Quaderno 4
La solitudine luminosa
Immagini della foresta
Immerso in questi ricordi, a un tratto debbo risvegliarmi.
È il fragore del mare. Scrivo da Isla Negra, sulla costa, vicino a Valparaíso. Si sono da poco calmati i grandi venti che hanno battuto il litorale. L'oceano - che, più che essere io a guardarlo dalla finestra, mi guarda con mille occhi di spuma - conserva ancora nell'accavallarsi delle onde la terribile persistenza dell'uragano.
Che anni lontani! Ricostruirli è come se il suono delle onde che ora ascolto entrasse a tratti dentro di me, a volte ninnandomi per addormentarmi, altre con il brusco balenio di una spada. Raccoglierò quelle immagini senza cronologia, come queste onde che vanno e vengono.
1929. Di sera. Vedo la folla accalcarsi per strada. È una festa musulmana. In mezzo alla strada hanno scavato una lunga trincea e l'hanno riempita di carboni ardenti.
Mi avvicino. Il calore delle braci che si sono accumulate, sotto un sottilissimo strato di cenere, sul nastro scarlatto di fuoco vivo, mi brucia il volto. A un tratto appare uno strano personaggio. Con il viso dipinto di bianco e di rosso è portato a spalla da quattro uomini, vestiti anch'essi di rosso. L'adagiano a terra, e l'uomo comincia ad avanzare barcollando sui carboni, e mentre cammina grida: - Allah, Allah!
La folla immensa divora attonita la scena. Il mago ha già percorso incolume tutto il lungo nastro di carboni.
Ed ecco che dalla calca si stacca un uomo, si toglie i sandali e a piedi scalzi compie lo stesso percorso. E continuamente si fanno avanti dei volontari. Alcuni si fermano a metà della trincea e calcano con i piedi nel fuoco, al grido di Allah!, Allah!, urlando con gesti orribili e stralunando gli occhi al cielo. Altri passano con i bambini in braccio. Nessuno si brucia; o forse si bruciano e non lo sanno.
Vicino al fiume sacro s'innalza il tempio di Khalí, la dea della morte. Entriamo, mescolati a centinaia di pellegrini che sono venuti dal fondo della provincia indiana a conquistarsi la sua grazia. Timorosi, cenciosi, i pellegrini vengono spinti avanti dai bramini che a ogni passo si fanno pagare per qualcosa. I bramini sollevano uno dei sette veli della dea esecrabile e, quando lo tolgono, risuona un colpo di gong, quasi volesse far crollare il mondo. I pellegrini cadono in ginocchio, salutano con le mani giunte, toccano il pavimento con la fronte, e continuano a camminare fino al prossimo velo. I sacerdoti li fanno convergere in un cortile in cui, con un solo colpo d'accetta, decapitano capretti e riscuotono nuovi tributi. I belati degli animali feriti vengono soffocati dai colpi di gong. Le pareti di calce sporca sono schizzate di sangue fino al soffitto. La dea è una figura dal volto scuro e dagli occhi bianchi. Dalla bocca, una lingua scarlatta di due metri scende fino a toccare il pavimento.
Collane di teschi ed emblemi di morte le pendono dalle orecchie e dal collo. I pellegrini pagano gli ultimi soldi che sono loro rimasti e poi vengono spinti in strada.
Assai diversi da quei pellegrini sottomessi erano i poeti che mi si fecero intorno per cantarmi le loro canzoni e recitarmi i loro versi. Accompagnandosi con dei tamburelli, vestiti delle loro tuniche bianche lunghe fino ai piedi, accoccolati per terra, ognuno di quei poeti lanciava un grido roco, spezzato, e gli usciva dalle labbra una canzone che aveva composto con la stessa forma e lo stesso metro delle canzoni antiche, millenarie.
Ma il loro significato era cambiato. Non erano più canzoni di sensualità, di gioia, ma canzoni di protesta, canzoni contro la fame, canzoni scritte in prigione.
Molti di quei giovani poeti che incontrai per tutta l'India, e il cui sguardo cupo non potrò dimenticare, erano appena usciti dal carcere, ed entro le sue mura sarebbero tornati forse l'indomani stesso. Perché pretendevano di sollevarsi contro la miseria e contro gli dèi. È questa l'epoca che ci è stato dato vivere. E questo è il secolo d'oro della poesia universale. Mentre i nuovi cantici sono perseguitati, notte dopo notte un milione di uomini dorme per strada, nei sobborghi di Bombay. Dormono, nascono e muoiono. Non c'è casa, né pane, né medicine. È in queste condizioni che la civile, orgogliosa Inghilterra ha lasciato il suo impero coloniale.
Si è congedata dai suoi antichi sudditi senza lasciar loro scuole, industrie, case, ospedali, ma solo prigioni e montagne di bottiglie di whisky vuote.
Il ricordo dell'orangutan Rango è un'altra tenera immagine che viene dalle onde. A Medán, nell'isola di Sumatra, suonai spesso alla porta di quel giardino botanico in rovina. E con mia meraviglia, era sempre lui che veniva ad aprirmi. Tenendoci per mano percorrevamo un sentiero, fino a sederci a un tavolo su cui l'orango batteva con le mani e i piedi. Appariva allora un cameriere che ci serviva un boccale di birra, né grande né piccolo, buono per l'orango e per il poeta.
Nel giardino zoologico di Singapore, in una gabbia, vedevamo l'uccello lira, fosforescente e collerico, splendido nella sua bellezza d'uccello appena uscito dall'eden.
E poco più in là, nella sua gabbia, s'aggirava una pantera nera, ancora odorosa della foresta da cui era venuta. Era un frammento curioso della notte stellata, un nastro magnetico che si agitava senza posa, un vulcano nero ed elastico che voleva radere al suolo il mondo, una dinamo di forza pura che ondeggiava; e due occhi gialli, sicuri come pugnali, che interrogavano con il loro fuoco, che non capivano né la prigione né il genere umano.
Arriviamo allo strano tempio del Serpente, nei sobborghi di Penang, nel paese che un tempo si chiamava Indocina.
Questo tempio è stato più volte descritto da viaggiatori e da giornalisti. Con tante guerre, tante distruzioni, tanto tempo e tanta pioggia che si sono abbattute sulle strade di Penang, non so se esista ancora. Sotto il tetto di tegole, un edificio basso e nerastro, consunto dalle piogge tropicali, fra lo spessore delle grandi foglie dei banani. Odore d'umidità. Profumo di frangipani.
Quando entriamo nel tempio, nella penombra non vediamo niente. Un forte profumo d'incenso e, in un angolo, qualcosa che si muove. È un serpente che si distende.
A poco a poco notiamo che ce ne sono altri. Poi osserviamo che sono forse dozzine. Più tardi, capiamo che ci sono centinaia o migliaia di serpenti. Ce ne sono di piccoli, attorcigliati ai candelabri, di scuri, metallici e sottili, e tutti sembrano sazi e addormentati. Infatti dovunque si vedono preziosi bacili di porcellana, alcuni traboccanti di latte, altri pieni di uova. I serpenti non ci guardano. Passiamo sfiorandoli per gli stretti labirinti del tempio, sono sulle nostre teste, penzolanti dall'architettura dorata, dormono sui muretti, si attorcigliano sugli altari. Ecco qui la terribile vipera di Russell; sta trangugiando un uovo accanto a una dozzina di mortiferi serpenti corallo, i cui anelli scarlatti annunciano il loro veleno istantaneo. Notai il serpente fer de lance, vari grandi pitoni, il coluber de rusi e il coluber noya. Serpenti verdi, grigi, azzurri, neri, riempivano la sala.
Tutto in silenzio. Di tanto in tanto, un bonzo vestito di zafferano attraversa l'ombra. Il colore brillante della sua tunica lo fa sembrare un altro serpente, sinuoso e indolente, in cerca di un uovo o di un bacile di latte.
Hanno portato fin qui queste serpi? E in che modo sono state addomesticate? Alle nostre domande rispondono con un sorriso, dicendoci che sono venute da sole, e che da sole se ne andranno quando ne avranno voglia.
Certo è che le porte sono aperte e non ci sono né reticelle, né vetri, e nient'altro che le costringa a restare nel tempio.
L'autobus usciva da Penang e doveva attraversare la foresta e i villaggi dell'Indocina per arrivare a Saigon.
Nessuno capiva la mia lingua e io non capivo la lingua di nessuno. Ci fermavamo in angoli della foresta vergine, lungo l'interminabile strada, e dall'autobus scendevano i passeggeri, contadini dagli strani vestiti, dalla dignità taciturna e dagli occhi a mandorla. Ormai solo tre o quattro erano rimasti dentro quell'imperturbabile trabiccolo che cigolava e minacciava di disintegrarsi nella notte afosa.
A un tratto mi sentii invadere dal panico. Dov'ero?
Dove andavo? Perché passavo quella notte lunghissima fra sconosciuti? Attraversavamo il Laos e la Cambogia.
Osservai il volto impenetrabile dei miei ultimi compagni di viaggio. Stavano con gli occhi aperti. Mi parve avessero ceffi patibolari. Mi trovavo senza dubbio fra i tipici banditi di un racconto orientale.
Si scambiavano sguardi d'intesa e mi guardavano di sottecchi. Proprio in quel momento l'autobus si fermò silenziosamente in piena foresta. Scelsi il mio posto per morire.
Non avrei permesso che mi portassero al sacrificio sotto quegli alberi sconosciuti la cui ombra scura nascondeva il cielo. Sarei morto lì, su un sedile di quell'autobus sgangherato, fra ceste di verdura e gabbie di galline che erano l'unica cosa familiare in quel terribile momento.
Mi guardai intorno, deciso ad affrontare la furia dei miei carnefici, e scoprii che anch'essi erano scomparsi.
Aspettai per molto tempo, solo, con il cuore in tumulto per l'oscurità intensa della notte straniera.
Sarei morto senza che nessuno lo sapesse. Così lontano dal mio piccolo paese amato! Così lontano da tutti i miei amori e i miei libri!
