Sono stati individuati nei giorni scorsi a Roma i componenti del commando che, due settimane fa, ha svaligiato il caveau del Banco de Andalucía, a Marbella, un furto stratosferico da almeno quaranta miliardi. Una notizia che doveva rimanere segreta e che il «Quotidiano di Ostia» è in grado di rivelare grazie a fonti tanto qualificate quanto, per necessità, anonime. Due persone sono state trovate in possesso di alcuni preziosi provenienti dal furto e incriminate, almeno in questa prima fase dell'inchiesta, per ricettazione e favoreggiamento personale. Una terza è stata invece arrestata per violenza, resistenza e oltraggio a pubblico ufficiale. Quando gli agenti hanno bussato alla porta di casa sua li ha aggrediti con tanta violenza da costringere un poliziotto a ricorrere alle cure dei sanitari. La prognosi è di 15 giorni.

Gli inquirenti, coordinati dal capo della mobile Nicola Cavallini, stanno ora cercando di ricostruire l'intero organigramma della banda, compresi i mandanti e i basisti interni e, soprattutto, di individuare il luogo dove è stato nascosto il bottino, un autentico tesoro che, secondo le nostre fonti bene informate, sarebbe già stato trasferito in Italia. Novità di rilievo potrebbero arrivare nei prossimi giorni. Gli uomini d'oro in trasferta, a quanto pare, hanno le ore contate.

«E vaffanculo, troia...».

Nicola Cavallini riesce a tapparsi la bocca nel momento stesso in cui alza il telefono ed è molto meglio per lui visto che Alessio Dominici, il questore di Roma, non ama particolarmente essere mandato affanculo e tantomeno sentirsi definire una troia.

«Dicevi qualcosa, Nicò?»

«No, signor questore, è che...».

«Hai visto la rassegna stampa?». Il tono è più o meno quello di: ti sei accorto di essere uscito di casa in mutande?

«Sì, signor questore... Mi stavo proprio domandando...».

«Curioso, me lo stavo domandando anche io... COME CAZZO HA AVUTO LA NOTIZIA 'STA ZOCCOLA?».

Cavallini condivide soprattutto la parte della zoccola. Anche la domanda, se per questo. Il problema è che non è una domanda ma un'accusa sottintesa e che lui è a corto di risposte.

«Non ne ho idea, purtroppo... Ma se mi permette, mi sento di escludere che sia uscita da questo ufficio o da uno dei miei collaboratori, siamo attentissimi ai rapporti con la stampa e...».

«Forse non abbastanza, Cavallini, forse non abbastanza... Da qualche parte 'sta cazzo di notizia è uscita, no? Scopri da dove, se non altro, e tienimi informato».

Clic.

Buongiorno anche a lei, signor questore. E vattene affanculo pure tu giacché ci sei. Il "se non altro" resta sospeso sulla testa del capo della mobile come la spada di Damocle. Ve la ricordate? Quella appesa a un crine di cavallo. E i crini di Cavallini oggi potrebbero essere serpenti tanto è incavolato soprattutto perché è fin troppo consapevole del fatto che la telefonata è soltanto la prima di una mattinata di merda.

Driiing. Infatti.

«Dottor Cavallini, sono veramente costernato, per non dire altro... Una notizia come quella uscita oggi sul "Quotidiano di Ostia" rischia di compromettere definitivamente un'indagine internazionale di vasta portata su cui stiamo lavorando alacremente in gran segreto, come lei saprà, e che ora potrebbe essere definitivamente bruciata in considerazione del fatto che...».

Cavallini allontana la cornetta, che comunque continuerà a blaterare da sola per almeno venti minuti, se bastano, e fa il gesto di strangolare l'interlocutore col filo, consolandosi amaramente col pensiero che farebbe un gran favore all'umanità.

Se i tuoi decidono di chiamarti Jago devi avere qualche problema fin dalla nascita. Se poi sei Jago De Lupis, porti il papillon, ti consideri la cosa più straordinaria che abbia mai camminato su due gambe e, per tutto il resto del mondo sei il PM più pignolo, più pomposo, più cavilloso, più rompicazzo, più vanitoso del palazzo di giustizia, be', allora basta la tua voce con quell'insopportabile accento bleso a mandare in bestia qualunque poliziotto o carabiniere che crede del suo lavoro. E Cavallini ci crede ancora, anche se stamattina, magari, un po' meno.

«...Se avessimo deciso di rendere noti i fermi lo avremmo fatto di concerto, magari in conferenza stampa e con le dovute riservatezze, spero lei ne converrà con me perché certe cose...».

E certo, dannatissimo pallone gonfiato, il problema è quello, no? Ti sei perso cronisti e fotografi e l'occasione di pavoneggiarti con quel ridicolo farfallino che perfino Ciccio Papero porta con più eleganza di te. Che ti frega se veramente l'inchiesta potrebbe andare a puttane?

«Tra l'altro, dottore, non vorrei che questa storia deprecabile si ripercuotesse anche sulla nostra inchiesta che...».

A questo punto Cavallini drizza le orecchie come un cane lupo. Operazione Romolus, una delle più grandi indagini sulla mala romana dell'ultimo quarto di secolo, una meticolosa ricostruzione dell'organigramma completo di una gang che sta facendosi strada nel milieu capitolino a colpi di pistola e scariche di mitra e in cui, in un modo ancora tutto da capire, è collegato anche Pietro Salis. Tutto grazie alle rivelazioni del Riccio, un pentito che sta vuotando il sacco a puntate nelle segrete stanze di procura e questura, blindate e insonorizzate alla curiosità dei cronisti. Per la sventura del capo della mobile, la dirige proprio il PM col papillon. Ma, obiettivamente, almeno in questa fase, è molto difficile ipotizzare che il furto di Marbella possa entrarci qualcosa a meno che...

Cavallini concede un altro quarto d'ora di recriminazioni a De Lupis, tergiversa, si scusa, promette accertamenti e indagini interne, condivide, depreca e alla fine, prima di scaraventare il maledetto telefono contro un muro, riesce in qualche modo a mettere fine a una conversazione che sta scivolando sul patetico, stile confessionale del Grande Fratello se qualcuno l'avesse già inventato.

«Cabrón, che mi combini?». Il tono in cui Alfonso pronuncia la parola cabrón, stavolta, è molto meno scherzoso del solito, anzi, non è scherzoso per niente ma, se non altro, con lui si può parlare francamente visto che oltre che amici, sono pari grado.

«Non me ne parlare, cazzo, sto coi diavoli blu. È da stamattina che mi fanno il culo per questa storia e non so che pesci pigliare», si lagna in cerca di un minimo di comprensione da sbirro a sbirro.

«Capisci che casino? Se i complici leggono la notizia, addio... chi li becca più? Ma come è stato possibile?», incrudelisce Carnicero che, stamattina, farebbe veramente onore al suo cognome, se avesse qualcuno a portata di mano da disossare.

«Non lo so, porcatroia. Qualcuno ha fatto la soffiata... E tra l'altro non so manco chi è 'sta giornalista del cazzo... Di sicuro non è una che bazzica la questura, mai vista in vita mia... Vorrei proprio sapere... Vabbè, scusa, sto troppo incasinato, ti richiamo a stretto giro».

«Amigo, dài, non te incazzare troppo». Ma Cavallini non lo ascolta nemmeno.

Già, chi è Francesca Alati? Nicola Cavallini dà lo start alla sua prodigiosa memoria fotografica e passa mentalmente in rassegna facce e nomi dei cronisti accreditati, dai vecchi "trombettieri" che aspettano di morire in sala stampa (fossili del passato più sbirri che giornalisti abituati a farla da padrone in qualsiasi ufficio, sbrasoni, aggressivi, villani ma sostanzialmente affidabili) ai giovani talenti che ogni tanto si fanno vedere nella speranza di uno scoop o semplicemente di raccontare una storia di nera in stile letterario, da quei marpioni dei fotografi e dei cameraman, sempre in combutta con ispettori e bassa forza, fino al piccolo esercito di precari e disperati che saltano di continuo da un servizio all'altro, non distinguono un commissario da un sovrintendente e chiamano "agenti" i carabinieri.

Niente da fare. Alati Francesca manca all'appello.

Cavallini decide su due piedi di colmare questa sua grave lacuna culturale anche se convocare una cronista in ufficio è sempre ad alto rischio. Quelli che se la tirano si nascondono dietro il segreto professionale, gli altri si limitano a mentire e raccontare che hanno saputo la notizia per caso in strada, dal panettiere, da un cugino o addirittura, quando vogliono prenderti per i fondelli senza ritegno, da una lettera o da una telefonata anonima. Comunque sia è il caso di farci due chiacchiere, con la stronza di Ostia, magari ricorrendo a quel tono tra il paterno, il confidenziale e il burbero, da vecchio zio deluso dalla nipotina, che è l'arma preferita di Cavallini in queste circostanze ma prima...

A proposito di cronisti: eccoli. I tre moschettieri della sala stampa, col cipiglio dell'armi: Muzio Della Pigna, Giorgio Latrischini e Lanfranco Onori, che aprono la porta senza bussare, pronti a intonare un peana di recriminazioni e lamentele varie per il buco clamoroso che hanno appena preso. In tutte le redazioni, per i neristi, si profila una burrasca epocale.

Cavallini non è in vena di diplomazia, caccia un urlaccio da maiale appena castrato e li sbatte fuori aggiungendo che se provano a ripresentarsi senza preavviso mentre sta lavorando li incrimina per rottura di coglioni aggravata e continuata. I tre battono in ritirata meditando vendetta e ritorsioni: il nome di Cavallini è destinato a scomparire dalle pagine di cronaca per almeno tre mesi. E chissenefrega, il capo della mobile ha altro a cui pensare.

La telefonata di Vittorio Rota, capocronista del «Messaggero» arriva due secondi più tardi: Cavallini non può mandarlo affanculo come vorrebbe quindi si limita a giurare che la notizia non è uscita dal suo ufficio, a smentire lo smentibile, assicurare che cercherà di scoprire chi è la fonte (quasi sicuramente di procura, insinua con malignità) e arruffianarsi un po' Vittorio Rota promettendo qualche esclusiva nei prossimi giorni visto che col primo giornale della Capitale non si scherza. Poi sbraita alla segreteria di non passare chiamate dei giornalisti per tutta la mattinata, neanche se sono in piedi su una sedia con la corda al collo in procinto di togliersi la vita, anzi, meglio. Qualche rompicazzo in meno.

E adesso cerca di ricordarsi cosa doveva fare prima di essere interrotto dal trio di trombettieri ingrugnati... Ah, già, dare una bella strigliata ai suoi uomini per vedere se magari il soffione esce allo scoperto, quindi li convoca tutti a tamburo battente col tono del capitano che butta giù le reclute dalla branda per un'ispezione notturna.

Un quarto d'ora dopo, l'ufficio del capo della mobile sembra una discoteca heavy metal. O un raduno di ultrà, se preferite l'immagine. Jeans luridi e stracciati, facce da mammamia, giubbotti di pelle o jeans pieni di strappi, scarpe da ginnastica logorate da mesi d'asfalto, capelli e barbe alla Robinson e, naturalmente, le Beretta 92 infilate in tasca, alla cintola, alla caviglia, nel marsupio, nello zainetto e insomma, ovunque meno che in una fondina come Cristo comanda. I mobilieri hanno un'idea tutta loro del concetto di estrazione veloce.

«Se scopro che uno di voi ha soffiato la storia dei gioielli alla giornalista di Ostia gli strappo le palle e ci faccio il ragù», esordisce, diplomaticamente, Cavallini che avrà pure lui il diritto di incazzarsi con qualcuno, no? Altrimenti i sottoposti che ci stanno a fare.

Diciassette ceffi da galera (tutto l'organico della sezione antirapine presente al momento in ufficio) lo guardano con una limpida espressione di dignità offesa.

Quella di Mastrolindo è la più innocente di tutti. Neanche il pudore di arrossire. Il fatto è che Mastrolindo manco si ricorda di avere incontrato Antonio Assisi durante la sirenata e comunque, visto che il suo quoziente d'intelligenza è inversamente proporzionale ai suoi muscoli, non sarebbe mai in grado di mettere in relazione la piccola confidenza col dirigente Ostia e lo scoop di poche ore dopo su un giornale, guarda caso, di Ostia. Non è detto che per lavorare alla squadra mobile bisogna essere per forza delle volpi. Non sempre, almeno.

Quindi dopo una lavata di testa collettiva degna di un sergente dei Marine esce dall'ufficio con l'aria afflitta di prammatica e la coscienza pulita, beato lui.

Cavallini si rimette seduto, accende la quindicesima slim della mattinata, si dà una pettinata ai baffoni con tanta foga da strapparsi qualche pelo e cerca di capire come salvare il salvabile.

 

 

 

 

Capitolo VI

 

«E vaffanculo a 'sta troia».

No, non è Nicola Cavallini, stavolta. Il fatto è che spesso sbirri e malavitosi ragionano nello stesso modo. A volte troppo spesso.

Pietro Salis appallottola il giornale poi, visto che la palla è troppo grossa per mangiarsela, la scaraventa nel cestino, manca clamorosamente il bersaglio e s'incavola ancora di più, ammesso che sia possibile.

«So' quelle tre merde, se so' fatte beccà... Li mortacci loro, avevano fatto 'na stecca sulla roba e mo' le guardie se l'inculeno a tutti e tre... Ma io m'inculo loro, prima».

Er Fanfara e Scrocchiazeppi ascoltano, annuiscono e tacciono con facce di pietra sapendo benissimo che tra poco toccherà a loro occuparsi dei Gemelli e di Tortellino. E non sarà la solita passata di botte o la macchina bruciata. No, stavolta scorrerà il sangue.

«Stronzi, froci, rottinculo, figli di una puttana sifilitica, merde, bastardi, infami, teste di cazzo...». Salis dà fondo alla sua enciclopedica conoscenza di insulti mentre, con la parte razionale del cervello, cerca di analizzare la situazione e stabilire il da farsi.

Tappare la fogna agli stronzi che si sono fatti beccare. Se non hanno già cantato con gli sbirri c'è il rischio che lo facciano in seguito ed er Cattivo, questo, proprio non può permetterselo. I Gemelli devono morire e alla svelta, su questo non ci piove.

Trovare un posto sicuro per il bottino. Nessuno dei garage, delle sale giochi, dei bar o degli stabilimenti che siano, in qualche modo, riconducibili alla premiata ditta Salis è più sicuro. Le guardie possono piombargli addosso da un momento all'altro e deve immediatamente trovare qualcuno che sia A) insospettabile B) affidabile C) leale.

Squagliarsela per un po', che non fa mai male. Er Cattivo è abbastanza sicuro perché non c'è uno straccio di prova contro di lui, a meno che i tre stronzi non lo abbiano già tirato in ballo ma prendersi un periodo di vacanza, magari a casa della Signora, è sicuramente un'ottima idea, tanto più che cucina bene, spompina meglio e come niente lo farà rilassare per un po' prima di rimettersi in pista.

Er Cattivo mugugna, riflette, si spara una pista, fuma, tracanna un baby e stabilisce le priorità.

«Voialtri due cominciate dai Gemelli... Fatelo subito, il prima possibile. Niente cazzate, 'na cosa pulita, li voglio secchi entro una settimana, intesi?».

Fanfara e Scrocchiazeppi annuiscono in sintonia, si alzano ed escono senza pronunciare verbo. Hanno già ucciso a sangue freddo, in passato, ma la prospettiva è sempre vagamente traumatica e al diavolo le scempiaggini sui killer dal cuore di ghiaccio che si vedono al cinema. L'omicidio è il reato capitale, quello che ti può far finire al gabbio con fine pena mai o, se va male, al cimitero e, se non c'è una questione personale in ballo, qualunque barabba lo affronta con un po' di trepidazione. Le armi le hanno già, si tratta di mettersi sulle tracce dei Gemelli, pedinarli senza farsi svagare, scegliere il posto e l'ora giusta e fare il lavoro nel modo più rapido possibile, sapendo che, in qualsiasi momento, qualcosa può andare storto, perché se è vero che il pallone è tondo e va dove gli pare, spesso anche le pallottole hanno la tendenza a prendere direzioni e deviazioni indesiderate.

Senza contare che non hanno niente contro i Gemelli, anzi, quei due tizi assurdi fanno addirittura simpatia ma questi sono sentimenti e i sentimenti, quando er Cattivo dà un ordine, finiscono dritti nel cesso. Requiem per Palletta e Sellerone e pace all'anima loro.

Seconda, urgentissima questione: la Retta. Pietro Salis ha già un nome in testa quindi s'affaccia sulla porta del suo ufficio e sbraita a Palle d'Oro di convocare a tamburo battente Topo Gigio, non importa se sta scopando, se è in neurochirurgia per un intervento al cervello o in vacanza a Trinidad. Lo vuole qui entro un'ora o Fanfara e Scrocchiazeppi avranno un terzo nome da cancellare dalla lista dei viventi.

Mentre aspetta, er Cattivo decide di dedicarsi alla terza faccenda, la più piacevole, e chiama la Signora.

«Amo', come stai?»

«Tesoro mio, che carino che sei a famme 'sta bella improvvisata... Di solito nun me chiami mai».

«Che è? T'ho rotto er cazzo?»

«Ma che stai a dì, gioia, nun ce lo sai che vivo solo pe' te? Dimme, quando me vieni a trovà?»

«Pensavo domani matina...».

«E daje, è 'na vita che nun te vedo e sto a smanià... Si te fermi a magnà te faccio le fettuccine e l'abbacchio ar forno che te piace tanto... O magari preferisci la coratella».

«Quer cazzo che te pare... Stamme a sentì, pensavo de restà da te quarche giorno, magari 'na settimanella si nun disturbo... C'ho da fà dei lavori ar bagno e nun me va de stà in casa coll'operai che lavoreno e fanno casino».

La Signora è una donna di mala e capisce al volo che la faccenda del bagno è una scusa, anche perché a casa di Salis ce ne sono tre, ma è troppo sveglia per tradirsi al telefono, quindi cinguetta di gioia, si augura che Pietro rimanga da lei almeno un mese, gli giura amore eterno, saluta e torna nella camera da letto per concludere la scopata con Abdullah e avvisarlo che, dal giorno dopo, dovrà tenersi alla larga fino a nuovo ordine se non vuole finire squartato come l'abbacchio che sta per preparare al suo amante ufficiale.

«Ma chi è 'sta tipa?»

«Bassa forza. La solita squinzia che sgomita e potrebbe uccidere per uno scoop».

«Be', visto che stavolta c'è riuscita, la domanda da un milione di dollari è chi ha ammazzato per averlo».

«O magari chi si è trombata».

Antonio Vegliardi si dà una grattatina alla testa proprio dove, a soli trentasei anni, comincia ad apparire un preoccupante inizio di chierica e lancia un'occhiata in tralice al capo della mobile. Il ruolo di responsabile dell'ufficio stampa, nella gerarchia questurina, è molto al di sotto di quello di Nicola Cavallini ma qui siamo nella polizia di Stato, non nei carabinieri, ed essere figlio di un prefetto, aver mangiato pane e polizia da quando era ragazzino e aver seguito le orme di Cavallini fin dall'inizio della carriera, come un segugio fedele, lo mettono al riparo da formalità ed etichetta. Niente "lei", niente salamelecchi, niente sviolinate al superiore. Nicola lo apprezza soprattutto per questo: sincerità assoluta al limite della brutalità.

«Ma dov'è?»

«In sala d'attesa, le sto facendo fare un po' di anticamera».

«Be', non esagerare, sennò si incazza di brutto, lo sai come sono i cronisti, no?»

«Non me ne parlare. Mi stanno lardellando i coglioni da ieri... Mi ha chiamato perfino un caporedattore di "Repubblica"... Uno stronzo mai visto, si è permesso di alzare la voce come se fossi uno dei suoi pennivendoli. A volte rimpiango il Minculpop».

«Già, perché tu eri in polizia ai tempi del fascismo, me lo dimenticavo...».

«Io ero in polizia ai tempi di Giulio Cesare, vicequestore dei pretoriani... stronzetto».

Lo stronzetto torna serio e riporta il discorso al problema per cui è stato chiamato.

