Quaderno 6

 

Andai a cercar caduti

 

Ho scelto una strada.

 

Anche se la tessera l'ho ricevuta molto più tardi in Cile, quando entrai ufficialmente nel partito, credo di essermi considerato davvero comunista durante la guerra di Spagna. Molte cose hanno contribuito alla mia profonda convinzione.

Il mio contraddittorio compagno, il poeta nietzschiano León Felipe, era un uomo pieno di fascino. Fra le sue attrattive la migliore era un sentimento anarchico d'indisciplina e di beffarda ribellione. In piena guerra civile si adattò facilmente alla chiassosa propaganda della Fai (Federazione anarchica iberica). Si recava spesso sui fronti anarchici, dove esponeva i suoi pensieri e leggeva le sue poesie iconoclaste. Esse riflettevano un'ideologia vagamente anarchica, anticlericale, con imprecazioni e bestemmie. Le sue parole conquistavano i gruppi anarchici che si moltiplicavano a Madrid, mentre la popolazione accorreva al fronte, sempre più vicino. Gli anarchici avevano dipinto tram e autobus metà rossi e metà gialli. Con le loro lunghe chiome, le barbe fluenti, le collane ed i bracciali di proiettili, erano i protagonisti del carnevale di una Spagna agonizzante. Ne vidi molti calzare scarpe emblematiche, metà di cuoio rosso e metà di cuoio nero, la cui confezione doveva essere costata moltissimo lavoro ai calzolai. E non si creda si trattasse di una pittoresca brigata inoffensiva. Ognuno portava coltelli, pistoloni spropositati, fucili e carabine. In genere si piazzavano accanto ai portoni degli edifici, in gruppi che fumavano e sputavano, ostentando le proprie armi. La loro principale preoccupazione era quella di riscuotere soldi dagli inquilini terrorizzati. O di farli rinunciare volontariamente a gioielli, anelli e orologi.

León Felipe tornava da una delle sue conferenze anarchicheggianti, ed era ormai sera, quando c'incontrammo al caffè all'angolo di casa mia. Il poeta portava un mantello che si adattava perfettamente alla sua barba alla nazarena. Uscendo, sfiorò con le eleganti pieghe del suo romantico pastrano uno dei suoi permalosi correligionari.

Non so se l'aspetto da antico hidalgo di León Felipe abbia urtato quell'«eroe» delle retrovie, certo è che a pochi passi fummo fermati da un gruppo di anarchici, capeggiati dall'offeso del caffè. Volevano controllare i nostri documenti, e dopo avergli dato un'occhiata, si portarono via il poeta leonese fra due uomini armati.

Mentre lo portavano verso il muro delle fucilazioni vicino a casa mia, luogo di spari notturni che a volte non mi lasciavano dormire, vidi passare due miliziani armati che tornavano dal fronte. Spiegai loro chi era León Felipe, qual era la colpa di cui s'era macchiato e grazie a loro potei ottenere la liberazione del mio amico.

Quest'atmosfera di confusione ideologica e di distruzione gratùita mi diede molto da pensare. Venni a conoscenza delle gesta di un anarchico austriaco, vecchio e miope, dai lunghi capelli biondi, che si era specializzato nel fare «passeggiate». Aveva formato una brigata che aveva battezzato «Alba» perché agiva al sorgere del sole.

- Non ha mai avuto mal di testa? - chiedeva alla vittima.

- Sì, certo, qualche volta.

- Allora le darò un buon analgesico, - le diceva l'anarchico austriaco, appoggiandole la canna della pistola alla fronte e sparandole un colpo.

Mentre queste bande pullulavano nella notte cieca di Madrid, i comunisti erano l'unica forza organizzata che possedesse un esercito per affrontare gli italiani, i tedeschi, i mori e i falangisti. E, al tempo stesso, erano la forza morale che sosteneva la resistenza e la lotta antifascista.

Era tutto qui: bisognava scegliere una strada. Fu quello che feci in quei giorni e devo dire che non ho mai dovuto pentirmi di una decisione presa fra le tenebre e la speranza di quell'epoca tragica.

 

***

 

Rafael Alberti.

 

La poesia è sempre un atto di pace. Il poeta nasce dalla pace come il pane nasce dalla farina.

Gli incendiari, i guerrieri, i lupi, cercano il poeta per bruciarlo, per ucciderlo, per sbranarlo. Uno spadaccino lasciò Puskin ferito a morte fra gli alberi di un parco desolato. I cavalli di polvere galopparono impazziti sul corpo senza vita di Petöfi. Byron morí in Grecia lottando contro la guerra. I fascisti spagnoli iniziarono la guerra in Spagna assassinando il suo maggior poeta.