A un tratto apparve un lume, poi un altro. La strada si riempì di lumi. Suonò un tamburo; scoppiarono le note stridenti della musica cambogiana. Flauti, tamburelli e torce riempirono la strada di luce e di suoni. Un uomo salì sull'autobus e mi disse in inglese: - L'autobus ha avuto un guasto. E dato che l'attesa sarà lunga, forse fino all'alba, e qui non c'è nessun posto dove dormire, i passeggeri sono andati a cercare una compagnia di musici e di ballerini perché lei si distragga.
Per ore ed ore, sotto quegli alberi che non mi minacciavano più, assistetti alle meravigliose danze rituali di una nobile ed antica cultura e ascoltai, fino al sorgere del sole, la musica deliziosa che invadeva la strada.
Il poeta non può aver paura del popolo. Mi parve che la vita mi desse un avvertimento e m'impartisse una volta per sempre una lezione: la lezione dell'onore nascosto, della fraternità che non conosciamo, della bellezza che fiorisce nell'oscurità.
***
Congresso in India.
Oggi è un giorno di splendore. Ci troviamo nel Congresso indiano. Una nazione in piena lotta per la sua indipendenza.
Migliaia di delegati riempiono le gallerie.
Mi viene presentato Gandhi. E anche il Pandit Nehru, un altro patriarca del movimento. E suo figlio, l'elegante giovane Jawaharlal, appena arrivato dall'Inghilterra.
Nehru è un sostenitore dell'indipendenza mentre Gandhi appoggia la semplice autonomia come passaggio necessario. Gandhi: un volto fine da astutissima volpe; un uomo pratico; un politico simile ai nostri vecchi dirigenti cileni; maestro nei comitati, saggio nelle tattiche, infaticabile. Intanto la folla è una corrente interminabile che tocca con adorazione l'orlo della sua tunica bianca e grida: «Gandhiii! Gandhiii!»; lui saluta con un cenno e sorride, senza togliersi gli occhiali. Riceve e legge messaggi; risponde a telegrammi; tutto senza fatica; è un santo che non si logora. Nehru: un intelligente accademico della sua rivoluzione.
Una grande figura di quella riunione fu Subhas Chandra Bose, impetuoso demagogo, violento antimperialista, affascinante figura politica della sua patria.
Nella guerra del '14, durante l'invasione nipponica, si unì ai giapponesi contro l'impero inglese. Molti anni dopo, qui in India, uno dei suoi compagni mi racconta com'è caduto il forte di Singapore: - Avevamo le nostre armi rivolte verso gli assedianti giapponesi. A un tratto ci chiedemmo... e perché?
Facemmo voltare i nostri soldati e puntammo le armi contro le truppe inglesi. Fu semplicissimo. I giapponesi erano invasori di passaggio. Gli inglesi sembravano eterni.
Subhas Chandra Bose fu arrestato, giudicato e condannato a morte dai tribunali britannici dell'India, come colpevole di alto tradimento. Le proteste si moltiplicarono spinte dall'ondata indipendentista. Alla fine, dopo molte battaglie legali, il suo avvocato - appunto Nehru - ottenne l'amnistia. Da quel momento divenne un eroe popolare.
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Gli dèi sdraiati.
... Dovunque le statue di Buddha, di Lord Buddha ...Le severe, verticali, consunte statue, con un dorato splendore animale, con una dissoluzione come se l'aria le consumasse...
Sulle gote, fra le pieghe della tunica, nei gomiti, negli ombelichi, nella bocca, nel sorriso, spuntano piccole macchie: funghi, porosità, orme escrementizie della foresta...
Oppure le giacenti, le immense giacenti, le statue di quaranta metri di pietra, di granito arenario, pallide, distese tra le fronde sussurranti, inaspettate, che sorgono da qualche angolo della foresta, da qualche piattaforma che le circonda... addormentate o non addormentate, sono là da cent'anni, da mille anni, da mille volte mille anni...Ma sono dolci, con una manifesta ambiguità metaterrena, aspiranti a restare e ad andarsene... E quel sorriso di dolcissima pietra, quella maestà imponderabile, fatta però di pietra dura, perpetua, a chi sorridono, a chi, sulla terra insanguinata?...
Passarono le contadine in fuga, gli uomini dell'incendio, i guerrieri mascherati, i falsi sacerdoti, i turisti divoranti... E la statua continuò a rimanere al suo posto, l'immensa pietra con ginocchia, con pieghe nella tunica di pietra, con lo sguardo perduto e tuttavia esistente, interamente inumano e pure in qualche modo umano, in qualche modo od in qualche contraddizione statuaria, essendo e non essendo dèi, essendo e non essendo pietra, sotto il gracchiare degli uccelli neri,fra lo svolazzare degli uccelli rossi, degli uccelli della foresta... In qualche modo, pensiamo ai terribili Cristi spagnoli, che abbiamo ereditato con piaghe e tutto, con pustole e tutto, con cicatrici e tutto, con quell'odore di candela, di umidità, di stanza chiusa che hanno le chiese... Anche quei Cristi sono stati in dubbio fra essere uomini ed essere dèi... Per farli uomini, per avvicinarli di più a coloro che soffrono, alle partorienti e ai decapitati, ai paralitici e agli avari, alla gente di chiesa e a quella che circonda le chiese, per renderli umani, gli scultori li hanno coperti di piaghe orripilanti, finché tutto questo si è trasformato nella religione del supplizio, nel pecca e soffri, nel non peccare e soffri, nel vivi e soffri, senza nessuna possibilità di scampo... Qui no, qui la pace è arrivata alla pietra... Gli scultori si sono ribellati ai canoni del dolore e questi Buddha colossali, con piedi da divinità giganti, hanno sul volto un sorriso di pietra che è placidamente umano, senza tanta sofferenza... E da quei Buddha emana un odore non di stanza morta, non di sagrestìa e ragnatele, ma di spazio vegetale, di raffiche che a un tratto cadono in uragani, con piume, foglie, polline dell'infinita foresta...
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Sventurata famiglia umana.
In alcuni saggi sulla mia poesia ho letto che il mio soggiorno in Estremo Oriente influisce su determinati aspetti della mia opera, specialmente su Residencia en la Tierra. In verità i miei unici versi di quel periodo furono quelli di Residencia en la Tierra, ma, senza voler fare delle affermazioni troppo recise, dico che questo fatto dell'influenza mi pare sbagliato.
Tutto l'esoterismo filosofico dei paesi orientali, messo a confronto con la vita reale, si rivelava come un sottoprodotto dell'inquietudine, della nevrosi, del disorientamento e dell'opportunismo occidentali; cioè, della crisi di fondo del capitalismo.
In quegli anni, in India, non c'erano molti posti per le contemplazioni dell'ombelico profondo. Una vita di brutali esigenze materiali, una condizione coloniale basata sulla più assoluta abiezione, migliaia di morti ogni giorno, di colera, di vaiolo, di febbri e di fame, organizzazioni feudali squilibrate dall'immensa popolazione e dalla povertà industriale del paese, imprimevano alla vita una gran ferocia in cui i riflessi mistici scomparivano.
I nuclei teosofici erano quasi sempre diretti da avventurieri occidentali, tra cui non mancavano americani del Nord e del Sud. Non c'è dubbio che fra essi vi fossero persone in buonafede, ma la maggior parte sfruttava un mercato a basso prezzo, dove si vendevano all'ingrosso amuleti e feticci esotici, mescolati a paccottiglia metafisica. Quella gente si riempiva la bocca con il Dharma e con lo Yoga. Le piaceva la ginnastica religiosa impregnata di vacuità e di chiacchiere.
Per questi motivi, l'Oriente mi fece l'impressione di una grande e sventurata famiglia umana, senza che nella mia coscienza ci fosse posto per i suoi riti e le sue divinità.
Non credo dunque che la mia poesia di allora abbia riflettuto altro che la solitudine di un forestiero trapiantato in un mondo strano e violento.
Ricordo uno di quei turisti dell'occultismo, vegetariano e conferenziere. Era un tipo piccoletto, di mezza età, con una calvizie totale e lucente, chiarissimi occhi azzurri, sguardo penetrante e cinico, di nome Powers.
Veniva dal Nordamerica, dalla California, professava la religione buddhista, e le sue conferenze terminavano sempre con questa prescrizione dietetica: «Come diceva Rockefeller, alimentatevi con un'arancia al giorno».
Questo Powers mi divenne simpatico per la sua allegra faccia tosta. Parlava spagnolo. Dopo le sue conferenze ce ne andavamo insieme a farci delle gran scorpacciate di agnello arrosto (khebab) con cipolla. Era un buddhista teologico, non so se legittimo od illegittimo, con una voracità più autentica del contenuto delle sue conferenze.
S'invaghì ben presto di una ragazza meticcia, innamorata del suo smoking e delle sue teorie, una signorina anemica, dallo sguardo dolente, che lo credeva un dio, un Buddha vivente. Le religioni cominciano così.
In capo ad alcuni mesi di quest'amore, un giorno mi venne a cercare perché assistessi a un suo nuovo matrimonio.
Sulla sua motocicletta, fornitagli da una ditta commerciale per cui lavorava come venditore di frigoriferi, ci lasciammo velocemente alle spalle boschi, monasteri e risaie. Finalmente arrivammo a un piccolo villaggio di architettura cinese e di abitanti cinesi. Accolsero Powers con mortaretti e musica, mentre la sposa giovanetta rimaneva seduta, truccata di bianco come un idolo, su una sedia più alta delle altre. Al ritmo della musica, bevemmo limonate di tutti i colori. Powers e la sua nuova sposa non si rivolsero mai la parola.
Ritornammo in città. Powers mi spiegò che con quel rito solo la fidanzata si sposava. Le cerimonie sarebbero continuate senza bisogno che lui fosse presente. In séguito sarebbe ritornato a vivere con lei.
