Parte II

 

Marbella, giugno 1984

 

 

Capitolo I

 

«Magheto? Como un pequeño mago?»

«Sì, signora, me chiameno proprio così».

«Y... e perché?»

«Be' dicheno che ce so fà... insomma, che so' uno bravo».

«¿Verdad?»

«Nun sarò er Professore, uno che m'ha insegnato tutto, ma diciamo che me la cavo».

Amparo accende una sigaretta, sbuffa il fumo verso l'alto in un gesto molto seducente e lancia un'occhiata in tralice a quel tizio dimesso, che sembra un elettrotecnico o un impiegato delle poste, piombato dall'Italia per realizzare i suoi sogni. La prima impressione è deludente: occhi sfuggenti, fisico inesistente, mani che non stanno mai ferme, abbigliamento da parcheggiatore abusivo. Del resto chi si aspettava? Un bello e dannato alla Alain Delon nella Prima notte di quiete?, un gangster vestito Caraceni stile Jean-Paul Belmondo in Borsalino?

Hai visto troppi film, si ripete per la centesima volta.

Questa è la realtà.

Meglio i film.

La cornice è perfetta: tramonto sul lungomare, lingue rosse e rosate nel cielo, le palme che si stagliano sulla passeggiata serale dei turisti come lunghe ombre verticali, le note del flamenco che rimbalzano da mille locali e localini affacciati sulla spiaggia, un gruppo di fissati che fa ginnastica nella piccola palestra attrezzata all'aperto con step, attrezzi a disposizione per simulare passeggiata, corsa o sci di fondo, panche, cyclette...

Maghetto si domanda quante ore resisterebbero a Roma prima che qualcuno arrivi di notte col camion e se li freghi tutti. Evidentemente qui è diverso. Poi appiccica gli occhi a una bionda da infarto, fasciata in un tubino fucsia, che ancheggia maestosamente con un pechinese al guinzaglio rosa coi lustrini.

Bono, Maghè, che sei qui per lavorà.

Amparo vuota il bicchiere di Jumilla DOP, pesca una tapa dal vassoio, mastica con grazia e vorrebbe essere con Omar, a godersi la brezza, il vino e il cibo dopo aver fatto l'amore, invece che con questo barbosissimo scassinatore che fa lo sguardo da lumacone al transessuale più famoso di Marbella ed è tanto fesso da non essersi accorto che ha un anaconda tra le gambe. O magari gli piace proprio per questo. Be', se è finocchio meglio così ma, sotto sotto, il palese disinteresse di Maghetto per lei, un poquito, la offende. Quando l'ha chiamata e lei gli ha fissato l'appuntamento si è persa in fantasticherie da adolescente pruriginosa, s'è truccata e s'è messa in tiro sentendosi bella e pericolosa ma questo la guarda come se fosse trasparente o, meglio, non la guarda affatto.

Sì, decisamente meglio i film.

«Ma non mangi? Non ti piacciono le tapas?»

«Sì, signo', me piacciono ma il fatto è che amo magnato in aereo tutte quelle schifezze e me sento un tantinello costipato. So' bone, però, proprio bone...». E per dimostrarlo si caccia in bocca una specie di bruschetta con formaggio e jamón serrano e mastica svogliatamente.

«Chiamami Amparo... Se dobbiamo far finta di stare insieme ti ci devi abituare...».

«Sì, signo'... Amparo. Io veramente de nome faccio Sandro, ma nun me ce chiama nessuno, mejo Maghetto».

«E Maghetto sia... Gli altri?»

«Stanno in albergo. Uno diverso da quello dove m'hanno messo a me, per motivi de sicurezza, è mejo nun stà tutti insieme. Er Cattivo j'ha detto de nun sortì. Pareno un po' fusi ma so' bravi regazzi...».

«Er Cattivo? E chi è?»

«Come chi è, sign... Ampà? È quello che ha organizzato la batteria, no?».

Amparo resta un attimo perplessa ma evita di fare il nome di Omar che, tra l'altro, non sente da parecchi giorni. È preoccupatissima: i giornali parlano di arresti e perquisizioni tra i neofascisti italiani e non ha idea di dove sia finito ma, adesso, le tocca pensare al colpo. Le istruzioni sono precise e, mentre le esegue, può solo sperare che Omar si faccia vivo.

Er Maghetto squaderna un foglio, inforca gli occhiali da lettura e assume un tono professorale.

«All'aeroporto ho incontrato un tizio che m'ha dato lo schema dell'allarme. Me lo sono studiato durante il viaggio... ecco qui».

«È lo stesso che aveva mio marito. Chi era il tizio che te l'ha dato?»

«Boh, uno normale, stava co' Pietro, er Cattivo...».

«Normale come? Com'era fatto?»

«E che ne so, Ampà, nun c'ho fatto caso, mica guardo gli uomini io e che so', 'na checca?».

Questione maricón risolta. Pensiamo al lavoro.

«Ecco, mi sembra un sistema molto semplice... Evidentemente quelli della Banco de Andalucía non hanno paura dei ladri. Meglio così. Allora, ti spiego come funziona...».

Amparo si china sul foglio emanando una voluta di Chanel N° 5, stupita dal cambiamento. Ora che è sul suo terreno di gioco, Maghetto sembra trasformato: professionale, sicuro, parla perfino diversamente, l'accento romano scomparso di colpo. Sì, probabilmente è uno che ci sa fare, altrimenti non avrebbero mandato proprio lui. Amparo si domanda dove l'abbia scovato Omar ma, del resto, lui è l'uomo dalle mille risorse.

«Vedi? Ci sono due sistemi d'allarme: uno perimetrale esterno collegato alla linea telefonica, l'altro volumetrico che protegge il caveau e trasmette via radio. È il più difficile da disattivare ma ce la faccio senza problemi. Il segnale viene lanciato alla centrale operativa della Prosegur, l'istituto di vigilanza dell'agenzia e a una telecamera interna che inquadra le cassette di sicurezza. Per quello dovremo inventarci qualcosa... Mi segui?»

«Sì, certo... Insomma, mio marito aveva cercato di spiegarmi qualcosa ma devo dire che non ci ho capito molto».

«In realtà è molto semplice. Domani facciamo un sopralluogo all'esterno. Devo trovare la cassetta dei collegamenti telefonici. Mi vestirò da turista così potrò portarmi la macchina fotografica e fare qualche scatto. Tu dovresti metterti in posa dove ti dico io, fingeremo di essere una coppia in vacanza, ti va bene?»

«Sì... certo... Una coppia di turisti, perché no? Divertente».

«Si ce blindeno sai che divertimento, Ampà. Ma non ci beccheranno. Dobbiamo individuare anche un locale contiguo alla banca, che abbia una parete in comune. L'ideale sarebbe un negozio. Potremmo entrare venerdì con gli scavatori, sfondare il muro e lasciare solo una sfoglia d'intonaco. La buttiamo giù il giorno dopo, quando facciamo il colpo».

«Per quello non c'è problema. Mio marito, prima di morire, aveva affittato un garage attiguo all'agenzia, proprio per quello. Ho continuato a pagare l'affitto per anni. È vuoto».

«Perfetto, una rogna di meno».

«Va bene ma, scusa, non ho capito come farai con gli allarmi...».

Er Maghetto sbuffa. Questa sarà pure bona ma sembra proprio de coccio.

«Che ce vo'? Quando avrò trovato la cassetta becco il filo giusto e lo segno con lo scotch. Mio cognato, Tortellino...».

«Sei sposato?»

«Sta co' mia sorella. Concentrati, per favore. Tortellino farà il palo. Quando staremo per entrare lo avviserò e lui taglierà il filo. Il perimetrale sarà disattivato e noi entreremo nella banca. Per il caveau sarà un po' più complicato. Vedi questa antennina?»

«Che roba è?»

«È collegata al sensore interno, sulla porta. Quando viene aperta e cade il contatto, entra in azione nel giro di trenta secondi e invia l'allarme alla vigilanza, che arriva sul posto in sette minuti. Devo schermare l'antenna ma so già cosa fare: appena entrati la piegherò e la coprirò con un pezzetto di stagnola, resterà inattiva come se fosse ancora collegata».

«Hai pensato a tutto, complimenti».

«È il mio mestiere. Non ti distrarre: poi c'è il problema delle immagini, bisognerà sostituire la videocassetta con una che gireremo io e te. Per farlo dobbiamo andare all'agenzia e prendere in affitto una cassetta di sicurezza. Dovremo restare dentro almeno venti minuti, sto cercando di pensare a un modo per non insospettire l'impiegato che ci accompagnerà nel caveau... ah cazzo».

«Che c'è adesso?»

«Ma in banca ti riconosceranno... Tuo marito ci lavorava, che casino...».

Amparo sfodera il suo sorriso al diamante.

«Non ti preoccupare. Enrique non ha mai voluto che ci andassi, non mi ha mai presentato ai colleghi e non so neanche se sapessero che era sposato. Sognava il colpo da quando è entrato in quell'agenzia e ha preso le sue precauzioni. Al funerale non ho voluto che andassero i colleghi. Pensavo già al piano e ho detto che mio marito aveva sempre parlato di una cerimonia intima con pochi parenti stretti».

«Perfetto...».

«Va' avanti, che succede quando siamo nel caveau?»

«Porterò una telecamera e girerò un filmato dell'interno. Poi, quando sarò dentro con tutta la paranza, cambierò il video delle telecamere interne. Dai monitor, le guardie vedranno quello e penseranno che sia tutto a posto. Chiaro? Hai capito? Domande?»

«Io... insomma, credo di sì. Le guardie vedono il video che hai girato e non voi che aprite le cassette, giusto?»

«Bravissima. Il resto te lo spiego nei prossimi giorni. Ti sta bene domani alle nove per fare le foto fuori?»

«Facciamo le dieci? Sono un po' dormigliona...».

«Va bene ma non più tardi, abbiamo parecchio da fare... Prendi questo foglio. È una lista del materiale che ci serve».

Amparo legge l'appunto, sbalordita: walkie-talkie, picconi, pale, scalpelli, piedi di porco, pinze, forbici di varie dimensioni, tondini di ferro, sfoglie di stagnola, guanti di lattice.

«È un sacco di roba».

«Non potevamo portare tutto dall'Italia, se ci beccavano alla dogana erano casini. Puoi procurarti tutto in un giorno, due al massimo? Vai in diversi negozi, possibilmente non vicini alla banca e distanti tra di loro. Fai finta di essere una che deve ristrutturare casa, una signora un po' scemotta che non capisce un c... niente».

«Mi riuscirà benissimo, infatti ci capisco poco ma si vede che tu sei bravissimo».

«Grazie».

«Anche io ho una cosa per te... Guarda».

Maghetto scorre una serie di numeri e afferra al volo.

«Le cassette bone?»

«Sì. In tutto nel caveau ce ne sono 473. Mio marito si era segnato quelle dei clienti più ricchi visto che, immagino, non ci sarà il tempo per forzarle tutte. Sono 152. Magari qualcuno, nel frattempo, ha svuotato la sua ma Enrique diceva sempre che la maggior parte resta lì per anni. Dentro dovrebbe esserci di tutto: gioielli, diamanti, lingotti d'oro, denaro contante... Secondo lui almeno quaranta miliardi in lire».

Maghetto deglutisce a secco e benedice in cuor suo Pietro Salis. Gli aveva detto che i soldi erano un botto ma questo è un sogno. Comunque resta impassibile.

«Bene. Vedremo... Scusa ma sto a tocchi. Il volo e tutto il resto».

«Ma certo, andiamo...».

Amparo aspetta che paghi il conto ma lui neanche fa il gesto, quindi tira fuori il portafoglio con un sospiro. Cafone imperiale. Ma del resto è un rapporto d'affari, lei è solo un contatto in zona e sa che molte spese saranno a carico suo. Business. Comunque non può impedirsi di restare leggermente delusa.

«Me fai vedè la strada per l'albergo? Mi sa che mi perdo co' tutti 'sti vicoli».

«Ti accompagno, dài. Mi va di fare due passi...».

Maghetto e Amparo si alzano e si incamminano.

Anche l'uomo col berretto calato sul viso, seduto in un ristorante vicino, si alza e si incammina dietro di loro.

«Notizie?»

«Tutto bene... So' 'rivati e hanno agganciato la donna. Maghetto dice che sembra 'na cosa facile».

«Grande...».

Er Fanfara batte il cinque a Salis e si chiede cosa gli verrà in tasca da quel colpo. Tecnicamente, lui e Scrocchiazeppi sono fuori dai giochi: hanno collaborato solo in ruoli marginali, quelli per cui er Cattivo li paga e non possono aspettarsi qualche bonus ma Salis, quando vuole, sa essere generoso coi suoi sottoposti. Il giro d'affari del Cattivo, se la cosa va in porto, si allargherà a cascata e tutti quelli che gli sono vicini ne avranno qualche beneficio.

Almeno spera.

«Beati loro... Se ne stanno ar sole, cor mare davanti, le palme, le gnocche in spiaggia», s'incanta er Fanfara come se, in quel preciso momento, non stesse anche lui a un tavolino del ristorante, con una bottiglia di Ferrari nel ghiaccio, a guardare la sabbia grigia, i primi ombrelloni di stagione, le palme - un po' più basse e cicciotte di quelle spagnole ma sempre palme sono -, un passaggio di bellezze in pareo o calzoncini che non ha niente da invidiare a quello della Costa del Sol.