Rafael Alberti è come un sopravvissuto. C'erano mille morti pronte per lui. Una anche a Granada. Un'altra morte l'aspettava a Badajoz. A Siviglia piena di sole o nella sua piccola patria, Cadice e Puerto Santa Maria; lo cercavano per pugnalarlo, per impiccarlo, per uccidere in lui ancora una volta la poesia.

Ma la poesia non è morta. Ha le sette vite del gatto.

La perseguitano, la trascinano per la strada, le sputano addosso e la dileggiano, la stringono per soffocarla, l'esiliano, l'incarcerano, le sparano quattro colpi, e la poesia esce da tutti questi episodi con la faccia lavata e un sorriso bianco come il riso.

Io ho conosciuto Rafael Alberti nelle strade di Madrid con camicia azzurra e cravatta rossa. L'ho conosciuto militante del popolo quando non c'erano ancora molti poeti che esercitassero questo difficile destino.

Non erano ancora suonate le campane per la Spagna, ma lui già sapeva quello che poteva accadere. È un uomo del Sud, è nato vicino al mare sonoro e alle cantine di vino giallo come topazio. E così il suo cuore si è formato con il fuoco dell'uva e il rumore dell'onda. È stato sempre un poeta anche se nei suoi primi anni non lo sapeva. Poi l'hanno saputo tutti gli spagnoli, più tardi tutto il mondo.

Per noi che abbiamo la gioia di parlare e di conoscere la lingua di Castiglia, Rafael Alberti significa lo splendore della poesia nella lingua spagnola. Non è solo un poeta innato ma un saggio della forma. La sua poesia, come una rosa miracolosamente fiorita in inverno, ha un fiocco della neve di Góngora, una radice di Jorge Manrique, un petalo di Garcilaso, il luttuoso profumo di Gustavo Adolfo Bécquer. Nella sua coppa cristallina si confondono cioè i canti essenziali della Spagna.

Questa rosa rossa ha illuminato il cammino di coloro che in Spagna hanno voluto affrontare il fascismo.

Il mondo conosce questa eroica e tragica storia. Alberti non solo ha scritto sonetti epici, non solo li ha letti nelle caserme ed al fronte, ma ha inventato la guerriglia poetica, la guerra poetica contro la guerra. Ha inventato le canzoni che misero ali sotto il tuono dell'artiglieria, canzoni che da allora vanno volando su tutta la terra.

Questo poeta di purissima stirpe ha insegnato l'utilità pubblica della poesia in un momento critico del mondo. In questo è simile a Majakovskij. Questa utilità pubblica della poesia si basa sulla forza, sulla tenerezza, sull'allegria e su un'essenziale autenticità. Senza questa qualità la poesia suona ma non canta. Alberti canta sempre.

 

***

 

Nazisti in Cile.

 

Ritornai ancora una volta in terza classe al mio paese.

Anche se in America Latina non si è verificato il caso che eminenti scrittori come Céline, Drieu La Rochelle o Ezra Pound, siano divenuti traditori al servizio del fascismo, non mancava una forte corrente impregnata, naturalmente o finanziariamente, dalla corrente hitleriana.

Dovunque si formavano piccoli gruppi che levavano il braccio nel saluto fascista, travestiti da squadre d'assalto. Ma non si trattava solo di piccoli gruppi. Le vecchie oligarchie feudali del continente simpatizzavano (e simpatizzano) con qualunque tipo di anticomunismo, venga dalla Germania o dall'ultrasinistra criolla. Inoltre, non bisogna dimenticare che grandi gruppi di discendenti dai tedeschi popolano, e sono la maggioranza, determinate regioni del Cile, del Brasile e del Messico.

Questi settori furono facilmente conquistati dalla meteorica ascesa di Hitler e dalla favola di un millennio di grandezza tedesca.

In quei giorni di clamorose vittorie di Hitler, dovetti più di una volta attraversare la strada di un villaggio o di una città del Sud del Cile sotto veri boschi di bandiere con la croce uncinata. Una volta, in un piccolo paesino del Sud, mi vidi costretto a usare l'unico telefono del posto e a fare un'involontaria reverenza al Führer.

Il proprietario tedesco del locale si era ingegnato per collocare l'apparecchio in modo tale che uno veniva a trovarsi con il braccio levato faccia a faccia con un ritratto di Hitler con il braccio levato.

Divenni direttore della rivista «Aurora de Chile».