«Pensi che sia uscita da qui? Magari qualche ispettore ha cantato...».

«Lo penserei se l'avesse scritta Giorgio, Muzio o Lanfranco... Quelli conoscono più guardie di me. Ma 'sta tizia, come dici tu, non è neanche accreditata, non penso di averla mai vista in questura e di sicuro non ha agganci alla mobile, ergo...».

«La dritta le è arrivata da un'altra parte. Carabinieri?»

«Non sanno un cazzo. Sai che De Lupis li odia non so bene per quale inchiesta andata a puttane. E visto che ci siamo escluderei anche il palazzo di giustizia, figurati se quel pavone non si sarebbe fatto citare venticinque volte nel pezzo. Mi ha chiamato incazzato come un bufalo».

«E allora resta solo una possibilità: il commissariato».

«Assisi... Non so, non mi sembra il tipo. Magari uno dei suoi che se la fa con questa tipa. Ma il fatto è che siamo stati attentissimi a tenere segreta la notizia anche lì. Le perquisizioni le abbiamo fatte noi, non abbiamo coinvolto Ostia in alcun modo anche perché con la storia del Riccio in ballo non vorrei che...».

«A che punto siamo?»

«Canta che neanche Al Bano e Romina. Un altro PM sarebbe già partito coi provvedimenti ma sai com'è De Lupis: riscontri, riscontri, riscontri... Be', quello sì che sarà un bel botto».

«Ricordati di tagliarti i baffi prima della conferenza stampa, te lo dico in veste di consulente dell'immagine, fanno troppo sbirro».

«Sono uno sbirro. IO. E tu tagliati quel pezzo di carne floscia che hai tra le gambe e con cui ragioni».

«Agli ordini, provvedo immediatamente. Nel frattempo se fossi in te farei entrare la giornalista prima che si metta a strillare al sequestro di persona».

«GRIFFO, FA' ENTRARE LA SIGNORINA ALATI. Tu resti?»

«Meglio di no, sennò sembriamo lo sbirro buono e quello cattivo. Ovviamente il cattivo saresti tu, io quello buono, bello e affascinante».

«E stronzo non ce lo metti? Dài, levati dalle palle allora».

Antonio Vegliardi scompare velocemente dalla porticina che apre almeno venticinque volte al giorno e mette in comunicazione il suo ufficio con quello del capo della mobile e, quindici secondi dopo, un'infuriatissima Francesca Alati fa il suo ingresso nella stanza. Cavallini fa una valutazione istantanea.

Stronza. Presuntuosa. Bonazza. E molto sveglia.

Nicola Cavallini si è sempre vantato della propria capacità di inquadrare le persone alla prima occhiata e il modo in cui la giornalista siede davanti a lui, rigida come se avesse un manico di scopa infilato nel sedere, guarda ostentatamente l'orologio e tende la mano come se dovesse stringere un riccio di mare gli conferma che, anche stavolta, ci ha azzeccato.

«Piacere di conoscerla, signorina Alati, anche se magari avrei preferito incontrarla in un'altra circostanza...».

Francesca storce la bocca a quel "signorina" pronunciato con un filo di ironia e grugnisce qualcosa come «Piacere mio».

«Mi spiace averla fatta aspettare ma sono giornate molto convulse... e devo aggiungere che la pubblicazione della notizia dei fermi, per altro inesatta, sul suo giornale non ci ha aiutati».

«Io ho fatto il mio lavoro. Quanto alle inesattezze...».

«Per carità, non l'ho chiamata per fare polemica, si rilassi. È che mi faceva piacere vederci faccia a faccia visto che, da quando sono in questo ufficio, non ne ho mai avuto occasione. Vede, signorina, io credo fermamente nei rapporti con la stampa e tanti suoi colleghi più anziani possono confermarglielo. Il fatto è che a volte uno scoop, come dite voi, o una fuga di notizie riservate, come la chiamiamo noialtri, può avere effetti disastrosi per un'indagine in corso».

«Se vuole denunciarmi per rivelazione di segreto istruttorio si accomodi. Ci penseranno gli avvocati del giornale a tutelarmi».

Nicola Cavallini tenta di immaginarsi l'avvocato del quotidiano di Ostia: probabilmente uno di quei parafangari che vivono di piccole truffe alle assicurazioni e non entrano in un'aula di tribunale dai tempi del praticantato.

«Scusi, signorina, credo che siamo partiti col piede sbagliato. Nessuno parla di denunce, qui, è solo una chiacchierata tra amici, se mi permette... Io...».

«E io invece sono convinta che lei mi abbia convocata - e fatto aspettare per mezz'ora, tra l'altro - per scoprire da chi ho avuto l'informazione. O sbaglio?».

Presuntuosa. Sveglia. Stronza. Bonazza. Cambiando l'ordine degli addendi il risultato resta lo stesso. Un osso duro, durissimo.

«Signorina Alati, sarò sincero con lei... So benissimo che se le chiedessi chi è la sua fonte tirerebbe in ballo il segreto professionale. Lei mi insegna che voi giornalisti siete autorizzati a tacere se interrogati dalla polizia giudiziaria o dal PM, ma non davanti al giudice istruttore, che vi può incriminare per reticenza o favoreggiamento ma...».

«Minacciarmi non le servirà a niente, dottor Cavallini».

«...Ma mi faccia finire, per favore. Nessuno la minaccia, nessuno parla di denunce, qui. Non sono così ingenuo da chiederle il nome di chi le ha dato la dritta ma la prego di mettersi nei miei panni. Siamo alle prese con un'indagine delicatissima e se c'è qualcuno che va in giro a rivelare notizie che possono compromettere tutto è mio dovere cercare di capire da chi dobbiamo guardarci le spalle».

«Insomma, che vuole da me?»

«Solo una vaga indicazione dell'ambiente dove ha avuto l'informazione. Potrebbe essere un altro organismo investigativo che sta lavorando alla stessa inchiesta a nostra insaputa, o magari qualche giro politico della sua zona dove la notizia è filtrata... Come vede gioco a carte scoperte con lei. Non le sto chiedendo assolutamente di indicare una persona specifica... In cambio le assicuro fin da ora che sarà tempestivamente informata di tutti i prossimi sviluppi, anzi, che sarà la prima a saperli. È d'accordo?»

«Insomma, mi chiede di fare la spia in cambio di altri scoop».

Nicola Cavallini fa un bel respiro profondo col diaframma stile Hatha Yoga e ricorda a se stesso che rovesciare la scrivania addosso a una giornalista non è uno dei modi migliori per coltivare i rapporti con la stampa.

Già che c'è, ingoia anche un bel vatteneaffanculostronza. E sfodera il suo miglior sorriso da micione baffuto.

«Mi sembra che lei sia prevenuta, nei confronti della polizia di Stato, se mi permette, non siamo la Stasi o la Ghepeù».

«Guardi, nel mio piccolo ho ottimi rapporti con la polizia di Stato. E giacché ci sono aggiungo che se sta pensando ad Anto... al dirigente del commissariato di Ostia, il dottor Assisi, sbaglia di grosso. Lo scoop l'ho avuto da tutto altro ambiente».

«E, da vera professionista, non vuole rivelarci quale. Va bene, la capisco e, mi creda, la rispetto per la sua integrità deontologica. Posso solo chiederle una cosa: se in futuro dovessero arrivarle altre notizie delicate, magari potrebbe farmi un colpo di telefono prima di pubblicarle? Le assicuro che non divulgherei la cosa, lei avrebbe il suo scoop e io potrei aggiungerle qualche particolare utile o, magari, evitare di scrivere inesattezze. Siamo d'accordo?»

«Va bene, d'accordo». La voce dice una cosa, l'espressione "col cazzo".

«Allora non mi resta che salutarla e scusarmi di averla trattenuta e fatta aspettare. Capirà che stiamo lavorando come pazzi».

«Ha ragione. Noi giornalisti, invece, non facciamo un cavolo di niente tutto il giorno, giusto?»

«Accidenti quanto è aggressiva... Senta, spero che col tempo impareremo a conoscerci e a stimarci reciprocamente. Buona giornata».

«Anche a lei».

Alcuni agenti segreti hanno dei guanti intrisi di veleno in grado di uccidere con una semplice stretta di mano, o almeno così si dice. Vero o falso, Nicola Cavallini rimpiange che non compaiano nella dotazione della mobile perché ne avrebbe veramente bisogno.

Mentre Francesca Alati marcia impettita verso la porta, comunque, il capo della mobile riflette sul fatto che il lato B è all'altezza del resto, anche se un po' traballante, ma che, in fondo, non è nemmeno troppo sveglia visto che, senza dire niente, ha parlato molto più di quanto lui stesso si aspettava.

Via Tiburtina, altezza San Lorenzo, esterno notte. La sagoma del cimitero monumentale del Verano in lontananza sulla destra, l'Istituto di medicina legale sulla sinistra, la caciara di localini, ristorantini, baretti, sale giochi e ritrovi dell'ultrasinistra dell'unico vero quartiere latino della capitale a poca distanza. La Tiburtina non è una strada, è un confine che attraversa universi, divide mondi distanti anni luce, lambisce realtà che sembrano accatastate lì a casaccio: il centro commerciale di piazza delle Crociate coi suoi negozi ancora vuoti e tetri, la stazione dai lavori eterni che verrà inaugurata tra anni e anni, le rampe della tangenziale sporche, rumorose, già condannate a morte ma destinate a durare in eterno, dato che nessuna giunta comunale avrà mai la determinazione e il coraggio di buttarle giù, il commissariato blindato come Fort Apache, i lampioni spenti da secoli.

Insomma, una delle zone più pittoresche, controverse, multiformi di quella città pittoresca, controversa e multiforme che si chiama Roma.

Ma a Scrocchiazeppi e al Fanfara di queste cose non frega un accidente visto che hanno ben altro a cui pensare. Sono lì per uccidere. E non sono affatto felici.

Alcuni assassini si danno la carica con la coca o le anfetamine. Scrocchiazeppi ed er Fanfara sono puliti come se dovessero fare le analisi per il test d'ammissione nella Folgore. Troppo professionali, troppo intelligenti per bombarsi. Hanno controllato le armi (una Tanfoglio calibro 9x21 nuova di pacca e un buon, vecchio, revolver Colt Python), si sono vestiti di scuro senza esagerare, visto che non siamo in un romanzo sui ninja, hanno rubato per tempo una Honda 400 Four che hanno perfino portato da un meccanico amico per una revisione generale, hanno lasciato due cinquantini puliti di fronte al secondo ingresso del cimitero per proseguire la fuga in direzioni diverse, hanno indossato i guanti perché non si sa mai, hanno i caschi integrali a portata di mano e, insomma, non manca niente tranne che la cosa più importante.

La rabbia.

O se preferite l'odio, il rancore, la voglia di uccidere che poi sono più o meno la stessa cosa.

Ammazzare qualcuno a sangue freddo non è una faccenda semplice, neanche in una storia nera e violenta come questa. Si fa per vendetta, come quando Pietro Salis ha steso er Gufetto davanti a tutti e ci ha perfino provato piacere. Oppure per soldi, follia, amore, gelosia, un oltraggio da vendicare, un torto che può essere lavato solamente col sangue.

Fanfara e Scrocchiazeppi sono due soldati. Hanno ricevuto un ordine e stanno per eseguirlo ma con pochissimo entusiasmo e, anzi, col morale al livello delle suole.

Quando er Cattivo parla, loro tacciono e obbediscono. Lo fanno da anni, per riflesso condizionato, perché è il loro ruolo e la loro vita, ma stavolta è diverso.

Il fatto è che quei due cassettari strampalati, uno alto e secco, l'altro cicciotto e alto un cazzo e un tappo, fanno simpatia. Sempre allegri, buontemponi, ridanciani ma, nel lavoro, seri e irreprensibili come un insegnante di teologia alla Cattolica. In fondo che hanno combinato i Gemelli? Si sono presi qualche brillocco come ricordino ma, in quella situazione, chi non l'avrebbe fatto? Er Maghetto è un'altra cosa, si becca tanti di quei soldi che non ha bisogno di arrotondare, e quanto a Tortellino non ne ha avuto l'opportunità e anche se l'avesse avuta, dato che è stupido come un tapiro, manco gli sarebbe venuto in mente. Si può morire per due brillocchi raccolti a terra? O per un semplice sospetto di aver parlato?

«Io so' sicuro che quei due hanno retto la cica... Nun so' quaquaraquà che se la cantano», grugnisce er Fanfara cercando di tenere a bada i decibel del vocione. Scrocchiazeppi figurati se risponde e si limita a lanciare all'amico un'occhiata di conferma.

Stavolta Salis ha veramente esagerato. I due si scambiano un'altra occhiata piena di significati: e chi glielo va a dire, tu?

Due figure inconfondibili, una alta e magra, l'altra bassa e rotondetta, escono sulla Tiburtina a piedi, affiancate, e si dirigono verso una vecchia 850 coupé parcheggiata poco distante. Non ci arriveranno mai ma, per precauzione, er Fanfara ha bucato due gomme.

Il motore della Honda s'avvia con un ringhio che sembra un urlo di guerra. Scrocchiazeppi stira le marce e affianca i Gemelli proprio nel momento in cui er Fanfara, sulla moto, punta il revolver a braccio teso da un metro e mezzo di distanza. Bersaglio sicuro ma...

Er Palletta è il primo a vedere il pericolo e fa una cosa pazzesca. Anziché girare sui tacchi e scappare, come farebbe chiunque, balza davanti a Sellerone come un piccolo bulldog che affronta un lupo, gli fa scudo col suo corpo tozzo e corto e si scaraventa urlando, a mani nude, contro i due killer in moto.

Er Fanfara esita un attimo poi spara tre colpi. Due pallottole centrano er Palletta in pieno petto, il terzo gli sfonda la testa: body, body, head, tecnica di eliminazione del Mossad israeliano.

Er Palletta si abbatte già morto sulla moto e la rovescia a terra, in una catastrofe di lamiera, plastica, sangue, cervello e benzina, mentre Sellerone, dopo qualche secondo di esitazione, se la squaglia correndo nel buio tutto storto e sbilenco come un paguro bernardo.

Fanfara e Scrocchiazeppi rovinano a terra, si rialzano, tirano su la moto, tentano di accenderla ma, con la caduta, il carburatore è ingolfato quindi sono costretti ad avviarla a spinta: er Fanfara ingrana la seconda e corre di fianco alla Honda tenendola per il manubrio, Scrocchiazeppi gli arranca dietro, spingendo il sellino e, dopo circa duecento metri, er Fanfara molla la frizione e salta in sella, la moto tossisce, singhiozza, sputa fumo nero e, finalmente, parte e scompare nel buio a fari spenti.

Il cadavere del Palletta resta sdraiato a terra, tutto avviticchiato su se stesso, in una pozza di sangue nero e schiumoso che si allarga sul marciapiede.

Nessuno urla, nessuno dà l'allarme e una coppia di pensionati che passa poco dopo accanto al corpo steso sull'asfalto finge di credere che si tratti di un ubriaco e si gira dall'altra parte.

Due colpi al torace, uno alla testa. Una vera e propria esecuzione per Ermete De Paolis, trentadue anni, detto er Palletta, assassinato la scorsa notte sulla Tiburtina da due killer che, subito dopo l'omicidio, si sono dileguati nel buio, forse su una moto di grossa cilindrata. L'uomo è stato ucciso all'istante e, stando ai primi accertamenti degli investigatori, nessun testimone avrebbe assistito alla drammatica scena. La pista di chi indaga sembra quella di un regolamento di conti nel giro della malavita stanziale di San Lorenzo. Secondo voci non confermate che filtrano dal palazzo di giustizia, De Paolis sarebbe stato coinvolto, di recente, nell'indagine sul clamoroso furto in trasferta al Banco de Andalucía di Marbella dove un commando di uomini d'oro, probabilmente arrivato dall'Italia, ha fatto razzia delle cassette di sicurezza: un bottino che arriverebbe a ben quaranta miliardi...

Nicola Cavallini butta via il giornale e stringe le labbra in una linea sottile, sotto i mustacchi a cespuglio, così sottile da sembrare un taglio: ha letto abbastanza. Sempre lei, la bella e arrogante giornalista di Ostia che, chissà come, riesce a stare un passo avanti ai colleghi più scafati. Il senso del pezzo è tutto in quella sottile, velenosa, allusione: De Paolis sarebbe stato coinvolto eccetera eccetera. La versione ufficiale, concordata con Antonio Vegliardi e diffusa fin dalla prima mattina, era quella di una storia di droga tanto per non mettere troppo in allarme gli assassini. Er Palletta, pace all'anima sua, non aveva un curriculum tale da essere conosciuto nelle redazioni, non viveva a Ostia e, di conseguenza, Francesca Alati ha avuto un'imbeccata buona anche stavolta. La faccenda delle voci che filtrano dal palazzo di giustizia non incanta nessuno: il solito trucchetto che anche Cavallini ha usato centinaia di volte quando doveva rifilare una dritta anonima a un cronista amico: si cita una fonte fasulla per coprire quella vera. Be', se non altro adesso avrà una giustificazione per gli altri neristi che tra poco faranno irruzione nel suo ufficio incavolati come bufali. Noi non c'entriamo, ragazzi, prendetevela coi giudici... Nessuno ci crederà ma sono affari loro. Al momento, il capo della mobile ha ben altro a cui pensare e, in particolare, a due cose.

Rintracciare Sandro Balducci, alias Sellerone, il secondo Gemello, prima che ammazzino anche lui. I due lavoravano sempre insieme al punto tale che, sulla coppia, giravano voci insinuanti di rapporti gay ma, comunque, è chiaro come il sole che Sellerone sarà il prossimo. Infatti, guarda caso, dopo l'omicidio dell'amico si è dato alla macchia. Lui non sa dove andarlo a cercare ma qualcun altro, probabilmente, sì e di sicuro ha già un proiettile col nome di Balducci nel caricatore. È una corsa contro il tempo che non può permettersi di perdere.

Scoprire chi è la fonte di Francesca Alati. E questo, al momento, sembra molto più semplice visto che Cavallini un'idea ce l'ha già. Ora deve raccogliere le prove e a quel punto sarà l'Armageddon. Se c'è una cosa che Cavallini ha sempre detestato sono i colleghi che vanno a spiattellare cose di cui non si stanno occupando. Se poi il motivo sono due occhi pieni di promesse e un paio di bombe che sembrano esplodere dalla camicetta siamo in piena corruzione. O magari dietro c'è perfino qualcosa di più grave di una scopatina do ut des. Cavallini ha preso discretamente qualche informazione sul commissariato di Ostia: solo sussurri e veleni, per adesso, ma ci sono troppe cose che non convincono. Il vero problema è muoversi in silenzio e scattare solo al momento opportuno. Nicola Cavallini si dà una bella pettinata ai baffoni mentre immagina se stesso come un giaguaro in agguato all'abbeverata delle gazzelle. Un giaguaro molto affamato e molto incazzato.

Le indagini, comunque, proseguono alacremente in ogni direzione e, al di là delle smentite ufficiali, nelle stanze degli investigatori si respira un'aria di cauto ottimismo. Gli assassini del Palletta (chiamato così per la corporatura bassa e tozza) potrebbero avere le ore contate.

Omar finisce di leggere il pezzo per la seconda volta, si accende una sigaretta e resta a fumare in silenzio, concedendosi qualche minuto di vuoto mentale prima di mettere in moto il cervello e stabilire un piano. È una tecnica che ha imparato quando studiava filosofie orientali e sembra che funzioni: non buttarti a capofitto in un problema, aspetta, prendi tempo, smetti di pensare e rilassati. La soluzione potrebbe arrivare da sola.

E la soluzione arriva, anche se è troppo facile, visto che era scontata in partenza: è il momento di squagliarsela.