Salis lancia un grugnito da facocero e non risponde. Se quegli scrocconi pensano di godersi una vacanza a cinque stelle a sue spese toppano di brutto. L'ordine è chiaro: stare tappati in albergo, non farsi notare, fare il lavoro e subito a casa.

«E er fascistone, l'hai sentito?», incalza er Fanfara che oggi, evidentemente, è di umore ciarliero.

«Macché. Scomparso. Se semo incontrati all'aeroporto e nun l'ho più sentito...».

«Strano, prima te stava sempre a rompe li cojoni».

«Boh, magari sente la donna sua che je dice tutto...».

«O magari se lo so' bevuto... Ho letto che le guardie stanno a fà un culo tanto a tutti i fascistoni de Roma... Oh, a proposito de guardie, anvedi chi ce sta...».

Salis si volta verso l'uomo piccolo, massiccio, dai capelli rosso fiamma aggrovigliati come fili elettrici sulla fronte bombata, che sta sedendo a un tavolo vicino assieme ad altri due tizi, tra grandi ossequi e grandi salamelecchi del direttore.

«È quello novo?»

«Sì, arivato du' settimane fa. Se chiama Antonio Assisi, pare che sia stato alla Speciale per un po', poi l'hanno mannato qui a dirige er commissariato».

«Ah, uno tosto allora. E che altro dicheno, Fanfà, visto che sai sempre tutto?»

«Core voce che je piace da giocà. A le macchinette soprattutto. E che mena pesante. Durante un interrogatorio, ha rotto er grugno a un tizio co' un papagno. Lo so perché un amico de mi' cugino, hai presente er Cavatappi, no? Be', 'n amico de questo era stato ar gabbio assieme a uno, er Tiramisù che...».

«Vabbè vabbè a Fanfà, ho capito. Vorà dì che dovemo organizzà quarche cosa pe' daje er benvenuto, ar Roscio». E Salis alza il bicchiere verso il tavolo del poliziotto che resta perplesso e risponde con uno strano cenno, a metà tra il fastidio e un saluto.

Salis annuisce come se si fossero scambiati chissà che messaggio telepatico e schiocca le dita al cameriere, che piroetta sui tacchi, molla all'istante la coppia che stava ordinando e si precipita da lui. L'uomo si alza per protestare, vede er Cattivo e si risiede immediatamente sussurrando qualcosa alla sua compagna.

«Comandi, signor Salis».

«Porta 'na bottija de champagne a quer tavolo, quello dove sta er Roscio e dije che la mando io. Me riccomando, er mejo che c'hai».

«Subito signor Salis».

Arrivano gli spaghetti allo scoglio. Er Cattivo si annoda il tovagliolo al collo, arrotola con forchetta e cucchiaio come fa da quando era bambino e attacca a masticare col solito entusiasmo fingendo disinteresse per quello che succede al tavolo vicino ma dopo neanche due minuti si ritrova davanti il poliziotto con una bottiglia stillante in mano.

«Buongiorno dotto', bel posticino eh? Questa è casa mia, per lei c'è sempre un tavolo libero cor conto pagato...».

Antonio Assisi gli lancia uno sguardo indecifrabile, poi gli appoggia lo champagne millesimato davanti.

«Salis Pietro, ma che ti credi che basti una bottiglia per arruffianarti un vicequestore di polizia?».

Gelo.

Er Cattivo resta col boccone nella strozza che a momenti soffoca. Er Fanfara guarda la scena sconcertato, chiedendosi che deve fare. Basta un gesto, una parola sbagliata, un insulto e Pietro dà fuori di matto. Sbirro o no, nessuno lo può umiliare a casa sua, una limpida questione di dignità.

Invece Antonio Assisi ammicca, fa una sorta di occhiolino e poi torna dai suoi sbirri, lasciando lì la bottiglia intatta.

Salis e Fanfara si guardano sconcertati e si dedicano agli spaghetti che hanno perso ogni sapore.

«A Cattì, ma seconno te che voleva dì? Che è uno preciso, nun se fa ammorbidì?»

«Forse. O magari intenneva famme capì che 'na bottija nun basta. Staremo a vede...».

«Sembri proprio un turista».

«E tu sei 'no schianto... cioè scusami, nun t'offendere, volevo dire che...».

«E perché mi dovrei offendere? Non lo sai che i complimenti fanno sempre piacere alle donne?».

In effetti Amparo è proprio da sballo, con gli hot pants che le arrivano a malapena a coprire le natiche, la maglietta aderente che mette in risalto il seno arrogante, il cappello di paglia molto femme fatale, i sandali col tacco alto che la fanno svettare almeno cinque centimetri sopra la testa di Maghetto.

Anche lui, però, è una sorpresa. Bermuda coi tasconi, Lacoste, scarpe da vela senza calzini, macchina fotografica al collo e berretto da baseball con la visiera all'indietro, sfoggia insospettabili doti di mimetismo e si confonde perfettamente con la folla di vacanzieri che sciama oziosamente nei vicoli del Barrio Alto, punto di partenza per il sopralluogo davanti al Banco de Andalucía. Amparo lancia un'occhiata alle braccia magre ma muscolose che sembrano gomene, al vecchio tatuaggio sbiadito da galera sull'avambraccio sinistro, al fisico scarno e legnoso ma scattante, ai capelli ricci alla Ninetto Davoli e decide che, tutto sommato, quello strano malavitoso tutto esitazioni e contraddizioni non è male. Impacciato come un tredicenne nella conversazione, preciso, puntuale e sicuro di sé quando si parla di lavoro. Certo, Omar è un'altra cosa, con le sue fole ideologiche e la sua passionalità da giaguaro, ma Omar chissà dov'è...

«Andiamo?»

«Andiamo... Quando saremo davanti alla banca ti dico dove ti devi mettere. Dobbiamo sembrare una coppia, quindi scusa se ti prendo sottobraccio perché...».

«E prendimi sottobraccio, mica mi offendo». E Amparo rompe ogni indugio, aggancia il gomito di Maghetto molto prima del previsto e lo guida nel dedalo di stradine, senza rinunciare a fermarsi davanti a ogni vetrina, a ogni bancarella, a ogni gioielleria che si trova davanti. Er Maghetto, da bravo maritino in vacanza, sbuffa, alza gli occhi al cielo e si rassegna ad aspettare tanto hanno tutta la mattinata e il giorno dopo andranno in banca ad affittare la cassetta quindi può anche rilassarsi un po'.

«Scusa ma come le sviluppi le foto? Se le porti a un fotografo ci vorrà minimo una settimana di questa stagione».

«Nun ce so' problemi, me so' portato tutto da Roma. Stammatina so' ito a comprà l'acidi e me le stampo da solo in albergo, ho organizzato 'na piccola camera oscura».

«Complimenti... Hai pensato a tutto».

«E che sto a smacchià er giaguaro?».

Amparo si fa una risata a quell'espressione che non ha mai sentito e che le sembra buffissima. Omar non parla così. Anzi, Omar non parla proprio. Proclama.

«Ci siamo... Cara, mettiti lì te vojo fà 'na foto...».

Amparo si piazza proprio davanti all'ingresso e offre alla guardia della Prosegur una panoramica mozzafiato del suo lato B. Il metronotte contempla, estasiato.

Er Maghetto scatta e scatta. Poi la prende sottobraccio e la guida verso un bar vicino dove ordina due caffè all'italiana.

«Bene. Ho visto la cassetta del telefono. Sta là, sulla destra, dalla parte opposta della strada, la vedi?»

«Sì, la devi fotografare?»

«Nun c'è bisogno, basta che so dov'è».

«Sarà chiusa a chiave...».

«Sticazzi, che ce vo'?».

Amparo si diverte un mondo, riprendono a camminare, circumnavigano lentamente l'isolato mentre lo sguardo da falco di Maghetto non perde un dettaglio: distanze, ingresso del garage affittato da Enrique, il defunto marito di Amparo, vie di fuga eventuali, locali pubblici.

«A che ora chiudeno i ristoranti e i bar?»

«Tardi, caro... Qui in Spagna non è come da voi. Noi non dormiamo mai e ci rifacciamo con la siesta nel pomeriggio».

Maghetto incassa il "caro" e pensa che 'sta gnocca made in Spain recita alla grande. Pensa anche qualcos'altro ma, da vero professionista, scaccia l'idea e si concentra sul piano.

«Ma tipo... quando?»

«Forse verso le tre...».

«Questo è un problema. Entreremo alle due e cominceremo a lavorà cercando di non fare troppo casino. Poi, quando non ci sarà più nessuno, attaccamo a sfondare coi picconi».

«Questo lo devi decidere tu... Io sono solo una donna». Amparo accompagna la frase con un sorriso ammaliatore visto che flirtare con gli uomini è sempre stato il suo forte da quando aveva sedici anni. Questione di ruoli: loro devono sbavarle dietro, lei ha il sacro dovere di respingerli, almeno nel novanta percento dei casi. A volte si degna di farsi rimorchiare ma è rarissimo e la cosa finisce sempre nel nulla. Con Omar è stato diverso...

«Excuse me... Can you take a picture of us, please?».

Amparo si rivolge in perfetto inglese a due turisti extralarge con la pelle scottata dal sole che portano il marchio USA stampato in fronte, loro sorridono e acconsentono, poi si mette in posa accanto a un Maghetto imbarazzatissimo, si leva il cappello, gli passa un braccio attorno alla vita e spinge la finzione al punto di appoggiargli la testa su una spalla ossuta. Say cheese, clic, clic, another one, here it is, thanks, bye bye, have a good time, you too...

«Ammazza come spicchi bene inglish», considera er Maghetto, sinceramente ammirato, con la spalla e il collo che sembrano bruciare per quel contatto fuggevole.

«Ho fatto il liceo internazionale...». Amparo si ferma un attimo prima di chiedere "e tu?" visto che il barabba, al massimo, ha preso il diploma per corrispondenza alla Scuola Radio Elettra. Be', comunque nel suo campo è qualcuno.

E adesso il sopralluogo è finito e sono solo le 12:30, che si fa?

«Andiamo a mangiare due tapas? Mi è venuta fame».

Er Maghetto esita. L'idea era quella di tornare dritto in albergo, sviluppare le foto, illustrare i dettagli del piano a Tortellino e ai Gemelli, sempre nella loro stanza, in un hotel differente e più squallido del suo e rimettersi a studiare per la quindicesima volta lo schema dell'allarme ma ha un'intera giornata davanti e poi rifiutare pare brutto.

«Me fa piacere ma si me permetti offro io».

«Ti permetto, ti permetto, mio cavaliere...». E un'Amparo deliziata da quella inaspettata manifestazione di galanteria prende per il braccio er Maghetto anche se la recita è finita. Si stanno allontanando dalla banca e non c'è più bisogno di fingere.

«Me so' lardellato li cojoni».

«A chi lo dici... Nun ne posso più».

«Si resto qua dentro 'n artri dieci minuti faccio 'no schizzo da matto».

«A me pare de stà in galera, puro peggio, armeno ar Coeli ce sta l'ora d'aria».

«E poi sto posto fa cagà. Er Maghetto l'hanno piazzato a un quattro stelle, li mortacci sua, esce co' 'sta gnocca spagnola che...».

«Ma perché, l'hai vista?»

«E come cazzo faccio a vedella si sto sempre qua assieme a voi?»

«Allora come fai a dì che è 'na gnocca?»

«E che ne so? Me l'immagino. E poi le spagnole so' tutte gnocche».

«Almeno vedelle, le spagnole. Da quanno semo arivati ho visto solo le facciacce vostre, senza offesa eh...».

«Se famo 'na scopetta?»

«Me so' rotto puro de giocà, basta...».

«Avecce armeno un po' de fumo... Me lo volevo portà ma er Cattivo ha rotto er cazzo così tanto coi controlli all'aeroporto che m'ha fatto salì la paranoia».

«Pare che qui a Marbella c'è un movimento continuo. Vai sul lungomare e te lo sbattono in faccia, er fumo».

«Pure la sorca».

«Ammazza quanto stai ingrifato, si me cade er sapone devo stà attento a riccojelo, co' te in giro».

«Ma vaffanculo».

«Vacce tu».

«Oh, bada a come parli che te metto le mani 'n faccia».

«E provece, daje, vojo proprio vede».

«Oh, belli, nun ve mettete a questionà come ragazzini».

«È stato lui, m'ha detto frocio».

«Stavo a scherzà, checcazzo, tanto pe' passà er tempo...».

«Magari passasse, io nun reggo a stà tappato qua fino a domani sera».

«Armeno se magnasse bene, er ristorante è peggio della stanza, er pesce pareva un topo morto, ieri, me sa che era pure annato a male, me sento costipato».

«Manco 'na palla, c'hanno portato... e sì che dovrebbe esse er piatto de qua».

«'Na palla?»

«A palla, si quella co' er riso, er pesce, 'e verdure, 'a carne, tutto insieme, ce stava sulla guida».