Tutta l'artiglieria letteraria (non ne avevamo altra) sparava contro i nazisti che si stavano inghiottendo un paese dopo l'altro. L'ambasciatore hitleriano in Cile regalò dei libri della cosiddetta cultura neogermanica alla Biblioteca nazionale. Rispondemmo chiedendo a tutti i nostri lettori di mandarci i veri libri tedeschi della vera Germania, vietati da Hitler. Fu una grande esperienza.

Ricevetti minacce di morte. E arrivarono molti pacchetti ben incartati con libri che contenevano immondizie.

Ricevemmo anche collezioni intere dello «Sturner», un giornale pornografico, sadico e antisemita, diretto da Julius Streicher, giustamente impiccato anni dopo a Norimberga. Ma a poco a poco, timidamente, cominciarono ad arrivare le edizioni in lingua tedesca di Heinrich Heine, di Thomas Mann, di Anna Seghers, di Einstein, di Arnold Zweig. Quando fummo in possesso di circa cinquecento volumi andammo a consegnarli alla Biblioteca nazionale.

Oh, sorpresa! La Biblioteca nazionale ci aveva chiuso le porte con un lucchetto.

Organizzammo allora una manifestazione e penetrammo nell'aula magna dell'università con ritratti del pastore Niemöller e di Karl von Ossietzky. Non so per quale ragione si celebrasse in quel momento una cerimonia presieduta da don Miguel Cruchaga Tocornal, ministro degli Esteri. Ponemmo con cura i libri e i ritratti sul palco della presidenza. Vincemmo la battaglia.

I libri furono accettati.

 

***

 

Isla Negra.

 

Pensai di dedicarmi al mio lavoro letterario con maggiore devozione e maggiore forza. Il contatto con la Spagna mi aveva maturato e fortificato. Le ore amare della mia poesia dovevano finire. Il soggettivismo malinconico dei miei Veinte Poemas de Amor o il patetismo doloroso di Residencia en la Tierra volgevano ormai al termine. Mi sembrò di trovare una vena sotterranea, e non sepolta sotto le rocce, ma sotto le pagine dei libri.

Può la poesia servire ai nostri simili? Può accompagnare le lotte degli uomini? Avevo ormai camminato abbastanza sul terreno dell'irrazionale e del negativo. Dovevo fermarmi e cercare la strada dell'umanesimo, esiliato dalla letteratura contemporanea, ma profondamente radicato nelle aspirazioni dell'essere umano.

Cominciai a lavorare al mio Canto General.

Avevo bisogno per questo di un posto di lavoro. Trovai una casa di pietra di fronte all'oceano, in un luogo a tutti sconosciuto, chiamato Isla Negra. Il proprietario, un vecchio socialista spagnolo, capitano di nave, don Eladio Sobrino, la stava costruendo per la sua famiglia, ma accettò di vendermela. Ma come comperarla?

Offrii il progetto del mio Canto General, ma fu respinto dalla Editorial Ercilla, che allora pubblicava le mie opere. Con l'aiuto di altri editori, che pagarono direttamente il proprietario, potei finalmente comperare nel 1939 la mia casa di lavoro a Isla Negra.

L'idea di un poema centrale che raggruppasse gli avvenimenti storici, le condizioni geografiche, la vita e le lotte dei nostri popoli, mi si presentava come un compito urgente. La costa selvaggia di Isla Negra, con il tumultuoso movimento oceanico, mi permetteva di dedicarmi con passione all'impresa del mio nuovo canto.

 

***

 

«Mi porti gli spagnoli».

 

Ma la vita mi strappò immediatamente di lì.

In Cile arrivavano le notizie tremende dell'emigrazione spagnola. Più di cinquecentomila uomini e donne, combattenti e civili, avevano varcato la frontiera francese. In Francia, il governo di Léon Blum, pressato dalle forze reazionarie, li ammucchiò in campi di concentramento, li disperse in fortezze e prigioni, li ammassò nelle regioni africane vicino al Sahara.

Il governo del Cile era cambiato. La stessa esperienza del popolo spagnolo riviveva e aveva irrobustito le forze popolari cilene ed ora avevamo un governo progressista.

Il governo del Fronte popolare del Cile decise di mandarmi in Francia, a compiere la più nobile missione che abbia mai svolto in vita mia: quella di tirare fuori gli spagnoli dalle loro prigioni e inviarli nella mia patria. Così la mia poesia avrebbe potuto diffondersi come una luce raggiante, proveniente dall'America, fra questi mucchi di uomini carichi come nessun altro di sofferenza e di eroismo. Così la mia poesia sarebbe giunta a confondersi con l'aiuto materiale dell'America che, accogliendo gli spagnoli, pagava un debito immemorabile.