Omar non ha bisogno delle insinuazioni di Francesca Alati per sapere chi c'è dietro l'assassinio del Palletta e, infatti, non ha letto la notizia sul «Quotidiano di Ostia» ma sul «Messaggero», che non parla del colpo a Marbella. Ma il nome dell'assassino (o comunque del mandante del delitto) è come se fosse stampato a sei colonne corpo 24 grassetto: Pietro Salis. È cominciata. Er Cattivo, per qualche motivo che gli sfugge, ha intenzione di ammazzare tutti i componenti del gruppo. Dopo er Palletta sarà la volta di quel tizio secco di cui non ricorda il nome, del bove pieno di tatuaggi con un'espressione da scimpanzé e forse anche del Maghetto che Omar conosce fin troppo bene, visto che stava per rompergli il grugno a cazzotti pensando che se la facesse con Amparo. Tutti morti che camminano.

Perché?

Omar ci riflette un po' e decide che non gliene frega un cavolo. Forse er Cattivo vuole eliminare tutti quelli che, un giorno, potrebbero accusarlo. Forse ha saputo che qualcuno ha parlato troppo. Forse vuole semplicemente evitare di dividere il bottino. Logiche malavitose che non lo coinvolgono e non lo riguardano.

Omar non ha paura di Salis e non crede di essere finito anche lui nel mirino. Se il suo gruppo di Neri fosse ancora saldo e compatto, è assolutamente sicuro che potrebbe fare strame di quell'accozzaglia disorganizzata di barabba nel giro di pochi giorni. Ma i Neri sono allo sbando, falcidiati dagli arresti, dalla confessione di Pitbull, dalle faide interne sempre più velenose. Una guerra, anche se improbabile, lascerebbe a terra morti e feriti da entrambe le parti.

Omar è un guerriero, lo è sempre stato e non teme la morte da molti anni ma...

Ma questa storia non è un buon motivo per morire. E non è quello che gli fa paura. Quando si comincia a sparare, assieme ai proiettili, fischiano le voci e le voci, alla fine, porterebbero inevitabilmente a lui. E questo Omar Gentile proprio non può permetterlo.

Ucciso dagli sgherri dello Stato giudoplutocratico mentre combatte, armi in pugno per la Rivoluzione Nazionale... Una morte eroica, che verrà celebrata e ricordata negli anni futuri, be', questa è una cosa che qualsiasi terrorista mette in conto fin dal momento in cui sceglie la lotta armata. Molti la inseguono come un'amante. «Camerata Gentile? Presente». Omar s'è immaginato mille volte lo slogan alla rievocazione della Marcia su Roma o della morte di Mikis Mantakas. Ma farsi arrestare come un volgare scassinatore assieme a una banda di ladri, rapinatori, spacciatori e chissà cos'altro, questo no. Piuttosto meglio un colpo in testa o magari un bel seppuku pittoresco, lama che squarcia le viscere, ultima poesia d'addio e tutto il resto come Yukio Mishima, il suo idolo di gioventù almeno fino a quando non ha scoperto la faccenda della frociaggine e ha buttato tutti i libri di quel muso giallo recchione nella spazzatura.

Conclusione: o s'ammazza subito o cambia aria. Meglio la seconda scelta. Per la prima, comunque, c'è sempre tempo. Omar pensa di andare a una cabina del telefono e avvisare Amparo che sta arrivando ma ci rinuncia subito. Non può sapere se la sua donna è sotto sorveglianza e la cosa migliore sarà arrivare a Marbella all'improvviso, come l'ultima volta, vagliare la situazione e, appena possibile, proseguire immediatamente assieme a lei per Londra, dove andranno a vivere, magari con una tappa intermedia in qualche altro posto per confondere eventuali inseguitori. Addio e addio per sempre camerati, se ancora ci rincontreremo avremo il sorriso sulle labbra, altrimenti valga questo come ottimo congedo. E andatevene affanculo. Be', l'ultima frase non è del signor William Shakespeare ma una piccola chiosa personale.

Ora che ha deciso, Omar si sente più tranquillo, accetta il fatto che un capitolo della sua vita è chiuso per sempre e comincia a organizzare i preparativi. La borsa coi soldi è nascosta nella cantina blindata di un rifugio ancora sicuro. Solo lui ha la chiave, solo lui sa dove si trova quindi è impossibile che qualche altro camerata possa metterci le mani sopra.

Omar sfoglia il piccolo mazzo di passaporti fasulli, sceglie quello più consumato e che gli sembra più affidabile, in versione biondo platino, va in bagno e comincia a ossigenarsi i capelli.

 

 

 

 

Capitolo VII

«Me serve un fojo, Renuà».

«Pe' chi?»

«Pe' 'sto cazzo... Pe' me, no?»

«Ahó, vedi de datte 'na carmata che mica stai a parlà co' tu' sorella».

«Scusa, a Renuà, sto nei casini... Senza offesa».

«Vabbè, Sellerò, pe' quanno lo voi?»

«Subbito. Domani, dopodomani, appena puoi... E me riccomanno, deve esse bono».

«De quello nun te devi preoccupà».

«Lo so che sei er mejo... Vienime incontro, a Renuà, sto proprio in mezzo a le piste».

«Passa oggi pomeriggio co' le foto. Me ne serveno quattro. Nun venì a studio, lasciale in busta a Gino, quello che lavora al bar Rosati, 'o conosci, no?»

«Sì...».

«Si je la fai entro le dieci di sera, dopodomani te do er fojo».

«Grazie, a Renuà... E... insomma... quanto sarebbe?»

«So' quattro meloni, ar solito».

«Vabbè, allora se vedemo dopodomani... a che ora?»

«Famo le undici così sto sicuro che er lavoro è finito e nun te faccio aspettà. Bella Sellerò».

«Bella Renuà».

Sellerone deglutisce a secco, guarda il Rolex che si è comprato appena tornato dalla Spagna, un piccolo anticipo dei lussi che si aspettava dalla sua parte di bottino e gli dice mentalmente addio. Mettersi a trattare al telefono con Renoir, il falsario più rinomato di Roma, il pittore con studio a via Margutta, una decorosa reputazione nelle gallerie del centro e conclamati agganci coi servizi segreti - che lo lasciano razzolare impunemente nel suo mondo grigio di passaporti, carte d'identità o libretti di circolazione farlocchi in cambio di qualche dritta sulla mala e, a volte, di qualche lavoretto fuori ordinanza - è fuori questione. Ha già parlato troppo anche se da una cabina telefonica e quattro milioni, per un passaporto made in Renoir, capace di aggirare qualsiasi controllo di polizia nazionale o estera, è la tariffa standard. Con la strizza che ha da quando hanno parcheggiato er Palletta - solo al ricordo del sacrificio dell'amico, che si è fatto ammazzare per fargli scudo col suo corpo, gli si inumidiscono gli occhi - non può permettersi di perdere neanche un quarto d'ora. Vive rintanato in una pensione vicino a Termini, si tiene lontano da tutti i giri dove Salis potrebbe avere qualche aggancio (quindi l'intera zona di Ostia e gran parte delle confraternite malavitose di tutta Roma), s'è tagliato i capelli a forbiciate e mangia appena, per la paura e l'angoscia, e trema a ogni passo dietro di sé, cercando di restare sempre in mezzo alla folla che gravita attorno alla bolgia quotidiana della stazione. La gente, tanta gente, è sempre uno scudo, oltre che un rifugio quando ti cercano. E di sicuro lo stanno cercando.

Un morto che cammina, ecco come si sente. Salis non sbaglierà due volte. Il prossimo è lui, se non fa la bella alla svelta. E di sicuro poi toccherà a Tortellino.

E lui deve scomparire se ha intenzione di restare vivo. La destinazione l'ha scelta a caso: Zanzibar. Non sa neanche bene dove si trovi, probabilmente in qualche posto dove gli uomini vanno in giro col gonnellino di banane e la lancia e le donne con la conca dell'acqua sulla testa... Lo ha sentito da qualche parte, al telegiornale, e gli sembra un nome abbastanza esotico, abbastanza lontano perché i killer del Cattivo non lo vadano a cercare anche lì. Zanzibar, che nome del cazzo, sembra uno scioglilingua. O un posto dove le zanzare prendono il caffè. Sellerone ha idea che, se non altro, farà caldo e la vita costerà meno.

Si sfila il Rolex e lo rimette nel suo cofanetto di cuoio verde, complimentandosi con se stesso per non averla buttata via assieme alla garanzia, nel primo cestino a disposizione, col tipico gesto da sbrasone romano che di queste cose altamente se ne fotte, tanto i soldi rubati non si contano. Cellini in oro, sottile ed elegante. L'ha pagato quasi sei pippi, un ricettatore gliene darebbe tre, magari tre e mezzo visto che è nuovo di pacca, ma non può permettersi di cercare una ricetta di professione perché i mille occhi di Salis potrebbero individuarlo. Quindi, prima ancora di chiamare Renoir, ha deciso di darglielo come pagamento del foglio. Il falsario farà un po' di scena, sosterrà che non basta, minaccerà di non consegnargli il passaporto ma, alla fine, accetterà di sicuro e se la tirerà troppo alle lunghe, Sellerone è abbastanza disperato da puntargli alla gola il lungo coltello da cucina che porta sempre alla cintura, infilato dietro la schiena, dal giorno in cui hanno addobbato er Palletta. Zanzibar. Chissà dove cazzo sta... India, Asia, Negronia? Lo scoprirà quando ci arriva. Dopodomani, appena avrà il passaporto, filerà dritto all'aeroporto, comprerà un biglietto in classe economica e aspetterà il primo volo.

Sellerone conta per l'ennesima volta i soldi che ha preso dal fondo comune che divideva con er Palletta, una specie di tesoretto d'emergenza per le spese impreviste, un dindarolo dove depositavano qualche centone dopo ogni colpo in previsione dei tempi di magra che, anche per due cassettari quotati come loro, non mancano mai. Due pippi e seicentomila. Quanto rimane dopo la spesa folle del Rolex. Per il volo e i primi giorni in Culonia dovrebbero bastare poi, in qualche modo, cercherà di arrangiarsi. Uno come lui, bravo di piccone e piede di porco, professionista delle tronchesi, del trapano, del tagliavetri e del grimaldello, artista dello scalpello e del maleppeggio, un lavoro lo trova sempre. Magari addirittura uno legale, almeno all'inizio, finché non si ambienta.

La fatica non lo spaventa. Non quanto er Cattivo, almeno. La tenacia, la serietà sul lavoro l'ha ereditata dal padre muratore che se l'è portato in cantiere da quando aveva dodici anni fino al giorno in cui s'è spezzato la schiena e la capoccia dopo un volo di cinque metri da un'impalcatura e c'è rimasto secco. Sellerone ricorda tutto: il tonfo molle del corpo sul cemento, la macchia di sangue, così scuro da sembrare nero, che si allargava sotto il cadavere, la fuga precipitosa degli albanesi abusivi cacciati via a pedate dal capomastro perché le giuste non li beccassero al lavoro, la fretta con cui l'avevano allontanato perché un minorenne che trasporta carriolate di calcestruzzo, coi vestiti imbrattati e le mani già ricoperte di vesciche, può diventare una grana stratosferica, specie se figlio della vittima di una morte bianca. Quindi, a regazzì, me dispiace pe' tu' padre che era proprio bravo, pijate 'sti sordi che je spettaveno, anzi, te ce metto pure 'n artri ducento sacchi in memoria sua, che Dio l'abbia in gloria e mo' levete dalle palle che ariveno le guardie. Tra un mese, quanno se saranno carmate le acque, torna in cantiere e er posto de papà santo sarà tuo.

Sellerone al cantiere non c'è mai tornato. Due giorni dopo ha rubato una macchina e s'è fatto beccare quasi subito. Al riformatorio ha imparato a fare a cazzotti coi ragazzi che lo volevano mettere sotto, a sfilare un portafoglio dagli zingarelli arrestati per borseggio e a trafficare col fumo da una guardia che gli passava le canne in cambio di qualche servizietto che cerca di dimenticare. Solita trafila.

...Poi viè ll'arte, er diggiuno, la fatica

La piggione, le carcere, er governo

Lo spedale, li debbiti, la fica

Er zol d'istate, la neve d'inverno...

E pper urtimo, Iddio sce bbenedica

Viè la Morte e ffinisce co ll'inferno.

Sellerone se li ricorda quasi tutti, i sonetti del Belli che papà gli recitava a memoria come una ninnananna. La vita dell'Omo gli piaceva abbastanza ma Er padre de li Santi, con tutti quei modi per definire il cazzo, era decisamente meglio, per non parlare di quelli sulla puttana Santaccia de piazza Montanara "che diventava fica da ogni parte". Una sagoma, papà, con tutte quelle poesie in testa e la voce baritonale che cacciava fuori ai pranzi di nozze quando, mezzo sbronzo, si metteva a cantare l'Aida o Granada manco fosse er Reuccio. Una vita passata a lavorare con la testa piena di sogni, la Roma e il PCI nel cuore e una vera idolatria per l'onestà e la dura fatica quotidiana.

No, la fatica, a Sellerone non fa paura, la conosce come poche altre cose nella vita. Ma la sua scelta l'ha fatta definitivamente a quindici anni: se deve spezzarsi la schiena, meglio farlo per un po' di soldi veri, mica per una micragna come papà buonanima. La vocazione di scavatore è arrivata come una folgorazione quando ha incontrato er Palletta e ha fatto coppia fissa con lui, trasformando l'amicizia di una vita in un sodalizio criminale, in un tandem di scassinatori che ha guadagnato stima e rispetto in tutte le consorterie di cassettari di Roma.

Sellerone si asciuga gli occhi, cerca di non pensare all'amico per almeno dieci minuti di fila e, per distrarsi, guarda le fototessere che s'è fatto alla macchinetta tre ore prima, sapendo che Renoir gliele avrebbe chieste. Con quei capelli spennacchiati, il viso da teschio e la barba di due giorni sembra uno di quegli zombi che ha visto in un film in bianco e nero. Un morto che cammina.

Questura, interno giorno. Vertice interforze.

Nicola Cavallini, il capo della mobile, fa rapidamente gli onori di casa sotto lo sguardo acquoso del PM Jago De Lupis, che non vede l'ora di cominciare e controlla che ci siano tutti.

Stefano Boldrini, alto, massiccio, brizzolato, sezione omicidi, presente.

Vittorio Antonini, antirapine, atticciato, elegante, azzimato, profumato, presente.

Isabella Bruzzi, unica rappresentante dell'altra metà del cielo, commissariato Trastevere, presente.

Antonio Assisi, proprio lui, più arruffato, sudato, ansante, trasandato che mai, commissariato di Ostia, presente.

Tenente colonnello Giangiorgio Lusitani, comandante provinciale carabinieri, presente.

Capitano Antonello Messina, compagnia di Ostia, presente.

Domanda da un milione di dollari: ma non siamo in questura? E i carabinieri che c'entrano?

Il fatto è che quando l'operazione è proprio grossa, prevede un blitz in contemporanea su diverse fette del territorio, con perquisizioni, arresti, controlli e perfino un elicottero tanto per fare scena, coinvolgere "l'altro ente" è inevitabile e il PM è stato categorico: lavoro di squadra, tanto per potersi concedere un bel pistolotto alla conferenza stampa. E questa operazione non è semplicemente grossa: è spaziale.

I due ufficiali dei carabinieri, lavoro di squadra o no, fanno di tutto per sembrare fuori posto in quell'ambiente da sbirri e ci riescono benissimo, alti, magri, ieratici nelle divise nere su cui spiccano alamari d'argento e nastrini, i cappelli con la fiamma posati ordinatamente sulle ginocchia, rigidi e impettiti come se stessero seguendo una dieta a base di cemento a presa rapida. Espressioni chiuse e severe, rigorosa etichetta militare, strette di mano formali con rapido cenno del capo e, insomma, tutto quello che fa di un carabiniere un carabiniere.

Nicola Cavallini, da bravo padrone di casa, cerca di mettere tutti a proprio agio, elargisce saluti e qualche battuta fiacca, strappa un paio di sorrisi sforzati e, finite le formalità, distribuisce a ciascuno una cartellina verde. Dentro c'è il provvedimento di custodia cautelare firmato dal giudice istruttore, dopo almeno sei mesi di indagine. Trentadue persone da arrestare in simultanea tra Ostia, Testaccio, Trastevere e Portuense. Ogni funzionario (e ovviamente il capitano di Ostia) ha gli stessi fogli con l'intestazione TRIBUNALE DI ROMA e la stessa lista di indagati da blindare. Ognuno, però, ha nomi diversi messi in risalto con l'evidenziatore giallo: sono quelli che spettano a lui. Tutti gli altri non lo riguardano. Per ciascun candidato alla galera ci sono indirizzi, riferimenti e pertinenze tipo garage, cantine, terrazze, soffitti o altri possibili rifugi.

«Signori ci siamo...». Jago De Lupis s'aggiusta il papillon (che per l'occasione è rosso scuro a pallini blu e starebbe bene addosso a Scaramacai) e attacca il fervorino che s'era preparato da quando ha presentato la richiesta al giudice istruttore. Un generale che arringa i suoi ufficiali prima della battaglia. Giulio Cesare alle Termopili. No, quello era Leonida... Chissenefotte, sempre gente con scudo, spada e gonnellino. De Lupis in storia non è mai stato un granché a scuola. Neanche nelle altre materie, per la verità, e come abbia fatto a laurearsi in legge e superare l'esame per entrare in magistratura è un mistero. Il fatto è che, ignorante, presuntuoso e tutto il resto, nelle indagini è un cagnaccio che non molla mai, uno dei PM più tenaci, grintosi e infaticabili del palazzo di giustizia, odiato da molti colleghi, detestato dai cronisti giudiziari ma che, comunque, porta i risultati, specie quando la faccenda è grossa.

«Le rivelazioni del nostro collaboratore di giustizia, inteso il Riccio, sono state puntualmente riscontrate a livello investigativo». A questo punto De Lupis fa un cenno benevolente, quasi una benedizione, verso, Nicola Cavallini, che ha diretto l'indagine, gli sbirri approvano sorridenti, i due carabinieri annuiscono doverosamente, più legnosi che mai visto che, quando ti tocca la parte del figurante, non è che puoi saltare sul palco al posto del primo attore e metterti a declamare: essere o non essere, questo è il dilemma.

«Quello che stiamo per sgominare è, probabilmente, il più grosso sodalizio criminale che abbia mai messo radici nel territorio della capitale», prosegue imperterrito il PM come se tutti non lo sapessero già da un pezzo e quel profluvio di parole non fosse, totalmente, inutile. «La confessione del Riccio e le evidenze investigative hanno permesso di delineare la gerarchia e la composizione di una banda che stava per prendere il sopravvento su tutte le altre associazioni di malaffare dedite al traffico di stupefacenti e di armi, all'organizzazione del gioco d'azzardo nonché, in taluni casi, alle intimidazioni dei commercianti e alle estorsioni sistematiche soprattutto nella zona del litorale».

Occhiata di ghiaccio ad Assisi e al capitano Messina che dice: e voi che cazzo stavate facendo? Non vi eravate resi conto di essere a Palermo o a Scampia, invece che tra gli ombrelloni del Kursaal?

Antonello Messina, da bravo carabiniere allenato all'autocontrollo dai tempi dell'accademia di Modena a restare sull'attenti impassibile con lo sguardo nel vuoto davanti a un superiore che sbraita, ti sputazza in faccia e ti copre di contumelie, non fa una piega.

Antonio Assisi sbuffa, si dà una grattatina alla testa scompigliandosi ancor di più la foresta di capelli color rame, dà una sbirciatina ai nomi che gli sono toccati e resta basito.

Alessi Mirko detto er Fanfara.

Amedei Giovanni inteso Scrocchiazeppi.

De Rossi Raffaele alias Giacchettone (ancora ricoverato al Grassi per qualche complicazione post chirurgica, quindi dove scappa?).

Un altro paio di nomi che non gli dicono niente e devono essere frattaglia, poco più che spacciatori di strada.

Manca Salis Pietro, er Cattivo. O meglio, il nome c'è ma senza la sua brava striscia gialla, segno che non toccherà a lui (almeno in via del tutto teorica) mettergli le manette ai polsi. E se non tocca a lui, visto che Salis vive e impera a Ostia, c'è solo un'altra possibilità.

Antonio Assisi non ha bisogno di sbirciare nella cartellina del capitano Messina come uno studente che cerca di copiare al compito in classe: gli basta l'espressione compiaciuta di quel corvaccio con le bande rosse sui calzoni per confermare quello che immaginava.