- Si rende conto di praticare la poligamia? - gli chiesi.
- L'altra mia moglie lo sa e sarà molto contenta.
In quest'affermazione c'era tanta verità quanta nella storia dell'arancia quotidiana. Appena giunti a casa sua, a casa della prima moglie, trovammo quest'ultima, una meticcia dolente, agonizzante con una tazza di veleno sul comodino e una lettera di addio. Il suo corpo bruno, completamente nudo, era immobile sotto la zanzariera.
La sua agonia durò molte ore.
Malgrado cominciassi a considerarlo repellente, restai a fargli compagnia perché evidentemente soffriva.
Il cinico che portava dentro di sé era crollato. Andai con lui al funerale. Lungo la riva di un fiume mettemmo la povera bara su un cumulo di legna. Con un fiammifero, Powers appiccò il fuoco, mormorando frasi rituali in sanscrito.
Alcuni musici, vestiti con tuniche arancioni, salmodiavano o soffiavano dentro tristissimi strumenti. La legna ogni tanto si spegneva ed era necessario riattizzare la fiamma con i fiammiferi. Il fiume correva indifferente fra le sue sponde. Anche il cielo azzurro, eterno, dell'Oriente dimostrava un'assoluta impassibilità, un'infinita indifferenza verso quel triste funerale solitario di una povera abbandonata.
La mia vita ufficiale funzionava una sola volta ogni tre mesi, quando arrivava da Calcutta una nave che trasportava paraffina solida e grandi casse di tè per il Cile.
Dovevo freneticamente timbrare e firmare documenti.
Sarebbero poi venuti altri tre mesi di inazione, di contemplazione solitaria di mercati e di templi. Questa è l'epoca più dolorosa della mia poesia.
La strada era la mia religione. La strada birmana, la città cinese con i suoi teatri all'aria aperta, i suoi draghi di carta e le sue splendide lanterne. La strada indù, la più umile, con i suoi templi riservati a una sola casta, e i poveri prosternati fuori, nel fango. I mercati in cui le foglie di betel si ammucchiavano in piramidi verdi come montagne di malachite. I negozi d'animali, in cui si vendevano bestie feroci e uccelli selvatici. Le strade pavesate, per le quali passavano le birmane variopinte con un lungo sigaro in bocca. Tutto questo mi assorbiva e mi immergeva poco a poco nel sortilegio della vita reale.
Le caste classificavano la popolazione indiana come un teatro parallelepipedo a gallerie sovrapposte, in cima a cui sedevano gli dèi. A loro volta anche gli inglesi avevano una loro scala di caste che andava dal piccolo impiegato di bottega, passava attraverso i professionisti e gli intellettuali, continuava con gli esportatori e culminava con la terrazza dell'apparato su cui sedevano comodamente gli aristocratici del Civil Service e i banchieri dell'empire.
Questi due mondi non si toccavano. La gente del posto non poteva entrare nei locali riservati agli inglesi, e gli inglesi vivevano separati dal cuore palpitante del paese.
Questa situazione mi causò delle difficoltà. I miei amici britannici mi videro su un veicolo chiamato gharry, una carrozzella destinata a itineranti ed effimeri incontri galanti, e mi avvertirono amabilmente che un console come me non doveva usare quei veicoli per nessun motivo. M'intimarono anche di non sedermi in un ristorante persiano, un locale pieno di vita in cui prendevo il tè migliore del mondo in piccole tazze trasparenti.
Questi furono gli ultimi ammonimenti. Poi mi tolsero il saluto.
Io mi sentii felice del boicottaggio. Quegli europei pieni di pregiudizi non erano poi granché interessanti e, in fin dei conti, io non ero venuto in Oriente per convivere con colonizzatori di passaggio, ma con l'antico spirito di quel mondo, con quella grande e sventurata famiglia umana. Penetrai talmente nell'anima e nella vita di quella gente, che m'innamorai di un'indigena. Si vestiva come un'inglese ed era conosciuta come Josie Bliss. Ma nell'intimità della sua casa, che presto divisi con lei, si spogliava di quegli abiti e di quel nome per usare il suo abbagliante sarong e il suo recondito nome birmano.
***
Tango del vedovo.
La mia vita privata non era facile. La dolce Josie Bliss si andò chiudendo in se stessa e s'innamorò a tal punto da ammalarsi di gelosia. Se non fosse stato per questo, forse avrei continuato a starle accanto indefinitamente.
Sentivo tenerezza per i suoi piedi nudi, per i bianchi fiori che brillavano fra i suoi capelli scuri. Ma il suo temperamento la condannava ad un parossismo selvaggio. Era gelosa delle lettere che mi arrivavano da lontano; nascondeva i miei telegrammi senza aprirli, guardava con rancore l'aria che respiravo.
Qualche volta mi svegliava una luce, un fantasma che si muoveva dietro la zanzariera. Era lei, vestita di bianco, che brandiva il suo lungo e affilato coltello indigeno.
Era lei che gironzolava per ore intere attorno al mio letto senza decidersi a uccidermi. «Quando morirai i miei terrori finiranno», mi diceva. Il giorno dopo celebrava misteriosi riti per propiziare la mia fedeltà.
Avrebbe finito per uccidermi. Per fortuna ricevetti un messaggio ufficiale che mi comunicava il mio trasferimento a Ceylon. Preparai il viaggio in segreto e un giorno, abbandonando i miei vestiti e i miei libri, uscii di casa come al solito e salii sulla nave che mi avrebbe portato lontano.
Lasciavo Josie Bliss, specie di pantera birmana, con il più grande dolore. Appena la nave cominciò a ballare sulle onde del Golfo del Bengala, mi misi a scrivere il «Tango del viudo», tragico brano della mia poesia dedicato alla donna che persi e mi perdette, perché nel suo sangue crepitava senza posa il vulcano dell'ira. Che notte immensa, che terra sola!
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L'oppio.
... C'erano strade intere dedicate all'oppio... I fumatori si stendevano su bassi tavolacci... Erano i veri luoghi religiosi dell'India... Non avevano nessun lusso, né arazzi, né cuscini di seta... Tutto era tavole non dipinte, pipe di bambú e poggiatesta di maiolica cinese... C'era un'aria di decoro e di austerità che non esisteva nei templi... Gli uomini addormentati non facevano movimento né rumore...
Fumai una pipa... Non successe niente... Era un fumo caliginoso, tiepido e lattiginoso... Fumai quattro pipe e stetti male per cinque giorni, con nausee che mi salivano dalla spina dorsale, che mi scendevano dal cervello... E un odio per il sole, per l'esistenza... Il castigo dell'oppio... Ma questo non poteva essere tutto... Si era tanto detto, si era tanto scritto, si era tanto rovistato in sacche e valigie, cercando alla dogana di scoprire il veleno, il famoso veleno sacro... Bisognava vìncere la nausea... Dovevo conoscere l'oppio, sapere l'oppio, per dare la mia testimonianza...
Fumai molte pipe, finché conobbi... Non ci sono sogni, non ci sono immagini, non c'è parossismo... C'è un indebolimento melodico, come se una nota infinitamente dolce si prolungasse nell'aria... Uno svenimento, un vuoto dentro... Qualsiasi movimento, del gomito, della nuca, qualsiasi rumore lontano di veicolo, un colpo di clacson o un grido dalla strada, entrano a far parte di un tutto, di una riposante delizia... Capii perché i braccianti di piantagione, i manovali, i risciomen che tirano e tirano il risciò tutto il giorno, rimangono lì all'improvviso, offuscati, immobili... L'oppio non era quel paradiso degli esotisti che mi avevano dipinto, ma l'evasione degli sfruttati...
Tutti quelli della fumeria erano poveri diavoli... Non c'era nessun cuscino ricamato, nessun segno della sia pur minima ricchezza... Niente brillava nella stanza, neppure gli occhi socchiusi dei fumatori... Riposavano, dormivano?...
Non l'ho mai saputo... Nessuno parlava... Nessuno parlava mai... Non c'erano mobili, tappeti, niente... Sui tavolacci consunti, addolciti da tanto contatto umano, si vedevano alcuni piccoli poggiatesta di legno... Nient'altro, tranne il silenzio e il profumo dell'oppio, stranamente repellente e penetrante... Senza dubbio lì v'era una strada verso l'annientamento... L'oppio dei magnati, dei colonizzatori, era destinato ai colonizzati ...Le fumerie avevano alla porta la loro autorizzazione, il loro numero e la loro licenza... All'interno, regnavano un gran silenzio opaco, un'inazione che rimediava all'infelicità e leniva la stanchezza... Un silenzio caliginoso, sedimento di molti sogni interrotti che ristagnavano... Coloro che sognavano con gli occhi socchiusi stavano vivendo un'ora immersi nel mare, una notte intera su una collina, godendo di un riposo sottile e ristoratore...
Dopo quella volta non sono più tornato alle fumerie...
Ormai sapevo... Ormai conoscevo... Ormai avevo toccato qualcosa d'inafferrabile... remotamente nascosto dietro il fumo...
***
Ceylon.
Ceylon, la più bella isola grande del mondo, verso il 1929 aveva la stessa struttura coloniale della Birmania e dell'India. Gli inglesi se ne stavano rintanati nei loro quartieri e nei loro club, circondati da un'immensa folla di musici, vasai, tessitori, schiavi di piantagione, monaci vestiti di giallo e divinità immense, intagliate nelle montagne di pietra.
Fra gli inglesi in smoking tutte le sere, e gli indiani irraggiungibili nella loro favolosa immensità, io non potevo scegliere altro che la solitudine, e così quell'epoca è stata la più solitaria della mia vita. Ma la ricordo lo stesso come la più luminosa, come se un lampo di straordinario fulgore si fosse fermato alla mia finestra per illuminare il mio destino dentro e fuori.
Me ne andai a vivere in un piccolo bungalow, da poco costruito nel sobborgo di Wellawatha, sul mare. Era una zona spopolata e le onde, inseguendosi, s'infrangevano contro la scogliera. Di notte cresceva la musica marina.