Quasi invalido, da poco operato, con la gamba ingessata - tali erano le mie condizioni fisiche in quel momento uscii dal mio ritiro e mi presentai al presidente della repubblica. Don Pedro Aguirre Cerda mi ricevette con affetto.

- Sì, mi porti migliaia di spagnoli. Abbiamo lavoro per tutti. Mi porti pescatori; mi porti baschi, castigliani, estremaduregni.

E di lì a pochi giorni, ancora ingessato, partii per la Francia a cercare spagnoli per il Cile.

Avevo un incarico specifico. Ero console incaricato dell'immigrazione spagnola; così diceva la nomina. Mi presentai vantando i miei titoli all'ambasciatore del Cile a Parigi.

Governo e situazione politica non erano più gli stessi nella mia patria, ma l'ambasciata a Parigi non era cambiata.

La possibilità d'inviare spagnoli in Cile faceva andare su tutte le furie due degli azzimati diplomatici. Mi relegarono in uno sgabuzzino vicino alla cucina, mi ostacolarono in tutti i modi fino a negarmi la carta per scrivere.

E ormai alle porte del palazzo dell'ambasciata cominciava ad arrivare l'onda degli indesiderabili: combattenti feriti, giuristi e scrittori, medici che avevano perduto tutte le loro cliniche, operai di tutte le specializzazioni.

Gli esuli arrivavano superando ogni difficoltà fino al mio ufficio che si trovava al quarto piano, e cosí i funzionari architettarono qualcosa di diabolico: sospesero il funzionamento dell'ascensore. Molti spagnoli erano feriti di guerra, e sopravvissuti al campo di concentramento africano, e mi straziava il cuore vederli salire penosamente fino al quarto piano, mentre i feroci funzionari se la spassavano un mondo davanti alla mia impotenza.

 

***

 

Un personaggio diabolico.

 

Per complicarmi la vita, il governo del Fronte popolare del Cile mi annunciò l'arrivo d'un incaricato d'affari.

Ciò mi fece un piacere immenso, in quanto un nuovo capo nell'ambasciata avrebbe potuto eliminare gli ostacoli che il vecchio personale diplomatico non m'aveva lesinato per intralciare l'immigrazione spagnola.

Alla Gare Saint-Lazare arrivò un giovincello magro con un paio di occhialini a stanghetta (pince-nez) che gli davano l'aria di un vecchio topo di biblioteca. Avrà avuto ventiquattro o venticinque anni. Con voce stridula e femminea, spezzata dall'emozione, mi disse che riconosceva in me il suo capo e che il suo viaggio aveva l'unico scopo di collaborare con me nella nobile missione di far arrivare in Cile i «gloriosi sconfitti della guerra».

Anche se la mia soddisfazione di acquistare un nuovo collaboratore non diminuì, il personaggio non m'andava troppo a genio. Malgrado le adulazioni e le esagerazioni che mi prodigava, mi parve d'indovinare in lui un che di falso. Venni in séguito a sapere che con la vittoria del Fronte popolare era passato repentinamente da Caballero de Colón, un'organizzazione gesuitica, a membro della gioventù comunista. La federazione giovanile comunista, in pieno periodo di reclutamento, fu sedotta dalle sue qualità intellettuali. Arellano Marín scriveva commedie ed articoli, era un erudito conferenziere e sembrava sapere tutto.

La guerra mondiale era alle porte. Ogni notte Parigi aspettava i bombardamenti tedeschi e in ogni casa c'erano istruzioni per far fronte agli attacchi aerei. Io ogni sera andavo a Villiers-sur-Seine, in una casetta di fronte al fiume, che lasciavo ogni mattina per ritornare a malincuore all'ambasciata.

Il nuovo venuto, Arellano Marín, aveva acquistato in pochi giorni l'importanza che io non raggiunsi mai.

L'avevo presentato a Negrin, ad Alvarez del Vayo e ad altri dirigenti dei partiti spagnoli. Una settimana dopo, il nuovo funzionario dava del tu quasi a tutti. Nel suo ufficio entravano e uscivano dirigenti spagnoli che non conoscevo. Le sue lunghe conversazioni erano un segreto per me. Di tanto in tanto mi chiamava per mostrarmi un brillante o uno smeraldo che aveva comperato per sua madre, o per farmi delle confidenze su una bellissima bionda che gli faceva spendere più del dovuto nei locali notturni di Parigi. Di Aragon, e specialmente di Elsa, che avevamo accolto nel locale dell'ambasciata per proteggerli dalla repressione anticomunista, Arellano Marín divenne immediatamente amico, riempiendoli di attenzioni e di regalini. La psicologia del personaggio deve avere interessato Elsa Triolet, dato che ne parla in uno o due dei suoi romanzi.