«Se chiama paella, a 'mbecille... Lo vedi che sei de coccio?»

«Ahó mo' basta eh, si ricominciate v'annodo a tutti e due».

«E nun ce fà caso, a Tortellì, io e Palletta famo sempre così ma se volemo bene, vero Pallè?»

«Regolare, Sellerò, come fratelli, ce piace de scherzà».

«Vabbè, io comunque sto a sclerà. Sapete che ve dico? Mo' sorto da qui e me vado a fà 'na bella passeggiata ar mare... ah, l'aria friccichina, 'e parme, 'e gnocche. Me faccio un paio de bire, magara magno quarcosa de tipico e rivengo».

«Ma er Cattivo ha detto che...».

«E chisselo incula, er Cattivo. Sticazzi. Vojo vede chi je lo va a dì».

«Io no de sicuro, mica so' un infame».

«Manco io, che te credi?»

«Allora intesi? Vado. Si dovesse venì er Maghetto...».

«Ecco, appunto, si viene che je dimo?»

«Guarda che stammatina doveva annà a la banca co' la sorca spagnola a affittà la cassetta, preciso che fino all'una minimo nun se fa vede».

«Sicuro?»

«Ahó, ce l'ha detto lui ieri. I sopralluoghi fora l'hanno già fatti, mo' entra ner cavò co' la scusa della cassetta, registra er video e domani notte attaccamo a scavà».

«Allora stamo manzi pe' tutta la matina».

«Apposta. Bella regà, vado. Marbella, para er culo, ariva er Tortellino».

«Che ce fa 'na pippa e un ber bocchino...», in coro.

«Sete proprio du' teste de cazzo».

«E tu 'na faccia de culo, famo a capocciate?»

«Ahó, ancora? Questa la sentivo a dodic'anni».

«Sempre valida».

«M'avete rotto pure voi due, se vedemo».

«Aspè, a Tortellì... Sicuro che er Cattivo nun lo viè a sapè?»

«E come fa? Semo in tre qua drento. Si nun je lo dite voi... Mica c'ha li superpoteri come Batman».

«Guarda che quello nun c'ha li superpoteri. È coso, Supermà, che vola e c'ha la vista a raggi icchese...».

«Vabbè io me ne vado che così famo tardi e me tocca aspettà er Maghetto».

«'Namo pure noi, Pallè?»

«Ennamo, daje».

«Sicuri?»

«E che semo più stronzi de te?»

«Questo è poco ma sicuro. Dateve 'na mossa, 'namo a respirà un po' d'aria bona».

L'uomo col berretto calato sugli occhi li vede uscire dall'albergo, quatti e guardinghi come militari che violano la consegna, li segue per un po' senza farsi vedere e poi cambia strada.

 

 

 

 

Capitolo II

 

«Prego, faccio strada».

Er Maghetto precede Amparo e segue sulle scale Consuelo, l'impiegata del Banco de Andalucía, cercando disperatamente di apparire come un marito innamorato che non guarda le altre donne.

Una parola. La tipa sembra un concentrato dei sogni proibiti di ogni uomo che abbia mai fantasticato su una segretaria sexy, quindi più o meno il novanta percento dei maschi eterosessuali. Camicetta aderente con bombe da arrembaggio, gonna leggera, lunga e stretta, con uno spacco posteriore fatto apposta per far intravedere due gambe interminabili, fasciate nelle calze velate con la riga e tacchi che risuonano sui gradini. In più quella cantilena spagnola piena di R arrotate, di cui Maghetto capisce una parola su quattro ma che gli sembra, comunque, spaventosamente seducente.

Anche Amparo, del resto, non è da meno col suo tailleur di cotone blu scuro, i capelli raccolti, il trucco leggero e perfino gli occhiali da lettura che inforca più per vezzo che per altro al momento di firmare i documenti del contratto. Due donne belle e sexy che, fin dall'inizio, si sono prese le misure a vicenda in una tacita, silenziosa sfida fatta di occhiatine in tralice e sorrisetti di condiscendenza.

Maghetto ha dato fondo alle sue capacità camaleontiche e, col completo color tabacco comprato da MAS, la camicia rosa e la cravatta in tinta, ha l'aria dell'uomo d'affari un po' distratto che accompagna senza troppo entusiasmo la moglie a togliersi uno sfizio. Amparo ha salutato la metamorfosi con una risatina infantile e una scafetta sulla guancia che l'ha mandato in estasi ma, adesso, tutti i suoi sguardi sono concentrati sul lato B di Consuelo e deve fare una fatica immane per ricordare a se stesso il motivo per cui si trova lì.

Venti minuti. Pochi per il colpo ma se li faranno bastare. Troppi per una coppia che deve soltanto aprire una cassetta ancora vuota e metterci dentro qualcosa mentre l'impiegata aspetta discretamente dietro la porta. Per ingannarla, lui e Amparo hanno stabilito una sorta di recita a soggetto con la lunga e minuziosa descrizione degli oggetti da depositare, tanto Consuelo di sicuro non li guarda ma resta in paziente attesa al suo posto con lo sguardo fisso nel vuoto come da regolamento aziendale.

Maghetto tira subito fuori la telecamera VHS e comincia a girare il film delle cassette di sicurezza con cui dovrà sostituire la videocassetta del sistema di sicurezza e intanto cerca di ricordarsi il copione.

«Cara, allora, questo è l'orologio d'oro di nonno, questo il lingottino, qua ce stanno le perle mentre...».

«Porco».

«Ch-che dici?»

«Ho detto porco. Maiale. Schifoso».

Maghetto resta basito, poi vede l'occhiolino di Amparo e capisce al volo. 'Fanculo al copione, ora si improvvisa. Questa donna è un genio.

«Ma... cara... perché?»

«Ti ho visto, sai... Come guardavi il culo di quella zoccola. VORREI VEDERE SE MI CONCIASSI IN QUEL MODO... FATE SCHIFO, SIETE TUTTI UGUALI, PORCI».

«Ma guarda che ti sbagli... io non...».

«Ma sta' zitto, verme, stai ancora sbavando... E poi, fammelo dire, sei tutto fumo e niente arrosto».

Questo è proprio un colpo basso. Maghetto soffoca a fatica la rispostaccia in borgatese e il gesto con le mani sul pacco. Vabbè la recita ma sulle sue capacità amatorie non si scherza.

«Senti, cara, non so di che parli, se magari continuiamo con l'elenco delle cose che...».

«Ma sì, continuiamo che è meglio. Tanto a voi uomini vi piacciono quelle rifatte che s'infiocchettano da puttane per andare in ufficio. Quella si scopa il direttore, te lo dico io».

Puttana, in spagnolo si dice puta e chi lavora in un ufficio o in un negozio di Marbella ha spesso un'infarinatura di inglese, italiano e tedesco quindi...

Consuelo avvampa di rabbia e immagina di cacciare le unghie laccate di rosso cupo dritto negli occhi di quella perra che si trascina dietro il marito (manco troppo male) come se fosse un cagnolino e lo tratta a pesci in faccia. Accecare i clienti non rientra nelle strategie commerciali del Banco de Andalucía e, di conseguenza, si limita a mandarla mentalmente affanculo.

I due continuano a battibeccare a lungo, tanto che a un certo punto non ce la fa più e si schiarisce rumorosamente la gola. L'orologino in silver regalo di quel taccagno del direttore - che tra l'altro, non mollerà mai la moglie, bugiardo del cazzo - la avverte che sono passati ventidue minuti da quando sono entrati e si sono messi a litigare. Se dura un altro po' finisce che si riconciliano e scopano sul pavimento.

Maghetto e Amparo ricompaiono quasi subito, ingrugnati come ogni coppia che ha appena litigato.

Consuelo li precede rigida come una Royal Guard in parata e, sulla porta, fa un saluto che sembra uno scaracchio.

Fuori, Amparo e Maghetto si prendono per mano, si allontanano e si fanno una bella risata.

L'uomo col berretto si stacca dal muro, li raggiunge in tre falcate e li affronta.

«'Ndovina chi ce sta in sala giochi?»

«Eccheccazzonesochicestainsalagiochi? Er Papa?»

«Mejo. Er Roscio».

Er Cattivo quasi si strozza col caffè corretto al mistrà. Colazione dei campioni alle 11:45 previa prima pippatona di coca per affrontare la dura realtà di ogni giorno. Chi ha detto che fare il bandito è un mestiere facile?

«Lo sbirro? Quello novo? In sala giochi? Da me?», mitraglia sbalordito. Er Fanfara risponde alle quattro domande con un unico gesto, molto romano, quell'ammiccamento con la testa che significa: e io che sto a dì?

Er Cattivo accende una Marlboro e riflette.

Il dirigente di un commissariato nella sala giochi di uno dei boss indiscussi di zona può voler dire tante cose. Un segnale di guerra o magari di pace. Un gesto aggressivo tipo "non ho paura di entrare nella tua tana" o, al contrario, un cenno di disponibilità. Il primo passo di un'offensiva o di una trattativa. Yin o yang?

E Pietro Salis deve saper interpretare al volo, discernere, agire di conseguenza. Sì, il mestiere del bandito non è affatto facile.

«È 'rivato co' artre guardie?»

«Solo. È entrato e s'è messo a giocà... Pare pure che sta a perde de brutto e è incazzato come 'na jena».

«Da quanto tempo sta là?»

«'Na mezz'ora... E nun schioda. Appena l'ho visto so' corso a dittelo».

«E hai fatto bene, Fanfà. Mo' cori de novo, però: vai da Palle d'Oro e dije de cambià er programma ma subbito, cor telecomanno. 'A machinetta deve diventà regolare e speriamo che je faccia vince quarche cosa».

«Ce vado subito, Cattì».

Salis lo vede andar via e cerca di ordinare i fattori, considerare le prospettive.

Solo. Incazzato. Mezz'ora al videopoker continuando a perdere. No, questo non è un segnale, questo è un vizio. Quella febbre inestinguibile che ti spinge ai pulsanti di una partita elettronica senza speranze, che ti costringe a una nuova puntata ogni volta che il congegno ingoia un altro po' dei tuoi soldi, che ti fa dimenticare lavoro, stato sociale, ruolo, dignità e ti trasforma in una specie di tossico sempre in caccia di una nuova dose d'adrenalina.

Pietro Salis conosce i sintomi, ha visto tanta gente rovinarsi in quel modo e, anche per questo, si tiene ben lontano dal gioco. La coca basta e avanza.

Se Antonio Assisi (ormai er Roscio per tutta Ostia) ha quella malattia, lui ha la cura. E presto lo terrà per le palle.

Er Cattivo si frega le mani ma, come ogni stratega che si rispetti, evita mosse avventate. Dal primo incontro al ristorante ha chiesto ai suoi di riferirgli qualsiasi voce, qualsiasi informazione, qualsiasi diceria abbiano raccolto sul nuovo dirigente del commissariato. Ostia è un piccolo universo, un quartiere-città con una popolazione di duecentocinquantamila abitanti, dove prima o poi ci si incontra sempre. Ed er Cattivo sa bene che chiunque ha in mano un po' di potere (dal presidente della Circoscrizione a quello dell'Assobalneari, dal dirigente di polizia al comandante dei carabinieri, dal capo del gruppo dei vigili urbani ai responsabili delle associazioni di commercianti) tende a comportarsi come un reuccio. I trenta chilometri dal Campidoglio sono una distanza siderale.

Antonio Assisi, evidentemente, non fa eccezione. Pietro Salis si complimenta con se stesso: aveva visto giusto, anche perché la comparsa del Roscio in sala giochi è solo una conferma. Solo il giorno prima gli era arrivata un'altra soffiata, calda calda, poco più di un pettegolezzo, a dire il vero una voce sul nuovo dirigente che è venuto il momento di controllare.

Er Cattivo esce di casa a piedi e si fa una passeggiata sul lungomare fino al Moletto, uno degli stabilimenti più lussuosi del litorale, uno dei tanti che controlla indirettamente attraverso una fitta rete di prestanome, dopo una lunga e ponderosa spartizione del business con le tre famiglie egemoni della zona. Tregua armata che reggerà fino a quando l'equilibrio conviene a tutti, poi sarà il conflitto.

Ettore Anteo, detto Ettorino per i centoventi chili di stazza a digiuno, lo accoglie con la consueta giovialità, l'enorme pancia strabordante che spunta dalla maglietta XXXL, gli eterni calzoncini con ciabatte di plastica che di solito porta fino a inverno inoltrato.

«Anvedi er Cattivo? Che te sei venuto a fà un bagno?»

«Me so' già fatto la doccia, a Ettorì».

«Beato te che c'hai sempre voja de scherzà».

«Perché, te no? Te rode de qualcosa?».

Ettorino prende fiato e attacca la consueta giaculatoria di tutti i commercianti e gli imprenditori del mondo, anche quando gli affari vanno a gonfie vele: la stagione che non decolla, il mare inquinato, il prezzo della benzina che limita gli spostamenti verso il mare, il tempo del cazzo a ogni fine settimana, la concorrenza delle spiagge libere (quelle poche che restano, circondate e assediate da sbarramenti, paletti, pedaggi, ingressi a pagamento), i vandalismi, le mareggiate, i fagottari che si portano il pranzo da casa e non pagano neanche un caffè... insomma, in tre parole la solita merda.

