vita di questo schifo di festa come del giorno in cui tutto è cominciato?» recito, parafrasando me stessa al Quicksand e sapendo che il commissario coglierà al volo. Tanto la mia faccia più di così non può arrossire, quindi.
«Infatti. Romeo, non te ne andrai di punto in bianco mollando me, Ivano e l’arrosto per farti gli affaracci tuoi, sarebbe veramente scortese», interviene Ofelia. Ci giriamo verso di lei, e anche stavolta la velocità è quella di due adolescenti sorpresi a tubare: la cosa pazzesca è che stavolta non siamo nemmeno tanto distanti dalla realtà.
«Che cazzo, Ofelia, non ti metterai a...»
«Avanti, entrate. Tutti e due. Visto che abbiamo già stabilito che c’è abbastanza arrosto.» Alza le spalle. «Domani sera sarà tutta per voi e da quel momento in poi farete quello che vi pare, ma stasera la signorina Sarca è invitata in famiglia.»
Guardo Berganza, che guarda me e poi guarda Ofelia, che guarda lui e poi guarda me e fa un mezzo sorriso riluttante, come a dire: “Immagino che dovrò abituarmici”, e poi guardiamo Ivano, che è appena rispuntato dalle scale e, be’, anche lui ci sta guardando tutti a turno con la bocca aperta, come se avesse una percezione confusa ma sconvolgente che qualcosa di epocale sta accadendo sotto i suoi occhi, per esempio per via del fatto che suo zio mi sta a un centimetro di distanza e ha una mano sul mio viso.
Il commissario mi scruta. «Che dice, Sarca? Troppe novità in una sola sera? Festeggiare San Valentino e farlo con una cena in casa?» mi chiede cauto, sempre senza togliere la mano.
Inspiro. «Non potrà finire peggio che nel 1929.»
Berganza ride.
E non ha ancora spostato la mano.
Questo sarebbe per lui il momento di farlo, schiodarsi di qui e precedermi dentro casa. Invece Berganza resta fermo e continua a guardarmi per un paio di secondi durante i quali ogni muscolo involontario del mio corpo si cristallizza.
«Mi... mi permette di fare solo una cosa per la quale non credo di poter aspettare domani sera?»
Non rispondo. Non annuisco. Ma nemmeno dico di no. Sbatto le palpebre. Il commissario lo prende per un sì.
E mi bacia.
Clic!, fa qualcosa a un paio di metri dalle nostre orecchie. Ci stacchiamo. Smettiamo di guardarci. Ci giriamo. Non è un’operazione veloce. Ma tanto, quando finalmente i nostri occhi riescono a sganciarsi e volgersi verso l’origine del clic, anche Ivano è ancora lì, paralizzato, con il cellulare in mano.
«Per Morgana», si giustifica. «O non ci crederà mai.»
Arrossiamo un po’, cioè, io arrossisco, Berganza credo anche lui un pochino ma, visto che adesso sto prendendomi la faccia fra le mani per accertarmi che non si sia carbonizzata, posso desumerlo solo dalla sommessa risatina che gli sento fare dalle parti della mia tempia destra, mentre Ivano e Ofelia, sempre a giudicare dai rumori, si sono decisi a levarsi dai piedi e ad andare ad aspettarci dentro.
«Guardi che non so assolutamente dove andremo, capo», sussurro, e non sono certa di stare riferendomi soltanto alla meta di domani.
«Si fidi di me, Sarca. Sono certo che troveremo il nostro posto.» Sorride. «A proposito», aggiunge di colpo, allegro: «Non sarà venuto il momento di darci del tu?».
Mi passa un braccio attorno alla vita ed entriamo in casa.