A poco a poco scoprii che la sua sete smodata di lusso e di denaro andava crescendo, anche ai miei occhi che non erano mai stati troppo acuti. Cambiava con disinvoltura tipo d'automobile, affittava case fastose. E quella bionda civettuola sembrava tormentarlo sempre più con le sue esigenze.

Dovetti trasferirmi a Bruxelles per risolvere un problema drammatico degli emigranti. Stavo uscendo dal modestissimo albergo in cui alloggiavo, quando mi trovai faccia a faccia con il mio fiammante collaboratore, l'elegante Arellano Marín. Mi accolse con grandi manifestazioni di amicizia e m'invitò a pranzo per il giorno stesso.

Ci trovammo nel suo albergo, il più caro di Bruxelles.

Aveva fatto disporre delle orchidee al nostro tavolo.

Naturalmente ordinò caviale e champagne. Durante il pranzo mantenni un preoccupato silenzio mentre ascoltavo i succulenti piani del mio anfitrione, i suoi prossimi viaggi di piacere, i suoi acquisti di gioielli. Mi pareva di ascoltare un nuovo ricco con chiari sintomi di pazzia, ma l'acutezza del suo sguardo, la sicurezza delle sue affermazioni, tutto mi dava una specie di mal di mare. Decisi di tagliare corto e di parlargli francamente delle mie preoccupazioni. Gli domandai di prendere il caffè nella sua stanza perché avevo qualcosa da dirgli.

Ai piedi del grande scalone, mentre stavamo salendo per parlare, gli si avvicinarono due uomini che non conoscevo. Marín disse loro in spagnolo che l'aspettassero, e che sarebbe sceso di lì a qualche minuto.

Appena giunti nel suo appartamento, misi da parte il caffè. Il colloquio fu teso: - Mi sembra - gli dissi - che tu ti stia mettendo su una brutta strada. Ti stai trasformando in un adoratore del denaro. Forse sei troppo giovane per capirlo. Ma i nostri impegni politici sono molto seri. Il destino di migliaia di emigranti è nelle nostre mani e con questo non si scherza.

Io non voglio sapere niente dei tuoi affari ma desidero metterti in guardia. C'è molta gente che dopo una vita infelice dice: «Nessuno m'ha dato un consiglio; nessuno m'ha avvertito». Tu non puoi dire lo stesso. Questo è stato il mio avvertimento. E adesso me ne vado.

Andandomene lo guardai. Le lacrime gli scorrevano dagli occhi alla bocca. Ebbi un impulso di pentimento.

Ero forse andato troppo oltre? Mi avvicinai e gli battei sulla spalla: - Non piangere!

- Piango di rabbia, - mi rispose.

Mi allontanai senza una parola. Tornai a Parigi e non lo vidi mai più. Vedendomi scendere la scala i due sconosciuti che l'aspettavano salirono rapidamente nella sua stanza.

La conclusione di questa storia avvenne un po' di tempo dopo, in Messico, dov'ero console del Cile. Un giorno fui invitato a pranzo da un gruppo di rifugiati spagnoli, due dei quali mi riconobbero.

- Come fate a conoscermi? - chiesi loro.

- Noi siamo quei due di Bruxelles in attesa di parlare con il suo compatriota, Arellano Marín, quando lei è uscito dalla sua stanza.

- E che cosa è successo allora? Sono sempre stato curioso di saperlo, - dissi.

Mi raccontarono un episodio straordinario. L'avevano trovato in lacrime, in preda ad una crisi di nervi. E fra i singhiozzi disse loro: «Ho appena sofferto il dolore più grande della mia vita. Neruda è uscito di qui per denunciarvi alla Gestapo come comunisti spagnoli pericolosi.

Non ho potuto convincerlo ad aspettare qualche ora. Avete i minuti contati per scappare. Lasciatemi le vostre valigie: ve le custodirò io e ve le farò riavere in séguito».

- Che cretino! - dissi. - Meno male che ad ogni modo siete riusciti a salvarvi dai tedeschi.

- Ma le valigie contenevano novantamila dollari dei sindacati operai spagnoli e non le abbiamo più riviste, e mai più le rivedremo.

In séguito seppi che il diabolico personaggio aveva fatto una lunga e piacevole crociera in Medio Oriente, sfruttando i suoi amori parigini. La bella bionda, tanto esigente, si rivelò poi un biondo studente della Sorbona.

Qualche tempo dopo in Cile veniva pubblicata la notizia delle sue dimissioni dal Partito comunista. «Profonde divergenze ideologiche mi costringono a questa decisione», scriveva nella sua lettera ai giornali.

