I trombettieri sono quei cronisti di nera che vivono in sala stampa, al piano terra di San Vitale. Ci passano le giornate e spesso le nottate, non scrivono, non vanno sui posti, non frequentano le redazioni. Più sbirri che poliziotti, spesso con la pistola nella fondina, vestiti come funzionari di polizia, danno le notizie agli altri colleghi e sono il tramite indispensabile per qualsiasi rapporto con la questura. Sanno quando parlare e quando tacere, custodiscono segreti, soffiate e indiscrezioni come sacerdoti confessori e, nonostante i decenni passati faccia a faccia in quella specie di sordido sgabuzzino impestato di fumo, con un televisore fuori uso da secoli, si odiano cordialmente tra loro. Quando uno si muove, gli altri lo seguono a ruota per evitare che s'infili in una stanza e rimedi qualche esclusiva, quindi Muzio, per salire da Cavallini, ha dovuto dire che andava al cesso. E sa benissimo che, se non torna nello spazio temporale di una pisciata o di una cacata media, qualcuno verrà a cercarlo nel primo posto possibile: l'ufficio del dirigente dei mobilieri, appunto.
Tutto questo per spiegare che il tempo stringe.
«Cià, Mù, grazie di essere venuto».
«Dovere... Complimenti per l'inchiesta. Spaziale». Della Pigna sbuffa una voluta di mezzotoscano al napalm proprio in faccia a Cavallini e si aggiusta il foulard che porta sempre al posto della cravatta. I suoi occhi da falco predatore, dietro gli occhiali sfumati che non toglie mai, dicono che ha capito tutto.
«Non sto tanto a girarci intorno, Muzio. Il tuo giornale ci ha messo proprio in un bel casino...».
Muzio fa una spallucciata che significa: sono innocente, Vostro Onore. E in effetti è troppo corretto e troppo legato alla polizia per fare una puttanata simile. Lo sa lui e lo sa Cavallini. Sputtanare un'indagine del genere prima che vada in porto è una vera porcata. Il diritto di cronaca è sacro ma qui, in effetti, siamo quasi al favoreggiamento. Messina non ha esagerato.
«Senti, non ti chiedo chi ha avuto la soffiata, in redazione, perché non me lo diresti», lo blandisce Nicola Cavallini.
«In effetti non te lo direi...».
«Capisco e apprezzo. Deontologia professionale, i colleghi non si tradiscono, giusto?»
«Appunto...».
«Però una cosa puoi dirmela, visto che non è un segreto. Chi è Carlo Romano? Io non lo conosco».
«Nessuno».
«Prego?»
«Carlo Romano non è nessuno. Non esiste. È la firma farlocca della cronaca. Carlo Romano, cronaca di Roma. La sigla è C.R. Se leggessi di più il giornale lo sapresti. Qualche volta ho firmato anch'io così».
«Ma... non capisco. Perché non firmare uno scoop come quello? So benissimo che voi giornalisti ve ne fregate delle denunce e so che non sei stato tu. Che senso ha nascondersi dietro un nome falso?».
Muzio sospira e si chiede fino a che punto può spingersi, visto che non è stato informato dal capocronista del pezzo in uscita e la cosa gli brucia quasi come al capo della mobile. Il trombettiere è lui, diamine, e nessuno può scavalcarlo impunemente.
Cavallini fa un gesto che significa: allora?
«Senti, una posso dirtela... La notizia non viene dalla redazione della cronaca di Roma. L'avrei saputo. Se qualcuno avesse avuto una dritta, magari dalla procura, mi avrebbero chiesto di controllarla. Ci sono interi passi del provvedimento citati testualmente, tutti i nomi degli arrestati e dei latitanti, quindi chi ha scritto aveva le carte. Se fosse stato uno dei nostri giudiziari avrebbe firmato di sicuro anche perché, nove su dieci, il documento gliel'avrebbe passato il PM. Sai come funziona in procura, no? Ma non credo sia roba di palazzo di giustizia, non questa volta e, visto che la firma è fasulla...».
Pausa eloquente. Cavallini guarda il Seiko al quarzo. Per arrivare in tempo, col traffico di Roma, dovrà mettere la sirena.
Poi guarda Muzio con un punto interrogativo negli occhi.
«La notizia è arrivata dall'esterno», concede il giornalista dopo qualche istante di pausa. «Da qualcuno che non è dei nostri. E ti dico anche che non è neppure di Roma, non in senso stretto almeno. Non posso dirti altro, ho già parlato troppo. Ciao».
Capitolo XII
Se ti chiami Luigi Matopi...
Se hai due incisivi che sembrano quelli di una nutria...
Se sei piccolo, secco, un po' stortignaccolo e con i capelli che tendono al grigio fin da quando avevi ventotto anni...
E se, soprattutto, sei nato a Nuova Ostia, terra di soprannomi feroci e di prese in giro omeriche, al punto tale che, appena hai avuto un po' di soldi, sei scappato a gambe levate per trasferirti a Mostacciano, allora...
Allora la tua sorte è segnata: Topo Gigio per sempre. Alternativa: er Sorcio. Il nomignolo ti resterebbe appiccicato anche se diventassi presidente della Confindustria, cosa che, ovviamente, non accadrà mai.
Tra le varie categorie di malavitosi romani (rapinatori, assassini, usurai, scassinatori, scippatori, sfruttatori, spacciatori, ricettatori, truffatori, barabba, spaccagambe, bru bru, zammammeri) Topo Gigio appartiene alla più sfuggente e indispensabile. Quelli che fanno girare i soldi.
Non è una semplice testa di legno, buona per firmare contratti senza neanche sapere cosa c'è scritto e neanche un investitore in grande stile come er Cravatta, che si muove a distanze siderali rispetto a lui. Topo Gigio è un onesto, affidabile, irreprensibile gestore di attività imprenditoriali che non possono essere intestate al vero proprietario, in questo caso il suo unico datore di lavoro, l'uomo che lo ha preso sotto la sua ala protettrice e gli ha affidato una parte considerevole del suo consolidato impero economico: Pietro Salis, appunto.
Er Cattivo lo ha scoperto, lo ha scelto, lo ha inventato. Topo Gigio è cosa sua. Ascolta, obbedisce, tace, non fa domande. In due parole è affidabile. Non è questione di vigliaccheria ma di buonsenso. Salis sa bene che Luigi Matopi (di cui pochissimi conoscono il vero nome visto che il nomignolo lo ha seguito anche nel comprensorio residenziale dove si è insediato in pompa magna, con tanto di villa e piscina) non gli ruberebbe neanche un centesimo, non farebbe la cresta sui conti, non proverebbe a farsi dire una sola parola in più di quelle che il suo datore di lavoro gli concede, semplicemente perché non gli conviene: ha troppo da perdere. La vita, in primo luogo, ma anche quel benessere che si è conquistato negli anni lavorando senza sosta a fianco del Cattivo. Oggi, Topo Gigio gestisce (in prima persona o attraverso una piccola rete di prestanome) due stabilimenti balneari, La Paranza (nome scelto da Salis con una certa ironia visto che è lo stesso che si dà a una batteria di rapinatori) e La Barcaccia, un locale notturno, Il Mistero, il ristorante Maristella, in una palazzina d'epoca al centro di Ostia, che prende il nome dalla defunta e idolatrata mamma di Pietro Salis, tre chioschi e un bar. Lo fa con coscienza, costanza e professionalità, presenta puntualmente i registri di cassa, accorre a ogni chiamata, esegue ogni ordine senza discutere ed è uno dei pochissimi accoliti del Cattivo che non si è mai beccato una sfuriata, uno sganassone e neanche un rabbuffo. Non ce n'è mai stato bisogno.
Così, quando si vede arrivare improvvisamente Salis al cancello, su una Micra scalcinata rimediata chissà dove e con l'aria di chi ha il demonio alle calcagna, Topo Gigio si precipita ad accoglierlo, lo saluta con la deferenza di sempre e aspetta istruzioni senza pronunciare neanche una domanda.
«A Topogì, come butta?»
«Nun me lamento, Cattivo... Vuoi un caffè?»
«Dopo. C'ho 'na cosa da sistemà de prescia».
«Quello che voi, Cattivo. Sto qua».
Salis fa un gesto d'apprezzamento, apre il cofano di quel cesso di macchina e ne tira fuori due borse sportive che sembrano pesare come un lottatore di sumo dopo cena.
Topo Gigio non muove un dito e aspetta che sia er Cattivo a ordinargli di aiutarlo. Effettivamente, le borse sembrano piene di blocchi di marmo.
«Tocca falle sparì, Topo Gigio. E subito».
«Per quanto tempo?»
«Nun lo so... Fa' conto che possono esse parecchi mesi».
«Nun c'è problema».