Il boss più potente della sua zona sarà blindato dall'"altro ente". Che poi Assisi avesse, effettivamente, intenzione di arrestarlo o, piuttosto, di dargli una dritta e permettergli di filarsela è un altro discorso. Quello che conta è che lui, Assisi, è stato escluso e tenuto ai margini e questo significa una sola cosa: il PM o il suo capo non si fidano. Non come prima, almeno.

Antonio Assisi fa per saltare su e protestare, poi si rende conto che combinerebbe soltanto un casino, mette le briglie al suo carattere incendiario e tracanna un'immaginaria fialetta di Prozac per darsi una calmata.

«Inutile raccomandare a tutti la massima cautela». Jago De Lupis, apparentemente ignaro del movimento tellurico su una delle sedie disposte a semicerchio davanti alla scrivania, continua imperterrito nell'arringa. Se la tira così lunga a un briefing operativo, alla conferenza stampa farà una prolusione nemmeno fosse Fidel Castro alla festa del 1º maggio. «Si tratta di individui estremamente pericolosi, quasi sempre in possesso di armi e di enorme caratura delinquenziale. L'indagine ha evidenziato anche collegamenti con alcuni elementi eversivi su cui si sta attualmente lavorando. Nel frattempo è essenziale che nessuno, o comunque un numero non rilevante di indagati, sfugga alla cattura, è chiaro?».

Gli sbirri lo fissano con occhi bovini. E noi che pensavamo di andare a caccia dei Ragazzi della via Pal...

I carabinieri non fanno una piega e annuiscono come se avessero appena ascoltato la Grande Rivelazione Cosmica di Sai Baba.

Cavallini si domanda se è una sua sensazione o se è vero che i testicoli gli si stanno gonfiando.

Comunque sia il vertice operativo interforze, bene o male, finisce. Il blitz, in questi casi, scatta poche ore dopo, all'alba, per evitare fughe di notizie, quindi tutti corrono in ufficio a organizzare le forze e preparare l'alzataccia del giorno dopo.

Antonio Assisi sgattaiola via per primo, incavolato come un bufalo, si ferma alla prima cabina telefonica e fa il numero della sala giochi. Palle d'Oro risponde al primo squillo, come sempre.

«Di' al Cattivo che quelli vestiti uguali stanno per venire da lui».

Poi risale in macchina e, a mano a mano che si avvicina al mare, vede i nuvoloni neri sempre più minacciosi che si addensano su Ostia e qualcosa in lontananza che danza come una frusta sull'acqua grigia e sembra decisamente una tromba d'aria.

Anzi, è una tromba d'aria, con tanto di lampi, tuoni, saette, chicchi di grandine, ombrelloni che volano a mezz'aria, palme sradicate e tutto il resto.

Il fortunale muove da sud verso Roma come un dinosauro inferocito.

Neanche tre ore e l'intera città è sommersa: i tombini inzeppati di foglie mai raccolte rigurgitano melma e ratti in fuga, scantinati e seminterrati si trasformano in piscine, qualche cartellone pubblicitario decolla come un jet, tre o quattro pini marittimi non potati e non controllati da anni si abbattono come scuri su macchine e scooter parcheggiati, una cacofonia di allarmi si leva in tutti i quartieri, un gruviera di buche e voragini cambia la planimetria di parecchie zone dal Fleming all'Appio Latino.

Insomma, quello che succede a Roma ogni volta che cadono tre gocce d'acqua.

La novità di stanotte è il frenetico giro di telefonate tra procura, questura, commissariati, comando provinciale dell'Arma, compagnia di Ostia e aeroporto di Pratica di Mare. Un elenco di catastrofi: uffici semisommersi, auto impantanate, solai che grondano come docce. L'elicottero? Neanche a parlarne, con questa buriana non si vola. Senza contare i soccorsi da prestare alla gente visto che i numeri d'emergenza sono subissati di chiamate e tutte le forze disponibili sono mobilitate in massa.

Blitz rimandato causa maltempo. Eolo e Giove Pluvio rischiano un'accusa di favoreggiamento.

Omar fa per suonare il campanello, esita, ci ripensa, tira fuori le chiavi ma non le infila nella serratura e resta lì, sul pianerottolo, come un idiota.

Indeciso.

Una cosa che poche volte gli è capitata nella vita.

È arrivato a Marbella in piena notte, si è avviato verso il primo telefono, ha composto il numero ma ha messo giù prima ancora che squillasse.

Chiamare o non chiamare? Questo è il dilemma.

Durante il volo per Madrid e la coincidenza per Marbella ha riflettuto a lungo e alla fine ha capito che una sola cosa gli sembra chiara.

La sua vecchia vita non esiste più.

Addio, colonnello Omar Gentile, capo militare della Rivoluzione Nazionale, addio camerati, addio patria e onore, addio morte ai rossi, Dalila vive, i nostri caduti marciano insieme a noi e tutto il resto.

La dura verità è che ci crede ancora. Ma non gliene frega più un cazzo.

Uccidere, farsi uccidere, scappare, sparare, finire in galera, resistere, confessare, tradire... Tutta questa sarabanda di sangue si infrange impietosamente contro un'unica domanda.

Perché?

All'inizio era tutto chiaro: le zecche ci sparano addosso, noi spariamo a loro, morte chiama morte. Poi è arrivato De Signori, con le sue citazioni, le sue concioni, le sue convinzioni granitiche e ha trasformato un gruppo di ragazzi armati bramosi di vendetta e di azione in un progetto politico ben delineato, una Rivoluzione per l'ordine e la Patria, per i valori della razza, per un governo di tecnici che abbatta la plutocrazia e rimetta in sesto questo povero Paese martoriato dalla canea rossa, dai giudei e dai politici corrotti. Omar ci ha creduto, ha combattuto, ha ucciso come tanti altri. E alla fine si è reso conto che era tutta una grandissima stronzata.

Sull'aereo ha chiuso gli occhi e ha mandato decine di volte il film dell'agguato a Pitbull con la moviola mentale.

Il ferito che striscia sul pavimento lasciandosi dietro una scia di sangue come una lumaca.

La 127 color pistacchio che si ferma.

Il tizio che scende e si mette in mezzo: «E basta, basta, dài...».

Quelle parole gli sono rimaste conficcate nella mente, nell'anima. Come una premonizione: basta. Basta ammazzare, basta fuggire, basta credere nelle favolette del duce e zio Adolfo...

Basta.

Zoommata mentale sul tizio: grassotto, piccolotto, sembrava un portiere umbro e invece era un eroe. Uno vero, anche se non giovane e bello come tutti gli eroi sono per definizione.

Avrebbe potuto sparargli alle gambe, dargli una botta in testa o semplicemente spingerlo di lato e finire il lavoro con Pitbull, invece ha girato sui tacchi e se n'è andato come se avesse paura di quel tappo che, sicuramente, se la stava facendo sotto davanti al suo revolver.

La verità è che gli è grato. Se lo incontrasse lo abbraccerebbe e gli chiederebbe scusa per averlo spaventato: gli ha impedito di uccidere un ex amico e soprattutto gli ha fatto capire che la sua vita era a una svolta.

«E basta, basta, dài...».

E adesso se ne sta lì come un imbecille, con le chiavi in mano, pronto a entrare nella casa della sua donna che non lo sta aspettando e probabilmente rischierà un infarto quando se lo troverà davanti all'improvviso nell'inedita versione biondo platino che lo fa sembrare un cazzo di norvegese.

Perché non ha chiamato?

Perché non suona il campanello?

Mille fantasie si sovrappongono, si fondono, si mischiano in un caleidoscopio di ipotesi.

Amparo non c'è, è da un'amica, in vacanza o magari...

Omar scuote la testa, a quello non vuole pensare.

Amparo è in casa, dorme come una marmotta e quando lo vedrà chino sul suo letto salterà su urlando di paura, poi di sorpresa, poi di gioia.

Amparo è in casa, nuda, a letto, accanto a un corpo che non è il suo.

Omar ormai avrebbe diritto a una laurea honoris causa per l'introspezione quindi finisce per ammettere che il punto è proprio quello. Gelosia. Altro che ragioni di sicurezza, precauzioni da clandestino, rischio che il telefono sia controllato e cazzate varie. È semplicemente geloso. Un marito che torna improvvisamente dall'ufficio per beccare la moglie e l'amante sul fatto, come in un migliaio di barzellette idiote e in un centinaio di filmacci da commedia all'italiana, quelli con Edwige la bonazza e Pierino.

Della rivoluzione non gli frega più un accidente. Di Amparo moltissimo e se la becca con un altro sicuramente correrà il sangue e non ci sarà un pensionato basso e tozzo a mettersi in mezzo. Omar non ha la pistola e neanche un coltello, ma non ne ha bisogno per uccidere qualcuno. Le mani bastano e avanzano, tutto il suo corpo è un'arma.

Sospira, sputa sulla chiave per lubrificarla, la infila nella serratura, la fa girare più lentamente e delicatamente possibile, apre, si sfila le scarpe, entra muovendosi silenzioso come un gatto.

Odore di fumo, di cucina, di casa abitata.

Percorre il corridoio a passi felpati, si affaccia sulla camera da letto buia, sbircia, intravede una sagoma raggomitolata sotto le lenzuola, guarda meglio, si rende conto che è una sola, sente il cuore che gli si allarga e una morsa allo stomaco che si scioglie all'improvviso, allunga la mano verso l'interruttore.

Poi qualcosa di spaventoso, di enorme, di fulmineo gli esplode nella testa, vede bagliori gialli davanti agli occhi e crolla in avanti sulla moquette senza neanche avere il tempo di mettere le mani avanti a proteggersi la faccia.

 

 

 

 

Capitolo VIII

 

«Me sta bene, Sellerò».

Sellerone guarda il Rolex, poi Renoir, poi il passaporto nuovo di zecca, poi ancora Renoir e non riesce a crederci.

Nessuna protesta, nessuna contrattazione, nessuna imprecazione, nessuna minaccia. Solo quelle tre parole che gli allargano il cuore: me sta bene.

Codice di comportamento malavitoso: contrattare sempre. Mai accettare una proposta su due piedi, quando si parla d'affari: tirare sul prezzo, esagerare, insistere e, magari alla fine, concedere di malavoglia è un obbligo, un po' come nei suk arabi dove, se un negoziante non ci mette almeno venti minuti a rifilarti una patacca made in China camuffata da prodotto artigianale, non si diverte nessuno. Concetto base: alla fine, tutti e due devono essere convinti di aver fregato l'altro... o di avergli fatto un favore che, prima o poi, dovrà essere ripagato.

E invece Renoir soppesa l'orologio distrattamente, lo esamina più per scena che per altro, lo rimette nel suo bravo cofanetto verde e lo chiude in un cassetto con una spallucciata. Poi toglie di mano il passaporto a un incredulo Sellerone e glielo squaderna davanti.

«Co' questo ce poi annà sulla luna, Sellerò... È mejo de quelli veri».

Concetto un po' astruso ma semplice: il documento, a prima vista, sembra insospettabile, con una patina vintage per non dare nell'occhio, la copertina amaranto un po' stropicciata e qualche visto sbiadito e quasi illeggibile per suggerire che ha già passato altre frontiere. Perfetto.

«Tutti a parlà dei macedoni, dei georgiani e dei napoletani ma un fojo come questo solo io te lo so fà...», si esalta Renoir che, in effetti, è considerato uno dei migliori sulla piazza di Roma e non solo. «Bada solo a nun cacatte sotto quanno passi er controllo, ché le guardie c'hanno l'occhi appizzati e 'ste cose le svagano subito».

Sellerone annuisce e pensa che, di sicuro, si cacherà sotto a un livello tale che i poliziotti lo porteranno in uno stanzino, gli faranno una perquisizione a tappeto e gli guarderanno perfino nell'ano per accertarsi che non ci abbia nascosto un lanciagranate o dieci chili di cocaina. Un po' perché, da quando hanno ammazzato er Palletta, vive in uno stato di terrore continuo e un po' perché, comunque, volare gli fa paura e questa sarà la seconda volta in vita sua. La prima è stata la trasferta in Spagna, ma almeno quella volta aveva er Palletta, er Maghetto e Tortellino accanto e ha potuto nascondere, a forza di cazzeggio, la strizza mortale che gli è presa quando l'aereo si è staccato dalla pista e si è ritrovato a pensare che stava davvero volando senza nessun appiglio o possibilità di tornare indietro. Nella vita di un cassettaro, anche di buon livello, non ci sono molte occasioni di viaggio e Sellerone, in tutti i suoi trentasette anni, non è mai andato più in là di Nola o di Castiglion Fiorentino. Il passaporto, però, l'ha sempre avuto fino a quando non sono arrivate le guardie, gli hanno trovato i brillocchi del colpo e glielo hanno sequestrato. L'avvocato dice che glielo restituiranno presto ma lui non può aspettare: er Cattivo arriverà prima, quindi s'è dovuto rivolgere a Renoir...

E Renoir adesso lo sta guardando con l'espressione: be'? Ancora qui?

Sellerone capisce che è il momento di levar le tende, saluta, ringrazia e si domanda perché il falsario lo stia guardando in modo strano.

Sellerone scende le scale col passaporto in saccoccia. Ha la valigia pronta nel portabagagli della Golf e un paio di milioni in contante per le prime spese. Gli manca solo una destinazione sicura visto che, a pensarci bene, 'sto Zanzibar gli sembra un po' una cazzata. Ha provato a parlarne con qualcuno alla pensione ma nessuno ne sapeva niente, segno che è un posto dove non vale la pena andare. Le uniche informazioni che ha ottenuto, da un ex steward frocio che traffica in coca e fumo, è che la gente è poverissima, e la polizia peggio che in Italia...

E il volo costa un botto.

Quindi, tutto sommato, forse se ne andrà in Sudamerica, in Messico, in Argentina dove è pieno di italiani e, comunque, la lingua più o meno si capisce. L'essenziale è scappare. Il piano di Sellerone è semplice: arriverà a Fiumicino, controllerà le partenze, farà un confronto sui prezzi e deciderà su due piedi. Alla fine un posto vale l'altro, basta che sia lontano dal Cattivo.

La Golf è parcheggiata proprio all'inizio di via Margutta, buia, bagnata e deserta, e Sellerone si chiede perché Renoir lo abbia fatto andare a quell'ora del cazzo, le dieci di sera, costringendolo a starsene rintanato per tutto il giorno nella sua stanza che puzza di fumo, di sporcizia e di rancido, visto che le pulizie si fanno al massimo un paio di volte alla settimana... Forse perché uno come lui, in quel posto di pittori e riccastri, stona come un cammello al Polo Nord... Ecco, il Polo Nord magari potrebbe essere una soluzione. No, troppo freddo. Sellerone detesta il freddo. Anche la pioggia, se è per questo, e adesso sta diluviando, dopo la tempesta della scorsa notte che ha messo in ginocchio mezza città. Sellerone fa una corsetta per evitare di inzupparsi, raggiunge la macchina e ci si infila dentro alla bersagliera, rendendosi conto di essere un idiota. Avrebbe potuto venderla, e ci avrebbe fatto almeno un altro pippo e mezzo, vecchia com'è, e andare a Fiumicino in taxi ma non ci ha neanche pensato e adesso gli toccherà lasciarla in un parcheggio ad arrugginirsi per chissà quanti anni prima che qualcuno se la freghi o la portino via col carro attrezzi.

Apre il cassettino, si sfila il coltello da cucina dalla cintola e lo mette via per evitare di portarselo dietro all'aeroporto e farsi blindare al metal detector, fa per mettere in moto e...

Una mano gli afferra i capelli da dietro con uno strattone brutale e gli tira indietro la testa. Qualcosa di duro e di acuminato gli punge la gola, proprio sotto il pomo d'Adamo che va su e giù come un ascensore impazzito per la strizza.

«T'ho beccato, Sellerò, e mo' 'ndo scappi?», ringhia Pietro Salis, emerso come un vampiro dal sedile posteriore dove s'era raggomitolato in agguato.

«A Cattì... Nun ho fatto un cazzo... Me devi da crede...», stride Sellerone disperatamente. «Nun m'ammazzà, te prego, te supplico...».

«Ce dovevi pensà prima, infame...», incarognisce er Cattivo mentre preme ancora di più con il saccagno e fa sgorgare qualche goccia di sangue.

«Nun so' un infame, ho retto la cica, te lo giuro sulla tomba de poro papà», piagnucola Sellerone che quasi non respira per la paura.

«Salutamelo, tu' padre, mo' che lo vedi... Era 'na brava persona», concede Salis come addio e, in quel preciso istante, Sellerone gioca il tutto per tutto, gli agguanta la mano che regge il saccagno, tagliandosi il mignolo fino all'osso e annaspa nel cassettino alla ricerca del coltello da cucina.

Er Cattivo bestemmia, molla la presa sui capelli, passa la molletta nell'altra mano e conficca dodici centimetri d'acciaio affilato a rasoio e acuminato a lancia nella giugulare di Sellerone. Lo schizzo di sangue dipinge di rosso vermiglio il parabrezza della Golf inondato di pioggia all'esterno. Salis taglia, sega, trancia fin quasi a staccare la testa, lascia andare il corpo che si affloscia sul volante, esce dalla macchina sotto la pioggia scrosciante, si guarda intorno, controlla che nessuno l'abbia visto e s'avvia di buon passo verso la sua macchina, che ha parcheggiato sulla salita del Pincio.

Dal suo studio al primo piano, Renoir vede la sagoma massiccia di Pietro Salis che s'allontana, chiude la finestra e sospira. Non ha mai tradito un cliente prima d'ora, ma neanche lui poteva mettersi nei casini col boss indiscusso di Ostia e, appena Sellerone lo ha chiamato per chiedergli un foglio, ha avvisato Salis. Che altro poteva fare?

«Dottore, s'è allagata tutta la zona del Canale della Lingua... Continuano a chiamare il 113».

E ti pareva. Antonio Assisi smarrona, rimpiange di non avere un paio di stivaloni da pescatore in dotazione, dice mentalmente addio al pomeriggio di passione che s'era organizzato con tanto di champagne, tartine e paste mignon nel suo nido d'amore e si prepara a passare un'altra giornata sguazzando nel fango.

Il fortunale del giorno prima sembrava ammansito poi, all'improvviso, ha ripreso forza, s'è risvegliato come un orso affamato che esce dal letargo e s'è avventato sul litorale con un furore di pioggia, lampi, fulmini, brevi grandinate, nuvole color inchiostro che muovono, implacabilmente e velocemente, verso una capitale che ancora sta cercando di rimettersi in piedi dopo la burrasca. La sabbia degli stabilimenti vola come in una tempesta del deserto, si trasforma in un pulviscolo che appesta l'aria, s'infila dappertutto, alcuni chioschi sono stati letteralmente sradicati dal vento, due voragini hanno inghiottito qualche auto parcheggiata e i proprietari con le cerate sui calzoncini corti e le infradito fissano mestamente i rottami maledicendo il cielo inclemente e domandandosi se e quando saranno risarciti. Il piano terra del commissariato è sommerso da venti centimetri d'acqua e alcuni poliziotti, anziché uscire e prestare soccorso alla gente derelitta, aggottano freneticamente con secchi e stracci come in una nave in procinto di affondare, i numeri d'emergenza sono intasati di chiamate e, insomma, solo pensare di organizzare il blitz, in queste condizioni, è inconcepibile.

Antonio Assisi, in questo momento, ha altre priorità. Come i carabinieri, i pompieri, i vigili urbani e chiunque indossi una divisa: cercare di riportare a un minimo di normalità una capitale al tracollo. In Campidoglio i politici hanno cominciato a ciangottare come galline, becchettarsi a vicenda in un eterno, scontatissimo scambio di accuse tra amministrazione attuale e precedente, come se qualsiasi sindaco, qualsiasi giunta abbia mai potuto fare qualcosa per una città che sembra destinata ad arrendersi senza nemmeno un po' di dignità alla minima emergenza. Roma, come un judoka, si piega ma non si spezza, s'inchina a ogni attacco frontale, con la smagata consapevolezza che viene da millenni di storia: tutto può ferirla, niente può distruggerla. Basta rassegnarsi e aspettare e i romani, in questo, non sono secondi a nessuno.