 

***

 

Un generale ed un poeta.

 

Ogni uomo che arrivava dalla sconfitta e dalla prigionia era un romanzo con capitoli, pianti, risa, solitudini, idilli. Alcune di queste storie mi sbalordivano.

Conobbi un generale d'aviazione, alto e ascetico, uomo d'accademia militare pluridecorato. Camminava per le strade di Parigi, ombra donchisciottesca della terra spagnola, anziano e verticale come un pioppo di Castiglia.

Quando l'esercito franchista divise in due la zona repubblicana, questo generale Herrera, nel buio più assoluto, doveva pattugliare, ispezionare le difese, dare ordini da una parte e dall'altra. Con il suo aereo interamente camuffato, nelle notti più tenebrose, sorvolava il campo nemico. Di tanto in tanto un proiettile franchista sfiorava l'apparecchio. Ma al buio il generale si annoiava.

Allora imparò il metodo Braille. Quando s'impadronì della scrittura dei ciechi partiva per le sue pericolose missioni leggendo con le dita, mentre, sotto, ardevano il fuoco e il dolore della guerra civile. Il generale mi raccontò che era riuscito a leggersi II conte di Montecrìsto e che mentre stava iniziando I tre moschettieri la sua lettura notturna da cieco fu interrotta dalla sconfitta e dall'esilio.

Un'altra storia che ricordo con grande emozione è quella del poeta andaluso Pedro Garfias. Nell'esilio capitò nel castello di un lord, in Scozia. Il castello era sempre vuoto e Garfias, andaluso inquieto, si recava ogni giorno alla taverna della contea e in silenzio, perché non parlava inglese, ma solo uno spagnolo gitano che io stesso non riuscivo a capire, beveva malinconicamente la sua birra solitaria. Questo cliente muto richiamò l'attenzione dell'oste. Una sera, quando tutti i bevitori se n'erano ormai andati, l'oste lo pregò di rimanere e di continuare a bere insieme in silenzio, accanto al fuoco del caminetto che scoppiettava e parlava per tutt'e due.

Questo invito divenne un rito. Ogni sera Garfias veniva accolto dall'oste, solitario come lui, senza moglie e senza famiglia. A poco a poco le loro lingue si sciolsero.

Garfias gli raccontava tutta la guerra di Spagna, con interiezioni, giuramenti, imprecazioni molto andaluse.

L'oste l'ascoltava in religioso silenzio, senza capire naturalmente neppure una parola.

A sua volta, lo scozzese cominciò a raccontare i suoi guai, probabilmente la storia della moglie che l'aveva abbandonato, probabilmente le gesta dei suoi figli i cui ritratti in uniforme adornavano il caminetto. Dico probabilmente perché, nei lunghi mesi in cui durarono queste conversazioni, neppure Garfias capì una parola.

E tuttavia, l'amicizia dei due uomini solitari che parlavano appassionatamente ciascuno dei fatti propri e nella propria lingua, inaccessibile all'altro, andò aumentando e, vedendosi ogni sera e parlando fino all'alba, si trasformò per entrambi in una necessità.

Quando Garfias dovette partire per il Messico, si salutarono bevendo e parlando, abbracciandosi e piangendo.

L'emozione che li univa così profondamente era la separazione delle proprie solitudini.

- Pedro, - dissi molte volte al poeta, - che cosa credi che ti raccontasse?

- Non ho mai capito una parola, Pablo, ma mentre l'ascoltavo ho avuto sempre la sensazione, la certezza di capirlo. E quando parlavo io, sono sicuro che anche lui mi capiva.

 

***

 

Il «Winipeg».

 

Una mattina, al mio arrivo, i funzionari dell'ambasciata mi consegnarono un lungo telegramma. Sorridevano.

Era strano che mi sorridessero, dato che ormai non mi salutavano nemmeno più. Quel messaggio doveva contenere qualcosa che faceva loro piacere.

Era un telegramma dal Cile. Lo firmava nientemeno che il presidente, don Pedro Aguirre Cerda, lo stesso da cui avevo ricevuto la tassativa istruzione per l'imbarco degli spagnoli in esilio.

Lessi con stupore che don Pedro, il nostro buon presidente, aveva saputo quella mattina, con sorpresa, che stavo preparando l'ingresso degli emigrati spagnoli in Cile. Mi chiedeva di smentire immediatamente una così insolita notizia.