Al mattino, il miracolo di quella natura appena lavata mi sbalordiva. Fin dalle prime ore del giorno ero insieme ai pescatori. Le imbarcazioni, provviste di lunghissimi galleggianti, parevano ragni del mare. Gli uomini tiravano su pesci dai colori violenti, pesci come uccelli della foresta infinita, alcuni di un oscuro azzurro fosforescente come un intenso velluto vivo, altri in forma di un ispido globo che si sgonfiava fino a trasformarsi in un povero sacchettino di spine.
Contemplavo con orrore il massacro dei gioielli del mare. Il pesce veniva venduto a pezzi alla povera popolazione.
Il machete dei sacrificatori dilaniava quella materia divina della profondità per trasformarla in merce sanguinolenta.
Camminando lungo la costa, arrivavo al bagno degli elefanti. Accompagnato dal mio cane non potevo sbagliarmi.
Dall'acqua tranquilla usciva un immobile fungo grigio, che si trasformava poi in serpente, poi in una testa immensa, e infine in montagna con le zanne. Nessun paese al mondo aveva, o ha, tanti elefanti che lavorano nelle strade. Era straordinario vederli ora - lontano dal circo o dalle sbarre del giardino zoologico - camminare con il loro carico di legna come laboriosi e immensi braccianti.
Le mie uniche compagnie furono il mio cane e la mia mangusta. La mangusta, da poco uscita dalla foresta, crebbe al mio fianco, dormiva nel mio letto e mangiava al mio tavolo. Nessuno può immaginare la tenerezza di una mangusta. Il mio piccolo animaletto conosceva ogni minuto della mia vita, passeggiava tra le mie carte e mi correva dietro tutto il giorno. All'ora della siesta mi si arrotolava fra la spalla e la testa e lì dormiva con il sonno sussultante ed elettrico degli animali selvatici.
La mia mangusta addomesticata divenne famosa in tutto il quartiere. Le manguste hanno un prestigio quasi mitologico, grazie alle continue battaglie che sostengono coraggiosamente con i terribili cobra. Io, dopo averle viste molte volte lottare con i serpenti, credo che li vincano solo per la loro agilità e per il fitto mantello color sale e pepe che inganna e sconcerta il rettile. In quei paesi si crede che la mangusta, dopo i combattimenti contro i suoi velenosi nemici, vada in cerca delle erbe dell'antidoto.
Comunque il prestigio della mia mangusta - che quasi ogni giorno mi accompagnava nelle mie lunghe passeggiate sulla spiaggia - fece sì che un pomeriggio tutti i bambini del quartiere si dirigessero a casa mia in imponente processione. Nella strada era apparso un atroce serpente, e così venivano a chiedere Kiria, la mia famosa mangusta, di cui s'apprestavano a celebrare l'indubbio trionfo. Seguito dai miei ammiratori - intere bande di bambinetti tamil e cingalesi, senz'altro vestito che il perizoma -, guidai la sfilata guerriera con la mia mangusta in braccio.
Il serpente era una specie nera della terribile pollongha, o vipera di Russell, dal potere mortale. Stava prendendo il sole fra l'erba, avvinghiata ad un tubo bianco su cui spiccava come una frusta sulla neve.
I miei seguaci si fermarono, silenziosi. Io avanzai lungo la tubatura. A circa due metri di distanza, di fronte alla vipera, lasciai andare la mia mangusta. Kiria annusò il pericolo nell'aria e si diresse a passi lenti verso il serpente. Io e i miei piccoli accompagnatori trattenemmo il respiro. La grande battaglia stava per iniziare. Il serpente si arrotolò, sollevò la testa, spalancò le fauci e volse il suo ipnotico sguardo sull'animaletto. La mangusta continuò ad avanzare. Ma, a pochi centimetri dalla bocca del mostro, si rese conto esattamente di che cosa stava per accadere. Allora fece un gran salto, si mise a correre vertiginosamente nella direzione opposta, e si lasciò dietro serpenti e spettatori. Smise di correre solo quando raggiunse la mia camera da letto. Fu così che, più di trent'anni fa, persi il mio prestigio nel quartiere di Wellawatha.
In questi giorni mia sorella mi ha portato un quaderno che contiene le mie poesie più antiche, scritte fra il 1918 e il 1919. Leggendole ho sorriso di fronte al dolore infantile ed adolescenziale, di fronte al sentimento letterario di solitudine che emana da tutta la mia opera di gioventù. Lo scrittore giovane non può scrivere senza questo sussulto di solitudine, anche se fittizio, così come lo scrittore maturo non farà nulla senza il sapore di umana compagnia, di società.
La vera solitudine la conobbi in quei giorni e quegli anni di Wellawatha. Per tutto quel periodo dormii su una brandina da campo come un soldato, come un esploratore.
Non ebbi altra compagnia che un tavolo e due sedie, il mio lavoro, il mio cane, la mia mangusta e il boy che mi serviva e la sera tornava al suo villaggio. Quest'uomo non era propriamente una compagnia; la sua condizione di servitore orientale l'obbligava ad essere più silenzioso d'un'ombra. Si chiamava, o si chiama, Brampy. Non era necessario ordinargli nulla, perché provvedeva a tutto: la colazione a tavola, il vestito appena stirato, la bottiglia di whisky sulla veranda. Sembrava che si fosse dimenticato della lingua. Sapeva solo sorridere con grandi denti da cavallo.
La solitudine in questo caso non si riduceva ad un tema di invocazione letteraria ma era qualcosa di duro come le pareti della cella di un prigioniero, contro cui puoi romperti la testa senza che venga nessuno, per quanto tu gridi e pianga.
Io capivo che attraverso l'aria azzurra, la sabbia dorata, al di là della foresta primordiale, al di là delle vipere e degli elefanti, c'erano centinaia, migliaia di esseri umani che cantavano e lavoravano vicino all'acqua, che accendevano il fuoco e modellavano vasi; e anche donne ardenti che dormivano nude sulle stuoie sottili, alla luce delle immense stelle. Ma come avvicinarmi a questo mondo palpitante, senza essere considerato un nemico?
A poco a poco cominciavo a conoscere l'isola. Una sera attraversai tutti gli oscuri sobborghi di Colombo per assistere a un pranzo di gala. Da una casa buia usciva la voce di un bimbo o di una donna che cantava. Feci fermare il risciò. Accanto alla povera porta mi assalì un'esalazione che è l'odore inconfondibile di Ceylon: un misto di gelsomini, sudore, olio di cocco, frangipani e magnolia.
I volti scuri, confusi con il colore e con l'odore della notte, m'invitarono a entrare. Mi sedetti silenzioso sulle stuoie, mentre nel buio vibrava la misteriosa voce umana che mi aveva fatto fermare, una voce di bambino o di donna, tremula e singhiozzante, che saliva fino all'indicibile, a un tratto si troncava, s'abbassava fino a farsi oscura come le tenebre, aderiva all'aroma dei frangipani, s'attorcigliava in arabeschi e d'improvviso cadeva - con il suo peso cristallino - come se il più alto dei getti d'acqua avesse toccato il cielo per crollare poi fra i gelsomini.
Rimasi lì per molto tempo, stregato dai tamburi e dal fascino di quella voce; poi continuai per la mia strada, ubriacato dall'enigma di un sentimento indecifrabile, di un ritmo il cui mistero usciva da tutta la terra. Una terra sonora, avvolta d'ombra e profumo.
Gli inglesi erano già seduti a tavola, vestiti di nero e di bianco.
- Scusatemi. Per strada mi sono fermato ad ascoltare musica, - dissi loro.
E quelli, che avevano vissuto per venticinque anni a Ceylon, si sorpresero senza scomporsi. Musica? Avevano musica gli indigeni? Loro non lo sapevano. Era la prima volta che ne sentivano parlare.
Questa terribile separazione dei colonizzatori inglesi dal vasto mondo asiatico non ebbe mai fine. E significò sempre un isolamento antiumano, un disprezzo e un'ignoranza totali dei valori e della vita di quella gente.
C'erano eccezioni nel colonialismo; lo scoprii in séguito.
D'improvviso qualche inglese del Club Service si innamorava perdutamente di una bellezza indiana. Veniva destituito all'istante dalla sua carica e isolato dai suoi compatrioti come un lebbroso. In quel periodo accadde anche che i colonizzatori ordinassero di bruciare la capanna di un contadino cingalese, allo scopo di cacciarlo e di espropriarne le terre. L'inglese che doveva eseguire l'ordine di distruggere la capanna era un modesto funzionario. Si chiamava Leonardo Woolf. Ma si rifiutò e fu privato della sua carica. Tornato in Inghilterra, scrisse uno dei migliori libri che siano mai stati scritti sull'Oriente: A village in the Jungle, capolavoro della vita vera e della letteratura reale, un po', o forse molto, offuscato dalla fama della moglie di Woolf, nientemeno che Virginia Woolf, grande scrittrice della soggettività di fama universale.
A poco a poco quella corteccia impenetrabile cominciò a rompersi e mi feci pochi e buoni amici. Contemporaneamente scoprii la gioventù impregnata di colonialismo culturale che non parlava d'altro che degli ultimi libri apparsi in Inghilterra. Scoprii che il pianista, fotografo, critico, cineasta, Lionel Wendt, era il centro della vita culturale che si dibatteva fra i rantoli dell'impero e una riflessione sui valori vergini di Ceylon.
Questo Lionel Wendt, che possedeva una grande biblioteca e riceveva tutte le novità dall'Inghilterra, prese la stravagante e buona abitudine di mandarmi ogni settimana a casa, fuori città, un ciclista con un sacco di libri. E così, in quel periodo, lessi chilometri di romanzi inglesi, fra cui L'amante di Lady Chatterly, nella prima edizione fuori commercio apparsa a Firenze. Le opere di Lawrence m'impressionarono per il loro senso poetico e un certo magnetismo vitalistico rivolto ai rapporti nascosti fra gli esseri. Ma ben presto mi resi conto che, malgrado il suo genio, Lawrence, come tanti scrittori inglesi, era frustrato dal suo prurito pedagogico. D.H.