Topo Gigio ha eliminato la curiosità dalla sua gamma di emozioni e non si domanda cosa c'è dentro: armi, droga, un cadavere fatto a pezzi, una quantità d'esplosivo che potrebbe fargli saltare in aria la villa, un extraterrestre catturato da Salis... Semplicemente prende in considerazione le varie opzioni. La villa è grande, disseminata di sgabuzzini e ripostigli, ma non va bene. A un'eventuale perquisizione, gli sbirri potrebbero trovarle e lui finirebbe in un oceano di letame visto che non farebbe mai il nome di Salis nemmeno sotto tortura. Potrebbe spostare le borse e il loro misterioso contenuto a casa di uno dei tanti dipendenti che lavorano per lui ma preferisce averle sempre sotto gli occhi fino al giorno, più o meno lontano, in cui er Cattivo verrà a riprendersele. Quindi riflette qualche istante in silenzio prima di schioccare le dita. Trovato.
Luigi Matopi non ha mai letto L'isola del tesoro o Il conte di Montecristo, ma la soluzione che gli viene in mente è vecchia di secoli e maledettamente buona.
«Le seppelliamo qua. Sotto la cuccia de Carogna».
Carogna, il grosso pitbull di Topo Gigio che vive perennemente alla catena ed è sempre pronto a sbranare qualsiasi intruso, osserva la scena a distanza coi suoi occhietti da caimano senza sapere di stare per diventare un personaggio di tutto rispetto nella trama di questa storia.
Topo Gigio va dal cane, gli gratta il testone, gli fa le coccole ricevendo, in cambio, un paio di leccate da mucca sulla faccia, lo sposta verso un lampione da giardino dove assicura saldamente la catena, solleva la cuccia coibentata in vetroresina con intercapedine interna e tappetino termico e scopre un pezzo di terreno spelacchiato che sembra abbastanza morbido da poterlo scavare senza bisogno di una piccola ruspa. Poi entra nel ripostiglio degli attrezzi e torna poco dopo con una zappa, un badile e un paio di sacchi di plastica neri da cassonetto condominiale.
Salis si limita a un cenno d'assenso. L'idea è buona o, comunque, la migliore che si poteva escogitare visto che il tempo stringe. Topo Gigio è incensurato, collegarlo a lui è difficilissimo e comunque, se mai venisse scoperto, i carabinieri sicuramente si limiterebbero a fare le bucce ai libri mastri. A nessuno verrebbe mai in mente di cercare una buca nascosta nel giardino. Quindi, sotto con pala e zappa.
Tre quarti d'ora dopo, esausto e zuppo di sudore, Topo Gigio si appoggia al manico del badile e contempla la fossa squadrata, passabilmente regolare e profonda almeno un metro e mezzo, che ha scavato mentre er Cattivo lo guardava fumandosi una sigaretta dietro l'altra senza che neanche gli passasse per la mente di dargli una mano.
Le borse, imbustate nei sacchi di plastica e ben chiuse, finiscono sottoterra, Topo Gigio si sputa sulle mani ormai coperte di vesciche, s'asciuga la fronte e si dedica al faticosissimo lavoro di ricoprire tutto di terra, pareggia meticolosamente il montarozzo battendolo col badile, completa l'opera saltandoci sopra in una specie di danza di guerra, riporta al suo posto la cuccia, la sistema ben bene e, finalmente, riconduce Carogna al suo posto assicurando la catena lunga quattro metri al suo anello fissato a una base di cemento. Il pitbull si rimpossessa della cuccia con quella che sembra un'espressione di soddisfazione beneaugurante sul grosso muso crudele.
Fatto. Nessuno ha assistito alla scena perché Topo Gigio vive solo come un eremita. Niente donne, pochissime amicizie, niente visite a parte la colf filippina che si presenta quattro volte alla settimana, nel pomeriggio, e sembra muta peggio di Scrocchiazeppi, con quella perenne espressione indecifrabile sul faccione a luna piena.
Topo Gigio è un asceta del denaro. Non ha bisogno di compagnia, di relazioni o di sesso. Vive per il suo lavoro e per il Cattivo. Se poi ha qualche vizio segreto, tipo farsi legare, frustare o vestire da scolaretta, di sicuro lo sfoga lontano dalla villa.
«Ti serve altro, Pietro?»
«No. Bravo, Topogì, a scavà sei quarcuno...».
«Ogni tanto mi diverto in giardino... Ci sono abituato», si schermisce Topo Gigio, anche se la camicia madida, le mani sanguinanti e l'aria esausta lo smentiscono. «Ti posso offrire qualche cosa? Un caffè? Magari un Aperol?»
«Grazie, come avessi accettato, vado de corsa».
Salis stritola impietosamente la destra martoriata di Topo Gigio, risale sulla Micra e se ne va convinto di aver messo, finalmente, il suo tesoro al sicuro. In quella buca potrebbe restarci per anni. E non può immaginare che sarà proprio così.
«Sei sicuro?»
«Al duecento percento».
«Potrebbe essere una coincidenza».
«Le coincidenze non esistono».
Questa dove l'hai sentita? A un corso di buddismo?
Nicola Cavallini fa un sorriso al limone. A volte il sarcasmo di Alessio Dominici lo sconcerta ma, visto che è il questore di Roma, ricaccia in gola la risposta tagliente, sospira e accenna alla pagina di cronaca di Roma del «Messaggero» che gli ha appena squadernato sulla scrivania. Il tempo del "lei" e del "signor questore" è passato da un pezzo: due investigatori di razza finiscono sempre per riconoscersi, apprezzarsi a vicenda e saltare le formalità, dimenticare le gerarchie, trattarsi da pari a pari... Fino a un certo punto. Quindi niente battutaccia sul corso di buddismo e su dove Dominici potrebbe infilarselo.
«È lam-pan-te», scandisce spazientito. «La zoccola becca la soffiata ma la storia è troppo grossa per pubblicarla su quel foglio da incartarci il pesce di Ostia... E tra l'altro sa che, firmandola, rischia una bella denuncia e un sacco di grane. Quindi che fa?».
Dominici fa un gesto con le mani aperte che ripete la domanda: che fa?
«La passa a un giornale più importante. Un giornale vero. Forse la scrive lei, forse la dà a uno dei giornalisti della redazione... Fatto sta che il pezzo esce con la firma fasulla della cronaca di Roma, Carlo Romano».
«Tutte supposizioni...», lo interrompe il questore con poca convinzione. «La soffiata potrebbe essere arrivata dalla procura, da quelli vestiti uguali o da chissà chi...».
«Lo direi anch'io se non ci fosse il seguito». Cavallini indica l'apertura della pagina di nera come se fosse la spiegazione del teorema di Pitagora. «Pochi giorni fa, la nostra balda Francesca Alati molla il quotidiano di Ostia e inizia a collaborare col "Messaggero"... E non soltanto per le storie di Ostia. Alla conferenza stampa sull'arresto dei rapinatori delle poste è venuta lei, assieme a Muzio Della Pigna, tronfia e impennacchiata come un tacchino... Dovresti vedere le arie che si dava, neanche fosse diventata Oriana Fallaci».
«Buona quella... lasciamo perdere».
«Insomma, due più due fa quattro... È stata lei che ha fatto uscire l'ordinanza e, probabilmente, ha favorito la fuga di Salis Pietro».
«Ok, ammetto che probabilmente hai ragione... Ma questo non significa, automaticamente, che la fonte sia Antonio Assisi», tergiversa Dominici che evidentemente, oggi, si è calato nel ruolo di avvocato del diavolo, forse perché un'accusa del genere, per uno dei suoi funzionari, è gravissima e finisce per coinvolgere l'intera questura.
«Alessio, scusami, ma chi altro potrebbe averle dato la dritta?», insiste Cavallini. «Mi sono preso la briga di far controllare dall'ufficio stampa tutti gli articoli che la tizia aveva scritto ultimamente, prima di passare al "Messaggero": piccole esclusive, scoop dei poveri che non potevano venire che da Antonio Assisi. Niente di veramente grave, qualche arresto, qualche operazioncina, un paio di risse e ferimenti "no stampa"... Poi c'è stata la faccenda dei cassettari di Marbella e, adesso, 'sta roba qui. Antonio Assisi è una mina vagante. Se continua così ci ritroveremo le prossime indagini sulla Banda sputtanate in anteprima... E ricordati che il "Messaggero" non è il "Quotidiano di Ostia"».
Già. Il «Messaggero» lo leggono almeno trecentocinquantamila persone e tra queste il capo della Polizia e il ministro dell'Interno che, sicuramente, ce l'hanno in rassegna stampa, ergo...
Un sacco di rogne.
Alessio Dominici stringe le labbra sotto i baffi sottili e passa in rassegna una sfilza di pensieri nefasti.
Qualcosa bisogna farla per forza.
Il problema è cosa.