Insolito per me era il telegramma del presidente. Il lavoro di organizzare, esaminare, selezionare l'immigrazione era stato un compito duro e solitario. Per fortuna il governo spagnolo in esilio aveva compreso l'importanza della mia missione. Ma ogni giorno sorgevano nuovi e inaspettati ostacoli. Nel frattempo, dai campi di concentramento che in Francia e in Africa raccoglievano migliaia di rifugiati, centinaia partivano o si preparavano a partire per il Cile.

Il governo repubblicano in esilio era riuscito ad acquistare una nave: il Winìpeg. La nave era stata trasformata per aumentare la sua capienza e aspettava, attraccata al molo di Trompeloup, un porticciolo vicino a Bordeaux.

Che fare? Quel lavoro intenso e drammatico, proprio alla vigilia stessa della seconda guerra mondiale, era per me come il culmine della mia vita. La mia mano tesa verso i combattenti perseguitati significava per loro la salvezza e mostrava loro la natura della mia patria ospitale e coraggiosa. Tutti questi sogni venivano distrutti dal telegramma del presidente.

Decisi di consultarmi sul da farsi con Negrin. Avevo avuto la fortuna di fare amicizia con il presidente Juan Negrin, con il ministro Alvarez del Vayo e con alcuni degli ultimi governanti repubblicani. L'alta politica spagnola mi parve sempre un tantino parrocchiale o provinciale, priva d'orizzonti. Negrin invece era universale, o perlomeno europeo, aveva compiuto gli studi a Lipsia, aveva una statura universitaria. E a Parigi, con assoluta dignità, manteneva quell'ombra immateriale che sono i governi in esilio.

Parlammo. Gli illustrai la situazione, lo strano telegramma presidenziale che, di fatto, mi faceva apparire come un impostore, come un ciarlatano che offriva ad un popolo di esiliati un asilo inesistente. Le possibili soluzioni erano tre. La prima, abominevole, era annunciare semplicemente che l'emigrazione degli spagnoli per il Cile era annullata. La seconda, drammatica, era annunciare pubblicamente il mio dissenso, dare per finita la mia missione e spararmi un colpo nella tempia. La terza, di sfida, era riempire la nave di emigranti, imbarcarmi insieme a loro, lanciarmi senza autorizzazione verso Valparaíso e vedere che cosa sarebbe accaduto.

Negrin si appoggiò allo schienale della poltrona, fumando il suo grande avana. Poi sorrise malinconicamente e mi rispose: - Non potrebbe usare il telefono?

In quei giorni le comunicazioni telefoniche fra l'Europa e l'America erano insopportabilmente difficili, con ore di attesa. Fra rumori assordanti e brusche interruzioni, riuscii a sentire la voce remota del ministro degli Esteri. Attraverso una conversazione smozzicata, con frasi che si dovevano ripetere venti volte, senza sapere se ci capivamo o no, lanciando grida fenomenali o ascoltando come risposta strombettii oceanici del telefono, credetti di far capire al ministro Ortega che non accettavo il contrordine del presidente. Credetti anche di capire che il ministro mi chiedeva di aspettare fino all'indomani.

Passai, com'era logico, una notte agitata nel mio alberghetto di Parigi. La sera seguente seppi che il ministro degli Esteri aveva presentato quella mattina le dimissioni. Neppure lui accettava il mio esautoramento.

Il governo tremò, e il nostro buon presidente, temporaneamente confuso dalle pressioni, aveva riacquistato la sua autorità. Ricevetti allora un nuovo telegramma che mi diceva di continuare il mio lavoro.

Finalmente imbarcammo i profughi sul Winipeg. Al porto d'imbarco si ritrovarono mariti e mogli, padri e figli, che erano stati separati per molto tempo e che venivano dall'uno o dall'altro confine dell'Europa e dell'Africa.

A ogni treno che arrivava la folla in attesa si precipitava. Fra corse, lacrime e grida, riconoscevano gli esseri amati che sporgevano la testa in grappoli umani dai finestrini. Tutti salirono sulla nave. Erano pescatori, contadini, operai, intellettuali, un campionario di forza, eroismo e lavoro. La mia poesia nella sua lotta era riuscita a trovare loro una patria. Mi sentii orgoglioso.

Comperai un giornale. Stavo camminando per una strada di Varennes-sur-Seine. Passavo vicino al vecchio castello le cui rovine arrossate dai rampicanti levavano al cielo le torrette d'ardesia. Quel vecchio castello in cui Ronsard e i poeti della Pléiade si erano un tempo riuniti aveva per me un prestigio di pietra e di marmo, di endecasillabo scritto in vecchie lettere d'oro. Aprii il giornale. Quel giorno scoppiava la seconda guerra mondiale.

L'annunciava, a grandi caratteri di sudicio inchiostro nero, il giornale che m'era caduto fra le mani in quel vecchio villaggio sperduto.