Lawrence istituisce una cattedra di educazione sessuale che ha poco a che vedere con il nostro spontaneo apprendimento della vita e dell'amore. Finì decisamente con l'annoiarmi, senza che per questo sia diminuita la mia ammirazione per la sua tormentata ricerca mistico-sessuale, tanto più dolorosa quanto più inutile.
Fra le cose di Ceylon che ricordo c'è una grande caccia all'elefante.
Gli elefanti, in un certo distretto, erano divenuti troppi e facevano incursioni danneggiando case e coltivazioni.
Per più di un mese, lungo le rive di un grande fiume, i contadini - con fuoco, falò e tamtam - raggrupparono i branchi selvaggi, spingendoli verso un angolo della foresta. Notte e giorno i falò e il rumore disturbavano le grandi bestie che si muovevano come un lento fiume verso il nord-est dell'isola.
Quel giorno li aspettava il kraal. Le palizzate ostruivano una parte del bosco. Attraverso uno stretto corridoio vidi entrare il primo elefante che capì subito di essere in trappola. Ma era troppo tardi. Centinaia di elefanti avanzavano attraverso lo stretto passaggio senza sbocco. L'immenso branco, circa cinquecento elefanti, non poté né avanzare né retrocedere.
I maschi più forti si diressero verso le palizzate cercando di abbatterle, ma dietro comparvero innumerevoli lance che li fermarono. Allora ripiegarono al centro del recinto, decisi a proteggere le femmine ed i piccoli.
Era commovente la loro difesa e la loro organizzazione.
Lanciavano un richiamo angoscioso, una specie di nitrito o di squillo di tromba, e nella loro disperazione abbattevano alla radice gli alberi più deboli.
A un tratto, in groppa a due grandi elefanti addomesticati, entrarono i domatori. La coppia addomesticata si comportava come volgari poliziotti. Si mettevano alle costole dell'animale prigioniero, lo colpivano con la proboscide, aiutavano a ridurlo all'immobilità. Allora i cacciatori gli legavano una delle zampe posteriori a un grande albero con delle grosse corde. A uno a uno gli elefanti furono tutti sottomessi in questo modo.
L'elefante prigioniero rifiuta per molti giorni il cibo.
Ma i cacciatori conoscono le sue debolezze. Lasciano digiunare gli elefanti per un certo periodo e poi portano loro germogli e virgulti dei loro arbusti preferiti, di quelli che, quand'erano in libertà, cercavano attraverso lunghi viaggi nella foresta. Alla fine l'elefante si rassegna a mangiarli. Ormai è addomesticato. E comincia a imparare il pesante lavoro cui è destinato.
***
La vita a Colombo.
A Colombo apparentemente non s'avvertiva alcun segnale rivoluzionario. Il clima politico era diverso da quello che si respirava in India. Tutto era immerso in un'opprimente tranquillità. Il paese dava agli inglesi il tè più delicato del mondo.
L'isola era divisa in settori o compartimenti. Dopo gli inglesi, che occupavano il vertice della piramide e vivevano in grandi residenze con giardini, veniva una classe media simile a quella dei paesi dell'America del Sud. Si chiamavano o si chiamano burghers e discendevano dagli antichi boeri, i coloni olandesi dell'Africa del Sud che furono confinati a Ceylon durante la guerra coloniale del secolo scorso.
Più in basso stava la popolazione buddhista o maomettana dei cingalesi, composta da molti milioni di persone.
E ancora più in basso, al rango del lavoro peggio pagato, si contavano, anch'essi a milioni, gli immigranti indiani, tutti quanti del Sud del loro paese, di lingua tamil e di religione indù.
Nella cosiddetta «buona società» che dispiegava i suoi abiti di gala nei meravigliosi club di Colombo, due famosi snob si disputavano il campo. Uno era un falso nobile francese, il conte di Mauny, con i suoi adepti.
L'altro era un polacco elegante e scanzonato, il mio amico Winzer, che teneva banco nei pochi salotti. Quest'uomo era di notevole ingegno, abbastanza cinico e al corrente di quanto succede nel mondo. La sua professione era curiosa - «conservatore del tesoro culturale e archeologico» - e fu per me una rivelazione quando una volta l'accompagnai in uno dei suoi giri ufficiali.
Gli scavi avevano portato alla luce due antiche città magnifiche che la foresta s'era inghiottite: Anuradhapura e Polonaruwa. Colonne e corridoi brillarono di nuovo sotto lo splendore del sole cingalese. Naturalmente tutto ciò che era trasportabile partiva ben imballato verso il British Museum di Londra.
Il mio amico Winzer non faceva male il suo mestiere.
Arrivava ai remoti monasteri e, con gran compiacimento dei monaci buddhisti, faceva trasportare sulla camionetta ufficiale le portentose sculture di pietra millenaria che avrebbero concluso il loro destino nei musei dell'Inghilterra.
Bisognava vedere l'espressione di soddisfazione dei monaci vestiti color zafferano quando Winzer lasciava loro, in cambio delle loro antichità, alcune orribili immagini buddhiste di celluloide giapponese. Le guardavano con riverenza e le ponevano sugli stessi altari da cui per molti secoli avevano sorriso le statue di diaspro e di granito.
Il mio amico Winzer era un eccellente prodotto dell'impero, e cioè un elegante mascalzone.
Qualcosa venne a turbare quei giorni consumati dal sole. Inaspettatamente, il mio amore birmano, la torrenziale Josie Bliss, si stabilì di fronte a casa mia. Era venuta fin lì dal suo lontano paese. E siccome pensava che il riso non esistesse altro che a Rangoon, arrivò con un sacco di riso in spalla, con i nostri dischi preferiti di Paul Robeson e con una lunga stuoia arrotolata. Dalla porta di fronte si diede a osservare e poi a insultare e aggredire chiunque mi facesse visita. Josie Bliss, consumata dalla sua gelosia divorante, minacciava d'incendiarmi la casa. Ricordo che aggredì con un lungo coltello una dolce ragazza eurasiatica che era venuta a trovarmi.
La polizia coloniale ritenne che la sua presenza incontrollata fosse un focolaio di disordine in quella strada tranquilla. Mi dissero che l'avrebbero espulsa dal paese se non l'avessi ospitata. Io soffrii per molti giorni, oscillando fra la tenerezza che m'ispirava il suo infelice amore ed il terrore che m'incuteva. Non potevo lasciarle metter piede in casa mia. Era una terrorista amorosa, capace di tutto.
Finalmente un giorno si decise a partire. Mi chiese di accompagnarla alla nave. Quando la nave stava per salpare e io dovevo scendere, si staccò dai suoi accompagnatori e baciandomi in un impeto di dolore e di amore, mi riempì il viso di lacrime. Come in un rito, mi baciava le braccia, il vestito e, a un tratto, senza che potessi impedirlo, si chinò fino alle mie scarpe. Quando si rialzò, il suo volto era tutto impiastricciato del gessetto delle mie scarpe bianche. Non potevo chiederle di non partire, di abbandonare con me la nave che se la portava via per sempre. La ragione me l'impediva, ma il mio cuore ne ebbe una cicatrice che non s'è cancellata. Quel dolore turbolento, quelle lacrime terribili che scorrevano sul suo viso impiastricciato, restano impresse nella mia memoria.
Avevo quasi finito di scrivere il primo volume di Residencia en la Tierra. Il mio lavoro era però andato avanti con lentezza. Ero separato dal mio mondo dalla distanza e dal silenzio, ed ero incapace di penetrare veramente nello strano mondo che mi circondava.
Il mio libro raccoglieva come episodi naturali i risultati della mia vita sospesa nel vuoto: «Più vicino al sangue che all'inchiostro». Ma il mio stile si fece più raffinato e mi ostinai nella ripetizione di una malinconia frenetica.
Insistetti per verità e per retorica (perché sono quelle le farine che fanno il pane della poesia) in uno stile amaro che ricercava sistematicamente la mia stessa distruzione.
Lo stile non è solo l'uomo. È anche ciò che lo circonda e se l'atmosfera non entra nella poesia, la poesia è morta: morta perché non ha potuto respirare.
Non ho mai letto con tanto piacere e tanta abbondanza come in quel sobborgo di Colombo in cui vissi per molto tempo solo. Di tanto in tanto tornavo a Rimbaud, a Quevedo od a Proust. La strada di Swann mi fece rivivere i tormenti, gli amori e le gelosie della mia adolescenza. E capii che in quella frase della sonata di Vinteuil, frase musicale che Proust ha chiamato «aerea e odorosa», non solo si assapora la descrizione più squisita di quell'appassionante musica, ma anche una disperata misura della passione.
Il mio problema in quella solitudine fu trovare quella musica e ascoltarla. Con l'aiuto di un amico musicista e musicologo, indagammo fino a scoprire che il Vinteuil di Proust era forse un misto di Schubert, Wagner, Saint-Saëns, Fauré, D'Indy, César Franck. La mia indegna cattiva educazione musicale mi mantenne sempre nell'ignoranza di tutti questi musicisti. Le loro opere erano per me come scatole vuote o chiuse. II mio orecchio non riconobbe mai altro che le melodie più evidenti, e per giunta con difficoltà.
Alla fine, procedendo nell'indagine, più letteraria che sonora, riuscii ad avere un album con i tre dischi della sonata per piano e violino di César Franck. Non c'era dubbio, la frase di Vinteuil era lì. Non poteva esserci alcun dubbio.