Salis ascolta senza ascoltare e aspetta che la pianti, tanto sa bene che è tutta una solfa per giustificare la cresta che fa sugli incassi. Ma Ettorino è un malavitoso di razza, oltre che di stazza, e sostituirlo è impensabile. Che rubi pure, ma con giudizio, lo sanno tutti e due.

«Si hai finito de belà come un capretto te vorebbi chiede 'na cosa...».

«E chiedi».

«Senti un po' a Ettorì, ma è vero che er Roscio, quello novo der commissariato, se viè a fà er bagno qui?»

«Be', sì, sarà venuto un paro de vorte. Nun lo volevo fà pagà ma ha insistito e allora...».

«Era solo?»

«No».

«Co' la moje? La fija?»

«No».

«Ahó, ma che te devo levà le parole co' le tenaje? Co' chi cazzo stava?»

«Co' la giornalista, Cattì. La Tucana».

Pietro Salis batte il pugno sulla mano aperta. Bingo. Chi l'avrebbe mai detto: uno dei nomi che odia di più al mondo adesso è diventato musica per le sue orecchie.

Francesca Alati, ventisette anni, single, una delle penne più acuminate e temute del «Quotidiano di Ostia», piccola ma agguerrita testata locale. Attraente anche se non bellissima con quel naso esagerato che le è costato il nomignolo di Tucana, i capelli ala di corvo, il fisico generoso e, sicuramente, molto sexy, ha tutto quello che serve per sfondare nei media: curiosità, tenacia, spregiudicatezza e una fame insaziabile di notizie. Negli ultimi giorni, Francesca ha dato il meglio di sé: due o tre colpacci che hanno provocato una valanga di cazziatoni sui cronisti della concorrenza. Guarda caso, tutte storie che arrivano dalla polizia: rapine, aggressioni e risse che dovevano restare nascoste con la consueta dicitura NO STAMPA e che la Tucana ha spiattellato con dovizia di particolari sempre citando Antonio Assisi, ma mai qualificandolo come fonte. Il vecchio gioco del "Gli uomini del commissariato al comando del vicequestore Antonio Assisi" o "il vicequestore Assisi, che ha diretto l'inchiesta, si chiude nel silenzio, ma le voci insistono...". "Nessun commento dagli uffici del vicequestore Antonio Assisi". Trucchetti del mestiere per coprire una gola profonda.

Un canale preferenziale tra uno sbirro e un giornalista è un classico e non significa niente. Questione di simpatia, di stima reciproca, di sintonia, di do ut des. Ma andare al mare insieme come fidanzatini, specie se lui è sposato con prole, è un'altra faccenda.

«E come staveno, a Ettorì?»

«E come doveveno stà? In costume, no?»

«E porcaccia la mignotta ma che sei de teak? Vojo dì...». E Salis unisce gli indici in un gesto appena meno eloquente del dito ficcato più volte in un pugno chiuso.

«Boh».

«Che vor dì, boh? Scopano?»

«Qui no. È un posto rispettabile, che te credi?»

«Porcatroia ma che hai giurato de famme incazzà? Che idea te sei fatto?»

«Io veramente me faccio li cazzi mia».

Un vero malavitoso parla sempre il meno possibile. Ettorino non fa eccezione ma stavolta Pietro se ne strafotte dei codici di comportamento della mala.

«Parla chiaro, Ettorì e nun cacà fora dar vaso che te la faccio magnà», ruggisce con la sua migliore espressione da cinghiale. Ettorino scrolla le grosse spalle e capitola.

«Senti, a Cattì, io nun t'ho detto gnente ma me sembraveno parecchio... come se pò dì... in confidenza».

«Ecco, bravo, visto che alla fine je l'amo fatta? E ce voleva tanto? Insomma, lui se la sbatte...».

«Ah, nun ho detto questo eh? Solo che...».

«Vabbè, vabbè, ho capito. Mo' senti che devi da fà... Ogni vorta che torneno me fai avvisà da quarcheduno, chiaro?»

«Chiarissimo».

«E tienili d'occhio. Vojo sapè che fanno, che se dicheno, si se baceno, si se toccheno, si se fanno le smorfiette... Tutto. Inteso?»

«Inteso, Cattì, tutto».

«Bravo... E mo' famme portà 'na biretta che m'è venuta sete a forza de fatte er terzo grado».

«Subito, Cattì».

Pietro Salis si gusta la Ceres e il trionfo. Ha scoperto i punti deboli del Roscio, ha in mano l'esca giusta e deve solo scegliere il momento buono per far scattare la trappola.

L'uomo col berretto agguanta er Maghetto per il collo e stringe come se volesse strozzarlo. Maghetto si dibatte, ansima, sputazza, tenta di far partire un calcio basso ai testicoli ma viene intercettato da un tacco dritto sulla tibia, strabuzza gli occhi, farfuglia, smania, si divincola...

Amparo resta di pietra, per qualche istante, poi scatta. Afferra l'uomo col berretto per le spalle, tira con tutta la forza che ha, tenta di strapparlo via da Maghetto, ormai mezzo soffocato, che sta rantolando come un agonizzante e prorompe in un torrente di ingiurie in spagnolo di cui si capisce solo carajo e cabrón.

Poi sgrana gli occhi e a momenti sviene.

«Che cazzo ci fai tu qui?».

Omar dà un'ultima scrollata a Maghetto e lo lascia andare ad afflosciarsi a terra con le mani sul collo dolorante.

«Ti scopi questo pezzo di merda? Dillo, avanti. Apri le cosce al primo che arriva? È così che mi ami? È così che mi sei fedele, brutta stronza?».

Lo schiaffo arriva così veloce che Omar non ha neanche il tempo di alzare una mano. Ciaff. Cinquina bella secca, dritta in faccia.

Omar si massaggia la guancia dolorante, guarda Amparo con gli occhi in fiamme che sembra una furia vendicatrice e capisce in quel preciso momento di esserne perdutamente innamorato.

Amparo aspetta di essere uccisa all'istante ma, visto che non succede niente, si china su Maghetto, lo aiuta a rimettersi in piedi e a ricomporsi in qualche modo.

«Ma checcazz... ma chi è 'sto matto?»

«Non ti preoccupare, scusa... È il mio fidanzato. È un po' geloso, ha capito male, mi dispiace».

Maghetto si avvicina a Omar senza mostrare la minima paura, anche se sa benissimo che quel pazzo potrebbe ammazzarlo a mani nude, lo guarda bene in faccia e annuisce.

«Tu sei quello dell'aeroporto...».

«Sì... io...».

«Sei quello che m'ha dato lo schema e il numero di Am... della signora qui».

«Sì».

«E mo' me vieni a mette le mani in faccia mentre sto a lavorà? Ficcatelo nel culo, 'sto lavoro. Io so' un professionista, chiaro? Lassamo perde tutto, me ne torno a Roma». E subito dopo gira le spalle e marcia via a grandi passi, incarnazione della dignità malavitosa oltraggiata.

Omar fa per agguantarlo ma Amparo lo scosta con rudezza.

«Lascialo stare. Hai già fatto abbastanza casino per oggi, ci parlo io». Poi parte all'inseguimento lasciandosi dietro un Omar mortificato e sconcertato che si domanda che accidenti gli sia preso e come abbia potuto perdere il controllo in questo modo proprio lui, il colonello Gentile della Rivoluzione Nazionale, il killer spietato, il terrorista dai nervi d'acciaio famoso per la sua glaciale imperturbabilità. Gelosia? Amore? Disperazione?

Amparo sta via un quarto d'ora buono poi torna con l'aria di una professoressa che sta per rifilare un cazziatone epocale all'alunno più indisciplinato della classe.

«Ce l'ho fatta, l'ho convinto. Resta e finisce il lavoro. Mi ci è voluto parecchio, credimi... Ma gli devi chiedere scusa».

Omar fa per protestare ma lei lo stoppa con un gesto imperioso che non ammette repliche.

«O così o se ne va. Dice che gli hai mancato di rispetto e se non ti scusi prende il primo volo. Decidi tu. Quanto a noi due, ne parliamo dopo e spero che tu riesca a essere convincente».

Un Omar sconfitto trotterella dietro a un'Amparo maestosa come una regina fino all'angolo in cui Maghetto sta aspettando con un'espressione rancorosa e sdegnata stampata sul viso.

«Eccoci qui... Lui ha qualcosa da dirti», scandisce Amparo fissando il compagno con severità. Omar esita, tentenna e ingoia il rospo.

«Senti... Maghetto... Ecco... Mi dispiace. Ho perso il controllo. È un momentaccio per noi, cioè, voglio dire, per me e i miei camerati e magari capita di fare delle cazzate. Non ti volevo offendere. Insomma, ti faccio le mie scuse. Amici come prima?».

Maghetto guarda la mano tesa di Omar senza sapere quello che rischia. Se non la stringe, Omar può dare di matto ancora una volta con conseguenze imprevedibili. Poi si schiarisce la voce e allunga la sua.

«Amici no, non lo semo mai stati, gli amici me li scelgo io. A ogni modo, scuse accettate. Sono venuto per fare il mio lavoro, me l'avete chiesto voi e lo sto facendo. Adesso me ne torno in albergo e domani sera si comincia. Se avete qualcosa da dirmi sapete dove trovarmi».

Amparo e Omar lo guardano allontanarsi e sospirano di sollievo. Senza la sua abilità e le sue competenze il colpo non si può neanche tentare. E adesso è il momento delle spiegazioni.

«Da quanto tempo sei a Marbella?»

«Tre giorni».

«E ci hai sempre pedinati?»

«Quasi sempre, sì...».

Amparo tace, abbassa gli occhi, fruga nella borsetta, pesca una sigaretta, l'accende, tira due boccate, la butta via e fa l'ultima cosa che si aspetterebbe da lei in quel momento.

Si scaraventa addosso a Omar come una tigre, lo avvinghia, gli artiglia la faccia con le mani poi gli infila la lingua in bocca e lo bacia come non ha mai baciato nessuno.

Omar sente le gambe di ricotta e una gran commozione che lo scuote come uno tsunami.

Restano a baciarsi in piedi per un tempo indefinito, sotto gli sguardi sorpresi e divertiti dei passanti e dei turisti, poi riescono a staccarsi, si prendono sottobraccio e si avviano senza una parola verso casa di Amparo.

Appena arrivati lei comincia a spogliarsi metodicamente, meccanicamente, come se fosse in palestra o nello studio di un medico.

Omar fa per abbracciarla, lei lo spinge via con un braccio, va in camera da letto, si sdraia completamente nuda e apre le gambe.

Un'ora dopo Omar sente qualcosa di umido sulle gote segnate da lunghi graffi simmetrici, mentre Amparo dorme accucciolata vicino a lui e si accorge che sta piangendo come un bambino.

«Sta qua... È 'rivato adesso».

«Bravo, Palledò... Cerca de fallo vince fino a quanno arrivo».

«Fallo vince? Ma come...».

«Cazzo ne so? Inventete quarcosa. Basta che nun se ne va...».

«Quello? 'Gni vorta che viene qui ce mette radici... È pure 'n casino, la gente pensa che faccio comunella co' i sbirri e ce perdo la riputazz...».

Ma er Cattivo non ha la minima intenzione di stare ad ascoltare le giaculatorie di Palle d'Oro sul fatto che un commissario di polizia in sala giochi gli allontana la clientela, sbatte giù il telefono, corre in garage, salta sul motorino che non usa quasi mai per arrivare più velocemente possibile e, un quarto d'ora più tardi, eccolo entrare nel locale con l'aria svagata di uno che c'è capitato per caso.

«Anvedi chi ce sta... Buongiorno, commissa', je butta bene, vedo...».

Impegnato a raccogliere una vincita strepitosa, Antonio Assisi risponde con un grugnito mentre un Palle d'Oro sull'orlo di una crisi isterica resetta il telecomando in modalità fregatura, augurandosi in cuor suo che sia la prima e ultima volta che deve usarla per farsi spennare da un cliente. Gli ordini di Pietro Salis non si discutono ma nel suo rinomato locale si viene per farsi spennare, mica per vincere, eccheccazzo.

Er Cattivo fa un sospirone e butta l'amo.

«Si permette dotto' c'averebbi da dije 'na cosa...».

«E dilla...».

«Be', veramente... Ecco è 'na questione un tantinello riservata... Perché nun viene in ufficio qua dietro, se bevemo 'na biretta e je spiego? Quistione de cinque minuti e poi torna a giocà».

Antonio Assisi non si stupisce nel sentir parlare di ufficio né del fatto che Salis si comporti da padrone, segno che sa benissimo come funziona la faccenda e dopo un attimo di esitazione fa segno di sì con la testa. Primo punto a favore del Cattivo.

«A Palle d'Oro, portace du' birette e magara quarchecosa da sgranocchià mentre famo du' chiacchiere, veloce», barrisce Salis mentre fa strada nel retrobottega ossequioso come un maître d'hotel. Di sottecchi lancia un'occhiata all'espressione accigliata del poliziotto ma capisce al volo che è tutta scena. Il pesce è pronto per abboccare.

Antonio Assisi si siede senza smettere di incenerirlo con lo sguardo e fissa ostentatamente l'orologio.