Antonio Assisi sale sull'auto di servizio e si rassegna a precipitarsi al Canale della Lingua, una lunga strada che parte da Castelporziano e lambisce i quartieri residenziali dell'Infernetto e Mostacciano dove molti VIP e nomi noti hanno trovato il loro buen retiro pensando di sfuggire al caos e alla confusione stratosferica di Fleming, Parioli e altri quartieri blasonati. Prima sono arrivati i calciatori, poi i cinematografari, poi i televisionari, poi i soliti commercianti e imprenditori mezzi farlocchi che sono la spina dorsale del generone romano. Molti hanno resistito solo un anno o due prima di accorgersi che non siamo nei sobborghi residenziali di lusso delle città europee e che qui, tra i trasporti che non funzionano, i furti e le rapine a catena, i disagi, i disservizi e gli allagamenti continui, sembra di stare più in una Cayenna che in un Eden di privilegiati. Alcuni sono rimasti e, testardamente, continuano a incazzarsi: come adesso che molte delle ville sono semisommerse. Assisi immagina frotte di domestici in rigatino occupati a svuotare e ad asciugare esattamente come i suoi agenti ma intanto, per obblighi di diplomazia e buone relazioni con chi conta, deve correre sul posto e farsi vedere in azione, come se la sua presenza potesse cambiare le cose anche di mezzo millimetro.

«Andiamo a farci un giro», annuncia a un autista depresso che ha esitato a lungo se buttarsi malato per tentare di rimediare al disastro della sua cantina ma che, alla fine, s'è rassegnato a prestare servizio più per la strizza di essere beccato che per senso del dovere.

«All'Infernetto, dotto'?», chiede sapendo già la risposta.

«Certo, cominciamo da lì... aspetta, ho dimenticato una cosa, torno subito».

Francesca. Se non la chiama per avvisarla può dire addio alla sua vita sessuale almeno per un mese. L'amante giornalista, ormai, regna sovrana nei suoi pensieri e nel suo cuore, occupa militarmente tutti i suoi desideri tanto che Antonio si sorprende, di tanto in tanto, a crogiolarsi in improbabili fantasie di mollare moglie e figlie e mettersi con lei. I sedici anni di differenza contano poco, tanti altri lo hanno fatto e hanno rottamato la consorte per il modello più recente senza troppi scrupoli ma, nel suo caso, i problemi sono due.

I soldi, come al solito. Lo stipendio di vicequestore aggiunto è una miseria che non arriva al milione e mezzo e una moglie senza lavoro con due figli, con un avvocato cazzuto e un giudice (anzi, una giudice visto che chissà perché, i magistrati dei divorzi sono tutte femmine) può spedirti dritto in coda alla mensa della Caritas per tutto il resto della tua vita.

Francesca è una stronza. Intelligente, sexy, divertente, appassionata, imprevedibile ma stronza come un cammello stronzo. Permalosa, sussiegosa, irascibile, è capace di scenate da battaglia al minimo pretesto e più Antonio le si appiccica più sembra che si diverta a trattarlo come una pezza da piedi, incurante del suo ruolo di funzionario di polizia o, forse, proprio per questo. Nei rari momenti di lucidità, Antonio Assisi immagina la vita di coppia, passato l'idillio, la quotidianità della TV, dei piatti da lavare o delle bollette da pagare e decide che sarebbe un incubo.

Comunque sia, ne è innamorato pazzo o crede di esserlo quindi, per evitare l'ennesima baruffa e un periodo di astinenza a tempo indeterminato si precipita ad avvisarla che, alle diciassette di oggi, sarà troppo impegnato a far finta di rendersi utile nelle zone alluvionate per andare all'appuntamento.

Prima telefonata: casa. Niente, squilla a vuoto.

Seconda telefonata: redazione. Antonio odia chiamare al giornale, lo fa solo di rado, storpiando la voce o mettendo un fazzoletto sulla cornetta per evitare che lo riconoscano, dato che i giornalisti sono pettegoli per definizione. Niente, nessuna risposta neanche qui. Assisi pensa, malinconicamente, a cronisti e troupe televisive con ombrello e taccuino intenti a raccogliere testimonianze e lamentele e a sparare a zero su chiunque abbia un minimo d'autorità, polizia compresa.

Terza telefonata: casa della madre. Numero d'emergenza che Francesca le ha dato solo per le occasioni eccezionali visto che si ostina a tenere segreta la loro relazione. Be', questa è un'occasione eccezionale con mezza Roma a mollo e l'altra metà che sta per venire giù e sgretolarsi come un budino fatto con troppo latte. Cinque squilli a vuoto. Magari la vecchia è sorda. Magari è crepata stanotte. Magari è affogata al piano terra.

«Brondo?». Questa Antonio non se l'aspettava: o è raffreddata o chissà da dove viene. Frosolone?

«Buongiorno, signora, scusi, cercavo Francesca...».

«'Unn abbita gguà». Assisi cerca di decifrare l'accento: Ciociaria? Molise? Hai capito la cronista intellettuale con madre bufacchia...

«Lo so, signora, ma a casa non risponde, in redazione neanche e mi domandavo se per caso fosse passata da lei».

«Gguà 'ne stane...».

«Ah, ecco, appunto non ce stane... Va bene, scusi se l'ho disturbata allora».

«Ghi ene?»

«Prego?»

«Ghi ene? Ma l'itagliane 'un lo gapisce? Lei ghi ene? 'U nome 'nge l'ha?»

«Io... ah sì, certo... Le dica che l'ha cercata Mario, quello del giornale, quando la vede».

«Vabbè, ju digo... Bonagiornà».

«A lei, signora, bonagiornà».

Assisi torna alla macchina domandandosi se ci sarà un Mario in redazione visto che ce n'è sempre uno dappertutto. Una sola cosa è sicura: la telefonata alla mamma di Francesca deve restare segreta. Se solo fa un commento sul fatto che parla come una troglodita, la loro storia è finita per sempre.

Poi si cala nella parte del funzionario responsabile e professionale, che accorre dove c'è bisogno di lui, incurante del tifone, e non ci pensa più. Sul tetto della volante scroscia una tammurriata di diluvio.

«A Cattì, ce sta Palle d'Oro tutto ingazzimato che te vo' parlà».

Se c'è una cosa che Pietro Salis detesta cordialmente è che qualcuno interrompa il suo sonnellino pomeridiano, soprattutto quando deve digerire tre etti di carbonara e i messicani col sugo made in Signora, che, da quando si è trasferito da lei, ha deciso di sfoggiare le sue doti di cuoca oltre a quelle di pantera da letto e lo ha messo all'ingrasso. La voce del Fanfara, che ha fatto irruzione in casa dell'amante inzuppato di pioggia spandendo acqua dappertutto, gli sconquassa il cervello. Scrocchiazeppi è rimasto ad aspettare in macchina visto che le ambasciate, per lui, sono un compito inconcepibile: troppe parole.

«E che cazzo vo', Palle d'Oro?», geme er Cattivo cercando di scrollarsi i rimasugli di sonno dalla testa.

«Boh, nun me l'ha voluto dì», strepita er Fanfara cercando di asciugarsi i capelli. «Pare che è urgente... Cioè, una cosa me l'ha detta, che er Maghetto t'è venuto a cercà... L'artra no, pare che è... diserbata».

«Magara volevi dì riservata...».

«Ecco, sì quello... Te la vo' dì solo a te».

«Ho capito ma che cazzo strilli? Me stai a assordà».

«E che sto a strillà?»

«No... parli sottovoce, li mortacci tua. 'Namo, va'».

Er Cattivo si rassegna, rinuncia al pisolino e alla sveltina che aveva programmato al risveglio, s'alza, s'infila i calzoni notando che gli stringono in modo preoccupante sulla trippa e segue il Fanfara passando davanti a una Signora intenta a rigovernare, tutta compresa nel suo nuovo ruolo di geisha.

«'Ndo vai co' 'sto diluvio?»

«Me tocca sortì per lavoro».

«Torni per cena?»

«Sì, che me prepari?»

«I maccheroni co' la pajata e la testina d'abbacchio co' le patate ar forno, te va?»

«Boni... Nun fa la taccagna co' l'ajo però, lo sai che me piace».

«'N te preoccupà, amo'... Tutto l'ajo che voi».

Er Cattivo prende un ombrello, esce sotto il diluvio e s'infila in macchina pensando che stare dalla Signora, dove s'è rifugiato subito dopo l'omicidio di Sellerone, non gli dispiace affatto: mangia, dorme, scopa, guarda la TV e agli affari ci pensano gli altri. E a proposito di affari...

«A Scrocchiazè, passamo dar parcheggio der Maghetto prima d'annà in sala giochi, sentimo che cazzo vole».

Scrocchiazeppi risponde con un grugnito che include anche il saluto al suo capo, tanto per non affaticare le corde vocali e parte sollevando spruzzi di fango. La Colombo è una specie di piscina, con rami, foglie e qualche tronco sparpagliati sull'asfalto dal vento che, solo adesso, comincia a calmarsi e una lunga fila di macchine è incolonnata in direzione Ostia.

«'Gni vorta che fa du' gocce d'acqua s'allaga tutto... Ma che cazzo de città», barrisce er Fanfara che oggi fa veramente onore al suo soprannome.

«Già, quanno ce stava er duce non succedeva...», conviene Salis, messo di buonumore dalla prospettiva della cenetta: l'occhio e le labbra della testina d'abbacchio sono le sue prelibatezze preferite.

«Ahó, ma che te sei fatto indottrinà da Omare?»

«Cazzo c'entra? Io so' sempre stato p'er Fascio, ma mica come quei cojoni lì... A proposito, chissà che cazzo de fine ha fatto, Omare...».

Omar si sveglia lentamente, con un dolore lancinante alla nuca e un viso indistinto davanti agli occhi e, all'inizio, non riesce a ricordare cosa gli è successo. Poi torna più lucido, ricorda, fa per alzarsi di scatto ma una fitta lacerante alla testa e una mano amorevole ma ferma lo rimettono giù.

«Sta' tranquillo, tesoro... resta disteso... Mi dispiace».

Omar vede il bel viso preoccupato di Amparo che si delinea dalla nebbia che gli offusca la vista e scuote la testa come un cane che esce dall'acqua.

«Ma che... Oddio, che è successo? Stavo entrando in camera tua e qualcuno mi ha colpito da dietro, devo essere svenuto».

Amparo stringe le labbra e alza gli occhi al cielo.

«Sono stata io, amore...».

Omar ci mette qualche istante a metabolizzare la risposta.

«Tu? Perché? A momenti m'ammazzavi», protesta.

«Tesoro, ma che cazzo ne sapevo che eri tu? Entri senza bussare e senza aver avvisato... Ho sentito che c'era qualcuno in casa, la porta non ha la chiave, non potevo scappare né chiamare aiuto e mi sono nascosta qui dietro con un vaso da fiori... Te l'ho rotto sulla testa, amore mio, mi dispiace tanto ma pensavo che fosse un ladro o uno stupratore».

Omar è ancora troppo intontito per realizzare che, in effetti, si è comportato da perfetto idiota e tra l'altro, con tutta la sua preparazione da terrorista, ha fatto uno degli errori più clamorosi quando si entra in un ambiente potenzialmente ostile: non controllare tutti gli angoli prima di avanzare.

Ma perché casa di Amparo dovrebbe essere potenzialmente ostile?

«Io... No, è che volevo farti una sorpresa... Ma nel letto c'era qualcuno».

«Il cuscino, tesoro... Ce l'ho messo io per ingannare il ladro e prenderlo di sorpresa... E ha funzionato, mi pare».

Omar non risponde e fruga nella memoria a breve termine. Eppure quella che ha intravisto nel buio gli sembrava proprio la sagoma di un corpo addormentato sotto le coperte, non il rigonfio di un paio di guanciali. O forse no? Con un trauma cranico recente e una possibile commozione cerebrale è difficile mettere a fuoco i dettagli e, comunque, alla fine decide di fidarsi. Ha già fatto abbastanza la figura del cretino, per stanotte.

Si passa una mano sul cranio dolorante e scopre con sorpresa una grossa fasciatura proprio sul cucuzzolo.

«Ti ho medicato mentre eri privo di sensi, tesoro, ho dovuto tagliarti un bel po' di capelli... A proposito, non sei niente male biondo platino... Un po' equivoco magari... Sarai mica diventato gay?»

«Aspetta che smetta di girarmi la testa e te lo faccio vedere io il gay».

«Non ci pensare neanche... Non adesso almeno. Stai ancora troppo male... Vuoi che ti porti in ospedale per un controllo? Magari ti fanno la TAC».

«Lascia stare, ho la zucca dura, io. Mi riposo un po' e vedrai che mi passa tutto... Era pesante il vaso?»

«Pesantissimo. Cristallo massiccio. È andato in pezzi e costava un botto, tra l'altro, un pezzo d'arredamento fatto a mano», finge di indignarsi Amparo visto che il vaso l'aveva preso a El Corte Inglés e l'unica cosa vera è che pesava come un'incudine.

«Mi dispiace, anima mia. Te lo ricompro. Anzi, coi soldi che abbiamo ce ne ricompriamo cento, mille, un milione... tutta la casa, altre dieci case molto più belle di questa. Quello che vogliamo».

Amparo squittisce, deliziata, e si allunga accanto a lui badando a non stargli troppo vicina per evitare che gli vengano strane idee, visto che è convinta che craniata da svenimento e sesso al calor bianco non siano compatibili dal punto di vista sanitario.

«Sei proprio un bambino, amore... Arrivare qui in piena notte per farmi una sorpresa... Certe idee ce le hai solo tu. Poteva venirmi un infarto».

«E tu mi potevi ammazzare. A proposito, complimenti, ottima strategia, precisa e fredda davanti a un pericolo improvviso... Saresti una grande combattente, sai?»

«Lo sono. Ancora non te ne sei accorto?»

«La prossima volta ne terrò conto. Verrò con l'elmetto».

«Anche il giubbotto antiproiettile se è per questo. Mi sa che mi comprerò una pistola, con tutti i malintenzionati che si intrufolano in casa delle donne indifese di notte».

«Se tu sei indifesa io sono Napoleone».

«Lo prendo per un complimento. Quanto ti fermi stavolta?»

«Non lo so... Parecchio. Che ne dici di tutta la vita?».

 

 

 

 

Capitolo IX

 

«Amore, era ora... Tutto il giorno che ti cercavo».

«Amore un cazzo... Sono stata ad aspettare per due ore come un'idiota in quella topaia di merda con tutte le cose che avevo da fare. Ma chi ti credi di essere? Come ti permetti di trattarmi così? Non sono mica una squinzia che ti sbava dietro, signor poliziotto dei miei coglioni, sono una giornalista io».

E tanto per chiarire il concetto la Tucana sbatte la porta dell'ufficio e si schianta sulla sedia di fronte alla scrivania di Antonio Assisi come se avesse intenzione di farlo sloggiare e prendere il suo posto. In tutte le stanze aleggia un odore di umido, di intonaco bagnato che presto farà le muffe e si tingerà di strisce verdastre, ma l'occhio allenato della cronista nota anche qualcos'altro: un andirivieni più frenetico del solito, un senso di attesa per qualcosa di imminente, un movimento tellurico sotterraneo che sta per esplodere in qualcosa di veramente grosso.

Adesso, però, è troppo incazzata per pensare al lavoro. Nessuno le tira il bidone. Nessuno le dà buca. Nessuno la tratta come una squinzia qualunque, tantomeno 'sto tappo coi capelli di rame.

Il tappo coi capelli di rame considera l'ipotesi di rispondere con una scenata da guerra, visto che l'irruzione di Francesca al commissariato è un oltraggio inconcepibile, i suoi rimbrotti una mancanza di rispetto difficile da digerire e, soprattutto, gli rode che qualcuno chiami topaia il nido d'amore che ha avuto dal Cattivo e di cui, se non altro, paga le bollette sotto falso nome.

Francesca lo svaga al volo e gli lancia uno sguardo che dice: provaci.

Antonio respira a fondo, arrotola la lingua, ingoia la rabbia e tace. Vero saggio.

Un cinese direbbe che fa Wu wei.

Un romano che abbozza.

Il problema eterno: quando sei innamorato sul serio la dignità va a farsi benedire. Lui però è un vicequestore aggiunto di polizia e non può farsi mettere troppo i piedi in testa quindi tenta di argomentare.

«Stella mia, scusami, sono stato incasinato marcio... Con questo cazzo di temporale sono stato fuori tutto il giorno, ho rimbalzato come una palla da tennis da Ostia all'Infernetto, poi a Mostacciano e a Casal Palocco... Ho preso tanta di quella pioggia che sono dovuto passare a casa a cambiarmi e domani, come minimo, mi verrà una polmonite».

Francesca non sembra minimamente intenerita dalle disavventure dell'amante e mantiene il punto anche perché qualcosa le dice che ha da guadagnarci.

«Potevi avvisarmi in qualche modo. Guarda che non sei l'unico che lavora», ringhia.

«Ti avrò chiamato dieci volte... Al giornale e perfino a casa, non ti ha avvisato tua mamma?». E solo dopo averlo detto Assisi si rende conto che avrebbe dovuto cucirsi la bocca.

«Non l'ho sentita... E come cazzo facevo a stare al giornale se ero nella topaia ad aspettarti col caporedattore che mi cercava dappertutto?».

Topaia due.

«Ma, amore, lo sai che nell'appartamento non c'è il telefono, no? Pensavo che magari qualche collega ti avesse detto che ti cercavo».

«Stammi a sentire: avevo preso un giorno di corta per stare con te, se chiamavo al giornale mi avrebbero spedita in giro, ho rinunciato a fare un servizio da prima pagina sull'alluvione per farmi prendere per il culo da te. E mettilo, il telefono del cazzo, nella topaia, taccagno».

Topaia tre.

Antonio Assisi, innamorato o no, sente l'incazzatura che gli monta dentro come uno tsunami. Il telefono nell'appartamento non lo installerà mai: troppo facile farsi intercettare, magari per caso, visto che non ha idea di chi sia l'intestatario dell'alloggio. E poi un nido d'amore dev'essere isolato per definizione, un posto dove nessuno ti può rompere i coglioni, un'oasi di pace, di tenerezza, di passione...

Francesca si alza con tanta furia da rovesciare la sedia e agguanta la borsa come se volesse schiantargliela in testa. Altro che tenerezza, passione e tutto il resto.

«Mi sono rotta le palle, Antonio. Me ne vado... Magari ci vediamo tra qualche mese quando avrai meno da fare», annuncia in tono definitivo mentre fa dietrofront.

Antonio sente una fitta di similgastrite alla bocca dello stomaco. La pazza è capace di mollarlo sul serio.

«Gioia, scusami... non volevo. Credimi, mi dispiace moltissimo e poi sto veramente nelle peste. Come se non bastasse l'alluvione c'è una storia enorme... Non posso entrare nei dettagli ma è veramente stratosferica. Tieniti pronta per domani mattina».

Francesca ingoia esca, amo e tutto. Anche perché in realtà è lei che l'ha lanciata. Torna a sedersi e gli pianta negli occhi uno sguardo laser.

«Di che si tratta?»

«Non te lo posso dire... No, davvero, non riguarda solo questo ufficio e...».

«No, tu adesso me lo dici. Non ti fidi di me?»

«Non è che non mi fido, tesoro, per carità... È che tanto non potresti scrivere neanche una parola... È roba top secret fino a domani».

«Guarda che io i segreti li so mantenere. Mettimi alla prova».

«Francesca, giuro, stavolta non posso proprio. Vieni alla conferenza stampa domattina, poi ti prometto che ci sentiamo e ti do un sacco di particolari in esclusiva».

«Me ne fotto di avere quattro cazzate in più che non interessano a nessuno. Voglio sapere adesso».

«Ma perché? Tanto non potresti pubblicare niente... Se esce qualche indiscrezione stavolta rischio il posto, se non peggio».

«Sono una giornalista. Sono curiosa per definizione. Senti: giuro che non scriverò neanche una parola sul giornale, va bene così». Francesca alza la mano in un gesto a metà tra il saluto scout e giurin giuretto. «Dài, tesoro, che roba è?».