«...Ma come puoi essere sicuro che l'informatore sia lui? Al commissariato di Ostia ci sono centocinquanta persone... La fonte potrebbe essere un poliziotto, un ispettore, un sovrintendente...».
«Che hanno in mano l'ordinanza completa? E che rischierebbero un provvedimento disciplinare per fare un favore a una zoccola di cronista senz'arte né parte? Andiamo, Alessio... Guarda che dispiace anche a me, in fondo il Roscio mi è sempre stato simpatico e non è uno che si tira indietro davanti al lavoro, ma è chiaro che il soffione non può essere che lui. Quei due stanno insieme da mesi, lo sa tutta Ostia. Si fanno vedere mano nella mano a uno stabilimento, tra l'altro gestito da Salis Pietro per interposta persona, come due fidanzatini... E poi...».
«E poi?».
Cavallini sospira. Adesso viene la parte più brutta.
«Ho parlato con il capitano Messina... Un buon diavolaccio per essere un carubba. Mi ha fatto capire che da un bel pezzo sospettano che Assisi sia legato a Pietro Salis, guarda caso l'unico pezzo grosso che è sfuggito alla cattura. Ovviamente pensa che sia stato Assisi a fargli la soffiata».
«Ci credi?»
«Sì, e mi dispiace... Pare anche che il Roscio frequenti spesso una sala giochi del Salis e punti parecchi soldi alle macchinette... Se ha il vizietto dell'azzardo è a rischio corruzione di sicuro. Parliamoci chiaro, Alessio, quello va tolto di mezzo prima che i carabinieri si mettano a giocare pesante e lo arrestino. Ho il sospetto che Messina abbia inviato un'informativa riservata al comando provinciale, tanto per pararsi il culo».
«Sì, possibile. Lo fanno sempre».
Alessio Dominici fa una breve pausa di riflessione, sconfitto.
«Per aprire un'inchiesta disciplinare non è abbastanza... Potrebbero essere tutte coincid... Va bene, va bene, signor Dalai Lama, le coincidenze non esistono ma, insomma, per mettere Assisi sotto accusa, almeno formalmente, non è abbastanza, lo sai tu e lo so io... E la storia farebbe scalpore, anche perché è fin troppo facile immaginare che la Alati la pubblicherebbe per filo e per segno sul "Messaggero". Non è quel genere di pubblicità di cui abbiamo bisogno in questo momento».
«Sono perfettamente d'accordo. Ma non possiamo tollerare una talpa che passa le dritte alla stampa e ai barabba in una zona delicata come Ostia, o no?»
«Cosa mi stai chiedendo di fare?».
Nicola Cavallini immagina di avere di fronte la bacinella di Ponzio Pilato e, per la prima volta da quando andava al catechismo, prova un empito di solidarietà per il prefetto della Giudea che, in fondo, era una specie di collega. A volte è stupendo non essere quello che deve prendere le decisioni.
«Non ti sto chiedendo niente. Il questore sei tu».
«Già. Il questore sono io... Grazie Nicola, messaggio ricevuto, forte e chiaro».
Il capo della mobile si alza e stringe la mano al suo superiore con una certa freddezza nonostante la confidenza, la stima e tutto il resto. Poi lo lascia alla solitudine del potere.
Alessio Dominici aspetta che la porta si chiuda, si gratta la chierica che continua ad allargarsi in modo preoccupante, mese dopo mese, sospira e comincia a scrivere un ordine di servizio. Uno di quelli che non vorrebbe mai firmare, se dipendesse da lui.
Pietro Salis galleggia in un oceano di beatitudine. Sente il sonno che lo abbandona lentamente, come una marea pigra che rifluisce dalla spiaggia e fa per rifugiarcisi dentro di nuovo, tenta di tornare in quella coltre calda, accogliente, sicura, dove niente può raggiungerlo e nessuno minacciarlo: carabinieri, poliziotti, magistrati, soffioni, perquisizioni, irruzioni, manette, traditori da punire, rivali da evitare, paura, sangue, dolore... Niente.
Solo piacere. Tenerezza. Gioia.
Allunga pigramente una mano, sfiora la pelle tiepida di Marisa e sente il suo corpo addormentato, minuto e cedevole, che d'istinto si avvicina al suo, di schiena, aderisce alla sua grossa pancia, alle sue cosce poderose, al suo torace ampio e disseminato di peli grigiastri come un gattino in cerca di protezione.
Pietro le passa un braccio attorno alle spalle, così esili che sembrano quelle di una bambina, e le accarezza lievemente un braccio sottile godendo il contatto con quella pelle di seta che odora di pulito, di shampoo al cocco, di un ormai evaporato sentore di profumo.
Marisa si muove piano e fa un verso sommesso, che ricorda le fusa di un micio appagato, poi si agita piano, rifiutando di svegliarsi. Pietro trattiene il respiro, ritira lentamente il braccio, si gira di schiena e resta per un po' a fissare il soffitto che riesce solo a intravedere, illuminato a stento dalle lame di luce che entrano dalla serranda semiabbassata e tagliano l'oscurità in lunghe strisce parallele.
Ha voglia di un caffè, di una sigaretta, di fare colazione ma non si muove. Svegliare Marisa che dorme come un cucciolo accanto a lui gli sembra inconcepibile, irreparabile, impossibile, un crimine contro l'umanità. I rumori dell'albergo arrivano attutiti nella sua stanza, pomposamente chiamata junior suite: i carrelli sferraglianti delle donne che fanno le pulizie, il muggito di un aspirapolvere, il tintinnio di posate e il chiacchiericcio che sale dal basso, dalla sala da pranzo dove una comitiva di sudamericani mattinieri sta godendosi il breakfast prima di intrupparsi nel pullman destinato a ingolfarsi nel traffico di Roma per un approssimativo tour della capitale. Quattro giorni e poi via verso Firenze e Venezia.
Salis pensa distrattamente che quell'hotel a tre stelle è stata proprio una genialata e considera l'idea di comprarsene uno anche lui, visto che i soldi devono girare parecchio. Le stanze sono sempre piene, le prenotazioni, soprattutto collettive, arrivano con mesi d'anticipo, il ristorante va a gonfie vele e lo chef marocchino è talmente bravo che, spesso, parecchi impiegati che lavorano in zona si fermano a pranzo e a volte vengono anche a cena.
Marisa ci sa fare. È una vera donna d'affari. E...
Pietro Salis le depone un bacio leggero come una farfalla sulla spalla nuda e si sente struggere come un adolescente alla prima cotta.
Bella, dolce, intelligente, appassionata, divertente, imprevedibile, spiazzante...
Er Cattivo non si sente più tanto cattivo quando ripensa alla sera prima, meravigliandosi che sia successo proprio a lui.
Il ristorante di via delle Coppelle, Quinzi e Gabrieli, pochi tavoli, sale affrescate, conversazioni in sordina, un'attempata e inamidata coppia di americani che si godeva la cena accanto a loro, il cameriere bello come un attore e servizievole come un lacchè, che versava l'acqua e lo champagne dal secchiello, suggeriva i piatti col tono sussurrante di un confessore, sorrideva a sproposito. Pietro un po' sbalestrato da quella lista di piatti assurdi (che cazzo è il "cevice"? E che c'entra l'avocado col polpo? E il sashimi che merdata è?). Lei perfettamente a suo agio, come se ci fosse nata e cresciuta, in posti così, spigliata, disinvolta mentre Pietro si è trattenuto a stento dall'ordinare 'na cofana de spaghi co' le vongole e 'na bella frittura gamberi e calamari, s'è mangiato quelle porzioni da penitente dai sapori indistinti e poco appetitosi, ha brindato, ha sorriso, ha ascoltato e ha perfino cercato di evitare di dire "porcocazzo" e "vaffanculo" troppe volte.
Marisa l'ha stupito, l'ha incantato, l'ha travolto.
Non è mai sembrata in soggezione, non s'è fatta minimamente impressionare dalla sua fama di boss o dai suoi racconti trucibaldi, non ha badato al suo modo ignobile di stare a tavola neanche quando ha pucciato un grissino nel bicchiere di champagne e zuppettato nella salsa all'avocado, non l'ha guardato con gli occhi adoranti, imploranti, lussuriosi, promettenti, ammiccanti o spaventati come le donne del suo giro, anzi... Ha accettato gli orecchini con smeraldi e diamanti costati quasi due pippi con garbo ma senza sdilinquirsi, come se fossero un omaggio dovuto, ha ringraziato, ha sorriso come una regina compiaciuta, li ha messi in borsa e, all'apparenza, se ne è dimenticata tanto che, all'inizio, Pietro ha perfino rosicato. Un urletto di sorpresa e un bacio non ci sarebbero stati male. La Signora, come minimo, si sarebbe buttata in ginocchio e gli avrebbe fatto un servizietto di gratitudine sotto il tavolo ma er Cattivo ha capito subito che con Marisa è un'altra faccenda. Per tutta la serata l'ha preso gentilmente in giro, in un delizioso gioco di sfottò e seduzione, gli ha riservato sorrisi ironici e sguardi dubbiosi, ha parlato di film, libri e altri argomenti di cui Pietro ha finto eroicamente di capire qualcosa e ha trovato, finalmente, un campo di gioco comune solo quando si è dichiarata un'appassionata tifosa giallorossa. La passione per la Roma li ha fatti sentire uniti, complici, schierati come se non coinvolgesse parecchie decine di migliaia di cuori col marchio della Lupa.