«Allora, Salis che devi dirmi di tanto riservato? Datti una mossa che ho da fare».

Er Cattivo tossicchia, come fosse imbarazzato, ma prima che attacchi entra Palle d'Oro con un vassoio carico di stuzzichini e con quattro Ceres appena tolte dal frigo. Assisi s'avventa sui tramezzini, le patatine, le noccioline e tracanna la prima birra come un assetato nel deserto, ottimo segno.

«Je faccio portà quarche artra cosa?»

«Lascia perdere. Allora?»

«Ecco, vede, commissa'... Lei è da poco che sta qua ma Ostia è come un paese... La gente chiacchiera, nessuno se fa li cazzi sua, le voci girano e...».

«Non capisco come la cosa mi possa riguardare, spiegati meglio».

«'Nzomma... io lo dico pe' lei... Sa com'è a fasse vede in giro co' i giornalisti, magari le giornaliste... quarcheduno potrebbe fasse un'idea sbajata... Per carità, io nun me permetto de fà insinuazioni ma qua so' peggio de le serve, tutti a fasse li cazzi dell'altri e me dispiacerebbe parecchio che lei ce annasse de mezzo, tra l'altro c'ha moje e fija a Roma e nun vorei che...».

Er Cattivo lascia la frase in sospeso. Se ha visto giusto Assisi sentirà il resto. Se si è sbagliato farà una scenata.

Pausa.

Nessuna scenata.

Bingo.

«Ecco, me so' detto... magara er commissario c'ha bisogno de uno studio... un posto tranquillo pe' lavorà e riceve chi je pare senza che se facceno tanti pettegolezzi. 'No scannatoio... 'Na stanza tutta pe' lei al riparo da le malelingue der cazzo».

«E perché ti interessi tanto alla mia reputazione?»

«Nun pensi male, commissa'... Puro rispetto. Ho capito che lei è 'na persona come se deve, che pò fà quarchecosa contro tutta la delinquenza che ce sta a Ostia e se je posso fà un piccolo favore be', è un grande onore per me».

A questo punto il dado è tratto. Antonio Assisi non fa una piega, si caccia in bocca l'ultima nocciolina, si pulisce le mani col tovagliolino e lancia a Salis il suo miglior sguardo da poker.

«E dove sarebbe 'sto studio di cui parli?»

«Io... ecco, ancora nun ce lo so. Volevo solo sentì se lei è d'accordo... Sa, io conosco tutti qua in zona, tempo 'na settimana, si me permette, rimedio un ber posticino tranquillo e je faccio sapè».

Antonio Assisi neanche risponde, si stiracchia, vuota il bicchiere, si alza, fa un cenno di saluto così svogliato da risultare oltraggioso, gira sui tacchi e se ne va, senza degnare di uno sguardo il videopoker che gli ha fatto guadagnare una piccola fortuna grazie alle diavolerie di Palle d'Oro. Er Cattivo resta solo a cantare vittoria, si apparecchia una bella pista per festeggiare e si domanda per l'ennesima volta come stanno andando le cose a Marbella visto che, stando all'ultima, criptica telefonata del Maghetto, il colpo è fissato proprio per stanotte. Ormai gli accordi con Felipe, il capitano della barca che trasporta hashish dalla Spagna, sono presi e non resta che aspettare. Strano solo che Omar sia scomparso.

 

 

 

 

Capitolo III

 

«Taglia».

Tortellino mette giù il walkie-talkie, tira un bel respiro profondo, apre la cassetta dei contatti elettrici che ha già forzato mezz'ora prima, appena arrivato nella sua postazione esterna, estrae dalla tasca le forbici da elettricista, sceglie con cura il filo contrassegnato da Maghetto con un pezzo di scotch rosso e...

Se la fa sotto dalla strizza di sbagliare. Se toppa in quel momento addio colpo, tutta la trasferta, i sopralluoghi, le attese, i piani, le spese buttati nel cesso il che vuol dire che sarà fortunato se, al ritorno, er Cattivo non gli darà il colpo di grazia dopo avergli spezzato le gambe...

Quindi esita, gli viene perfino in mente di farsi il segno della croce ma si rende conto che non è il caso, respira ancora come se dovesse battere il record di immersione in apnea, prende il filo con due dita, avvicina le lame delle forbici. Uno, due, tre, tac.

«Fatto», conferma alla ricetrasmittente. Se tra un minuto sentirà una sirena dovrà filarsela alla massima velocità possibile, aspettare gli altri, beccarsi una ripassata coi fiocchi dal cognato e dai Gemelli e tornare in Italia ad affrontare l'ira funesta di Salis. Se invece...

«Sfondiamo... Preparati a riattaccare». La voce metallica che arriva dal walkie-talkie gli sembra quella di Napoleone... A proposito, chissà che voce aveva il tappetto corso. Imperiosa, di sicuro.

Tortellino resta in attesa col cuore a mille, gli sembra di sentire un rumore di calcinacci che crollano, smette di respirare per almeno trenta interminabili secondi e finalmente gli arriva il comando che aspettava come la manna dal cielo.

«Siamo dentro. Riattacca».

Tortellino esulta, alza il pugno in segno di vittoria, poi si rende conto che è questione di istanti, prende dalla tasca il rotolo di nastro isolante e si affanna a rimettere in connessione le due estremità del filo tagliato. Da quel momento l'allarme perimetrale esterno della banca è di nuovo in funzione. Una brevissima interruzione, uno sbalzo di corrente, una caduta di collegamento, cose che accadono normalmente e che non possono insospettire nessuno. E infatti nessuno se ne accorge.

Tortellino ha esaurito il suo compito e può rilassarsi. Mentre il Maghetto e gli scavatori fanno il lavoro nel caveau, non gli resta altro che rimanere a fare il palo fino a quando, di lì a venti minuti esatti, arriverà il nuovo comando di staccare e riattaccare subito, segno che la paranza è in fuga.

Tortellino tira fuori le sigarette e la scatola di cerini che ha preso al banco della reception dell'albergo come souvenir e si accende una Marlboro al terzo tentativo, tanto gli tremano le mani. Non è un'aquila, non ha iniziativa, ha i riflessi di un bradipo e il suo ruolo nella mala è sempre stato quello di un manovale: palo, esattore, spaccagambe, buono per intimidire un creditore riottoso per conto di un usuraio o dare una bella passata di botte a uno spacciatore che ha fatto la cresta sulle dosi di strada. In compenso ha il coraggio di un giaguaro, la forza di un bue e la fedeltà di un pastore maremmano, qualità che a volte sono più preziose dell'intelligenza. Maghetto se l'è portato dietro apposta, quel cognatone irascibile e un po' tonto, preferendolo al Supplì che è parecchio più sveglio, molto meno malleabile e ha la fama di boccalarga: dovranno passare ancora parecchi giorni prima che si renda conto di quale, terribile sbaglio abbia commesso.

Maghetto dà una spallata al sottile strato di intonaco lasciato dai Gemelli dopo la loro sistematica opera di scavo, sfonda con facilità e s'infila nella banca seguito a ruota dal Palletta e dal Sellerone, tutti in tuta scura come lui, i cappellini da baseball calati sugli occhi, le bandane sul viso che li fanno somigliare a un quartetto di ninja in azione e li rendono irriconoscibili, anche se le possibilità di essere immortalati da una telecamera, se tutto andrà come deve andare, sono praticamente inesistenti. Senza una parola, seguendo un copione studiato e preparato nei minimi dettagli, il gruppo si dirige verso la scala interna che porta al sancta sanctorum dell'agenzia e si ferma davanti alla porta di ferro che fa accedere al caveau. Adesso è veramente questione di secondi. E di abilità. Una sola mossa sbagliata ed è la débâcle.

Maghetto fa cenno ai Gemelli di restare indietro e lasciargli spazio, studia con attenzione la serratura a cui, durante la sceneggiata con Amparo, ha potuto dare solo un'occhiata, annuisce come un primario chirurgo che ha trovato il punto dove affondare il bisturi, estrae di tasca un anello di ferro da cui penzolano sei o sette grimaldelli di forme e dimensioni diverse, li soppesa per qualche istante poi ne estrae uno con decisione, lo infila nella toppa, muove con delicatezza le dita, ascolta i rumori impercettibili del metallo sul metallo, gira, sonda, fruga, esplora e finalmente sente il clic di un dentino che scatta, poi un secondo, un terzo...

Maghetto avverte la morsa del blocco di acciaio che scatta, spinge piano la porta che si apre dolcemente, girando silenziosamente sui cardini bene oliati.

Il Rolex patacca con movimento cinese al quarzo gli dice che ci ha messo ventisei secondi netti. È il suo record personale ma non è ancora il momento di cantare vittoria.

Entra, solo nel caveau, individua il sensore in alto, collegato alla porta che, dal preciso istante in cui si è allontanato dall'altro polo, ha iniziato a inviare un segnale radio alla centrale operativa della vigilanza privata, prende la piccola antenna, la piega e la avvolge nella strisciolina di carta stagnola che aveva in tasca. Adesso anche il secondo allarme, quello volumetrico, è disattivato. Resta l'ostacolo più difficile da superare: le telecamere.

Maghetto sente la bocca secca come una pietraia, nonostante tutta l'esperienza che ha. Se, nel momento in cui si avvicina, un metronotte lo vede sullo schermo è finita, quindi si avventa come un coguaro sul videoregistratore VHS, estrae la videocassetta e la sostituisce con quella che ha girato assieme ad Amparo.

Se Ramon Alausia, guardia giurata della Prosegur, fosse concentrato sul monitor vedrebbe un'ombra fulminea che si accosta alla postazione video, poi una brevissima interruzione a schermo grigio e, subito dopo, la solita, noiosissima sfilata di cassette di sicurezza belle salde al loro posto. Quanto basta, almeno, per farsi venire uno scrupolo e inviare una pattuglia sul posto a controllare se va tutto bene.

Ma Ramon Alausia sta sbranando un meraviglioso panino king-size queso e jamón, accompagnato da una lattina di cerveza San Miguel e ascoltando Vamos a la playa dei Righeira sulla radiolina portatile che lo aiuta a restare sveglio durante l'interminabile turno di servizio, quindi non vede un accidente e perde per sempre l'occasione di diventare l'eroe del giorno dopo e, magari, conquistarsi una meritatissima promozione a sovrintendente con l'aumento di stipendio che lo aiuterebbe a pagare le rate della Seat. Una delle tante occasioni d'oro sfumate ogni giorno nel mondo.

«Dentro, datece sotto».

È il momento dei Gemelli. Sicuri, professionali, calmissimi, Sussi e Biribissi in azione sono molto diversi dalla strana coppia da commedia all'italiana che sembrano di solito. Tirano fuori da una grossa borsa sportiva piedi di porco, martello e tondini di ferro e si mettono a lavorare in sincronia sulle serrature delle cassette di sicurezza senza scambiarsi una parola mentre Maghetto legge i numeri di quelle da svuotare come una tombola di Capodanno. «56», crac, un rumore di ferro spezzato, uno sportellino che salta, il primo, piccolo, tesoro che finisce in un gran sacco di plastica nera. Scatole di gioielli, orologi, banconote gettate dentro alla rinfusa. «87, 93, 117, 122...». Maghetto continua a scandire l'elenco senza smettere un attimo di tenere d'occhio l'orologio. Venti minuti in tutto prima che la videocassetta finisca, il monitor si oscuri e qualcuno lanci l'allarme, il che significa che bisogna calcolarne almeno cinque per la fuga. E siamo già a nove minuti e trentasette secondi.

Sul pavimento del caveau si accumulano i primi resti del saccheggio: gioielli luccicanti, carte, soldi, una piccola pistola col calcio di madreperla che i Gemelli, saggiamente, decidono di lasciare lì perché, se le cose vanno male, la Guardia Civil ha già abbastanza reati da appioppare a tutti senza doverci mettere anche il porto abusivo di armi. Sellerone e Palletta non guardano nemmeno quello che arraffano: metodici, implacabili, imperturbabili, seguitano a spaccare, forzare, agguantare e buttare nel sacco.

Almeno così sembra.

Palletta si china su una cassetta in basso, vede qualcosa che brilla a terra, lo raccoglie, s'accorge che è un collier con uno splendido rubino sfuggito chissà come alla razzia e, visto che c'è, se lo infila in tasca e chissenefrega. Sellerone fa lo stesso con una strepitosa collana di perle, un Rolex d'oro massiccio e un anello con brillanti e smeraldi. Tanto, se non li prendono loro, se li fregheranno i poliziotti che scenderanno per primi nel caveau. Succede sempre.

Maghetto andrebbe su tutte le furie, se li vedesse, perché è un vero professionista e sa che il bottino non si tocca e va consegnato intatto a Salis, che li compenserà generosamente, ma non li vede. È troppo occupato a leggere numeri e maledire le lancette che vanno troppo in fretta: ancora 7 minuti, 5, 3...

«Fora, regà, schiodamo...». I Gemelli smettono all'istante di lavorare, mollano gli attrezzi, si caricano in spalla i due grossi sacchi straripanti e si apprestano a battere in ritirata.

«Attacca, Tortellì, sortimo».