Quando hai perso hai perso e non c'è niente da fare. Antonio fa un'espressione da dead man walking.

«Non scriverai una riga?»

«Ho giurato, no? Allora?»

«Guarda che se solo...».

«Che palle che sei... Ma che ti devo stare anche a supplicare dopo il modo in cui mi hai trattata? Senti, sai che ti dico, vaffanculo».

«E aspetta, cazzo... ma che hai? Va bene, va bene mi fido: domattina all'alba blindiamo trentadue persone. Tutta la grossa malavita di Ostia e non solo di Ostia. È un'indagine durata parecchi mesi, c'è una banda di Roma con parecchi legami qui in zona che ha preso il monopolio dello spaccio in quasi tutti i quartieri della città. La mobile ha un pentito che ha spiattellato tutto. Io dovrò arrestare alcuni personaggi di grosso calibro. Vedrai, sarà una bomba... Ci lavorano anche i carabinieri».

E si sono beccati Salis mentre a me è rimasta la frattaglia, corvacci di merda. Ma li ho fottuti bene. Antonio trattiene a stento il sorrisetto da Divin Marchese.

Gli occhi di Francesca brillano di cupidigia e di qualcos'altro. Scaltrezza? Furbizia?

«Quindi hai già l'ordinanza di custodia...», insinua.

«Certo... Ci muoviamo alle quattro di stanotte. Anzi, scusami amore, ma adesso sarei veramente incasinato e...».

«Dammela».

«Sei scema? Cioè, scusa, non fare quella faccia, è che proprio non posso».

«E perché? Tanto domani i giudiziari se la faranno dare dalla procura».

«Domani è domani. Oggi è oggi».

«Chi sei, il Dalai Lama? Che cazzo significa oggi è oggi? Dammi 'st'ordinanza del cazzo, avanti».

«Ma perché? Tanto è embargata». Antonio Assisi assapora quella deliziosa espressione esotica che ha letto su un quotidiano due giorni prima come fosse un bignè. EM-BAR-GA-TA. Molto meglio di inguattata, come si dice in poliziese.

«Ma perché la vuoi ora? A che ti serve?»

«Voglio essere la prima a portarla al giornale domani, ecco perché. E poi me la voglio leggere con calma stanotte e non domani con la fretta, saranno un sacco di pagine, no?»

«Trecentosettantotto, per l'esattezza».

«Vedi? Ci farò nottata... Dài, tesoro, fammi vedere che ti fidi di me».

Antonio sospira, apre un cassetto e le porge con un gesto rassegnato l'ordinanza che aveva già fotocopiato per darla all'amante il giorno dopo. In fondo, che male c'è? Francesca ha dimostrato di essere abbastanza affidabile, ha taciuto qualche segretuccio che le aveva confidato nel post scopata e, tra l'altro, sa benissimo che se gli tira una fregatura, amante o no, potrà scordarsi le esclusive del commissariato per tutta la vita, quindi...

«Grazie, amore mio...». Francesca fa scomparire il faldone nella borsa più veloce del mago Silvan e, all'improvviso, ha una gran voglia di andarsene.

«Va bene, tesoro, ti lascio lavorare». Poi si accerta che la porta sia chiusa, lo gratifica di un bacio a tortiglione pieno di lubriche promesse e scappa via come se il commissariato stesse andando a fuoco, salutata da un'occhiata di miele di Antonio e da un fievole. «Mi raccomando, eh...».

«Grazie che sei venuto, a Cattivo».

Er Maghetto quasi si piega in due davanti alla faccia accigliata di Pietro Salis, che lo guarda come un ragno sul tavolo della colazione domandandosi che accidenti vuole da lui. Di sicuro sta morendo di strizza, curvo, grigio, tremebondo, rattrappito, sembra ancora più secco e scarnificato del solito e ha la faccia di uno che non ricorda neanche più cosa vuol dire farsi una bella dormita. Il parcheggio semivuoto alle spalle, con le poche macchine che stillano pioggia, il cielo grigio e, in lontananza, l'eco dei cavalloni che finiscono di mangiarsi la spiaggia contribuisce a dare un tocco di desolazione alla scena. Ostia si lecca le ferite e tenta di rimettersi in piedi dopo la buriana che ha interrotto a metà una stagione balneare promettente. Titolari degli stabilimenti, ristoratori, baristi, negozianti e, insomma, tutti quelli che vivono del turismo mordi e fuggi (cioè la stragrande maggioranza dei residenti) levano preci al cielo perché la smetta di comportarsi come un bambino capriccioso.

Er Maghetto, invece, si comporta come uno che ha parecchio da nascondere o da farsi perdonare. E al Cattivo non piace neanche un po'.

«M'ha detto Palle d'Oro che me stavi a cercà e so' venuto, anche se c'ho parecchio da fà». Traduzione: dimmi che cazzo vuoi e dimmelo in fretta.

«Grazie, Cattì, nun te dovevi da disturbà, venivo io da te...».

«E mo' sto qua... Allora?».

Maghetto farfuglia, si raschia la gola, esita sotto lo sguardo di ghiaccio di Pietro Salis poi, finalmente, sputa il rospo.

«È pe' mi' cognato».

Er Cattivo continua a non capire. E quando non capisce fa la cosa migliore: sta zitto e aspetta.

«Insomma ecco... te volevo da dì... Lui nun c'entra un cazzo...».

Pietro si domanda in che cosa non c'entri er Tortellino poi, all'improvviso, un barlume di comprensione: ecco il perché di tutta quella strizza. E lui che nemmeno ci aveva pensato, a Tortellino. Ma, visto che è un vero capo e un criminale col cervello che funziona, prende la palla al balzo e decide di sfruttare la situazione a suo vantaggio, come fa sempre.

«Parla», sibila più minaccioso che mai.

Maghetto è a un pelo dal mettersi a frignare. Fanfara e Scrocchiazeppi assistono alla scena da lontano, perplessi, ma sono semplici gregari e una delle migliori qualità di un gregario è quella di non pensare troppo.

«A Cattì, nun l'ammazzà, te prego», sbotta Maghetto di punto in bianco. «È appena sortito dar gabbio, s'è tappato in casa e sta a smartì giorno e notte. Mi' sorella nun se dà pace, voleva perfino annà dalle guardie ma io j'ho detto lascia perde, co' Pietro ce parlo io, è uno che capisce, so' sicuro che se potemo aggiustà... Vero che s'aggiustamo, Pietro? Te giuro su mi' madre bonanima che nun ha detto un cazzo, s'è fatto pure blindà, ha retto la cica, è uno giusto... Te scongiuro, Pietro, fallo pe' me».

Prima considerazione del Cattivo: di te non mi frega un cazzo.

Seconda considerazione: l'idiota pensa che voglia parcheggiare il cognato come i Gemelli e si sta cacando sotto.

Visto che Salis non sa niente della scatola di fiammiferi lasciata sul posto da Tortellino a Marbella, non aveva ancora deciso di accopparlo. In casa dello scavatore, la polizia non ha trovato nessuna prova del fatto che abbia partecipato al colpo, solo che era nell'albergo assieme agli altri due. Un indizio sufficiente per incriminarlo ma, probabilmente, non è abbastanza per una condanna. Nemmeno per la sentenza capitale eseguita da Salis: i Gemelli si sono fatti beccare coi gioielli e dovevano morire. Tortellino era ancora sub judice ma adesso...

«E chi me dice che nun abbia fatto 'n'infamata?», sibila er Cattivo da grande attore. «Me dispiace, a Maghè, ma deve pagà pure lui...».

«Nun lo fà, Pietro, per carità... Nun ha detto una parola». Maghetto fa il gesto di buttarsi in ginocchio ma Pietro lo trattiene in tempo, divertito e disgustato al tempo stesso da quella sceneggiata. «Mi' cognato sarà un po' de coccio, vabbè, anzi, diciamocela tutta, è un gran cojone, c'ha la testa pe' spartì le 'recchie, nun capisce un cazzo ma è uno preciso... Nun è un infame, Pietro».

Verissimo: Tortellino è troppo idiota perfino per fare la spia. Gli dici che non deve parlare e quello non parla neanche se l'ammazzano di botte e gli fanno ingurgitare più acqua e sale di quanta ce ne sta in tutto il Mediterraneo.

Pietro sa valutare le persone e intuisce che Maghetto non mente ma non molla la grinta da Pitbull, anzi, la accentua.

«E perché te dovrei da crede?»

«Perché è vero, Cattivo... Perché sei uno giusto. Abbi pietà, nun ha fatto gnente».

Er Cattivo caccia un «mmmhhh» più minaccioso che mai ma comincia a stancarsi, quindi decide di chiuderla lì.

«Vabbè, a Maghetto, te vojo dà fiducia, giusto perché sei tu», concede dopo una lunga pausa di riflessione.

«Grazie, Pietro, grazie». Er Maghetto a momenti si genuflette di fronte a tanta misericordia. «Si voi te lo faccio venì co' mi' sorella, te vorranno bacià le mani, che Dio te benedica».

La mala romana non è la mafia. La parola è tutto. Non ci si scambia il bacio di pace per poi ammazzarsi subito dopo. Tortellino è salvo. Veramente lo era anche prima, ma Maghetto non lo sa. E adesso viene l'amaro.

«A Maghè, falla finita de frignà che me dai ai nervi, chiusa qui. Ma me devi un favore», trancia Salis.

Maghetto abbozza, s'aspettava molto di peggio.

«Qualunque cosa, Pietro, qualunque cosa, te lo giuro».

Qualunque cosa significa che, la prossima volta, er Maghetto lavorerà gratis per er Cattivo o quasi. Un prezzo pesantissimo e un'umiliazione bruciante, per un allarmista del suo livello, ma sempre meglio di un cognato morto e di una sorella che ti affligge per tutta la vita. Senza parlare del fatto che, visto che non lavora, gli toccherebbe mantenerla lui, la sorellina che s'è sposata quell'imbecille pieno di tatuaggi col cervello di un sarago.

«Di' a Tortellino e a tu' sorella de stà tranquilli», conclude Salis con una spallucciata. «Tu' cognato pure, però, me deve quarchecosa».

«Sicuro, Pietro, sicuro... Quello che voi».

«La stecca sua è smezzata. Je spetteno cinquanta pippi invece de cento. Vielli a prenne domani da me».

Cinquanta milioni per continuare a vivere. Er Maghetto deglutisce a secco, fa per mettersi a trattare ma Pietro gli ha già girato le spalle e si sta avviando verso la macchina dove Fanfara e Scrocchiazeppi lo aspettano con due punti interrogativi sospesi sulla testa.

«Ma che cazzo voleva?», domanda inaspettatamente Scrocchiazeppi che per una volta decide di dare aria ai denti.

«Gnente, pensava che volessi addobbà er cognato e se stava a cacà sotto».

«E lo volevi addobbà?»

«Quello? Ma chi se lo incula ar Tortellino? Nun vale manco la spesa de 'na pallottola. 'Namo da Palle d'Oro che è mejo».

Palle d'Oro ha un'aria da cospiratore e non vede l'ora di dare la notizia a Salis.

«Me stavo a fa 'na bella dormita doppo magnato e me volevo fà puro 'na fregata, che cazzo voi?», lo gela Pietro che, per oggi, ha esaurito le riserve di disponibilità verso il mondo intero e non vede l'ora di tornarsene dalla Signora.

«'Na cosa importante, Piè, sinnò nun t'averebbi disturbato», balbetta Palle d'Oro.

«E dimmela, allora».

«Er Maghetto te voleva...».

«Lascia stà, c'ho parlato. L'altra cosa?»

«Ha chiamato uno... Ha detto così: quelli vestiti uguali te stanno a cioccà».

Il cuore del Cattivo salta un battito. Casini stratosferici in vista.

«Chi era?»

«Nun me l'ha detto. Però...».

«Però?»

«Ahó, io nun ce metto la mano sur foco ma dalla voce me pareva er Roscio. Lo sbirro. Ha riagganciato subito ma me sembrava proprio lui».

Pietro gli allunga una pacca sulla spalla e schizza fuori dal negozio a passo di carica. Fanfara e Scrocchiazeppi, più sbalorditi che mai, faticano a stargli dietro.

«'Namo dalla Signora, datte 'na mossa», ordina Pietro, pensando che forse avrà il tempo di mangiarsi pajata e testina d'agnello e perfino di farsi una svelta al volo, ma una cosa è certa: sarà l'ultima mangiata e l'ultima scopata in quella casa, almeno per un bel pezzo.

 

 

 

 

Capitolo X

 

C'è una malattia professionale che accomuna tutti i giornalisti d'Italia a quelli di tutto il mondo, dal direttore megagalattico all'ultimo precario sfigato (categoria che comprende la stragrande maggioranza di chi lavora, in qualche modo, nel mondo dei media), una febbre incurabile che ti si attacca tenacemente addosso da quando scrivi il primo pezzo della tua vita fino a quando (per licenziamento, pensionamento, prepensionamento, chiusura della testata e accidenti vari) ti tocca appendere, definitivamente, la penna al chiodo.

Quella febbre è una parola di cinque lettere da scolpire nel cuore.

Scoop.

Lo scoop è il colpaccio esclusivo, la notizia che hai solo tu, l'indiscrezione da prima pagina, la soffiata di diamante di una fonte affidabile, l'intervista che tutti cercano e che, per abilità, fortuna, ruffianeria o puro caso, ti ritrovi in mano come una pepita da un chilo impigliata nel setaccio di un cercatore durante la Corsa all'oro nel Klondike.

Estasi pura.

Il contrario dello scoop si chiama buco. Fai lo scoop e sei l'eroe del giorno, prendi un buco e diventi la più bassa forma di vita sul pianeta: cazziatone assicurato, se non di peggio. Spesso molto di peggio.

Per lo scoop ci si affanna, ci si scanna, si intrallazza, si intriga, si dilapidano energie, si allacciano e si rompono amicizie e, nei casi più estremi, si fa sesso. In due parole, si vive.

Una patologia assolutamente trasversale, che affligge nello stesso modo cronisti di nera e di bianca, giudiziari, politici, economisti, sportivi, culturali, televisivi, modaioli, gossippari. Un vecchio proverbio redazionale dice che i buchi si prendono e si danno, il che significa, in sostanza, che prima o poi il colpaccio capita a tutti e di conseguenza non bisognerebbe incavolarsi troppo se lo leggi su un altro giornale o lo vedi su un'emittente rivale. Il tuo momento, prima o poi, arriverà.

Tutte stronzate.

La vita di un quotidiano è effimera per definizione, ci si spreme fino all'ultima goccia di energia per un prodotto che, domani pomeriggio, servirà per incartare il pesce e questo rende i giornalisti, anche se inconsapevolmente, molto più simili a un monaco zen di quanto possano immaginare, perfino quando non hanno la minima idea di cosa sia lo zen: vivono qui e ora. Oppure, se vogliamo buttarla sul letterario, del doman non v'è certezza. Conta solo quello che hai in tasca oggi.

Avere uno scoop e non poterlo pubblicare è peggio che non averlo. Il paragone più azzeccato è quello di buttare una bella bisteccona sugosa a un cane con la museruola.

Francesca Alati si sente esattamente così. E visto che a livello gerarchico occupa più o meno il terzultimo posto, che lavora per uno stipendio da fame in un giornale di quartiere e che le speranze di farsi assumere, con contributi, Casagit, ferie, giorno di corta e tutto il resto sono praticamente zero, rosica ancora di più. Le piccole esclusive che ha collezionato finora grazie alla relazione con Antonio Assisi sono quisquilie che difficilmente sono uscite dai confini di Ostia e che in molti giornali avrebbero comunque trovato spazio solo in un trafiletto o al massimo in un taglio basso in cronaca romana.

Francesca alza gli occhi, lucidi per la fatica, dalle pagine dell'ordinanza che ha appena finito di compulsare e azzanna la Bic come un bull terrier un osso.

Questa è roba grossa. Stratosferica. Una bomba.

Un'organizzazione criminale che sta monopolizzando l'intero mercato dell'eroina di Roma ma che sta già allungando i tentacoli in tutta Italia grazie a una serie di contatti con la camorra, la mafia e perfino il terrorismo nero. Una gang di malavitosi arrembanti e spietati che minacciano, costringono, convincono tutte le altre bande ad allearsi o a sottomettersi e, se qualcuno resiste, sparano. Un gruppo di personaggi di grossissimo calibro, molti dei quali si sono fatti le ossa negli anni Settanta all'ombra della gang delle Tre B, i Marsigliesi che importarono il business dell'eroina e dei sequestri di persona all'ombra del Colosseo. Piccoli trafficanti crescono. Anzi, sono già cresciuti da un pezzo.

Una cosa del genere non s'era mai vista a Roma, dove la mala, per tradizione, è anarchica, individualista, sbrasona, pronta ad aggregarsi e a disgregarsi in centinaia di "paranze" e di "batterie" effimere che durano lo spazio di un colpo o due e tanti saluti, ognuno per la sua strada.

La mala romana non vuole capi. È stato così fin dai tempi dei bulli che signoreggiavano nel loro rione in punta di saccagno fino a quando un altro bullo, più grosso o cattivo, gli metteva le budella in mano. Decine di capi, nessun capo. Ognuno a difendere con le unghie e coi denti la sua fetta di territorio, i suoi affari più o meno piccoli, i suoi interessi, le sue amicizie o parentele senza alcuna velleità di allargare i confini del loro piccolo regno.

È andata avanti così per secoli, sotto i papi re, i Piemontesi, la Repubblica. Sempre. Non a caso le cosche siciliane, calabresi e campane, discendenti dalla leggenda di Osso, Mastrosso e Carcagnosso e vincolate da rituali, osservanze, codici di comportamento e rigidissime gerarchie interne hanno sempre considerato i "colleghi" romani alla stregua di monelli imprevedibili e inaffidabili.

Nasce la mafia romana. Francesca sogna, con le lacrime agli occhi, il titolo di prima pagina in anteprima che non firmerà mai. Domani ci sarà la conferenza stampa, certo, arriveranno i grandi inviati dei quotidiani nazionali con la loro prosopopea, la loro falsa confidenza, la loro supponenza da piccola casta privilegiata, le loro battute scontate e lei sarà relegata tra i collaboratori e i corrispondenti locali a raccogliere le briciole e, tutt'al più, riceverà qualche occhiata concupiscente o un invito a cena da un collega lumacone convinto che nessuna sfigata come lei possa resistere al suo fascino da Robert Redford in Tutti gli uomini del presidente, anche se ha la panza, la pelata e l'alito all'aglio. Domani il pezzo ce l'avranno tutti e l'ordinanza, di sicuro, verrà distribuita a piene mani da poliziotti, carabinieri e magistrati, magari con l'unica accortezza di togliere l'intestazione "Tribunale di Roma, ufficio del giudice istruttore", come se fosse piovuta da Alpha Centauri.

Francesca Alati ha un tesoro in mano, sa che tra poche ore sarà più o meno carta straccia e non ci sta.

Scrivere o non scrivere? Questo è il dilemma.

Se pubblica il pezzo e se ne sbatte del giuramento, con Antonio Assisi ha chiuso. E come niente rischia pure di brutto: per un'esclusiva del genere può beccarsi un'incriminazione con l'accusa di favoreggiamento o, se va bene, rivelazione di segreto istruttorio. Per un giornalista "vero" è una medaglia d'oro. Nei quotidiani nazionali ci sono cronisti di nera o giudiziari che potrebbero uccidere per farsi arrestare, passare qualche giorno in una cella confortevole o, comunque, protetta e uscire a passo di carica con la solidarietà dell'Ordine nazionale, dell'Associazione stampa romana e l'aureola del martire della deontologia professionale che va in prigione per proteggere le fonti. Tanto ci pensano gli avvocati del giornale a derubricare tutto e l'amministrazione a pagare l'ammenda. Ma i precari non hanno diritto all'assistenza legale e al risarcimento quindi, al minimo, potrebbe ritrovarsi licenziata e in bolletta.

Eppure qualcosa deve fare. Quella notizia potrebbe spalancarle le porte di una redazione blasonata, lanciarla verso il successo, farla uscire dal cono d'ombra in cui si arrabatta e catapultarla sotto i rifettori. Tutta Italia saprebbe chi è Francesca Alati, non le poche migliaia di persone che comprano il «Quotidiano di Ostia» più che altro per leggere gli annunci mortuari o le notizie di politica circoscrizionale di cui frega qualcosa solo ai consiglieri del municipio.