Sono tornati in albergo con la Micra e Pietro non ha protestato quando si è seduta al volante, anche se considera contro natura che un uomo faccia guidare una donna. Marisa l'ha accompagnato sulla porta della stanza e quando Pietro ha provato a baciarla (più per principio che per altro, visto che pensava di non avere speranze, ma un vero maschio ce deve da provà per forza) lo ha sbalordito una volta di più.
Ha risposto al bacio con una passione e un entusiasmo che gli hanno fatto tremare le gambe.
Quello che è successo dopo è stata una cosa che non si può descrivere. Una cosa molto vicina a quel Paradiso di cui gli parlavano a scuola. Una cosa completamente diversa da tutte le scopate, i bocchini, i tremoni, le batterie, le inculate, le trombate, le fregate, le inchiappettate, i soffocotti, le insifonate che Pietro Salis ha collezionato in almeno trent'anni di onorato servizio senza mai perdere un colpo, eccheccazzo.
È stato estasi pura. Se er Cattivo conoscesse la parola la chiamerebbe così.
Una donna e una ragazzina. Un'amante vorace e instancabile e una gattina timida. Una puttana e un'educanda.
Marisa è tutto e il contrario di tutto. Marisa urla, sussurra, geme, tuba, farfuglia, gorgheggia, sospira. Si dà con tutta se stessa nel momento stesso in cui si ritrae. Non conosce pudore anche se, per prima cosa, ha spento la luce e si è voltata di schiena per spogliarsi mentre Pietro, per una volta in vita sua, si toglieva i pedalini prima di fare l'amore.
Marisa gli ha cambiato l'anima nel giro di una notte. Ed er Cattivo ha capito subito, fin dal primo bacio, che la sua vita stava prendendo una svolta imprevedibile, pericolosa, irreversibile. Una cosa che mai avrebbe immaginato in vita sua.
Pietro si china sulla nuca scoperta di Marisa, le accarezza lievemente i capelli nerissimi e lucenti, la bacia ancora con delicatezza da zio dietro l'orecchio minuscolo che sembra cesellato nell'oro e le sussurra le due parole che mai ha pronunciato e mai avrebbe creduto di poter pronunciare.
«Ti amo».
«Veroli Rosa?»
«No, sono Dalila Di Lazzaro... Me conosce bene, marescia'».
«Non faccia la spiritosa, signora, ho un mandato di perquisizione...».
«E che dovete perquisì?»
«La sua abitazione... E le pertinenze».
«Perché?»
«Legga il provvedimento... E ci faccia entrare, per favore, altrimenti lo facciamo di forza. Se crede può chiamare il suo avvocato».
«Nun c'ho bisogno dell'avvocato. Nun c'ho gnente da nisconne, io...».
«Niente forse, nessuno è da vedere... Salis Pietro, per esempio».
La Signora alza gli occhi al cielo e si scosta dalla porta prima che un incarognito Renato Pettisi la sposti a spallate, dà un'occhiata distratta al documento giudiziario, accende una sigaretta e assume la sua migliore espressione "che cazzo volete?". Ma sa bene che il carubba potrebbe trovare qualsiasi pretesto per sbatterla dentro sui due piedi, magari con un po' di cocaina "trovata" per caso da qualche parte: si morde la lingua e cerca di darsi una calmata. Del resto prima o poi se lo aspettava.
Il maresciallo occupa militarmente l'appartamento assieme a un annoiatissimo brigadiere e a un novellino che ha ancora la stupidità di prendere sul serio un incarico come quello: pura routine. Le possibilità che er Cattivo sia rifugiato a casa della sua amante ufficiale sono più o meno le stesse che Pettisi venga incoronato Miss Italia, ma la prassi è prassi, le procedure vanno rispettate, niente può essere lasciato intentato eccetera eccetera.
Quindi, sotto con la perquisizione, cercando di fare più casino possibile, di buttare doverosamente tutto all'aria e di mostrarsi più minacciosi e aggressivi che mai, anche se è chiaro come il sole che con questa non funziona. Donna di mala, scafata e dura come una pietra. Vecchia scuola.
«Me faccio 'n caffè dato che ormai m'avete svejata... 'O vole pure lei, marescia'? O magara i colleghi sua?». Infatti.
«Non sono qui per quattro chiacchiere tra amici e si risparmi l'ironia. Le ricordo che ospitare un latitante è un grave reato... E che lei non è la moglie di Salis Pietro né una parente diretta, quindi può essere incriminata per favoreggiamento».
«Ma che va a pensà maresciallo? So' du' mesi minimo che nu' lo vedo, manco lo sapevo che lo stavate a cioccà... Ecco perché era scomparso». La Signora sbuffa una boccata di fumo dall'angolo della bocca, molto malavitosa, e contempla i tre militari, che rovistano, frugano, cercano e fanno un casino da guerra, come fossero bambini deficienti.
«Signor maresciallo, ho trovato questi...». Il novellino emerge entusiasta dalla camera da letto con una bracciata di vestiti da uomo taglia 52.
Pettisi lo fulmina con uno sguardo e si domanda se, per caso, nei requisiti di arruolamento abbiano abbassato il livello minimo del quoziente d'intelligenza. Questo ha il cervello di un babbuino... E poi si lamentano delle barzellette sui carabinieri.
Comunque ormai il danno è fatto, la figuraccia pure e visto che tocca a lui fare la domanda...
«Di chi sono questi vestiti?»
«E de chi vole che siano, marescia'?»
«Sono del ricercato Salis Pietro?»
«Be', so' li sua, sì... È l'omo mio. Che c'è de male se lascia quarche panno pe' quanno se ferma? È come si fossimo un po' sposati, io e Pietro. Nun pensi male, guardi che io so' una donna per bene...».
Nuvoletta del pensiero sulla testa del maresciallo. Ma, in divisa e in servizio, certe cose non si dicono neanche a un mignottone come quello, che ha aperto la porta in vestaglia di seta e zoccoli rossi con tacco di dieci centimetri, quindi silenzio e cipiglio.
«Lei è legata sentimentalmente al latitante Salis Pietro, quindi...».
«Sì, marescia', stamo insieme da cinque anni».
«E da quanto non lo vede?»
«Ma je l'ho appena detto: du' mesate armeno... Nun è più venuto, nun l'ho più sentito e stavo addirittura a sospettà che se fosse messo co' quarcun'artra. In un certo senso m'avete dato una bona notizia, ve devo da ringrazià».
«L'ho già ammonita di non fare battute fuori luogo. Resteremo qui tutto il tempo che ci vuole e cerchi di rispondere a tono».
«Fate come a casa vostra. Si c'ha altre domande da famme sto a disposizione».
«Ha avuto contatti recenti con il Salis?»
«No, je lo giuro sulla Vergine».
«Telefonate? Visite improvvise? Notizie per interposta persona?»
«No, marescia', manco quello, me deve da crede... Io del resto nun frequento er giro suo, nun c'ho contatti co' arte persone, solo Pietro».
«E lei non ha idea di dove potrebbe essersi nascosto?».
La Signora, stavolta, non si prende neanche la briga di rispondere. L'occhiata in tralice dice tutto.
Pettisi il suo dovere l'ha fatto e non vede l'ora di andarsene perché farsi prendere il giro da una stronza come quella rischia di aggravargli la gastrite. Un'ora dopo fa firmare il verbale a Veroli Rosa, classe 1942, nubile, casalinga, pregiudicata e se ne va ingrugnatissimo con un pacco di vestiti sequestrati di fresco e la rabbia che gli monta dentro all'ultima, sardonica battuta della Signora.
«Me riccomanno, nun li gualcite che Pietro mio è un figurino e ce tiene, ai vestiti... Solo la giacca de seta azzura costa come un motorino».
Ci sono momenti in cui il maresciallo Renato Pettisi rimpiange amaramente di non aver mai tentato di fare il corso per ufficiale. Questo è uno di quei momenti. Se non altro, se fosse andata bene, a quest'ora se ne starebbe in caserma a indagare sul serio come il capitano Messina invece di girare a vuoto. Ma coi testi di studio non ci ha mai saputo fare: maresciallo a vita.