Tortellino schizza via la sigaretta, riallaccia il contatto e si prepara ad aspettare i cinque minuti concordati, ma dopo neanche la metà del tempo previsto vede emergere quattro figure scure dalla parte opposta della strada e si affretta a raggiungerle.

«Com'è annata?». La domanda gli esce spontaneamente dalla bocca visto che, tra buio, cappelli da baseball e bandane sul viso, non può vedere le espressioni raggianti della paranza, quell'estasi da predatore appagato che si stampa sul viso di qualsiasi ladro o rapinatore dopo un colpo al velluto. Maghetto lo rassicura con il pollice alzato, poi tutti salgono sulla 127 prestata da Amparo e parcheggiata, prudentemente, a due incroci di distanza dalla banca. Maghetto guida in silenzio nel buio, attento a non fare infrazioni, mentre i quattro si scambiano pacche sulle spalle e gesti di trionfo, in direzione del mare.

Alle 3:30 di notte il porto di Marbella dorme. Le imbarcazioni dondolano pigramente, ormeggiate alle lunghe gomene lasche, sull'acqua nera come inchiostro tagliata dalle lame di luce di pochi lampioni: yacht, sloop, brigantini, motoscafi oceanici da sceicco tirati a lucido come argenteria di gala che contrastano in modo stridente coi grandi pescherecci arrugginiti e fatiscenti pronti a riprendere il mare all'alba.

La Kracatoa è una via di mezzo tra le due categorie. Una vecchia lancia di quindici metri che sembra un rottame, il residuato bellico che è, ma nasconde un cuore da Formula 1. Due grossi motori diesel potenziati capaci di reggere un mare forza otto e di raggiungere i trenta nodi di velocità. L'albero e la velatura tradizionale, randa, fiocco e spinnaker per il vento di poppa sono una copertura: servono per uscire dal porto e rientrarci ma, appena fuori di vista, le vele vengono ammainate rapidamente e la vecchia barca parte come un offshore.

Abdul Abdelkader, il capitano, scruta il buio con impazienza assieme ai due uomini di equipaggio. È un marocchino di trentasei anni, scarno, legnoso e solido come un tronco di mogano, che sarebbe perfetto per un film della serie Pirati dei Caraibi, se qualcuno l'avesse già inventata. Conosce la rotta Marbella-Ostia come un autista dell'ATAC conosce il percorso del 32 barrato, abituato a percorrerla avanti e indietro almeno tre volte al mese, i carichi di hashish in tavolette da un chilo nascosti nelle casse di pesce fresco che hanno ingannato spesso la guardia di finanza a un controllo approssimativo, addolcito regolarmente dall'offerta di qualche chilo di pescato di giornata.

Al rientro nel porto spagnolo, l'hashish non c'è più e il pesce è stato sostituito da quello stillante acqua salata fornito dal Napoletano, l'amico e sodale di Salis che ha il banco ai mercati generali e si prende una bella fetta di introiti. Abdul e i suoi non mancano mai di scaricare le casse in bella vista ogni volta che tornano a Marbella e nessuno ha mai indagato a fondo su quello strano terzetto di pescatori coi loro ceffi da galera e la vecchia lancia rugginosa che sembrano una riedizione blasfema di Simone, Giacomo e Giovanni figli di Zebedeo dopo la pesca miracolosa.

Funziona da anni, mai un intoppo. Ma stavolta è diverso. Il carico di gioielli non può essere buttato a mare in caso di emergenza come l'hashish e l'idea di avere a che fare con quattro tizi mai visti né sentiti arrivati da Roma non piace affatto ad Abdul, che non ha la minima voglia di finire in galera a farsi spaccare il culo dai compagni di cella. Come tutti i marinai, Abdul è superstizioso e, come tutti i trafficanti di droga, più sospettoso di un agente segreto. All'arrivo della 127 si dà una bella grattata ai cojones, apre il lungo Opinel con la lama da dodici centimetri che porta sempre in tasca e se lo infila nella cintola, pronto a estrarlo e a hallar carne come un baratero del 1800 e dà ai suoi l'ordine di tenersi pronti.

«Abdul?»

«Maggheto?».

In un film si scambierebbero una parola d'ordine ma questo non è un film, quindi si limitano a una rapida e gelida stretta di mano. Abdul, nonostante abbia vissuto in Spagna da quando era bambino, è ancora abbastanza arabo da tenere moltissimo all'etichetta. Ma, per riflesso di malavitoso, si imprime bene nella memoria le facce dei quattro uomini d'oro: il Maghetto che dovrebbe essere il capo, un tipo con la faccia da bue, due tizi che somigliano a una coppia di comici, uno allampanato e secco, l'altro basso e tozzo...

Abdul li considera, li soppesa, li valuta e decide che ciascuno di loro, nel suo campo, dev'essere un manico, altrimenti, improbabili come sono, nessuno li avrebbe spediti a fare un lavoro del genere.

«Avete tutto?»

«Sì».

«Allora sbrighiamoci che voglio salpare».

Tortellino consegna le due grosse borse straripanti con la morte nel cuore per non averci potuto dare neanche una sbirciatina.

È l'ultima ruota del carro e lo sa benissimo ma, accidenti, anche lui ha contribuito al colpo e non ha potuto neanche rifarsi gli occhi con tutto quel bendidio che, tra poco, lo farà ricco.

Ricco.

La parola magica, le cinque lettere che tutti stanno scandendo come un mantra da quando sono saliti in macchina e la tensione è evaporata a poco a poco. Ricchi. Non come Salis, certo, ma quanto basta per ritirarsi e godersela per il resto della vita. Fantasie variegate nella mente di ciascuno: macchine, moto, posti esotici, case da sogno, vestiti griffati, vagonate di cocaina, escort da cinquecento sacchi a botta...

La Kracatoa molla gli ormeggi e si allontana dal porto velocemente nell'acqua color inchiostro, mentre il quartetto torna sulla 127.

«Bella faccia de cazzo, er caprone...», commenta Tortellino. «E chi dice che mo' nun aprono le borse e se fregheno un po' de brillocchi?».

Maghetto sbuffa e pensa che gli è toccato un cognato veramente idiota. Chissà come fa sua sorella a sopportarlo.

«Tranquillo, Tortellì, nun esiste proprio».

«E perché?»

«Perché se er Cattivo svaga che gli hanno rubato anche solo un anellino li ammazza tutti e tre, ecco perché... E quell'arabo ci lavora da abbastanza tempo per sapere che non esiste un buco nel mondo dove se potrebbero nasconne. Vale pe' tutti, anche per noialtri, ovvio, quindi nun ve mettete in mente idee strane se volete campare e godervi i soldi».

Visto che sta guidando, non vede i Gemelli che, come un segnale prestabilito, si infilano le mani in tasca e toccano i gioielli che hanno raccolto da terra e si sono inguattati come souvenir. Sellerone e Palletta si scambiano un'occhiata eloquente, un misto di sfrontatezza, sfida e paura per quello che hanno fatto e che può costare la vita a entrambi.

«Ciao».

«Era ora, porca troia, ma dove sei finito?»

«In giro... avevo da fare».

«Che cazzo vuol dire in giro e che avevi da fare?»

«Che sono affari miei. Non ti sta bene?»

«Ok, non ti incazzare... ma lo sai che sta succedendo? La Digos ci sta massacrando, hanno scoperto i rifugi, ci sono già cinque camerati in galera, Massimo De Signori non è ancora fuori, siamo allo sbando e tu...».

«Sono dovuto partire all'improvviso... Una faccenda urgente».

«Ma dove sei?»

«Senti, meglio non parlarne al telefono, ok? Domani torno».

«Va bene, va bene... Ma appena sei qui dobbiamo vederci. Facciamo alle diciotto di dopodomani, solito posto?»

«...».

«Non ho capito, che hai detto?»

«Ho detto va bene, cazzo... Cerca di stare calmo».

«CALMO? Siamo a pezzi, Dalila è morta, l'organizzazione è allo sbando e mi dici di stare calmo? Merda, ma che ti succede? Guarda che c'è qualcuno che ha tradito e sono sicuro di sapere chi è, appena torni dobbiamo decidere cosa fare».

«E chi sarebbe stato, secondo te?»

«Pitbull. Mi ci gioco le palle... È scomparso da qualche giorno, la madre non sa dov'è e nessuno lo ha più visto. L'infame è lui».

«Come fai a esserne sicuro? Magari lo hanno arrestato...».

«Escluso. Il suo nome non è uscito sui giornali, quello degli altri sì... E ho un amico avvocato che ha un sacco di agganci in polizia: è stato fermato in segreto e rilasciato quasi subito. La spia non può essere che quel pezzo di merda, dovevi ammazzarlo quel giorno, non rompergli solo il grugno. Ora si tratta di scovarlo e di fargliela pagare, aspettavamo soltanto te».

«Va bene, ci vediamo dopodomani e ne parliamo. Ciao».

Omar mette giù il telefono e sospira. Spiate. Vendette. Ritorsioni. Da quando è salito sull'aereo per Marbella si è reso conto che non ne può più. Ma sa anche che non può tirarsi indietro di colpo. Vorrebbe dire rinunciare a tutto quello per cui ha combattuto, ha ucciso e rischia di farsi uccidere. Fa i conti con se stesso per qualche istante, sospira e decide su due piedi, come ha sempre fatto.

«Che succede, amore, grane in Italia?». La voce allegra di Amparo che viene dalla cucina assieme a un allettante odore di carne asada lo riporta a una realtà molto più piacevole. Nello stesso momento si rende conto che chiamare da casa della sua donna, anche se il numero che ha fatto è sicuro (una cabina telefonica dove ogni giorno, alle diciassette in punto, i Neri aspettano per mezz'ora le telefonate dei latitanti) è stata comunque un'imprudenza.

Sto perdendo lo smalto, riflette amaramente.

O forse è venuto il momento di darci un taglio.

No. Non ancora, non adesso.

Una Amparo in versione camerierina sexy, con tanto di vezzoso grembiulino bianco sulla minigonna inguinale, interrompe le sue cupe riflessioni con un abbraccio e un bacio che sa di olive e vino rosso.

«Ti ho preparato un piccolo aperitivo, querido...», cinguetta. «Ma che hai? Non sei felice? È andato tutto bene, ho ripreso la macchina, Maghetto dice che il carico è in viaggio e oggi tornano tutti a Roma... Ma ti rendi conto, amore mio? Siamo pieni di soldi. Ora ce ne stiamo un po' qui in santa pace poi torni in Italia, prendi la tua parte e ce ne andiamo a vivere a Londra. Ce l'abbiamo fatta, tesoro... quanto ti amo».

Omar ricambia il bacio cercando di metterci un po' di entusiasmo ma ha la mente altrove e, prima che lei inizi a fare le fusa, la allontana con entrambe le braccia.

«Anche io ti amo, querida, ma parto stasera».

«Stasera? Ma come...? Perché?»

«Perché ho delle cose da risolvere, tesoro... Devo chiudere i conti con certe persone a Roma e poi non avremo più problemi e potremo andarcene in Inghilterra. Se non lo faccio avrò sempre il rimorso. E poi voglio che quei ladroni sappiano che gli sto col fiato sul collo, non mi va di lasciarli soli troppo a lungo».

«Non ti fidi? Avevi detto che...».

«Finora sono stati corretti e, tra l'altro, hanno paura di me ma ci sono troppi soldi di mezzo e avrai capito che gente è, no? Prenderò lo stesso volo per tenerli d'occhio e mi camufferò per non farmi riconoscere...».

«Anima mia, speravo di stare qualche giorno in pace con te...». Amparo sporge il labbro inferiore come una bambina ma, smorfiette a parte, è sinceramente addolorata. Sempre così con quell'uomo pericoloso, dolcissimo, sfuggente. Mai una certezza, mai un programma sicuro, rischi e imprevisti in ogni momento. Forse è per questo che la intriga così tanto.

«Anche io vorrei stare con te, Amparo... Ma devo tornare in Italia. Avremo tutta la vita per stare insieme». E, mentre lo dice, si rende conto per la prima volta che ci crede davvero, almeno un po'.

«Maghetto dice che partono alle diciotto».

«Ci sarò anche io. Dovrò andare in aeroporto tre ore prima, per fare il biglietto... Se non c'è posto in economy andrò in business tanto ormai ce lo possiamo permettere».

«Ti accompagno io».

«Meglio di no... Solo il Maghetto ti conosce ed è meglio così. Meno gente ti vede e meglio è».

«Sempre sospettoso, sempre in allerta...».

«È per questo che non sono ancora morto né in galera».

Amparo sbuffa e guarda l'orologio.

«Abbiamo due ore, poi devi prendere il taxi».

«Allora non sprechiamole».

La carne asada resta a raffreddarsi mentre Omar trascina Amparo in camera da letto e si chiede quando e se potrà rivederla.

«Buongiorno, ispetto', dovrei vedere er dottor Assisi, sono Pietro Salis».

«Non sono ispettore e so benissimo chi è lei... Ha appuntamento?»