Quando passa il treno che ti cambia la vita hai due scelte: salti su o resti sulla pensilina per il resto dei tuoi giorni.

Francesca sospira ma ha già deciso. Non può aspettare. Infila religiosamente l'ordinanza in un bustone giallo, prende l'agendina e fa un numero di telefono.

«Te stai a trasferì per sempre, amo'?».

La Signora guarda le due sacche rigonfie, poi la faccia di Pietro e cambia espressione: da stupita, scherzosa e un po' speranzosa ad allarme rosso.

«Che succede, tesoro? Grane?».

Pietro butta giù le due borse che si schiantano sul parquet come macigni.

«'N casino, porcatroia. Le guardie ce stanno a cioccà. Capace che stanotte se bevono tutti», grugnisce.

«E quelle?»

«Roba mia». Il cipiglio del Cattivo dice: niente domande e la Signora, che lo conosce bene, liquida la cosa con un gesto alla "così sia".

«Vabbè, daje amo', qua stai ar sicuro. Mettete a tavola che la pasta se scoce».

Pietro fa per ribattere che non gliene può fregare di meno, della pasta, ma, all'improvviso, forse per la tensione, ha una fame tremenda e comunque mezz'ora in più o in meno non fa differenza visto che, come tutti i malavitosi, sa bene che le manette scattano poco dopo le quattro del mattino, quando il sonno è più profondo, i riflessi più appannati e, soprattutto, ci sono maggiori possibilità di trovare i ricercati a casa, quindi si siede, si annoda il tovagliolo al collo e attacca la pajata con entusiasmo da naufrago. La Signora pilucca appena e lo guarda ingozzarsi con un misto di orgoglio e compiacimento: è proprio vero che un uomo è tuo quando lo tieni stretto per l'uccello, ma soprattutto per lo stomaco. Di scopate, er Cattivo può farsene quante vuole, ma una cucina come la sua difficilmente la troverà altrove e, col passare degli anni, la seconda diventerà sicuramente più importante delle prime. Lei sa aspettare. Anche perché, amanti a parte (una donna avrà pur diritto a qualche distrazione), anche se in modo tutto suo si è affezionata a quel bambinone violento e impulsivo capace di allungarle una sberla all'improvviso ma anche di impensabili tenerezze dentro e fuori dal letto. Senza contare che la mantiene.

Er Cattivo scalza abilmente l'occhio della testina d'abbacchio con la forchetta e lo mastica come fosse una caramella, mugolando di piacere.

«Ammazza quant'è bona, amo'... Tu che fai, nun la magni?»

«Ce lo sai che me fa impressione, tesò... L'ho fatta pe' te», dice porgendogli la sua metà ancora intatta. Pietro non si fa pregare e, nel giro di pochi minuti, la spolpa meticolosamente: guancia, occhio, labbra, cervello, rimasugli di carne residua fino a lasciare il cranio bianco e lucido come se fosse calcinato dal sole. Meglio di un neurochirurgo.

«Ah...». Pietro si allenta la cintura e si dà un colpetto sullo stomaco prominente. «E mo' me ce vo' un caffè», ordina satollo e soddisfatto.

«A quest'ora, amo'? Poi nun dormi tutta la notte».

«E infatti nun posso dormì, non qui, armeno. Me ne devo annà».

«E perché?»

«Amo', ma che te sei rincojonita? Qua è er primo posto dove me veranno a cercà quanno nun me troveno a casa. Ce lo sanno tutti che stamo insieme».

Addio ultima notte di passione. Ma il ragionamento non fa una piega. Amici, parenti, conoscenti, complici, amanti, sodali, sottoposti: tutti esclusi. I carabinieri li passeranno al setaccio a uno a uno.

«Dove te ne vai, amore?»

«Boh... ce sto a pensà. Alberghi no, nun c'ho un documento farlocco con me, nella fretta me so' dimenticato e nun posso tornà a Ostia adesso, troppo rischio», ragiona Pietro. «Magara stanotte posso dormì in machina, da quarche parte, ma devo trovà un posto sicuro alla svelta», ragiona Pietro. «Nun è che magara c'hai quarche idea tu?».

Il cervello della Signora mette il turbo.

I cinque uomini che le vengono in mente se li è scopati tutti e ogni tanto se li scopa ancora. Meglio lasciar perdere, hai visto mai che frequentandoli Pietro scopra qualcosa? Gli uomini parlano troppo, si vantano, si gonfiano come pavoni quando si tratta di magnificare le loro conquiste amorose.

Le sette donne a cui può chiedere di ospitare un ricercato sono troppo gnocche o troppo malavitose. Le prime, per il Cattivo, sono una tentazione, le seconde un rischio perché quando fai la maîtresse, la ricettatrice o l'usuraia le giuste possono piombarti addosso in qualsiasi momento e ci manca solo che Pietro venga beccato a un controllo casuale in casa loro.

La Signora sa che sono questi i momenti cruciali in cui può guadagnare potere col suo uomo. Trovare la soluzione la renderebbe più preziosa che mai e, al tempo stesso, le permetterebbe di tenere virtualmente l'amante sotto controllo, quindi riflette, riflette e riflette compulsando l'agenda mentale ed espuntando un nome dopo l'altro fino a quando...

Giosuè Caleppi. Come ha fatto a non pensarci prima?

«Giosuè», esulta come un calciatore che ha appena segnato il gol partita. «Quello risolve tutto. Giosuè».

«E chi cazz'è?»

«Giosuè Caleppi, daje... Er costruttore, te ne avevo parlato, no? Ce conoscemo fin da regazzini, quello c'ha più case che capelli in testa, capace che una casa sicura te la trova subito, mo' lo chiamo».

«È fidato?»

«È un fratello, fatte servì».

Giosuè Caleppi, sessantadue anni, centodieci chili, coroncina di capelli grigi sul cranio calvo, un patrimonio immobiliare a nove zeri. Uno di quei palazzinari spregiudicati e privi di scrupoli, discendente di una dinastia che ha fatto fortuna negli anni Sessanta con l'edilizia economica e popolare, i palazzi tirati su in fretta e alla buona per vincere le gare d'appalto, il cemento impastato con la sabbia, le fondamenta di cartone, le tubature che si schiantano dopo pochi mesi per la pressione dell'acqua e tutto il resto.

Vero: ha un sacco di appartamenti ed è fidato quindi una possibilità c'è.

Falso: non conosce la Signora fin da ragazzino e non è come un fratello. È un ex amante, uno dei tanti, ma non c'è rischio che apra bocca neanche per un'allusione, visto che ha un autentico terrore della moglie, un'arpia che lo comanda a bacchetta e che, nel malaugurato caso di divorzio, lo spolperebbe peggio della testina d'abbacchio di Pietro. Del resto, la loro storia è stata una cosetta passeggera: qualche bottarella in fretta e furia, quasi sempre in ufficio, che ha procurato alla Signora un prestito "a babbo morto" con cui s'è comprata la Golf e che non ha mai sognato di restituire né Giosuè di rivendicare. Ogni tanto si sentono ancora, Giosuè la porta a cena in posti stratosferici e lei ricambia con un lavoretto di bocca o uno smorzacandela in macchina. Perfetto.

«'O chiamo subbito, amo'».

La Signora va in camera, parla fitto fitto al telefono per un quarto d'ora e riemerge raggiante.

«Appartamenti voti nun ce stanno... Tutti affittati», annuncia.

«E mannaggia alla mignotta, che cazzo soridi allora?»

«Ma ha appena aperto un albergo sulla Colombo, La Caravella. Lo manna avanti su' fija. Ce poi annà quanno te pare, ovvio che i documenti nun te li chiede, te registra a nome farlocco».

«Adesso?»

«Quanno te pare, t'ho detto».

«Allora vado».

Pietro si incolla le sacche coi soldi e i gioielli di Marbella, che non ha potuto lasciare in uno dei soliti nascondigli per paura che venissero scoperti, gratifica l'amante di un bacio a succhione e di una signorile palpata di chiappe, si mette in macchina, arriva davanti a un palazzo alla Garbatella, suona, sale...

E quando si apre la porta resta folgorato.

«Cazzo... Fammi leggere ancora un po'».

«Neanche per idea. Hai già visto abbastanza». Francesca strappa letteralmente l'ordinanza dalle mani di Giulio Destri, che la guarda con occhio cupido.

L'ordinanza, non lei.

Un boccone troppo ghiotto per lasciarselo sfuggire. Anche se arriva da quella stronzetta arrivista e un po' mignotta che si scopa il dirigente del commissariato per racimolare qualche notizia e che, comunque, gioca sporco puntando su seduzione, ammiccamenti, tacite o esplicite promesse e, insomma, tutti quei trucchetti femminili che a Giulio danno il voltastomaco.

Non che a Giulio non piacciano le belle donne, tutt'altro. Non a caso la sua compagna è stata eletta miss Ostia Lido e miss Maglietta Bagnata a un raduno di biker, ma il lavoro è un'altra cosa. Corrispondente del «Messaggero» con qualifica di caposervizio, Giulio Destri dirige la sua piccola redazione locale con pugno di ferro e principi d'acciaio. Niente porcate, niente inciuci, niente compromessi con le fonti: ognuno nel suo ruolo e nel rispetto reciproco. L'amicizia è ammessa, una relazione sentimentale pure, ma i binari non si possono incrociare. Niente interviste fasulle e anonime, niente accordi con i colleghi delle altre testate, niente compromessi tra cronisti e poliziotti, carabinieri, politici, magistrati, niente minacce inventate o provocate a bella vista per farsi passare per martire della stampa libera e magari finire sotto scorta. Il buon, vecchio giornalismo di una volta a schiena dritta, viso aperto e con l'orgoglio e la deontologia professionale sempre davanti agli occhi.

Il problema è che a nessuno sembra importare più un accidente, della deontologia professionale. Nelle redazioni è un tutto un pissi pissi di cordate, intrighi, imbrogli, alleanze, puttanate, sgomitate, sgambetti, sorpassi in contromano, meschinerie e maldicenze. Si dice che se metti insieme tre irlandesi e un po' di birra dopo un quarto d'ora scoppia una rissa. Metti insieme tre giornalisti over cinquanta e dopo dieci minuti sentirai le quattro parole magiche: «Questo mestiere è finito». Anche per questo Giulio Destri ha rifiutato la chiamata alla redazione di via del Tritone e ha preferito restare nel suo piccolo regno dove molti lo amano e parecchi lo temono, ma tutti lo rispettano proprio per la sua affidabilità, la sua onestà intellettuale e la sua incorruttibilità.

E adesso ti arriva 'sta squinzia con uno scoop spaziale e sicuramente qualcosa in cambio da chiedere. Giulio vorrebbe cacciarla a pedate e spiegarle che un'esclusiva ottenuta a forza di pompini non gli interessa, ma non può farlo. Se la notizia del blitz esce su qualche altra testata rischia di finire nel tritacarne ed è troppo anziano e troppo orgoglioso per farsi cazziare da qualunque stronzetto dell'ufficio centrale che si crede Bob Woodward anche se non ha mai scritto un pezzo in vita sua.

Quindi deve inventarsi qualcosa cercando di non concedere troppo e soprattutto di potersi guardare allo specchio il giorno dopo senza provare l'impulso di sputarsi in faccia.

Francesca lo guarda e ammicca con un'espressione che dice: fai la prima mossa.

«È una storia strepitosa, complimenti... Ma perché vieni da me? Al "Quotidiano di Ostia" saranno in estasi», tergiversa.

«Non posso pubblicarla sul mio giornale... Accordi con la fonte».

Giulio Destri capisce al volo. Esattamente come immaginava. La stronzetta s'è impossessata dell'ordinanza chissà come e se la pubblica a suo nome quell'imbecille di Antonio Assisi la spella viva. Perché sul nome della fonte non ha il minimo dubbio: tutti sanno che lui e Francesca vanno a letto insieme.

«E allora che dovrei fare?». Domanda retorica.

«Falla uscire sul "Messaggero"».

«La scrivi tu?»

«Non posso... Sempre per i problemi con la fonte».

Giulio annuisce, grave e compreso come un vescovo, come se non si aspettasse la risposta. Questa non solo è una mezza zoccola, è anche cretina.

«Be', allora siamo a un punto morto, Francesca. Io non posso mettere il mio nome su un pezzo a cui non ho lavorato. Non so come hai avuto l'ordinanza e non lo voglio sapere». Giulio calca sul non so, tanto per chiarire che invece lo sa benissimo. «Ma la mia firma non ce la metto, è una questione di correttezza».

E beccati questo, squinzia.

Francesca non fa una piega e riflette su quanto sono idioti e presuntuosi gli uomini. Facile atteggiarsi a Soloni dell'informazione quando hai lo stipendio garantito, ferie, malattie, contributi e tutto il resto. Per chi rischia il precariato a vita, la moralità è un lusso che non ci si può permettere.

«Non pensavo che la scrivessi tu... Piuttosto una firma falsa».

Le firme false sono state abolite in parecchi quotidiani ma al "Messaggero", giornale molto tradizionalista, resistono ancora. Francesca ha fatto i compiti.

«Be', si può fare... Ma in cambio cosa vorresti?»

«Non ci arrivi da solo?»

«Dimmelo tu».

«Voglio iniziare a collaborare col "Messaggero". Quando porterai la notizia al giornale dirai che sono stata io a dartela. Probabilmente avranno già notato i miei scoop in passato e sono sicura che un piccolo contratto da collaboratrice, magari un articolo 2 ci può scappare, sempre che tu ci metta una buona parola».

Articolo 2: collaboratore fisso, ben pagato, quasi con gli stessi privilegi di un redattore assunto ad articolo 1, ma con la possibilità di essere licenziato in tronco in qualsiasi momento e nessun obbligo di presenza in redazione. Anche questo sta scomparendo quasi ovunque. Perché dare un sacco di soldi a un esterno quando ci sono centinaia di sfigati pronti a spaccarsi la schiena per una miseria, per un borderò di diecimila lire a pezzo?

«Francesca, queste cose non sono io a deciderle, devo parlarne col capocronista che sentirà l'ufficio centrale, lo sai come funziona no?»

«Certo. Ma so anche che sei un boss al "Messaggero" e che nessuno ti può rifiutare qualcosa. O sbaglio?».

Giulio le scocca un'occhiata di sbieco che dice: se pensi di intortarmi con l'adulazione stai toppando di brutto, ma la proposta è ragionevole. E il piatto veramente troppo ricco per uscire dal gioco.

«Vabbè, Francesca, ci provo, ma non prometto niente. Dammi l'ordinanza, chiamo il giornale e ti faccio sapere».

Stavolta l'occhiata di sbieco arriva da Francesca e dice: ma che, ho l'anello al naso?

«Facciamo così. Tu chiami adesso. Sento cosa vi dite col tuo capo e, se la cosa va in porto, l'ordinanza è vostra. Il pezzo lo scrivo io, visto che l'ho già letta, e la fai uscire con un nome farlocco. Andata?».

Giulio ammette che la squinzia, se non altro, è furba: «Andata».

Mezz'ora dopo, la redazione è in subbuglio: tutte le pagine sbaraccate e orario di chiusura procrastinato mentre Francesca, a casa, trapesta come una furia sulla tastiera della Olivetti nemmeno fosse un pianista in overdose di crack.

E nello stesso momento, al commissariato, in questura e alla compagnia dei carabinieri, decine di uomini in divisa e in borghese stanno ascoltando le ultime istruzioni e ingannando l'attesa tra battute, caffè, panini e sigarette prima del blitz che sta per scattare.

 

 

 

 

Capitolo XI

 

Squarci di luci blu nella notte. Sirene. Urla. Bestemmie. Porte spalancate a spallate, poliziotti e carabinieri in divisa e in borghese che corrono, irrompono, agguantano. Uomini e donne tirati giù dal letto, seminudi e intontiti, ammanettati, trascinati sulle scale in una babele di grida, imprecazioni, lamenti e scaraventati come pacchi nelle volanti, nelle gazzelle, nei pulmini in attesa piombati in zona dal buio come un esercito d'occupazione. Inquilini affacciati alle finestre, qualche insulto, qualche maledizione ma nessuno si azzarda a scendere in strada o a scagliare un vaso verso il basso perché stavolta si rischia di brutto. Pastori tedeschi al guinzaglio corto che uggiolano, abbaiano, fiutano, cercano, mostrano i denti. Un elicottero che sorvola Ostia a volo radente come un grosso rapace, indirizzando verso il basso un fascio di luce incandescente per individuare qualche ricercato in fuga.

Il blitz.

Carabinieri e poliziotti lavorano in sincronia, ognuno coi propri indirizzi, le prede designate che, una dopo l'altra, cadono inevitabilmente nella rete. La stessa scena si ripete contemporaneamente, anche se in versione ridotta, in altri quartieri della città: Testaccio, Trastevere, Garbatella, Magliana. Cronisti assonnati, avvisati dagli uffici stampa in piena notte, assistono all'assalto tenuti a distanza: un piccolo plotone armato di taccuini, telecamere, macchine fotografiche per immortalare le facce stravolte, incarognite, aggressive, sbalordite o terrorizzate degli arrestati. Qualcuno dei fermati si copre il viso o lo abbassa per non farsi inquadrare, qualcun altro sputa, sbraita insulti, scalcia, si dibatte, molti ostentano una sicurezza da guasconi, alzano la faccia, inalberano un sorrisetto sprezzante. Una donna grassa sulla sessantina si affloscia a terra tra le braccia di due poliziotti che tentano inutilmente di sorreggerla, singhiozza, ansa, geme, simula una crisi cardiaca ma il medico accorre immediatamente, la visita in modo sbrigativo sul posto e fa cenno agli agenti: sta recitando, in carcere anche lei.

Er Fanfara, Scrocchiazeppi, Palle d'Oro: tutto l'entourage del Cattivo finisce subito in manette. Nessuno fa il matto, nessuno apre bocca: troppo esperti, troppo malavitosi, troppo scafati per non capire al volo che sarebbe inutile, che la grana è enorme e non resta che rassegnarsi, buttarsi a Santa Nega al primo interrogatorio e affidarsi all'avvocato ma di certo, stavolta, non sarà una faccenda di pochi giorni e tanti saluti. Quando leggi "articolo 416 CP", associazione per delinquere, sul provvedimento di custodia che ti sbattono letteralmente sul grugno prima di ammanettarti, sai che sei fottuto: niente scarcerazione a passo di carica e l'unica speranza è che, come tante altre volte, l'imputazione cada davanti al giudice istruttore o, se va proprio male, in dibattimento. La gente di mala conosce il codice penale meglio di un praticante in uno studio legale, spesso addirittura meglio di un avvocato, perché la legge, con tutte le scappatoie, le scorciatoie, i tranelli e le trappole, è la sua vita.

In un appartamento di Nuova Ostia, settimo piano, un uomo scarno, col viso picchiettato di spaventose macchie violacee, afferra un coltello da cucina prima che i poliziotti riescano a immobilizzarlo, si taglia più volte l'avambraccio sinistro e lo agita verso gli agenti come un'arma.

«C'ho l'AIDS conclamato, se v'avvicinate vi infetto», minaccia. Poi avvicina il braccio alla bocca, succhia, gonfia le guance e fa il gesto di sputare ai poliziotti che si ritraggono, inorriditi. Uno degli agenti impugna la pistola e gliela spiana contro.

«Provaci, stronzo, ti faccio scoppiare la testa».

L'uomo esita quel tanto che basta perché, da dietro, un gigantesco ispettore della mobile in borghese, col fratino blu e la patacca appesa al collo, gli voli addosso come un rugbista, lo placchi, lo butti a terra a faccia in giù. In un attimo tutti gli altri gli sono sopra, gli inchiodano il braccio ferito al pavimento con un piede, lo avvolgono rapidamente in una coperta presa dal letto, badando bene a coprirgli anche la testa per impedirgli di sputare o di mordere, lo legano come fosse un tappeto da mandare in tintoria, se lo caricano in spalla urlante e maledicente e lo portano fuori verso uno dei pulmini, imprecando.