La Signora sbatte la porta, contempla il disastro, decide che rimetterà tutto a posto domattina e che è venuto il momento di fare una visitina all'albergo di Marisa. Sa benissimo che difficilmente qualcuno cercherà di pedinarla, tutt'al più le metteranno il telefono sotto controllo, ma di quello se ne frega altamente visto che non è così idiota da compromettersi via filo.
Sì, andrà da Pietro e gli dirà che i carubba sono venuti a cercarlo... Questa è la ragione ufficiale. Quella vera è che ha una voglia matta di rivederlo e, giacché c'è, di scucirgli qualche soldo.
Oggetto: Trasferimento.
Al vicequestore agg. Antonio Assisi
E P.C. al Sig. Dirigente la Divisione del Personale.
Per esigenze di servizio si dispone, con effetto immediato, il trasferimento della S.V. dal commissariato circoscrizionale Lido di Ostia alla Divisione del Personale-ufficio tecnico logistico.
Il Sig. Dirigente del Personale, che legge per conoscenza, è pregato di dare immediata notizia ad avvenuto avvicendamento.
Il questore
(Dominici)
Antonio Assisi finisce di leggere la lettera, la guarda come se fosse una condanna alla pena capitale, la rilegge, rosso come un tacchino per la rabbia, l'umiliazione e lo sconcerto, poi la appallottola e si lascia andare con un mezzo singhiozzo contro lo schienale della sedia.
Trasferito.
All'ufficio personale.
Un impiegato destinato alle scartoffie per tutto il resto della sua carriera.
Trombato.
Senza neanche una telefonata, una convocazione in questura, una spiegazione, almeno per salvare la faccia. Quelle stronzate tipo: c'è bisogno di un funzionario come te per riorganizzare l'ufficio, è solo per un periodo, bla bla bla. Nessuno, ovviamente, ci crede ma se non altro sono un lenitivo per l'amor proprio ferito.
Niente.
Buttato fuori a calci dal commissariato più popoloso e dalla competenza territoriale più estesa di Roma, una miniquestura sempre sotto i riflettori e che, spesso, è il trampolino di lancio verso i vertici della polizia.
Per lui, Antonio Assisi, è stata una botola, altro che un trampolino. La sua carriera di sbirro arrembante finisce qui. Il tono burocratico della lettera di servizio è una sentenza definitiva e inappellabile. Il classico siluro che ti arriva addosso all'improvviso e che non lascia scampo. Assisi sa benissimo come è finito nella palude e le avvisaglie non erano mancate, soprattutto quando l'incarico di arrestare Salis era stato dato ai carabinieri e non a lui ma, per arroganza o stupidità, era convinto di poter restare a galla. Un'accusa formale di collusione, in un certo senso, potrebbe essere meglio di questo: dalle incriminazioni ci si difende, ci vogliono le prove, il sindacato ti sostiene e se, con un po' di fortuna, ne esci scagionato, puoi essere riabilitato e riprendere da dove ti eri fermato. Assisi l'ha visto succedere abbastanza spesso. E poi in questi casi i meriti passati contano e lui ne ha parecchi, in fondo è sempre stato in prima linea e queste cose i giudici le capiscono. Poi magari qualche giornalista amico ti dà una mano...
Al pensiero dei giornalisti, e di una in particolare, Assisi sente una stretta allo stomaco. Sì, con Francesca ha proprio esagerato. Tra l'altro, se radio serva diffonde la voce, la notizia vola fino a Roma e arriva alle orecchie della moglie rischia di vedersela anche con gli avvocati divorzisti e gli alimenti. Una catastrofe.
Lo squillo del telefono lo riscuote da cupi pensieri che inclinano pericolosamente a un attacco di depressione.
«Dottore, è il corpo di guardia, la signorina Alati sta salendo...».
Tempismo perfetto.
Antonio Assisi tenta di ricomporsi come può prima che una cinguettante, abbronzatissima, rutilante Francesca Alati, fasciata in uno sfolgorante tubino giallo elettrico, faccia irruzione nel suo ufficio.
«Buongiorno, tesoro... Guarda un po', ti piace?». Piroetta da indossatrice con sorrisone smagliante. «L'ho comprato ieri in liquidazione, il colore è un po' forte ma, secondo me, mi dona, che ne dici? Adesso andiamo a pranzo e poi allo stabilimento e stasera vengo da te», tuba Francesca. «Ma non mi hai detto se ti piace il vestito».
«Tiddnnnseibbellssm...», mugugna.
«Che dici? Non ti capisco».
«Ho detto: ti dona, sei bellissima», chioccia Assisi, che non avrebbe notato il vestito manco se fosse stato a strisce viola e verdi fosforescenti, per quanto può importargliene in quel momento.
«Secondo me ti fa schifo, invece. Hai una faccia...».
«Che faccia dovrei avere? Sto un po' incasinato col lavoro e...».
«Non me lo dire: proprio oggi che mi sono presa la corta per stare con te, cazzo. Potevi avvertirmi, no? Guarda che non lavori solo tu, se lo vuoi sapere, anche io ho i miei impegni al giornale, ho fatto un casino per avere il giorno libero e adesso tu...». Nuvole nere all'orizzonte, incazzatura in arrivo.
Antonio Assisi vede arrivare la burrasca e non ha neanche la forza per ammainare le vele, quindi alza le mani in segno di resa.
«Antonio, ma che hai? Che ti succede?». Lo sguardo di Francesca è un punteruolo. Assisi capisce al volo che non c'è modo di indorare la pillola e, forse, è meglio così, si limita a porgerle il foglio mezzo accartocciato e la guarda mentre lo scorre velocemente con un'espressione sempre più perplessa.
«Ti mandano all'ufficio del personale? E perché?».
Il poliziotto allarga le braccia in un gesto di impotenza.
«Che significa? Spiegami. Cos'è, una specie di punizione?». Il tono della giornalista è compassionevole come quello dei discorsi del Führer.
«Che cazzo sta succedendo, Antonio?»
«Che sta succedendo? Non lo capisci da sola? Mi hanno trombato. Fottuto. Silurato. Mi sbattono a firmare stronzate fino alla pensione, ecco cos'è successo».
«E perché?».
Perché ho preso soldi da un bandito. Perché ho giocato gratis per mesi alle macchinette. Perché mi sono messo con una giornalista e le ho soffiato segreti d'ufficio a quintali. Perché frequento uno stabilimento gestito dal boss di Ostia e neanche pago la cabina. Perché sono un coglione...
Antonio Assisi fa un gesto vago con la mano che può significare tutto. Non è il momento delle spiegazioni, specie con la donna che ha un ruolo considerevole nella sua rovina.
«E non puoi fare niente?». Domanda da un milione di dollari.
«Dimettermi. O ingoiare il rospo. Andare al personale e sperare che il vento cambi... Magari col nuovo questore mi andrà meglio».
«E quando arriverà il nuovo questore?»
«Boh... Dominici è qui da un anno... altri due, tre al massimo. E non è detto che quello che verrà al posto suo mi tiri fuori da lì, bisogna vedere chi sarà».
«Ah». Il monosillabo di Francesca taglia come una scure.
«Amore mio... meno male che ci sei tu». Antonio, all'improvviso, ha un enorme bisogno di affetto e di comprensione. «Senti, sai che ti dico? Cosa fatta capo ha. Non pensiamoci più, per oggi, andiamocene a mangiare, in spiaggia e poi a ca...».
Francesca guarda l'orologio come se si fosse ricordata di un appuntamento importante.
«Senti, scusa, tutto sommato non mi va più. Non siamo dell'umore giusto né io né te e non mi va di stare ad ascoltare te che ti lagni tutto il giorno. E poi avrai un sacco da fare... A pensarci, bene è meglio che anch'io lavori oggi, c'è la Giunta comunale e al "Messaggero" faccio ancora un po' il jolly, bianca, nera, tutto. Sì, ora chiamo e dico che rinuncio alla corta... Ci sentiamo, Antonio, in bocca al lupo».
«Ma... io...».
«Ti chiamo». Francesca si sta già avviando alla porta. Antonio Assisi contempla per l'ultima volta il suo notevole lato B inguainato di giallo elettrico e capisce, con dolore straziante, che quelle due parole sono l'epitaffio della loro storia d'amore. E di buona parte della sua vita.
Capitolo XIII
La Signora guarda a destra, a sinistra, ancora a destra... via libera. Nessuna macchina sospetta con un paio di tizi dentro dall'inconfondibile aria da finti bighelloni tipica delle giuste in appostamento, nessuna faccia che marca sbirro tra i passanti, niente che possa far pensare a un pedinamento. Prima di uscire di casa, comunque, ha preso le sue precauzioni: un foulard che nasconde la chioma leonina e un paio di occhialoni scuri da star che la fanno tanto sentire Mata Hari. Per non attirare troppo l'attenzione ha anche rinunciato, di malavoglia, alle sue minigonne ascellari o alle mise strizzatissime e ha ripiegato su un paio di sobri jeans tempestati di strass e perline che è riuscita a infilarsi dopo almeno cinque minuti di apnea e a una magliettina rosa che sembra esplodere sotto la pressione statica delle bombe. Al tacco dodici, invece, non ha abdicato: la sua idea di femminilità non contempla quelle spaventose ballerine o le scarpe sportive che fanno sembrare una papera perfino Carol Alt.