Tutto il mondo l'aspettava. Hitler s'era via via inghiottito territori su territori e gli statisti inglesi e francesi correvano con i loro ombrelli a offrirgli più città, più regni, più uomini.

Una terribile nube di confusione riempiva le coscienze.

Dalla mia finestra a Parigi, guardavo direttamente verso gli Invalides e vedevo uscirne i primi contingenti, ragazzini che non sapevano neanche vestirsi da soldati e che partivano per entrare nelle grandi fauci della morte.

La loro partenza era triste, e niente lo nascondeva.

Era come una guerra perduta in anticipo, qualcosa di indefinibile. Le forze scioviniste percorrevano le strade a caccia d'intellettuali progressisti. Il nemico per loro non erano i discepoli di Hitler, i Laval, ma il fior fiore del pensiero francese. Accogliemmo nell'ambasciata, che era cambiata molto, il grande poeta Louis Aragon.

Passò quattro giorni a scrivere giorno e notte, mentre le orde lo cercavano per ucciderlo. Lì, nell'ambasciata del Cile, finì il suo romanzo I viaggiatori dell'Imperiale.

Al quinto giorno, vestito in uniforme, partì per il fronte.

Era la sua seconda guerra contro i tedeschi.

In quei giorni crepuscolari mi abituai a questa incertezza europea, che non soffre rivoluzioni continue né terremoti, ma mantiene il veleno mortale della guerra saturando l'aria e il pane. Per timore dei bombardamenti la grande metropoli di notte spegneva le sue luci e questa oscurità di sette milioni di esseri uniti, queste tenebre fitte in cui bisognava camminare in piena ville lumière, mi rimasero impresse nella memoria.

Alla fine di quest'epoca, come se tutto questo lungo viaggio fosse stato inutile, torno a rimanere solo nei territori appena scoperti. Come nella crisi della nascita, come nell'inizio allarmante, e allarmato, del terrore metafìsico da cui sgorga la sorgente dei mìei primi versi, come in un nuovo crepuscolo che la mìa stessa creazione ha provocato, entro in un'agonìa e nella seconda solitudine. Dove andare?

Dove ritornare, dirigere, tacere o palpitare? Guardo verso tutti i punti della luce e dell'ombra e non trovo che lo stesso vuoto che le mie mani hanno creato con cura fatale.

Ma il più prossimo, il più fondamentale, il più esteso, il più incalcolabile non appariva che in questo momento sulla mia strada. Avevo pensato a tutti i mondi, ma non all'uomo.

Avevo esplorato con crudeltà e agonia il cuore dell'uomo; senza pensare agli uomini; avevo visto città, ma città vuote; avevo visto fabbriche dal tragico aspetto ma non avevo visto la sofferenza sotto i tetti, sulle strade, in tutte le stazioni, nelle città e nella campagna.

Ai primi proiettili che attraversarono le chitarre di Spagna, quando invece di suoni ne uscirono fiotti di sangue, la mia poesia si arresta come un fantasma in mezzo alle strade dell'angoscia umana e su di lei comincia a salire una corrente di radici e di sangue. Da allora la mia strada si unisce con la strada di tutti. E, a un tratto, vedo che dal sud della solitudine sono andato verso il nord che è il popolo, il popolo al quale la mìa umile poesia vorrebbe servire da spada e da fazzoletto, per asciugare il sudore dei suoi grandi dolori e per offrirgli un'arma nelle lotte per il pane.

Allora lo spazio si fa grande, profondo e permanente.

Siamo ormai in piedi sulla terra. Vogliamo entrare nel possesso infinito di quanto esìste. Non cerchiamo il mistero, siamo il mistero. La mia poesia comincia ad essere pane materiale di un ambiente infinitamente spaziale, d'un ambiente al tempo stesso sottomarino e sotterraneo, a entrare in gallerìe di vegetazione straordinaria, a conversare in pieno giorno con fantasmi solari, a esplorare la cavità del minerale nascosto nel segreto della terra, a determinare ì rapporti dimenticati dell'autunno e dell'uomo. L'atmosfera si fa oscura e, a volte, l'illuminano lampi carichi di fosforescenza e di terrore; una nuova costruzione lontana dalle parole più evidenti, più logore, appare alla superficie dell'aria; un nuovo continente s'innalza dalla più segreta materia della mia poesia. Nel popolare queste terre, nel classificare questo regno, nel toccare tutte le sue rive misteriose, nelplacare la sua spuma, nel percorrere la sua zoologìa e la sua geografica longitudine, ho passato anni oscuri, solitari e remoti.