L'ispettore si controlla meticolosamente mani, viso, braccia e sospira sollevato: niente graffi, niente tagli, niente segni di morsi. Nessuno è mai stato contagiato in quel modo, ma l'idea di doversi fare il test e ripeterlo ogni sei mesi con una strizza bestiale non è affatto allettante, anche perché il sangue dei tossici brulica di tante altre bestiacce: epatite, sifilide, mononucleosi.

Un bambino di cinque anni urla di terrore e singhiozza disperato mentre i genitori vengono portati via in manette e una poliziotta lo tiene per mano, lo accarezza, tenta di tranquillizzarlo con voce suadente prima di accompagnarlo a casa dei nonni, già avvisati per telefono, che lo stanno aspettando rassegnati: non è la prima volta e se continua così il ragazzino finirà in affido dai servizi sociali.

Un ciccione riesce a barricarsi in casa e si sporge su un balcone al quarto piano mentre la porta viene sfondata dai carabinieri in assetto da combattimento. I militari lo vedono con una gamba sulla ringhiera che oscilla pericolosamente sul vuoto e si tengono a distanza.

«Si v'avvicinate me butto... Giuro che me butto», singhiozza il trippone.

Un giovane tenente lo guarda con un misto di curiosità e disprezzo poi fa spallucce.

«E buttati, sai quanto me ne frega... Sarà un problema solo per quelli che dovranno pulire in strada».

Gli altri carabinieri sghignazzano alla battuta e si rilassano. Il ciccione resta sconcertato.

«Allora? Buttati, no? Che cazzo aspetti?», lo irridono. Il trippone, con molta cautela, si mette in salvo, torna coi piedi sul pianerottolo e un istante dopo, si ritrova in manette. Il tenente lo schiaffeggia con rabbia.

«Facevi meglio a buttarti, stronzo... Uno di meno per sempre». Il ciccione fa per sputargli in faccia, vede la sua espressione, si rassegna e si fa portare via.

In molti appartamenti, ai colpi sulla porta e alle urla di "Carabinieri", "Polizia", "Aprite subito" fa eco lo scroscio dello sciacquone. Bustine di cocaina ed eroina e marijuana, tavolette d'hashish, sacchetti di ecstasy e polvere d'angelo finiscono negli scarichi, fluiscono nelle tubature, si disperdono nelle fognature prima che poliziotti o militari riescano a intervenire. Un brigadiere vede l'acqua del cesso che sta finendo di ribollire, si gira bianco di collera, fa per sferrare un pugno a un tizio sulla quarantina, in canottiera e mutande, che lo guarda con una faccia da murena poi lo ammanetta, lo stende con un pugno in faccia e, mentre i colleghi lo portano via, sferra un calcio al televisore e comincia, metodicamente, a distruggere tutto l'appartamento. Nessuno lo accuserà mai: basta graffiarsi un braccio o la faccia, dire che il fermato ha fatto resistenza e che c'è stata una colluttazione e il magistrato farà finta di crederci, anche perché gli altri militari confermeranno tutto. Ci sono circostanze speciali in cui le garanzie di legge vengono sospese. Questa è una di quelle.

Antonello Messina suona a lungo alla porta di Pietro Salis e aspetta.

Niente.

Il capitano stringe i denti. Sa che il Cattivo non farà il pazzo, non tenterà di scappare, non impugnerà un'arma, se anche ne ha una. È un boss, e i boss sanno quando è il momento di arrendersi.

Quindi se er Cattivo non viene ad aprire il motivo è uno solo.

«Chiamate i vigili», ordina il capitano accennando alla porta blindata. Saranno loro a decidere se è meglio sfondarla o passare da una delle finestre che, comunque, sono tutte protette da robuste grate d'acciaio. Tesissimo, Messina si accende una sigaretta e comincia a misurare a passi lunghi il pianerottolo esattamente come un detenuto in cortile all'ora d'aria.

I pompieri esaminano la porta con cura, la scuotono, la valutano con occhio esperto e poi, con grande sorpresa dell'ufficiale, non tirano fuori un frullino ma una semplice lastra radiografica e la fanno scorrere abilmente nell'interstizio tra le ante. Un paio di passaggi, un clic e la porta si apre. Non era chiusa a chiave.

Antonello Messina inghiotte a secco. L'ultimo sberleffo. Er Cattivo non voleva che gli danneggiassero l'ingresso e l'ha lasciata così. L'ufficiale entra senza neanche mettere mano alla Beretta e si inoltra nell'appartamento, lussuoso e pacchiano, sapendo già quello che troverà.

Niente.

Nessuno.

Pietro Salis lo ha fregato. È stato avvertito e ha preso il volo. E, mentre ordina ai suoi uomini di passare al setaccio tutto l'appartamento, sa già che è perfettamente inutile. Salis, di sicuro, non si è lasciato alle spalle il minimo indizio che possa incastrarlo.

Un colpetto di tosse alle spalle lo fa sobbalzare. Messina si gira e si trova faccia a faccia con un Renato Pettisi livido di rabbia, con un giornale aperto tra le mani.

«Legga qui, signor capitano... Che pezzi di merda».

«Vai già via?»

«No... Devo annà da un amico mio... Poi torno».

«E perché ti porti le sacche?»

«...Queste?»

«Ne vedi altre?»

«Ah be'... No è che... insomma, è roba de lavoro, la devo dà a 'sto tipo che conosco».

«Vabbè, tranquillo, non volevo farti il terzo grado... Torni per cena?»

«Sì, anzi... Senti, pe' stasera te annerebbe de annà a magnà in un posto carino? Magara da Quinzi e Gabrieli, 'o conosci?»

«Wow... Ma stasera sono impicciata, arriva un gruppo di colombiani e ci sarà parecchio da fare».

«Domani?»

«Non posso, ceno da papà».

«Dopodomani?»

«Non molli mai, eh? Va bene, dopodomani, sennò mi tocca sentire tutti i giorni del calendario. Dovrò mettermi elegante, mi sa».

«Mettete come te pare. Pure in ginze e majetta, tanto più bella de così nun poi esse...».

«Ma senti questo dongiovanni... Cos'è, la tua tattica di seduzione? Scommetto che lo dici a tutte».

«Ma che caz... Ma che stai a dì? Io 'n so' mica uno che fa 'e cose... e smangerie, sa'? To' 'o dico perché sei 'no schianto, ecco...».

«Smancerie, magari, con la "c". Dài, levati dai piedi che devo lavorare. Ho un albergo da mandare avanti, io... Meglio che ti sbrighi, sennò fai aspettare il tuo amico. A stasera».

Marisa si alza sulle punte dei piedi per dare un bacio da sorella sulla fronte di Pietro Salis, che resta estasiato, cerca un saluto da gran Casanova, ironico e intrigante ma, nel repertorio, trova solo una pacca sul culo che, saggiamente, evita, gira sui tacchi e se ne va con le sacche piene di gioielli e denaro in spalla e il cuore che cinguetta come un cardellino.

Er Cattivo è innamorato.

Perso, fuso, cotto, sbandato, incantato, stralunato, sedotto, travolto, ammaliato, affascinato, irretito dal primo momento che l'ha vista. E chissenefrega se Marisa ha diciotto anni meno di lui, appartiene a un altro mondo, ha studiato, parla pulito e lo tratta sempre con una sottile ironia venata di una certa diffidenza. Quello di stasera sarà il loro primo tête-à-tête e Pietro vuol fare un figurone al punto tale che, dopo aver sbrigato la faccenda col Cravatta, ha intenzione di andare in centro a comprarsi qualcosa di decente da mettersi addosso visto che, nella fretta, ha portato con sé solo un po' di biancheria, due paia di jeans e qualche maglietta sbrindellata.

Un ricercato, in teoria, dovrebbe starsene rintanato nel suo rifugio, farsi vedere il meno possibile e aspettare che si calmino le acque, ma er Cattivo proprio non ci riesce, si è fatto radere i capelli quasi a zero (e lo rimpiange, visto che gli è venuto un faccione che pare un pallone da rugby), porta sempre occhiali specchiati e sa che, statisticamente, è quasi impossibile che un poliziotto o un carubba lo riconoscano per strada e, soprattutto, in un ristorante di superlusso dove di sicuro gli sbirri non possono permettersi di cenare. Quelli che non prendono mazzette, almeno. Già, e gli altri?

Regola numero uno del latitante. Trovati un buco, nasconditici e non uscire.

Regola numero due. Resta tappato dentro il più a lungo possibile. Evita di farti vedere in giro, soprattutto nella tua città e nei primi giorni dopo la fuga, quando tutti ti cercano.

Regola numero tre. Non fare cazzate, non telefonare, non andare dalla mamma, tienti lontano da mogli, amanti, amici, sodali. Zitto e immobile.

Er Cattivo, su queste cose, potrebbe far lezione a un master per ricercati. E ha deciso che se ne frega alla grande. Il gioco vale la candela e con Marisa vuol fare un figurone. Dopo i vestiti, Pietro decide che passerà in gioielleria a comprarle una cosuccia, magari un paio di orecchini coi brillanti o un Rolex d'oro... Salis sogghigna al pensiero di tutti i gioielli che ha nella sacca e con cui potrebbe farle un regalo principesco, ma non è un idiota come i Gemelli: quella roba deve sparire, e in fretta. Per questo sta andando dal Cravatta a depositarla per un po'. Dove altro? Poi, sbrigata la faccenda, ha intenzione di tornarsene in albergo per rivedere Marisa.

Marisa.

Al volante della Micra che gli ha gentilmente prestato, mentre imbocca il raccordo direzione Prenestina, er Cattivo ripete il nome sottovoce, come una preghiera o un mantra. Peggio di un quindicenne in fregola.

Ma come puoi resistere a Marisa? Piccola che non gli arriva alle spalle, mora, magra come un passerotto, con quegli occhi incredibili, mai visti, verde smeraldo, il naso appena un po' troppo lungo, la bocca sensuale che sembra sempre un po' imbronciata, l'espressione che cambia incessantemente e i seni sodi, appuntiti sotto la maglietta, è esattamente il contrario del tipo di femmina giunonica e puttanosa che lo ha sempre attizzato. Eppure, o forse proprio per questo, gli ha mangiato il cuore.

Ben istruita dal padre, Marisa l'ha accolto con cortesia un po' formale, senza far domande, facendogli soltanto intuire che nel suo albergo a tre stelle sarebbe stato al sicuro, gli ha fatto vedere la stanza, gli ha prestato la macchina e lo tratta come un ospite di riguardo, ma senza mai lasciar intravedere un interesse che vada oltre una semplice simpatia e gentilezza dovute. Se sa chi è er Cattivo e conosce la sua fama non lo lascia intravedere e anche questo l'ha conquistato. Di solito gli uomini tremano e si sprofondano in salamelecchi al suo cospetto mentre le donne, quelle del suo giro, fanno le micette o le pantere e si offrono spudoratamente. Quelle fuori dal suo ambiente lo ignorano o lo temono. E comunque er Cattivo non ha occasione di frequentarle. Non fino a due giorni prima.

Adesso è completamente fuso e pensa solo a lei. Per la prima volta in vita sua prova qualcosa per una donna che non sia soltanto voglia di scoparsela o farsi fare un pompino. Qualcosa che non riconosce, che gli fa perfino un po' paura e a cui non sa resistere.

La gente comune lo chiama amore.

Er Cattivo non è un tipo comune, non lo ammette neanche a se stesso, ma la storia è proprio quella. Romeo e Giulietta, Elisa e Abelardo, Paolo e Francesca, Lancillotto e Ginevra e tutti gli altri... se solo Pietro Salis ne avesse sentito parlare. Magari a Totti e Ilary ci arriverebbe pure, ma ancora non si sono conosciuti, quindi riferimenti possibili zero.

Intanto rimugina sull'espressione di Marisa quando gli ha chiesto se andava già via. Delusa? Amareggiata? Addolorata? Sorpresa?

Boh.

Come psicologo er Cattivo non vale molto, anzi, non sa nemmeno bene chi siano gli aggiustacervelli. Ne ha sentito vagamente parlare e ha deciso che sono una cosa da schizzati ma, adesso, un minimo di capacità analitica e introspettiva gli farebbe comodo anche perché, alla cena di dopodomani, non saprà bene come comportarsi, di cosa parlare, come affascinarla, visto che non può mettersi a raccontare del colpo in Spagna o di come ha ammazzato Gufetto a viso scoperto e davanti a tutti. Be', qualcosa s'inventerà. Lui è er Cattivo e lei, in fondo, solo una ragazzina. Una ragazzina che, se volesse, potrebbe farlo uggiolare come un cagnolino e girare come una trottola.

Immerso in questi pensieri assolutamente nuovi per lui, er Cattivo arriva davanti al comprensorio, fa per scendere dalla Micra e avvicinarsi al posto di guardia e resta basito.

Dentro, subito dopo la sbarra, c'è una volante della polizia.

Pietro non sta a chiedersi se è una coincidenza, se le guardie sono lì per un controllo, magari per un tentativo di furto sventato dalla vigilanza o per chissà quale altro motivo di ordinaria amministrazione. L'istinto gli dice allarme rosso e l'istinto lo ha salvato cento volte, quindi ripara in macchina, fa marcia indietro e si allontana senza sgommare per non farsi notare, col cervello che va a mille.

Se hanno beccato er Cravatta è la fine. Vuol dire che, come niente, stanno cioccando tutti: Brillantino, er Toro, er Pazzo, er Marocchino... Tutti.

Se er Cravatta è in galera, significa solo una cosa: l'inchiesta non si limita a Ostia ma ha sgominato la banda al completo. Probabilmente lui è uno dei pochissimi che l'hanno sfangata grazie alla soffiata di Antonio Assisi.

Una catastrofe. Ma come tutte le catastrofi potrebbe avere un lato positivo. Se tutti gli altri sono a buiosa, er Cattivo è rimasto solo. E potrebbe approfittarne per consolidare il suo potere, scalare i posti vacanti, arrivare al vertice assoluto.

Er Cattivo. Il Re di Roma.

Soldi ne ha a palate, una banda si ricostruisce alla svelta, nell'attesa che Scrocchiazeppi, er Fanfara e gli altri fedelissimi riescano a uscire dal carcere, l'ambizione e la spregiudicatezza non gli mancano ma...

Per prima cosa deve pensare al tesoro e trovare un posto sicuro dove nasconderlo. Dato che er Cravatta potrebbe essere al gabbio, tutti quelli in qualche modo legati a lui e alla Banda sono automaticamente esclusi.

Er Cattivo guida la Micra nel traffico infernale diretto al raccordo, in direzione opposta, e fruga nella memoria alla ricerca di una faccia e di un nome. Poi, come spesso avviene in questi casi, s'illumina all'improvviso visto che la soluzione era davanti ai suoi occhi fin dall'inizio, semplice e sicura, e lui non l'aveva riconosciuta.

Topo Gigio.

Sul raccordo fa una sosta per lasciare, galantemente, il serbatoio pieno a Marisa, decide di prendersi un bel caffè, si ferma un attimo davanti all'espositore dei giornali, legge il titolo a quattro colonne taglio centrale del «Messaggero» e a momenti gli prende un infarto.

«A momenti mi prende un infarto. Merda. Merda. Merda».

Gli attori dicono così per scaramanzia prima di andare in scena. Antonello Messina non è un attore. È semplicemente fuori di sé.

«Io vorrei sapere com'è possibile... Come cazzo è possibile una cosa del genere», sbraita stringendo la cornetta così forte che rischia di stritolarla.

Nicola Cavallini decide che ha sentito abbastanza e che il tono del capitano non gli piace neanche un po'.

«Non ho capito perché lo dici a me...».

«E a chi cavolo dovrei dirlo, porcatroia?»

«Se stai insinuando che la notizia è uscita dal mio ufficio...».

«Io non insinuo niente e non me la prendo con te... Ma è un dato di fatto che il commissariato di zona ha soffiato un sacco di roba coperta alla stampa, negli ultimi tempi. O no?».

Cavallini fa uno sforzo immane per trattenersi. Calma, calma, calma. Respira a fondo... Ooommm... Quando sente che può replicare senza mettersi a ruggire come un leone abbassa il tono e cerca di riportare la conversazione su un piano ragionevole, altrimenti qui va a finire malissimo.

«Senti, Antonello, parliamoci chiaro, ci sono rimasto di merda anch'io. Ma il commissariato, stavolta, non c'entra. Le esclusive, finora, sono uscite tutte sul «Quotidiano di Ostia»... Sospetto che quella giornalista, Francesca Alati, abbia un rapporto privilegiato col dirigente e l'ho già strigliata ma...».

«Vuoi dire che se la scopa...».

«Non l'ho detto, non lo so e non mi interessa. Affari loro. Ma se mi lasci parlare un momento ti spiego che il dottor Assisi non c'entra. La Alati ha preso un buco esattamente come gli altri cronisti che mi stanno rompendo le palle da stamattina e minacciano di non venire alla conferenza stampa. L'esclusiva è del "Messaggero", l'hai visto no? Devo scoprire chi è 'sto Carlo Romano».

«E quando lo scopri lo denunci per favoreggiamento e rivelazione di segreto istruttorio, spero, sennò ci penso io».

«Tranquillo, ci penso io... Ma sei sicuro piuttosto che la soffiata non venga dai tuoi?».

Antonello Messina si mette, idealmente, la maglietta con la scritta CARABINIERI.

«I miei non parlano», trancia.

«Certo, usi obbedir tacendo...».

«Sfotti quanto ti pare ma è così. I miei non parlano».

«Neanche i miei, se è per questo».

«Ma se hai appena detto che...».

«Semplici sospetti. E poi finora era robetta, notiziole, stronzatelle...».

«Questa invece è roba enorme... Sono sicuro che Salis Pietro ci è scappato per quello: ha letto il giornale e via di corsa».

«Scusa, a che ora siete andati a prenderlo?»

«Alle quattro del mattino, lo sai benissimo».

«Allora vedi che il giornale non c'entra? A quell'ora non era ancora in edicola».

«Be', può avere una talpa in redazione, non sarebbe la prima volta. Magari 'sto Carlo Romano lo ha avvisato prima di scrivere l'articolo».

Articolo è una parola che nelle redazioni non esiste. I giornalisti dicono pezzo, spalla, apertura, taglio basso, colonnino, taglio centrale, fondo, editoriale, commento, notizia. Mai articolo. Ma il capitano Antonello Messina non è un giornalista. Anzi, in questo momento li metterebbe tutti al muro senza processo. Anche il capo della mobile, del resto.

Ci sono momenti nella vita in cui ogni sbirro e carabiniere vorrebbe essere un poliziotto colombiano, di quelli tutti pistola e sganassoni che non si perdono in stupide formalità legali. Questo è uno di quei momenti, per entrambi.

Ma, dopo la sfuriata, bisogna ristabilire un minimo di buone relazioni tra polizia di Stato e Benemerita, anche perché la conferenza stampa congiunta, al palazzo di giustizia, incombe e non ci si può presentare ai giornalisti come se fosse un vertice tra i presidenti delle due Coree. Quelli fiutano tensioni e malumori come un setter fiuta un fagiano e ci manca solo qualche editoriale al vetriolo sulla scarsa collaborazione tra forze dell'ordine.

«Vabbè, Antonello, cerco di capire che è successo. Al "Messaggero" ho qualche amico, provo a chiedere a lui. Ci vediamo in procura».

«A tra poco, ciao».

La cornetta si schianta sul telefono come un martello sull'incudine. Antonello Messina si allenta la cravatta, inferocito: il ricercato numero uno, almeno sulla piazza di Ostia, gli è scivolato tra le mani per colpa di qualcuno. Un boccone impossibile da digerire, visto che pregustava da giorni la scenata di guerra che avrebbe fatto al Cattivo. Se scopre chi è il soffione...

«Muzio, sali un momento, per favore?»

«Agli ordini... Ma non sei già in Procura? C'è la conferenza stampa...».

«Ci vado tra poco. Solo due chiacchiere. Da solo».

Cinque minuti dopo, una zaffata di fumo pestilenziale annuncia che Muzio Della Pigna, il decano dei trombettieri, è entrato, ovviamente senza bussare. Non lo fa mai.