Ticchettando sugli stiletti va all'edicola vicino casa, compra «Il Messaggero» come scusa per ripararsi la faccia e dare un'altra occhiata circospetta in giro, evita di prendere il Maggiolone scappottato che è la luce dei suoi occhi, va alla fermata, aspetta l'affollatissimo bus che va verso il centro e, dopo mezz'ora di sgomitate, fiatate, strusciate e occhiate bavose appiccicate al sedere, scende, trova una cabina del telefono, chiama un taxi e si fa portare alla Garbatella. Insomma, tutte le precauzioni del perfetto ricercato, elencate anche con burocratica minuzia dai manuali operativi delle Brigate Rosse. Mezzi pubblici, deviazioni, giri viziosi, controlli continui e tutto il resto...
Se sapesse che solo due mesi prima er Cattivo, che è ricercato sul serio, stava gozzovigliando in uno dei ristoranti più chic del centro, fregandosene alla grande degli accorgimenti da latitante, probabilmente, le verrebbe un travaso di bile. Ma per quello c'è ancora tempo.
Arriva davanti all'albergo, esita, si contempla davanti a una vetrina, leva il foulard, s'aggiusta la criniera alla bell'e meglio, la scuote per ottenere quell'effetto da selvaggia scatenata che manda in visibilio er Cattivo, entra e punta dritta alla reception col cuore in gola. Pietro le aveva proibito tassativamente di farsi viva prima di essere contattata ma ha la notizia della visita dei carabinieri da dargli e conta di essere perdonata. Se poi s'incavolerà comunque sa come ammansirlo, pensa dandosi una leccatina alle labbra vermiglie... In fondo il suo uomo è a secco da un paio di mesi e non ha mai saputo resistere alle sue arti amatorie. Alle 8:30 del mattino è sicura di trovarlo ancora a letto, visto che non si sveglia mai prima delle 10:30, se non ha da fare, e questo semplifica le cose. Mentre si avvicina alla reception la Signora trattiene un sorrisetto lascivo all'idea di come ha intenzione di dare il buongiorno al suo uomo.
La ragazza in tailleur blu la guarda, rischia di ingoiare la gomma da masticare e si chiede se 'sta zoccola ha sbagliato albergo: questa non è una pensione a ore. E il cliente dov'è? Poi conclude che, probabilmente, dev'essere una di quelle escort di lusso che scendono negli hotel rispettabili e aspettano un appuntamento fissato da un'agenzia. Strano, perché sembra decisamente avvizzita e passatella, non ci sono prenotazioni e l'ora è decisamente inconsueta quindi...
«Dica...».
Solo a Roma sanno pronunciare quelle quattro lettere in modo da farti sentire un questuante rompicoglioni.
La signora annaspa perché, all'improvviso, non ricorda più il nome farlocco con cui è stato registrato Pietro.
«Io... cerco un ospite... ecco, un signore che sta qui da un po'».
«Sarebbe?»
«Veramente adesso... cioè, scusi, ho un coso, un lapis. È un amico carissimo ma in questo momento non mi viene il nome, sa come succede?».
Occhiata che significa: succede solo a chi ha l'arteriosclerosi. E comunque non me la conti giusta, puttanone.
«Se non mi dice il nome come posso aiutarla?»
«Ecco... è facile. Ha cinquantadue anni, alto, grosso, porta sempre un paio di Ray-Ban sfumati, c'ha 'na bella capezza d'oro con la testa della lupa al collo e... su, è venuto un paro de mesi fa, non ce ne saranno mica tanti così in albergo».
La ragazza esita qualche istante, poi capisce che quella non ha intenzione di togliersi di torno e, in fondo, non sono affari suoi quindi capitola.
«Intende il signor Magnani?»
«Proprio lui... Magnani, sì, ma guarda che scema, mo' che me l'ha detto... e sì che se conoscemo da anni».
«È alla 302, terzo piano, aspetti che l'avviso».
«Nun c'è bisogno, m'aspettava». La Signora trotta dritta verso l'ascensore perché non vuole che quella stronzetta le rovini l'improvvisata mentre la ragazza alza le spalle, aspetta che quella donna orribile sia stata inghiottita dalle porte del lift e fa il numero della stanza.
Pietro Salis risponde al quinto squillo, con la voce cavernosa di chi ha fatto baldoria tutta la notte.
Troppo tardi.
Quando sente bussare alla porta salta giù dal letto nudo come un verme, grugnisce a Marisa di andare a nascondersi in bagno e apre uno spiraglio di porta con la mano a coppa sui genitali.
«A Rosa... che ce fai qua?».
La Signora spinge per entrare, trova resistenza e resta basita.
«Ammazza che benvenuto, amo'... Scusa ma te devo da dì 'na cosa».
«E dimmela».
«Qua?»
«No è che... scusa, nun so' stato bene stanotte, magara quarcosa che ho magnato e la stanza è un casino... aspettame giù, me vesto e scenno», farfuglia Pietro che, preso alla sprovvista, si è dimenticato di essere una carogna manesca e misogina e reagisce tremebondo e farfugliante come qualsiasi partner infedele colto sul fatto. L'amore, evidentemente, lo ha ammorbidito.
La Signora ne approfitta all'istante, spinge come un pilone di rugby e fa irruzione nella stanza 302 del premiato hotel Caravella, nell'istante preciso in cui un'affannatissima Marisa sta saltellando sulla porta del bagno nel tentativo di infilarsi le mutandine il più in fretta possibile.
La Signora la guarda, guarda Pietro, poi il letto che sembra il campo di battaglia di Waterloo, poi di nuovo Pietro con gli occhi che mandano sinistri bagliori.
Er Cattivo mette le mani avanti col risultato di scoprire la lumaca avvizzita dagli strapazzi notturni e rattrappita dall'imbarazzo.
Marisa si ripara il corpo nudo con un cuscino come se la vecchiaccia imbellettata piombata all'improvviso dovesse prenderla a pugni e non è escluso che lo faccia.
La Signora resta a bocca aperta per un po', con un curioso effetto rospo smeraldino, realizza all'istante, accantona al volo l'impulso di prendere a ceffoni il fedifrago (imbarazzato o no, quello, se gli metti la mano in faccia, ti sdruma), poi riesce a sibilare qualcosa come «anfametraditorefijodenagranmignotta», lancia un'occhiata di sfida velenosa a Marisa, piroetta sul tacco dodici e via.
Due messicani obesi si chiedono chi è 'sta trucidona che incespica sulle scale singhiozzando. Italianos locos.
Rosa esce dall'albergo in lacrime, distrutta... Sulla fedeltà del Cattivo non avrebbe mai puntato mezza piotta ma quando è troppo è troppo. In quell'albergo ce l'ha piazzato lei, ha dovuto implorare l'ex amante per trovare un rifugio sicuro a quel vecchio porco panzone ed ecco come la ricambia.
Ma non è solo quello.
L'istinto femminile non è un'invenzione letteraria.
E quell'istinto le dice una cosa atroce: Pietro se n'è andato per sempre. È innamorato. È diventato un'altra persona. Le è bastato qualche istante per capirlo.
La Signora è violenta e impulsiva esattamente come Pietro Salis, quindi reagisce d'istinto, disattiva i freni della razionalità, entra nel primo bar, chiede del telefono, compra un gettone prima di ricordarsi che i numeri d'emergenza sono gratis e chiama il 112.
Al sesto squillo ci ripensa e fa per riagganciare. L'operatore risponde in quel momento esatto. Karma.
«Carabinieri 112, dica pure».
«Cercate Pietro Salis er Cattivo?»
«Prego? Come ha detto?»
«State a cercà Pietro Salis, quello de Ostia?»
«Vuole la Compagnia di Ostia? La metto in contatto subito».
«Ma stamme a sentì e prendi appunti: Pietro SA-LIS...».
«Ho capito, Pietro Salis... chi sarebbe?»
«Un ricercato. Uno grosso... Sta all'albergo Caravella sulla Colombo, stanza 302, se fate de prescia lo beccate subito».
«Hotel Caravella, stanza 302... Lei si chiama, signora...?».
Clic.
«L'hanno trombato».
«Mmm... sicura?»
«Fottuto, silurato, cacciato a calci in culo, come te lo devo dire?»
«Su queste cose bisogna andarci cauti. E se fosse un normale avvicendamento? Succede...».
«Ma allora non mi stai a sentire! Ti dico che è stata una mazzata. Non se l'aspettava, è rimasto di merda. Io ero lì quando...».