La mia attrazione era stata solo letteraria. Proust, il più grande realista poetico, nella sua descrizione critica di una società agonizzante che amò e odiò, si soffermò con appassionato compiacimento su molte opere d'arte, quadri e cattedrali, attrici e libri. Ma per quanto la sua chiaroveggenza illuminasse tutto ciò che toccava, riprodusse l'incanto di questa sonata e della sua frase ricorrente con un'intensità che forse non ha dato ad altre descrizioni. Le sue parole mi fecero rivivere la mia stessa vita, i miei lontani sentimenti perduti in me stesso, nella mia stessa assenza. Volli vedere nella frase musicale il racconto magico letterario di Proust e adottai, o fui adottato dalle ali della musica.
La frase s'avvolge nella gravità dell'ombra, arrochendosi, aggravando e dilatando la sua agonia. Sembra innalzare la sua angoscia come una struttura gotica, che le volute ripetono sostenute dal ritmo che scaglia senza posa.
L'elemento nato dal dolore cerca uno sbocco trionfante che non rinnega nell'altezza la sua origine sconvolta dalla tristezza. Sembra attorcigliarsi in una patetica spirale, mentre il piano oscuro accompagna ora la morte ora la resurrezione del suono. L'intimità cupa del piano porta più volte alla luce la nascita serpentina, finché amore e dolore s'intrecciano nell'agonizzante vittoria.
Non v'era alcun dubbio per me che queste fossero la frase e la sonata.
L'ombra improvvisa cadeva come un pugno sulla mia casa sperduta fra le palme da cocco di Wellawatha, ma ogni sera la sonata viveva con me, trascinandomi e avvolgendomi, consegnandomi la sua perpetua tristezza, la sua vittoriosa malinconia.
I critici che hanno con tanto impegno vagliato le mie opere non hanno finora visto questa segreta influenza che va qui confessata. Infatti lì, a Wellawatha, scrissi gran parte di Residencia en la Tierra. Anche se la mia poesia non è «aerea e odorosa», ma tristemente terrestre, mi pare che quei temi, tanto ripetutamente vestiti a lutto, abbiano a che vedere con l'intimità retorica di quella musica che viveva insieme a me.
Anni dopo, tornato in Cile, incontrai in un salotto i tre grandi della musica cilena. È stato credo nel 1932, in casa di Marta Brunet.
Claudio Arrau conversava in un angolo con Domingo Santa Cruz e Armando Carvajal. Mi avvicinai, ma mi guardarono appena. Continuarono a parlare imperturbabili di musica e di musicisti. Cercai allora di farmi bello parlando loro di quella sonata, l'unica che conoscevo.
Mi guardarono distrattamente e dall'alto mi dissero: - César Franck? Perché César Franck? Quello che devi conoscere è Verdi.
E continuarono la loro conversazione, seppellendomi in un'ignoranza da cui ancora non esco.
***
Singapore.
La verità è che la solitudine di Colombo era non solo pesante, ma addirittura letargica. Nella viuzza in cui vivevo, avevo solo pochi amici. Amiche di vari colori passavano per la mia branda senza lasciare altra storia che il lampo fisico. Il mio corpo era un rogo solitario che bruciava notte e giorno su quella costa tropicale.
La mia amica Patsy veniva spesso con alcune sue compagne, ragazze brune e dorate, con sangue di boeri, di inglesi, di dravidi. Venivano a letto con me spontaneamente e disinteressatamente.
Una di quelle ragazze mi raccontò le loro visite alle chumeries. Era questo il nome dei bungalow in cui gruppi di giovani inglesi, piccoli impiegati di negozi e di uffici, vivevano in comune per risparmiare soldi e cibo.
Senza alcun cinismo, come una cosa naturale, la ragazza mi raccontò che una volta aveva fornicato con quattordici di loro.
- E come hai fatto? - le chiesi.
- Quella sera ero sola con loro; facevano una festa.
Avevano messo dei dischi sul grammofono e io ballavo un po' con ciascuno, e durante il ballo ci perdevamo in qualcuna delle stanze da letto. E così sono stati tutti contenti.
Non era una prostituta. Era piuttosto un prodotto coloniale, un frutto candido e generoso. Il suo racconto mi impressionò e per lei non ebbi più altro che simpatia.
Il mio solitario e isolato bungalow era quanto di più lontano si possa immaginare dalle comodità e dagli agi della civiltà. Quando lo presi in affitto cercai di sapere dove fosse il gabinetto che non si vedeva da nessuna parte. E infatti era molto lontano dalla stanza da bagno; verso il retro della casa.
Lo esaminai con curiosità. Era una cassa di legno con un buco al centro, molto simile all'aggeggio che avevo conosciuto nella mia infanzia contadina, nel mio paese.
Ma i nostri erano posti su un pozzo profondo o su una corrente d'acqua. Qui il deposito era un semplice cubo di metallo sotto il buco rotondo.
Il cubo ogni giorno, di buon mattino, riappariva pulito senza che riuscissi a capire come sparisse il suo contenuto.
Una mattina mi ero alzato più presto del solito.
Rimasi sbalordito vedendo cosa stava succedendo.
Dal retro della casa, come una statua scura che camminava, entrò la donna più bella che avessi fino a quel momento visto a Ceylon, di razza tamil, della casta dei paria. Era vestita di un sari rosso e dorato, della tela più ruvida e grossolana. Sui piedi scalzi, portava pesanti cavigliere.
Ai lati del naso le brillavano due puntini rossi.
Saranno stati fondi di bicchiere, ma su di lei parevano rubini.
Si diresse con passo solenne verso il gabinetto, senza neppure guardarmi, senza curarsi della mia esistenza, e scomparve con il sordido recipiente sulla testa, allontanandosi con il suo passo da dea.
Era così bella che malgrado il suo umile lavoro mi lasciò turbato. Come se si trattasse di un animale scontroso, venuto dalla giungla, apparteneva ad un'altra vita, a un mondo separato. La chiamai senza risultato. Poi qualche volta, sulla sua strada, le lasciai qualche regalo, seta o frutta. La donna passava senza sentire né guardare.
Quel tragitto miserabile era stato trasformato dalla sua oscura bellezza nella cerimonia obbligatoria di una regina indifferente.
Un mattino, deciso a tutto, l'afferrai per un polso e la guardai faccia a faccia. Non c'era nessuna lingua in cui potessi parlarle. Si lasciò guidare da me senza un sorriso e a un tratto fu nuda sul mio letto. La sottilissima vita, i fianchi pieni, la traboccante coppa del seno, la rendevano identica alle millenarie sculture del Sud dell'India. Fu l'incontro di un uomo e di una statua.
Rimase tutto il tempo con gli occhi aperti, impassibile.
Faceva bene a disprezzarmi. L'esperienza non venne più ripetuta.
Mi costò fatica leggere il cablogramma. Il ministero degli Esteri mi comunicava una nuova nomina.
Smettevo di essere console a Colombo per svolgere identiche funzioni a Singapore ed a Batavia. Questa nuova nomina mi faceva salire dal primo cerchio della miseria al secondo. A Colombo avevo diritto ad avere (se arrivavano) la somma di centosessantasei dollari e sessantasei centesimi. Ora, essendo console in due colonie contemporaneamente, avrei potuto riscuotere (se arrivavano) due volte centosessantasei dollari e sessantasei centesimi, cioè la somma di trecentotrentatre dollari e trentadue centesimi (se arrivavano). Il che voleva dire, per l'immediato, che avrei smesso di dormire su una branda da campo. Le mie aspirazioni materiali non erano eccessive.
Ma che cosa avrei fatto di Kiria, la mia mangusta?
L'avrei regalata ai bimbi irrispettosi del quartiere che ormai non credevano più al suo potere contro i serpenti?
Neanche per sogno. L'avrebbero trascurata, non l'avrebbero lasciata mangiare a tavola com'era abituata con me. L'avrei liberata nella foresta perché tornasse al suo stato primitivo? Mai. Aveva senza dubbio perduto i suoi istinti di difesa e gli uccelli rapaci l'avrebbero divorata senza che nemmeno se ne accorgesse. D'altra parte, come portarla con me? Sulla nave non avrebbero accettato un passeggero tanto singolare.
Decisi allora di farmi accompagnare nel viaggio da Brampy, il mio boy cingalese. Era una spesa da milionario e anche una pazzia, perché saremmo andati in paesi - Malesia, Indonesia - di cui Brampy non conosceva affatto la lingua. Ma la mangusta avrebbe potuto viaggiare in incognito, nella baraonda del ponte, inosservata dentro un cestino. Brampy la conosceva bene quanto me. Il problema era la dogana, ma lo scaltro Brampy si sarebbe incaricato di eluderne la sorveglianza.
E in questo modo, con tristezza, allegria e mangusta, lasciammo l'isola di Ceylon, in rotta verso un altro mondo sconosciuto.
Sarà difficile capire perché il Cile avesse tanti consolati disseminati dovunque. Ed è infatti strano che una piccola repubblica, relegata vicino al Polo Sud, spedisca e mantenga rappresentanti ufficiali in arcipelaghi, coste e scogliere all'altro capo del mondo.
In fondo - dico io - questi consolati erano il prodotto della fantasia e della self-importance che noi sudamericani siamo soliti darci. D'altra parte ho già detto che in quelle località lontanissime s'imbarcavano per il Cile iuta, paraffina solida per fabbricare candele e, soprattutto, tè, molto tè. Noi cileni beviamo tè quattro volte al giorno. E non possiamo coltivarlo. Una volta scoppiò un immenso sciopero di operai del salnitro per mancanza di questo prodotto esotico. Ricordo quando alcuni esportatori inglesi mi chiesero, dopo alcuni whisky, che cosa facevamo noi cileni con tali esorbitanti quantità di tè.
- Lo beviamo, - dissi loro.
(Se credevano di strapparmi il segreto di qualche speculazione industriale, rimasero senz'altro delusi).
Il consolato di Singapore esisteva già da dieci anni.
Sbarcai quindi con la fiducia che mi davano i miei ventitré anni, sempre accompagnato da Brampy e dalla mia mangusta. Andammo direttamente al Raffles Hotel.
Lì, mandai a lavare tutta la mia roba, che non era poca, e mi sedetti sulla veranda. Mi distesi pigramente su un'easychair e chiesi uno, due, e infine tre ginpahit.