«No, ma si lo avvisa so sicuro che me fa salì». Er Cattivo mette su l'espressione da paraculetto finto rispettosa che assume sempre davanti alle guardie e aspetta che l'agente del posto di guardia (un ragazzino appena arruolato che, ovviamente, è lontano un oceano dalle stellette di ispettore sulla divisa) componga il numero interno del dirigente. Come previsto, il poliziotto scambia poche parole al telefono prima di rivolgergli un gesto svogliato.

«Vada pure, primo piano, seconda porta a...».

«Ce lo so, ce lo so... co' tutte le volte che m'avete interrogato ormai so' de casa, qua drento».

Nel suo ufficio, Antonio Assisi ha un'aria più arrogante che mai, i capelli color rame che contrastano con l'abbronzatura da primi soli d'estate, la cravatta allentata, l'espressione da bulldog incazzato, le maniche della camicia celeste rimboccate sugli avambracci a fiasco. Anche lo sguardo che scocca al Cattivo mentre si siede davanti a lui senza aver chiesto il permesso non ha niente di amichevole.

«Allora, Salis, ci rivediamo... Hai combinato qualche altro casino, in questi giorni?»

«Io, dotto'? Ma mica starà dietro a tutte le cazzate che dicheno... Er Cattivo è uno regolare, che lavora e rispetta la legge, che se crede?»

«E io sono Giulio Cesare... Comunque non ho tempo da perdere e tra l'altro, ti pregherei di avvertire prima di presentarti qui all'improvviso. Ti ricevo solo perché ho qualche minuto libero ma la prossima volta...».

Salis annuisce al segnale implicito. La prossima volta. Il significato è chiarissimo, nonostante la grinta da Cerbero. I loro rapporti sono solo all'inizio.

«Per carità, dotto', me scusi tanto, nun je vojo fà perde tempo... Ero passato solo a portaje 'na cosetta che je volevo dà de persona».

«Di che cosa parli?»

«Ecco, prenda... È per quel discorso che amo fatto in sala giochi». Salis tira fuori una busta che contiene un piccolo oggetto pesante e la allunga ad Antonio Assisi che la prende, la soppesa tra le mani e poi se la caccia in tasca senza aprirla.

«Bene, dotto', è tutta sua fin da adesso... Ce faccia un salto e si nun je piace trovamo quarcos'altro. L'indirizzo è sulla targhetta der portachiavi. Buone cose a lei».

Il boss della mala di Ostia e il funzionario di polizia che dovrebbe cercare di incastrarlo si stringono la mano, poi er Cattivo gira sui tacchi e se ne va trattenendosi a stento dallo sfregarsi le mani per la soddisfazione. Andata. Basta trovare il punto debole di un uomo ed è tuo per sempre. Può essere paura, avidità, ambizione, gioco d'azzardo, sesso, droga, crudeltà. Tutti hanno una porta segreta che può essere aperta. L'abilità di un capo è individuarla e saperla sfruttare. E il poliziotto, fin dall'inizio, gli è apparso estremamente vulnerabile.

Rimasto solo, Antonio Assisi apre la busta. Dentro ci sono due chiavi e la targhetta di plastica con un indirizzo. Assisi prende lo stradario, localizza dove si trova l'appartamento, avvisa che starà fuori per una mezz'ora, scende in strada, prende la macchina senza farsi accompagnare dall'autista e va a dare un'occhiata al suo nuovo nido d'amore.

Rieccoli.

Uguali a quando sono partiti, assurdi nei loro vestiti da turisti per caso: Maghetto, Tortellino, i Gemelli, tutti con quell'aria da italiani in gita, per dirla con Paolo Conte, festosi, caciaroni, euforici, con un gran rollio di trolley al seguito s'incolonnano per tempo nella fila del check-in tra milanesi fichetti, romani scaciati, sardi silenziosi e corruschi, famigliole di dubbia provenienza, una coppia male assortita che a prima vista sembra nonno con nipotina se non si tenessero per mano come fidanzatini.

Omar guarda e giudica. Depreca.

Troppo vistosi, troppo rumorosi, troppo tutto. Del resto sono ladroni, schiuma della terra, che altro si può pretendere? Non hanno l'addestramento, le precauzioni, l'abitudine all'invisibilità, a rendersi anonimi nella folla che lui e i camerati hanno imparato subito, quando sono entrati in clandestinità, prima ancora che qualcuno gli insegnasse a sparare o a maneggiare gli esplosivi.

Ladroni, coatti, barabba. Senza disciplina, senza ideali, senza gerarchia. O magari quella sì, ma è una linea di comando che si basa sulla paura, sulla violenza, sulla convenienza. Omar avverte come non mai la distanza abissale che lo separa da quel mondo melmoso, infido, pericoloso in cui si è andato a invischiare. Quell'ambiente che disprezza con tutto se stesso ma che lo ha reso ricco e indipendente.

Omar si tiene a distanza, non si fa vedere, osserva come una spia. La barba finta, gli occhiali da vista e il parrucchino lo rendono abbastanza irriconoscibile e non vuole che i quattro si accorgano che volerà assieme a loro. Il piano iniziale era quello di tenersi nell'ombra per tutto il tempo, di sorvegliare la paranza in incognito e far credere a tutti che era rimasto a Roma ma, quando ha visto Maghetto e Amparo assieme, felici, complici, allegri come bambini che hanno combinato una marachella la gelosia lo ha travolto e lo ha spinto a uscire allo scoperto...

Gelosia.

Per l'ennesima volta si rimprovera, si dà del perfetto cretino: lui, il colonnello di ghiaccio, il killer spietato capace di assassinare due sbirri a sangue freddo, il terrorista temuto e rispettato da tutti, si è fatto travolgere da un'emozione primaria e infantile, ha rischiato di rovinare tutto comportandosi come un quattordicenne in fregola.

Omar non sa cosa sia l'introspezione. I rimorsi li ha liquidati da un pezzo come inutili debolezze indegne di un combattente per l'Idea, considera la psicoanalisi una roba da finocchi ed è convinto che un uomo debba scegliere la sua strada una volta per tutte e seguirla fino in fondo senza esitazioni e senza tentennamenti.

Il problema, adesso, è capire qual è la sua strada.

Amparo? Londra? Il business immobiliare che progetta da anni e che, ora che ha i soldi per avviarlo, gli darà agiatezza e tranquillità per il resto della sua vita? Omar sa che in Inghilterra potrà contare su agganci sicuri, una nuova identità, una copertura capace di reggere per anni e anni. Difficilissimo che qualcuno possa riconoscerlo e arrestarlo oltre confine e, se mai le cose dovessero mettersi male, ha già un piano B per una fuga in extremis in Argentina dove potrà rintanarsi per sempre al riparo dalle inchieste dell'Interpol.

Lui e Amparo, una coppia piena di soldi, senza più angosce, senza dover dormire ogni notte con una pistola carica sul comodino, lontani da quella follia italiana di sparatorie, rapimenti, attentati, vendette, azzoppamenti, irruzioni. Quell'orgia di sangue e violenza che ha trasformato l'Italia in un campo di battaglia dove rossi e neri, sbirri e carabinieri si sparano addosso, si inseguono, si cacciano, si ammazzano giorno dopo giorno.

Pace, ricchezza, serenità. È questo che vuole? O tornare a combattere, riprendere la guida del suo sparuto gruppo di militanti, uccidere Pitbull, sparare a un carabiniere, piazzare altre bombe sotto le sedi del PC o l'ambasciata o la compagnia aerea di Israele, continuare la lotta fino a una vittoria sempre più improbabile o a una morte da soldato con le armi in pugno? Non è la paura che lo fa esitare, è quel senso di stanchezza, di inutilità, di sconfitta che lo assale sempre più spesso negli ultimi tempi e lo rende indeciso, incostante, ondivago.

Per questo vuole tornare subito. Forse a Roma, lontano da Amparo, potrà rifletterci meglio. E comunque la faccenda Pitbull, in un modo o nell'altro, va sistemata. Chi tradisce paga con la vita, vale per tutti. Sempre.

Omar si muove lentamente nel serpentone di gente che s'avvicina al banco del check-in, vede i quattro che depositano i bagagli sul nastro e si avviano cicalando in direzione dei controlli di sicurezza e si sorprende a invidiarli. Nessun dubbio, nessun tormento, nessuna scelta da fare: per loro è tutto semplicissimo. Un buon colpo, un bel bottino da steccare, bagordi e follie fin quando dura e magari un po' di galera messa in conto fin da bambini se butta male.

"Così è la vita, sette volte giù, otto volte su".

Omar ricorda amaramente la poesia giapponese sulle bambole Garuda che, chissà per quale ragione, gli è piaciuta tanto da impararla a memoria.

Nanakorobi yaoki.

«Solo bagaglio a mano?». La hostess di terra della Iberia parla un italiano perfetto e ha un sorriso che scioglie i ghiacciai. Omar annuisce, sobrio di parole e di gesti come sempre.

«Bella vacanza?». La ragazza esamina distrattamente il passaporto e spippola sul computer.

Omar grugnisce qualcosa di affermativo e chiede un posto in coda all'aereo, se possibile. Quelli che, in teoria, sarebbero più sicuri in caso di atterraggio d'emergenza. In realtà vuole stare più lontano possibile dai quattro barabba e tenerli d'occhio a distanza, oltre al fatto che è più a suo agio, in qualunque posto, se non ha gente alle spalle.

Carta d'imbarco e passaporto in tasca, passa il metal detector senza problemi, bighellona a casaccio tra le vetrine dei negozi senza neanche guardarle, si tiene alla larga dal gate di partenza fino alla fine e riesce a imbarcarsi per ultimo. A bordo, prende posto accanto a un ciccione che straborda dal sedile e individua subito Maghetto e gli altri tre seduti parecchie file più avanti. Ridono, scherzano, fanno casino e a un certo punto, dopo il decollo, arrivano a intonare uno stornello romano agghiacciante che provoca risate, sconcerto e qualche applauso ironico tra i passeggeri.

Er gran surtano de li Dardenelliiiii

Ha dichiarato guera all'oppressoreeee

Vedendoli arivare, tutti quelliiiiii

S'aricomanna ar Santo Protettoreeee

Maometto Maometto c'ho 'r nemico in de lo streeeetttooo

E me fa maleeeeeeeeee

Me fischieno le palle ner canaleeee.

Grandi sghignazzate, grandi urli alla hostess per chiedere altro champagne, altro whisky, altra Coca-Cola.

Omar scuote la testa e si chiede se tra un po', quando saranno completamente sbronzi, uno di loro chiederà silenzio, si metterà in piedi sul sedile e annuncerà al mondo di aver appena svaligiato una delle banche più ricche di Spagna, forse di tutta l'Europa.

È così che ci si fa arrestare. Mettendosi in mostra.

Il ciccione accanto a lui fa un gesto in direzione dei quattro con una smorfia tra il divertito e l'esasperato, Omar fa spallucce come a dire: sono ragazzi, si divertono, che ci vuol fare?

Al momento dell'atterraggio si calmano un po'. Uno dei Gemelli, nel prendere lo zainetto dalla cappelliera, guarda proprio verso di lui ma l'occhiata gli scivola addosso senza alcun segno di riconoscimento.

Idioti. Allegri, incoscienti, inaffidabili idioti.

Omar li guarda avviarsi verso il ritiro bagagli, esce dall'aeroporto, sale su un taxi e si fa portare all'albergo di piazza Indipendenza, stranamente felice alla prospettiva di passare una notte da solo, senza sesso, senza tenerezza, per fare i conti con se stesso.

Mentre scruta le valigie che, lentamente, sfilano sul nastro alla ricerca della sua, Maghetto stringe il polso di Tortellino.

«Hai visto chi ce stava in fonno all'aereo?»

«Sicuro, a Maghè, quer cojone pensava che bastasse 'na barba finta, 'na parucca e l'occhiali pe' nun fasse riconosce... Ce pija proprio pe' stronzi».

 

 

 

 

Capitolo IV

 

«Cabrón». Schiaffetto sulla nuca a dita tese. Un male boia.

«Mierda». Tirata di capelli. Lacrime agli occhi.

«Maricón». Nocchino sulla nuca. Fitta di dolore che arriva ai piedi.

Ramon Alausia frigna come un neonato e continua a scuotere la testa e a balbettare che no, non è vero, non c'entra, non è il basista, non ha fatto niente, non ha idea di chi sia stato, non lo hanno pagato né minacciato o ricattato e, sì, va bene, forse si è distratto un attimo ma sul monitor non è comparso niente di sospetto e, per carità, smettetela, smettetela, che male, lo avete visto anche voi, no? C'era una videocassetta registrata con le immagini delle cassette di sicurezza ancora intatte e come cazzo avrei potuto immaginare che... ahi, por favor, por favor, señores...

Niente da fare, non gli credono. O magari continuano a torchiarlo e a fargli sputare sangue solo perché da queste parti si fa così, perché la Policía, come la Guardia Civil, è ancora quella dei tempi di Franco e un interrogatorio come si deve comprende sberle, urla, insulti, minacce, dolore, paura, altrimenti come si fa a capire se un sospettato mente o dice la verità?

E giù un pugno in pieno stomaco tanto per ribadire il concetto. Il metronotte incassa, s'insacca su se stesso, vomita a secco visto che non ha niente nello stomaco ed emette una sorta di belato da agnello al macello.