Francesca Alati si blocca prima di tradirsi, inghiotte a vuoto, fa un reset mentale e cerca di svicolare perché il terreno sta diventando scivoloso.
«Ero andata al commissariato... Per un'intervista ad Assisi e proprio in quel momento gli è arrivato l'ordine di trasferimento dalla questura... Dovevi vedere la faccia che ha fatto. A momenti si metteva a piangere. Mi ha cacciata via urlando ma ho fatto in tempo a leggere la lettera... Ti dico che è stato il classico siluro, non escludo neanche che tra un po' lo mettano pure sotto inchiesta».
«E perché?».
Francesca si stringe nelle spalle. Il perché, ovviamente, lo sa benissimo ma si domanda fino a che punto può spingersi visto che l'amante (ormai passato a velocità supersonica nel nutrito gruppo dei suoi ex) è finito nei casini anche per colpa sua e mezza Ostia lo sa. L'appartamento gratis, il loro nido d'amore gentilmente concesso dal Cattivo potrebbe avere un peso in tutta questa storia ma, visto che in fondo non è lei che l'ha chiesto, ha deciso che può tranquillamente lavarsene le mani e, giacché c'è, rimediare un piccolo scoop. La storia della giornata libera era una frottola a uso e consumo di Assisi dato che, da semplice collaboratrice esterna del «Messaggero», non ha obbligo di presenza in redazione e, di conseguenza, neanche il diritto alla "corta", il giorno di riposo settimanale dei giornalisti assunti. Ma, da quando scrive su un giornale nazionale, Francesca se la tira come se l'avessero nominata inviato speciale o caporedattore e, esagerazione dopo esagerazione, ha finito per crederci anche lei. Scavalcando Giulio Destri si è precipitata direttamente alla redazione di via del Tritone, ma la faccenda non sta andando affatto come prevedeva, anzi...
«Ne hai parlato con Giulio?»
«Ci ho provato ma non l'ho trovato... Era fuori. Dovevo venire a Roma per vedere una persona e ho pensato di fare un salto qui...».
«Strano, Giulio mi ha chiamato mezz'ora fa dalla redazione...».
«Che ti devo dire? Comunque la notizia c'è tutta e l'abbiamo solo noi».
«Sarà... Ma questa faccenda non mi piace».
Gregorio D'Enrico lancia un'occhiata in tralice a Francesca e tamburella sulla scrivania come fa sempre quando è infastidito. In realtà quello che proprio non gli piace è proprio Francesca. Seduttiva, arrembante, invadente è il classico esempio di quei cronisti pronti a vendersi la madre per uno scoop e, all'occorrenza, di esagerare, inventare, mentire. Esattamente il contrario di un cronista come lui, con trent'anni di mestiere e centinaia di suole consumate in strada prima di essere nominato responsabile della nera nella poderosa redazione di cronaca romana del giornale. D'Enrico conosce Antonio Assisi solo di sfuggita, non gli è mai stato particolarmente simpatico e le voci della sua storia "clandestina" con Francesca Alati sono arrivate anche a lui. Ed eccola qui, la stronzetta, tutta strizzata in uno spaventoso vestito color canarino, che gli scocca sguardi da maliarda e fa le mossette sperando di intortarlo mentre tenta di vendergli la notizia del siluro questurino al suo amante. Una vera zoccola senza cuore.
«Tu capirai, Francesca, che prima di pubblicare una cosa del genere devo sentire il questore...», temporeggia.
«E perché? Che vuoi che ti dica?»
«Perché questo non è il "Quotidiano di Ostia", cara Francesca... Non possiamo sparare a zero su un funzionario di polizia sulla base di semplici voci».
«Ma quali voci? Ho letto l'ordine di trasferimento, cazzo». Francesca si rende conto troppo tardi di aver esagerato e ingrana precipitosamente la marcia indietro. «Scusa... è che se chiedi conferma al questore probabilmente ti dirà le solite stronzate sulle esigenze amministrative e gli avvicendamenti programmati. E come niente darà la notizia a tutti, addio esclusiva, lo sai come fanno, no?». Sorrisone.
...che le si gela in faccia subito dopo perché gli occhi di Gregorio D'Enrico sono diventati di ghiaccio.
«Lo so molto meglio di te, cara Francesca, perché faccio questo lavoro da quando tu non eri nata. Credo di conoscere i meccanismi polizieschi abbastanza bene, se mi permetti di dire la mia».
«Ma scusa, io non vole...».
«Fammi finire. Alessio Dominici è un amico. Lo conosco da quando era capo della mobile a Roma, lo rispetto e lo stimo. Non posso fargli una vaccata del genere senza parlargli prima... E ti posso assicurare che se sarò corretto, lui lo sarà con me e non diffonderà la storia. Funziona così tra gentiluomini, nel caso non lo sapessi».
Francesca prende il pistolotto per quello che è: uno schiaffo in pieno viso, arrossisce, annaspa, si rassegna.
«Figurati, Gregorio, hai ragione, ovviamente. Che devo fare?»
«Niente... Torna a Ostia e aspetta. Ti dico io se e quanto devi scrivere».
«Va bene, grazie, aspetto la tua telefonata».
Stretta di mano cordiale come quella dei duellanti del Settecento prima di infilzarsi a vicenda. Il lato B di Francesca lascia la redazione salutato dagli sguardi bramosi dei giornalisti e sdegnati delle giornaliste: la Mignotta in giallo.
Rimasto solo Gregorio D'Enrico chiama Giulio Destri per un colloquio fuori dai denti tra vecchi tacchini.
«Come va, Oloturia?»
«Cazzo, sei ancora vivo? Ho perso cinquanta sacchi di scommessa... Ero sicuro che non arrivavi ad agosto».
«Brutta l'arteriosclerosi, ci siamo sentiti mezz'ora fa e manco te ne ricordi. Comunque mi sto a grattà le palle, menagramo».
«Così se non altro ti servono a qualcosa... E visto che mi chiami sette volte al giorno ti annuncio ufficialmente che non c'è trippa per gatti. Sono fidanzato».
«Io almeno ce le ho, le palle. Comunque non sono geloso, puoi tenertelo, il tuo fidanzato. Si chiama Mandingo, no?»
«Dovresti venire qui a Ostia... Il sole fa benissimo ai reumatismi degli anziani e dicono che l'aria di mare faccia miracoli per la disfunzione erettile».
«Allora sei l'eccezione che conferma la regola. Col cazzo che ci vengo, dalle tue parti. Troppi stronzi. E a proposito di stronzi e di stronze, ti volevo parlare di una cosa...».
Dieci minuti di conversazione seria e venti di cazzeggio maschilista più tardi i due vecchi cronisti si salutano con i soliti insulti affettuosi tra veterani e la brillante e promettente carriera di Francesca Alati al «Messaggero» finisce prima ancora di essere iniziata.
«Mettiamo i giubbotti?»
«Perché, hai freddo?».
Il novellino lancia un'occhiata sconcertata al maresciallo Pettisi, che sembra perfino più ingrugnato del solito.
«Maresciallo, scusi, mi sono espresso male... Intendevo riferirmi ai giubbotti antiproiettile in dotazione dato che trattasi di un latitante presumibilmente armato e potenzialmente pericoloso che...».
Pettisi fissa per un po' la testa del novellino che, in teoria, dovrebbe contenere qualche grammo di materia cerebrale e pensa che, se si sparasse alla tempia, il proiettile viaggerebbe nel vuoto torricelliano.
«Scherzavo, Caputo... Hai presente quando uno dice le cose buffe e tutti ridono?», grugnisce.
«Ah, sì, certo, signor maresciallo, lei stava bonariamente celiando ma ritenevo che...».
In un esercito democratico, così come nei carabinieri, la stupidità è un diritto costituzionale ma lei ne abusa...
Pettisi evita di citare la vecchia e trita battuta da caserma e si limita a un sospirone da zio spazientito.
«Ascoltami bene, Caputo, mica penserai veramente che in questo albergo ci sia il Salis, vero? È arrivata la solita telefonata anonima al 112, probabilmente di qualche concorrente che voleva creare un po' di casino nell'hotel, tanto per mettere a disagio i clienti e ci hanno spediti a controllare. Entriamo, ci facciamo consegnare il registro, verifichiamo che tutti gli ospiti abbiano presentato i documenti, diamo un'occhiata alle fotografie dato che vanno fotocopiati, salutiamo, ci scusiamo del disturbo e ce ne andiamo. Chiaro?»
«Sissignore».
«Che facciamo?»
«Controlliamo il registro, vediamo le foto, salutiamo, ci scusiamo e ce ne andiamo».
«Bravissimo. Vedi che quando ti impegni capisci le cose? Se continui così tra due anni diventerai ufficiale».
«Grazie, signor maresciallo, troppo buono».