Tutto faceva molto Somerset Maugham finché non cercai sulla guida del telefono l'indirizzo del mio consolato.
Non era registrato, diavolo! Feci subito una chiamata urgente al consolato inglese. Mi risposero, dopo essersi consultati, che lì non esisteva consolato del Cile.
Chiesi allora notizie del console, il signor Mansilla.
Non lo conoscevano.
Cominciai a preoccuparmi. Avevo appena i soldi per pagare un giorno d'albergo e il lavaggio dei vestiti. Pensai che forse il consolato fantasma aveva la sua sede a Batavia e decisi di continuare il viaggio sulla stessa nave con cui ero arrivato, e che appunto andava a Batavia ed era ancora in porto. Ordinai di tirar fuori i vestiti dalla caldaia in cui erano a mollo, Brampy ne fece un involto umido, e ci mettemmo in cammino verso i moli.
Stavano già levando la scaletta di bordo. Salii ansante i gradini. I miei ex compagni di viaggio e gli ufficiali della nave mi guardarono sorpresi. Mi sistemai nella stessa cabina che avevo lasciato la mattina e, supino sul letto, chiusi gli occhi mentre il vapore si allontanava dal fatidico porto.
Sulla nave avevo conosciuto una ragazza ebrea. Si chiamava Kruzi. Era bionda, grassottella, con occhi color arancia e un'allegria traboccante. Mi disse che aveva una buona sistemazione a Batavia. Durante la festa d'addio della traversata le stetti vicino. Fra un bicchiere e l'altro mi trascinava a ballare. Io la seguivo goffamente nelle lente contorsioni che s'usavano in quell'epoca.
Dedicammo quell'ultima notte a fare l'amore nella mia cabina, amichevolmente, coscienti che i nostri destini s'incontravano a caso e per una sola volta. Le raccontai le mie sventure. Lei mi consolò dolcemente e la sua tenerezza passeggera mi giunse all'anima.
Kruzi, dal canto suo, mi confessò la vera occupazione che l'attendeva a Batavia. C'era una certa organizzazione, più o meno internazionale, che collocava ragazze europee nei letti di asiatici rispettabili. A lei avevano fatto scegliere fra un maragià, un principe del Siam e un ricco commerciante cinese. Si decise per quest'ultimo, un uomo giovane ma tranquillo.
Quando, il giorno dopo, sbarcammo, scorsi la Rolls Royce del magnate cinese, e persino il profilo del padrone attraverso le tendine a fiori dell'automobile. Kruzi scomparve tra la folla e i bagagli.
Io mi installai all'hotel Der Nederlanden. Mi preparavo ad andare a tavola, quando vidi entrare Kruzi. Si gettò fra le mie braccia, soffocata dal pianto.
- Mi mandano via di qui. Debbo partire domani.
- Ma chi ti manda via, perché ti mandano via?
Mi raccontò fra i singhiozzi la sua disgrazia. Stava per salire sulla Rolls Royce, quando gli agenti dell'immigrazione l'avevano arrestata per sottoporla ad un interrogatorio brutale. Dovette confessare tutto. Le autorità olandesi giudicarono un grave delitto che potesse vivere in concubinato con un cinese. La rimisero finalmente in libertà, con la promessa di non far visita al suo spasimante e con l'altra promessa d'imbarcarsi il giorno dopo, sulla stessa nave su cui era arrivata e che tornava in occidente.
Quello che più la feriva era aver deluso l'uomo che l'aspettava, sentimento cui sicuramente non era estranea l'imponente Rolls Royce. Ma in fondo Kruzi era una sentimentale. Nelle sue lacrime c'era molto più dell'interesse frustrato: si sentiva umiliata e offesa.
- Sai il suo indirizzo? E il suo numero di telefono?
- le chiesi.
- Sì, - mi rispose. - Ma ho paura che mi arrestino.
M'hanno minacciato di chiudermi in galera.
- Non hai niente da perdere. Vai a trovare l'uomo che ha pensato a te senza conoscerti. Gli sei debitrice almeno di qualche parola. Che cosa t'importa ormai dei poliziotti olandesi? Vèndicati di loro. Va' a trovare il tuo cinese.
Prendi delle precauzioni, e falla in barba a quelli che ti hanno umiliata. Vedrai che ti sentirai meglio. Mi sembra che così te ne andrai più contenta da questo paese.
Quella notte, tardi, la mia amica ritornò. Era andata a trovare il suo ammiratore per corrispondenza. Mi raccontò l'incontro. L'uomo era un orientale francesizzato e letterato. Parlava correntemente il francese. Era sposato, secondo le norme dell'onorevole matrimonialità cinese, e si annoiava moltissimo.
Il pretendente giallo aveva preparato, per la fidanzata bianca che arrivava dall'occidente, un bungalow con giardino, zanzariere, mobili Luigi XIV, e un gran letto che quella sera venne collaudato. Il padrone di casa le fece vedere le piccole raffinatezze che teneva in serbo per lei, le forchette ed i coltelli d'argento (solo lui mangiava con le bacchette), il bar con bevande europee, il frigorifero pieno di frutta.
Poi si fermò davanti a un baule ermeticamente chiuso.
Tirò fuori una piccola chiave dai pantaloni, aprì quello scrigno e mostrò agli occhi di Kruzi il più strano dei tesori: centinaia di mutande da donna, combinazioni sottili, slip minuscoli. Capi intimi da donna, a centinaia o migliaia, riempivano quel mobile santificato dall'aspro profumo del sandalo. Lì erano riunite tutte le sete, tutti i colori. La gamma andava dal violetto al giallo, dai molteplici rosa ai verdi segreti, dai rossi violenti ai fulgidi neri, dai celesti elettrici ai bianchi nuziali. Tutto l'arcobaleno della concupiscenza maschile di un feticista che, senza dubbio, collezionò quel florilegio per compiacere la propria voluttà.
- Sono rimasta sbalordita, - disse Kruzi, tornando ai singhiozzi. - Ho preso a caso un pugno di quegli indumenti e li ho portati qui.
Mi sentii anch'io commosso dal mistero umano. Il nostro cinese, un serio commerciante, importatore o esportatore, faceva collezione di mutande da donna come se fosse un cacciatore di farfalle. Chi l'avrebbe mai pensato?
- Lasciamene un paio, - dissi alla mia amica.
Scelse delle mutande bianche e verdi e le accarezzò dolcemente prima di darmele.
- Fammi la dedica, Kruzi, per favore.
Allora le lisciò con cura e scrisse il mio nome ed il suo sulla superficie di seta, che bagnò anche con alcune lacrime.
Il giorno dopo partì senza che la vedessi, e senza che l'abbia mai più rivista. Le vaporose mutande, con la sua dedica e le sue lacrime, viaggiarono nelle mie valigie, mescolate ai miei vestiti e ai miei libri, per moltissimi anni. Non so né quando né come una visitatrice prepotente e fedifraga se ne uscì di casa mia con quelle mutande addosso.
***
Batavia.
In quei tempi in cui non esistevano ancora i motel, l'hotel Nederlanden era insolito. Aveva un grande corpo centrale, destinato a sala da pranzo e a uffici, e bungalow per ogni viaggiatore, separati fra loro da piccoli giardini e da alberi poderosi. Fra le alte chiome di quegli alberi vivevano un'infinità di uccelli, di scoiattoli che saltavano da un ramo all'altro e d'insetti che frinivano come nella foresta. Brampy s'impegnò tutto nell'accudire la mangusta, sempre più inquieta nella sua nuova residenza.
Qui sì che c'era il consolato del Cile. Per lo meno figurava sulla guida del telefono. Il giorno dopo, riposato e meglio vestito, mi diressi agli uffici del consolato. Lo scudo consolare del Cile era appeso sulla facciata di un grande edificio. Era una compagnia di navigazione. Qualcuno del numeroso personale mi condusse all'ufficio del direttore, un olandese rubizzo e voluminoso. Non aveva l'aspetto di un direttore di compagnia di navigazione, ma piuttosto quello d'uno scaricatore di porto.
- Sono il nuovo console del Cile, - mi presentai. - Comincio col ringraziarla dei suoi servigi e la prego di mettermi al corrente dei principali affari del consolato. Voglio prendere subito possesso della mia carica.
- Qui non c'è nessun altro console all'infuori di me!
- rispose furibondo.
- Come sarebbe?
- Cominciate a pagarmi quello che mi dovete, - urlò.
Forse quell'uomo s'intendeva di navigazione, ma la cortesia non la conosceva in nessuna lingua. M'assaliva gridando le sue frasi e dando morsi rabbiosi a un pessimo cheruto, che appestava l'aria.
L'energumeno non mi dava quasi possibilità d'interromperlo.
La sua indignazione e il cheruto gli provocavano fragorosi attacchi di tosse, se non addirittura dei gargarismi che finivano in sputi. Finalmente potei pronunciare una frase in mia difesa: - Signore, io non le debbo niente e non debbo pagarle niente. Ritengo che lei sia console ad honorem, cioè onorario. E se questo le sembra discutibile, non credo che si possa risolvere con delle urla che non sono disposto a stare a sentire.
In séguito scoprii che il rozzo olandese non aveva tutti i torti. Il tipo era stato vittima di una vera e propria truffa, di cui, naturalmente, non eravamo colpevoli né io né il governo del Cile. Era Mansilla il subdolo personaggio che provocava le ire dell'olandese. Scoprii che questo Mansilla non svolse mai le sue funzioni di console a Batavia; che viveva a Parigi da molto tempo. Aveva fatto un patto con l'olandese perché questi espletasse le sue mansioni consolari e gli inviasse ogni mese le carte ed il denaro degli incassi. Mansilla, in cambio, s'impegnava a pagargli una somma mensile che non gli pagò mai.
Di qui l'indignazione di questo olandese terrestre che mi piombò sulla testa come il crollo di un cornicione.