«E allora sbrighiamoci e togliamoci 'sta rottura di palle».
Sudato, incavolato, estenuato, Pettisi scende dalla gazzella seguito a ruota dal novellino, entra nella hall sperando che ci sia una bella aria condizionata, visto che fa un caldo boia e le divise sono ancora quelle invernali, varca la soglia...
...e si ritrova faccia a faccia con un costernato Pietro Salis in camicia rosa, bermuda a scacchi, marsupio e zoccoli Sholl che sta uscendo per una passeggiatina visto che non ne può più di starsene rintanato in camera e Marisa ha da lavorare.
Pettisi guarda Salis, sbalordito, scansiona fulmineamente il file mentale del ricercato, realizza che non è un'allucinazione dovuta al caldo, balbetta, porta la mano alla fondina, tenta di slacciarla mentre intima con una specie di belato che è tutto fuorché minaccioso. «Fermo, mani in alto, sei in arresto».
Er Cattivo resta a bocca spalancata come una cernia per tre nanosecondi poi reagisce come un giaguaro, allunga uno spintone al maresciallo, lo manda a ruzzolare a terra e scappa come una lepre perdendo gli zoccoli in direzione della Colombo. Dopo quindici metri qualcosa lo aggancia alle gambe e lo fa inciampare. Salis si sgrugna contro l'asfalto, spaccandosi il naso, bestemmia, si divincola, tenta di rialzarsi ma il carabiniere semplice Nicola Caputo, che lo ha placcato con una presa da rugbista, gli rotola sopra, lo immobilizza puntandogli le ginocchia ossute sulle braccia e tenta di resistere alle sgroppate furibonde di Pietro come un cowboy a un rodeo, mentre annaspa disperatamente, indeciso tra prendere la pistola o le manette.
Salis non cede, sbava, ringhia, libera il pugno destro, sferra un tremendo diretto in pancia al carabiniere che si piega in due, vomita ma continua a tener duro anche se riesce a stento a respirare mentre Renato Pettisi, superata la sorpresa e lo shock, arriva di corsa, urlando, con la Beretta in pugno, prende lo slancio e tira un calcio da rigore al fianco del Cattivo, sbalzandolo di lato.
Salis geme di dolore e rabbia, si rannicchia in posizione fetale, incassa un altro calcione e si arrende davanti alla coppia di semiautomatiche calibro 9 Parabellum puntate sulla sua testa.
I due militari, esausti e ansimanti, lo spingono in ginocchio, gli fanno scattare le manette ai polsi, dietro la schiena e lo trascinano fino alla macchina, aprono il sedile posteriore e lo buttano dentro come un pacco prima di chiamare rinforzi.
Sulla porta dell'albergo, Marisa si affaccia sconvolta, vede la scena, fa uno strano gorgoglio che sembra di meraviglia e crolla svenuta.
«Che j'avete fatto?»
«La signorina Caleppi è stata arrestata con l'accusa di favoreggiamento personale».
«Ma che cazzo state a dì? Manco sapeva chi ero... J'ho dato un nome farlocco».
«Questo lo stabilirà il giudice... A un primo controllo non ci sono evidenze che lei sia stato registrato sotto un falso nominativo, né che abbia esibito un documento contraffatto per ingannare la concierge. Lei, Salis, non risultava semplicemente tra gli ospiti e, di conseguenza, si presume che la signorina sia sua complice. È stata arrestata in flagranza, sarà il magistrato a stabilire le sue responsabilità... Se fossi in lei mi preoccuperei piuttosto della sua situazione che, mi creda, è decisamente grave».
Antonello Messina allunga, trionfante, il mandato di cattura a un Pietro Salis furente, digrignante e umiliato, col naso sfrittellato che sembra un pomodoro marcio, la camiciola strappata e sporca di sangue. Arrivare a Regina Coeli in quello stato, come un qualsiasi scippatore romeno pestato dalle guardie, è un marchio d'infamia, un'onta vergognosa ed er Cattivo si ripromette di ridurre peggio di lui chiunque dovesse azzardare una battuta o un sorrisetto di scherno. Molto peggio.
Ma è decisamente improbabile che ci provino, a sfotterlo. Dentro o fuori dalle sbarre Pietro Salis resta uno che conta, che comanda, decide e stabilisce, specialmente adesso che gran parte dei componenti della banda romana è stata ammanettata in massa e sparpagliata tra i bracci del vecchio carcere, Brillantino in testa. Salis lo immagina tutto preciso, in giacca e cravatta (no, quella sicuramente gliel'hanno tolta) che appende un crocifisso o un'immagine sacra alla parete della cella e sogghigna.
Poi legge meglio l'elenco delle imputazioni e il ghigno si tramuta in un rictus.
«Porcu Mario? Io avrebbi ammazzato Mario? Ma ve sete 'mpazziti, era un fratello», barrisce con gli occhi fuori dalle orbite.
«Le risultanze investigative indicano lei come mandante dell'omicidio, avrà modo di discolparsi durante l'interrogatorio del giudice», replica Messina, glaciale.
«Questa è 'na porcata, capitano... Un'infamità. E a proposito vorebbi tanto sapè chi è stato l'infame che m'ha venduto».
L'ufficiale gli scocca uno sguardo che significa: ma per chi mi hai preso, per un imbecille? Poi gli rifila una rispostina al vetriolo.
«Siamo arrivati a lei sulla base delle nostre indagini sul territorio, evidentemente è meno furbo di quanto si crede, Salis».
«Ma che cazzo stai a dì? M'hanno fatto 'na soffiata... Tanto prima o poi lo scopro, er fijo de 'na mignotta, e so' cazzi sua».
«Moderi il linguaggio ed eviti di aggravare la sua situazione che, le ripeto, è già abbastanza compromessa».
Salis tenta di alzarsi ma le mani di ferro del maresciallo Pettisi lo spingono rudemente sulla sedia.
«Non provarci nemmeno, bestione... Hai finito di fare il gradasso», sibila il sottufficiale che, in questo momento, ha due soli desideri in mente: una stanza vuota e insonorizzata e un pungolo elettrico da bovini.
«Si scopro che avete fatto del male a Marisa la pagate tutti, porci bastardi», sbraita er Cattivo dibattendosi.
Antonello Messina perde completamente il controllo, torreggia su Salis e carica un pugno, con la voglia matta di abbatterlo sul naso dolorante di Pietro.
«Non osi minacciarci, Salis, o giuro su Dio che se ne pentirà... Noi, al contrario di lei, rispettiamo la legge. La signorina è stata accompagnata in ospedale per un lieve malore dovuto all'emozione, medicata e trasferita al carcere femminile di Rebibbia. La informo anche che i medici non hanno riscontrato pericoli di aborto, date le sue condizioni».
Salis guarda il capitano con due occhi che sembrano uova sode.
«Abo... Condizioni? Che condizioni?», farfuglia.
«Non lo sapeva? La signorina Caleppi Marisa è incinta...».
«Inci... Aspetta un fijo?»
«Sì, incinta vuol dire proprio questo. La dottoressa del carcere ha richiesto una serie di esami di routine ed è stata la signorina stessa a richiedere che fosse aggiunto un test di gravidanza, risultato positivo... Quindi, presumibilmente, potrebbe essere scarcerata presto se il magistrato deciderà di concederle i domiciliari».
La tempesta di emozioni che passa sul viso del Cattivo lascia sbalordito il capitano che, per la prima volta, lo considera qualcosa di passabilmente vicino a un essere umano.
«Ma... È sicuro?»
«Non sono un medico. Di solito i test di gravidanza non sbagliano».
«E... scusi, capita'... semo sicuri che ar gabbio la tratteranno bene?»
«Posso assicurarle che riceverà tutte le attenzioni che il suo stato richiede...».
E di fronte al sorriso di beatitudine del suo peggiore nemico, Antonello Messina, che un minuto prima stava per pestarlo a sangue, si trattiene a fatica dal fargli le congratulazioni visto che l'espressione di Pietro Salis è inequivocabile.
Felicità assoluta.
«Accompagnatelo in carcere, abbiamo finito», taglia corto Messina. Er Cattivo si alza e si fa condurre via docilmente, accennando addirittura a un saluto con la testa sulla porta.
Rimasto solo, Antonello Messina sospira, si toglie la giacca zuppa di sudore visto che l'aria condizionata, usa obbedir ronzando e ronzando morir, è definitivamente defunta, infila un foglio nella Olivetti e si accinge a scrivere al comando provinciale: proposta di encomio solenne per il carabiniere semplice Caputo Nicola, di anni ventitré, per aver arrestato a rischio della vita un pericoloso latitante e averlo immobilizzato senza ricorrere alle armi per evitare di mettere a rischio i passanti, ponendo fine alla sua fuga.
Più le leggi e l'ordine vengono resi prominenti più ci saranno ladri e mascalzoni.
Laozi