Il giorno dopo mi sentii infinitamente malato. Febbre maligna, influenza, depressione ed emorragia. Avevo caldo e sudavo. Mi usciva sangue dal naso come nella mia infanzia, a Temuco, al freddo di Temuco.
Facendo uno sforzo per sopravvivere, mi recai al palazzo del governo. Si trovava a Buitenzorg, in pieno e splendido giardino botanico. I burocrati alzarono con difficoltà i loro occhi azzurri dalle carte bianche. Presero matite che traspiravano anch'esse e scrissero il mio nome con alcune gocce di sudore.
Uscii peggio di quando entrai. Camminai per i viali fino a sedermi sotto un albero immenso. Qui tutto era sano e fresco, la vita respirava tranquilla e poderosa. Gli alberi giganteschi innalzavano di fronte a me i loro tronchi diritti, lisci e argentati, fino a cento metri di altezza.
Lessi la targa smaltata che li classificava. Erano varietà di eucalipto, a me sconosciute. Dall'immensa cima scese fino a me un'ondata di fresco profumo. Quell'imperatore fra gli alberi si era impietosito di me, e una raffica del suo aroma m'aveva ridato la salute.
O forse sarà stata la solennità verde del giardino botanico, l'infinita varietà delle foglie, l'intreccio delle liane, le orchidee che risplendevano come stelle fra il fogliame, la profondità sottomarina di quel recinto forestale, il grido dei macao, i richiami delle scimmie, tutto questo mi ridette fiducia nel mio destino e mi restituì la gioia di vivere, che si andavano spegnendo come una candela consumata.
Tornai ritemprato all'hotel, mi sedetti sulla veranda del mio bungalow con della carta da lettere e la mia mangusta appollaiata sulla tavola, e decisi di spedire un telegramma al governo del Cile. Mi mancava l'inchiostro.
Fu allora che chiamai il boy dell'hotel e gli chiesi in inglese «ink» perché mi portasse un calamaio. Non dimostrò il minimo segno di comprensione. Si limitò a chiamare un altro boy, anche lui vestito di bianco e scalzo, perché l'aiutasse a interpretare i miei enigmatici desideri.
Non c'era niente da fare. Quando dicevo ink e muovevo la mia penna intingendola in un calamaio immaginario, i sette od otto boys che si erano riuniti per consigliare il primo, ripetevano all'unisono la mia manovra con una penna che cavavano di tasca, ed esclamavano con impeto: «ink, ink», morendo dalle risate. Gli sembrava di imparare un nuovo rito. Disperato mi lanciai verso il bungalow di fronte, seguito dalla sfilza di inservienti vestiti di bianco. Da un tavolo solitario presi un calamaio che per miracolo si trovava lì, e brandendo davanti ai loro occhi sbalorditi, gridai loro: - This! This!
- Tinta! Tinta!
Così scoprii che l'inchiostro in malese si chiama «tinta» come in spagnolo.
Arrivò il momento in cui mi venne restituito il diritto di prendere possesso della mia carica di console. Il mio patrimonio conteso era costituito da: un timbro di gomma consunto, un cuscinetto per impregnarlo d'inchiostro e delle cartellette di documenti che contenevano somme e sottrazioni. Le sottrazioni erano finite nelle tasche dello scaltro console che operava da Parigi.
L'olandese ingannato mi consegnò quel pacco insignificante, senza smettere di masticare il suo cheruto con un sorriso freddo, da mastodonte deluso.
Di tanto in tanto firmavo delle fatture consolari su cui apponevo lo sgangherato sigillo ufficiale. Così mi arrivavano i dollari che, cambiati in gulder, bastavano appena a soddisfare le mie esigenze: l'alloggio, il cibo per me, la paga di Brampy e il mantenimento della mia mangusta Kiria che cresceva a vista d'occhio e si mangiava tre o quattro uova al giorno. Dovetti inoltre comperarmi uno smoking bianco e un frac che m'impegnai a pagare a rate mensili. A volte, e quasi sempre solo, mi sedevo negli affollati caffè all'aperto, accanto agli ampi canali, a bere birra o ginpahit. Ripresi cioè la mia vita di tranquillità disperata.
La rice-table del ristorante dell'hotel era maestosa. In sala da pranzo entrava una processione di dieci, quindici camerieri che sfilavano di fronte a ciascuno tenendo sollevati i rispettivi vassoi. Ognuno di questi vassoi era diviso in scomparti in ciascuno dei quali brillava un cibo misterioso. Su una base di riso quell'infinità commestibile innalzava la propria sostanza. Io, che sono stato sempre goloso e per molto tempo denutrito, prendevo qualcosa da ciascuno dei vassoi, da ciascuno dei quindici o diciotto camerieri, finché il mio piatto si trasformava in una piccola montagna in cui i pesci esotici, le uova indecifrabili, le verdure inaspettate, i polli e le carni insolite, coprivano come una bandiera la cima della mia tavola. I cinesi dicono che il pranzo deve avere tre qualità: sapore, odore e colore. La rìce-table del mio hotel sommava queste tre virtù, e un'altra ancora: l'abbondanza.
In quei giorni persi Kiria, la mia mangusta. Kiria aveva la pericolosa abitudine di seguirmi dovunque, a passettini rapidissimi e impercettibili. Venirmi dietro significava lanciarsi per le strade attraversate da automobili, camion, risciò, pedoni olandesi, cinesi, malesi.
Un mondo turbolento per una candida mangusta che non conosceva che due persone al mondo.
Accadde l'inevitabile. Tornando all'hotel e guardando Brampy, mi resi conto della tragedia. Non gli chiesi niente. Ma quando mi sedetti sulla veranda, la bestiola non mi saltò sulle ginocchia, e non mi passò la pelosissima coda sulla testa.
Misi un avviso sui giornali: «Smarrita una mangusta.
Risponde al nome di Kiria». Nessuno rispose.
Nessun vicino la vide. Forse era già morta. Scomparve per sempre.
Brampy, il suo guardiano, si sentì talmente depresso che per molto tempo non si fece vedere. I miei vestiti, le mie scarpe, erano curati da un fantasma. A volte mi pareva di sentire lo strillo di Kiria che mi chiamava da qualche albero notturno. Accendevo la luce, aprivo porte e finestre, scrutavo le palme. Non era lei. Il mondo che Kiria conosceva si era trasformato in una gran truffa; la sua fiducia era crollata nella foresta minacciosa della città. Mi sentii per molto tempo afflitto da malinconia.
Brampy, avvilito, decise di tornare al suo paese. Mi dispiacque molto ma, in realtà, l'unica cosa che ci univa era quella mangusta. Un pomeriggio venne a farmi vedere l'abito nuovo che s'era comprato per andare ben vestito al paese natale, a Ceylon. Comparve a un tratto vestito di bianco e abbottonato fino al collo. La cosa più sorprendente era un immenso cappello da chef che s'era infilato sulla scurissima testa. Scoppiai in una risata incontenibile.
Brampy non si offese. Anzi, mi sorrise con gran dolcezza, con un sorriso comprensivo per la mia ignoranza.
La via in cui si trovava la mia nuova casa a Batavia si chiamava Probolingo. La casa era composta da una sala, una camera da letto, una cucina, un bagno. Non ebbi mai automobile, ma avevo però un garage che rimase sempre vuoto. Lo spazio mi cresceva in quella casa minuscola. Presi una cuoca giavanese, una vecchia contadina, schietta e simpatica. Un boy, lui pure giavanese, serviva a tavola e mi lavava i vestiti. Lì terminai Residencia en la Tierra.
La mia solitudine si raddoppiò. Pensai di sposarmi.
Avevo conosciuto una meticcia, cioè un'olandese con alcune gocce di sangue malese, che mi piaceva molto. Era una donna alta e dolce, del tutto estranea al mondo delle arti e delle lettere. (Parecchi anni dopo, la mia biografa e amica Margarita Aguirre avrebbe scritto a proposito di quel mio matrimonio, quanto segue: «Neruda tornò in Cile nel 1932. Due anni prima si era sposato a Batavia con Maria Antonietta Haagenar, una giovane olandese che viveva a Giava. Ella è molto orgogliosa di essere la moglie di un console ed ha dell'America un'idea piuttosto esotica. Non sa lo spagnolo e comincia ad impararlo.
Ma non c'è dubbio che non è solo la lingua ciò che stenta ad imparare. Malgrado tutto, il suo attaccamento sentimentale a Neruda è molto forte, e li si vede sempre insieme. Maruca, così la chiama Pablo, è altissima, lenta, ieratica»).
La mia vita era abbastanza semplice. Ben presto conobbi altre persone amabili. Il console cubano e sua moglie furono miei cari amici, uniti a me dalla lingua. Il compatriota di Copablanca parlava senza posa, come una macchina sempre accesa. Ufficialmente era il rappresentante di Machado, il tiranno di Cuba. Mi raccontava però che gli oggetti appartenenti ai prigionieri politici, orologi, anelli e, a volte, denti d'oro, riapparivano nel ventre dei pescicani pescati nella baia dell'Avana.
Il console tedesco Hertz adorava l'arte moderna, i cavalli azzurri di Franz Marc, le figure allungate di Wilhelm Lehmbruck. Era una persona sensibile e romantica, un ebreo con secoli di cultura alle spalle. Una volta gli chiesi: - E questo Hitler il cui nome appare di tanto in tanto sui giornali, questo antisemita e anticomunista fanatico, non crede che possa prendere il potere?
- Impossibile, - mi disse.
- Come impossibile, se nella storia si vedono realizzate proprio le più grandi assurdità?
- Il fatto è che lei non conosce la Germania, - sentenziò.
- Lì è veramente impossibile che un agitatore pazzo come quello possa governare, neppure in un villaggio.
Povero amico mio, povero console Hertz! Quell'agitatore pazzo per poco non ha governato il mondo intero.
E l'ingenuo Hertz dev'essere finito in un'anonima e mostruosa camera a gas, con tutta la sua cultura e il suo nobile romanticismo.