Alfonso Carnicero storce la bocca, fa per dire ai suoi di darci un taglio ma rinuncia, visto che conosce la prassi operativa come chiunque altro e con una grana stratosferica come quella che gli è capitata non è il momento di mettersi a fare i garantisti.

Lui, Alfonso Carnicero, questi metodi non li approva e non li applica, nonostante la maledizione di un cognome che significa "macellaio". È un investigatore puro, di quelli che fanno lavorare le meningi, più che le mani, considera la violenza l'extrema ratio, da usare con moderazione e solo quando proprio non ci sono alternative e qualcosa gli dice che con questo disgraziato stanno solo perdendo tempo. E tempo ne ha pochissimo, tra clienti VIP inferociti che cominciano a minacciare azioni legali e chiedere risarcimenti stratosferici, la stampa scatenata, le autorità in subbuglio, i curiosi perennemente assiepati davanti alla banca nella speranza di veder arrivare qualche volto noto e la sua poltrona pericolosamente traballante. Le vacanze in Grecia progettate con Dolores da almeno quattro mesi sono già saltate e, probabilmente, anche la vita di coppia a meno che non arrivi il colpo di fortuna che gli consenta di risolvere il caso di questo dannato furto al caveau.

Prima regola di un'inchiesta su un colpo in banca: c'è sempre un basista. Mentre gli impiegati sfilano in mesta processione davanti a poliziotti che li guardano come se volessero mandarli direttamente alla garrota, lui e il suo gruppetto scelto si concentrano sui principali sospetti che, a rigor di logica, sono la guardia giurata in servizio al momento del colpo e il direttore dell'agenzia.

Seconda regola di un'inchiesta sul colpo in banca: il basista è l'anello debole. Scopri le sue debolezze ed è fatta.

Il problema è che Ramon Alausia, a quanto pare, di debolezze non ne ha. Non gioca, non ha amanti, non si droga, non scopa in giro... E del resto chi se lo prenderebbe 'sto fessacchiotto con la faccia da Ciccio Papero che non smette di piagnucolare da quando l'hanno chiuso in una stanza e hanno cominciato a strapazzarlo?

Quanto al direttore, ancora peggio: secco, legnoso, distinto, faccia da vecchio colonnello, dignità da hidalgo, manda avanti la banca da quindici anni, viene da una famiglia benestante, ha amicizie di alto livello e quindi nessuno ha osato toccarlo con un dito, l'interrogatorio si è limitato a una formalità burocratica e tanti saluti, le faremo sapere se ci sono novità, si tenga a disposizione. L'unico rischio con lui è che torni a casa e faccia seppuku come un samurai per la vergogna dello smacco... ci mancherebbe solo quello.

Insomma, inchiesta che gira a vuoto, nonostante le roboanti dichiarazioni del capo che, a ogni microfono, telecamera, penna e taccuino che lo avvicinano continua a sorridere fiducioso e ad assicurare che una pista già c'è, li prenderemo sicuramente, è solo questione di tempo e bla bla bla...

Dato che qualcosa bisogna pur fare e che dei sopralluoghi sul posto si stanno occupando quei geni della Scientifica, Carnicero continua a passare al tritacarne, con sempre minor convinzione, il povero metronotte fino a che...

Il colpo di scena, come tutti i colpi di scena che si rispettino, arriva all'improvviso con un poliziotto della Judicial che chiamano el Gordo, ansimante e sudato che bussa alla porta, fa capolino e si sbraccia freneticamente in direzione di Carnicero.

Ramon Alausia approfitta della pausa per nascondere il viso tra le mani e singhiozzare disperatamente. Perfino gli sgherri più induriti cominciano a pensare che il disgraziato è innocente come un serafino.

«Che c'è, Gordo?»

«Guardi qua... Non so se può entrarci qualcosa ma volevo fargliela vedere, doctor...».

Alfonso Carnicero si china a osservare il quadratino di cartone che quasi scompare tra le manone dello sbirro. Niente guanti di lattice, niente bustine di cellophane per custodire i reperti trovati sulla scena di un crimine: certe finezze devono ancora arrivare e 'fanculo alle impronte digitali.

«È una scatola di fiammiferi, Gordo, e allora?»

«Sa dove l'ho trovata? Proprio accanto alla cassetta del telefono che era stata forzata. Lì per lì non ci ho fatto caso, ne ho preso uno per accendermi una sigaretta e me la sono messa in tasca ma a ripensarci mi è venuto in mente che magari potrebbe entrarci qualcosa».

Alfonso Carnicero soppesa la scatoletta di fiammiferi, la guarda bene e riflette sul fatto che se un poliziotto ha un quoziente d'intelligenza appena sotto quello di un cercopiteco è garantito che lo assegnano alla sua squadra. E meno male che el Gordo fuma, sennò addio indizio.

Comunque, visto che grazie a lui c'è almeno uno spunto su cui lavorare, Carnicero gli molla una pacca sulle spalle che fa tremolare oltre un quintale di lardo come una torta di gelatina.

«Sei grande, Gordo, in tutti i sensi... Ma lo vedi che c'è scritto qui?»

«Hotel La Riviera, perché?»

«Come perché? Sono i fiammiferi che danno negli alberghi per farsi pubblicità».

«E secondo lei l'ha lasciata cadere uno dei ladri?»

«È una possibilità su un milione, con tutti i turisti, i curiosi, i giornalisti che c'erano davanti alla banca».

«Allora sicuramente non c'entra... Ha ragione lei, una possibilità su un milione».

«Già, ma pur sempre una possibilità... andiamo!».

L'Hotel La Riviera è il solito due stelle-topaia da turisti low cost, con l'eterno odore di brodo, la mezza pensione coi pasti che escono direttamente dal congelatore, la moquette lurida e disseminata di bruciature di sigarette, le stampe a soggetto marinaro da attacco di depressione, l'ascensore che si ferma un giorno sì e l'altro pure e il concierge con la faccia da topo.

Un topo sveglio, ciarliero e con una gran voglia di collaborare. Botta di fortuna che ci voleva proprio.

Alfonso Carnicero tira fuori il tesserino, si presenta, percepisce il solito fremito di paura che prende sempre chi ha vissuto a lungo sotto una dittatura alla vista di un poliziotto e cala l'asso.

«Stiamo cercando qualche cliente partito nelle ultime ore... diciamo tra ieri sera e stamattina».

«Sì, señor... Stamattina alle nove ha fatto il check-out una famiglia di francesi. Molto simpatici, una coppia con due bambini di sette e nove anni, pensi che...».

«E chi altro è partito di recente?»

«Ieri pomeriggio sono andati via i tre italiani».

«Che italiani?»

«Tre tizi proprio strani».

«Strani come?»

«Be' per cominciare erano tre uomini senza donne ma non sembravano maricónes... Vabbè, ce ne sono tanti che vengono a Marbella per rimorchiare, sa com'è, no? Le ragazze di Marbella piacciono a tutto il mondo anche se, secondo me, sta diventando uno schifo con tutta sta puttaneria in giro...».

«Non me ne importa un cazzo delle ragazze di Marbella neanche se si mettono a fare pompini sugli autobus. In che senso strani?»

«Non uscivano mai. Stavano sempre in camera. Dico io, se non vai al mare o a divertirti tanto valeva che te ne restassi a casa tua, no? Ho pure chiesto se magari si sentivano male e avevano bisogno di un dottore ma mi hanno risposto di farmi i cazzi miei... E infatti erano tutti di Roma».

«Perché infatti?»

«Be', dicono tutti che quelli di Roma sono gli italiani più cafoni. Pensano tutti di essere Giulio Cesare».

«Fammi vedere il registro dei clienti, sbrigati».

Alfonso Carnicero esce dall'Hotel La Riviera con una speranza in più e tre nomi appuntati sul calepino: Sandro Balducci, Ermete De Paolis e Aldo Livera. Adesso si tratta di passarli all'Interpol, utilizzare i canali ufficiali, aspettare le autorizzazioni, attendere la risposta da Roma ammesso che qualcuno si degni di rispondere e la richiesta non finisca insabbiata chissà dove per distrazione, negligenza o pigrizia. Una montagna di scartoffie e un sacco di tempo sprecato.

Carnicero di tempo non ne ha quindi opta per il piano B.

Gioielli. Lingotti giallo cupo che mandano lampi. Banconote di ogni valuta, dai dollari ai marchi tedeschi, dai pound inglesi alle lire, mazzette di biglietti usati o nuovi di zecca, ancora in fascette accatastati in piccoli montarozzi. Sterline d'oro. Orologi di ogni marca ma tutti costosissimi. Perle. Pietre preziose sfuse. Fasci e fasci di documenti che nascondono chissà quali segreti e andranno compulsati uno per uno, con estrema attenzione, visto che una sola carta, quella giusta, se c'è, potrebbe valere più di tutto il resto o garantire immunità a vita sul filo di un ricatto. Camei, coralli, preziosi pezzi d'antiquariato. Un pugnale istoriato e ageminato, dalla lama larga e curva, che sembra uscito dalla tenda di uno sceicco. Una tabacchiera d'oro zecchino con rubini e tormaline incastonati.

Un tesoro ammonticchiato alla rinfusa sul tavolo da lavoro di un garage alla periferia di Ostia. Uno spettacolo che fa girare la testa, mozza il respiro, sconvolge ogni prospettiva. Eccola qui, la ricchezza che ti piomba addosso di botto, ti cambia la vita, ti proietta verso inimmaginabili vette di ambizione, potere, predominio.

Er Cattivo ha passato metà della notte a contemplarla, quella manna improvvisa e ancora non si è stancato. Il fidatissimo gioielliere-ricettatore bru bru che ha ingaggiato per l'occasione con una parcella da cardiochirurgo, ha dato una prima valutazione a spanne a cui dovrà seguire una cernita laboriosa e accurata, pezzo per pezzo. Ma anche così il responso è da sballo.

«So' almeno quaranta miliardi, Pietro. E mi tengo basso».

Omar fatica a mantenere la maschera di impassibilità del terrorista di ghiaccio, la faccia di pietra da guerriero mongolo che è diventata la sua seconda natura ma, dentro, trepida, esulta, gioisce.

Il tizio secco e grigio, vicino a lui, osserva il bendidio con aria professionale senza mostrare la minima emozione. Una sorpresa che er Cattivo non si aspettava e che gli ha fatto storcere il naso.

«Questo signore è un camerata che lavora al Monte di Pietà e s'intende di gioielli. Ci darà una mano con la stima, se sei d'accordo». Salis, ovviamente, non è d'accordo neanche un po' ma dato che anche lui si è portato dietro un estraneo e che la valutazione dev'essere fatta in due non può far altro che ingoiare il rospo e tirare fuori una bottiglia di champagne.

«Prima bagnamo e poi lavoramo... alla nostra». Quattro bicchieri di carta pieni di Krug millesimato levati in alto all'unisono, alle 11:30 del mattino, in un brindisi silenzioso, saturo di sospetti e veleni.

«Allora, Omar, ch'avevi ragione... M'hai fatto fare un botto da paura. L'amico, qui, dice che so' almeno quaranta mijardi...».

«A occhio e croce direi almeno cinquanta», interviene prontamente Grigio che si becca un'occhiataccia al cianuro dal Cattivo. Cominciamo bene.

«Vabbè, nun se mettemo subito a questionà... Piuttosto ho saputo che te sei fatto un viaggetto in Spagna pure tu... Nun m'avevi detto un cazzo».

Omar coglie la sfumatura e stringe le labbra in una linea sottile.

«Ho deciso lì per lì... Qualcosa in contrario?»

«Ahó e nun te incazzà... Dicevo così. Pensamo a tutti i sordi che amo fatto, piuttosto». Ma il tono conciliante del Cattivo è smentito da uno sguardo assassino. Soci forse. Amici mai.

Pausa. Due contro due. Sguardi in cagnesco davanti a una montagna di soldi. In un film di Tarantino, a questo punto, tutti tirerebbero fuori le pistole. Quentin esagera sempre, per questo ha tanto successo.

Er Cattivo s'infila una mano in tasca, fruga, tira fuori la scatolina magica d'argento massiccio.

«A regà, famola finita che c'è da lavorà. Che ne dite, 'na bella botta pe' dasse la carica?».

Salis e il gioielliere s'avventano sulle piste come aspirapolveri. Omar declina con un gesto secco e, misericordiosamente, evita di sottolineare che odia la droga e i drogati e li metterebbe tutti al muro, e il perito del Monte, che, invece, ha una passione smodata e segreta per la coca, si adegua di malavoglia.

Segue una cernita meticolosa ed estenuante dei gioielli. Per ogni pezzo che esaminano, i due esperti si becchettano come galli da combattimento ma, del resto, sono pagati per questo.

«Questo vale due milioni...».

«Stai scherzando? Almeno tre e mezzo».

«Con quello smeraldo? Ma non vedi che è scheggiato? E poi il taglio carré non lo vuole più nessuno».

«È una pietra perfetta... Li vale da sola, i tre pippi. E i brillanti sulla montatura te li dimentichi?»

«Brillanti? Zirconi vorrai dire...».

«Se non distingui un diamante da uno zircone tanto vale che cambi mestiere».

E avanti così per ore. A un certo punto i due s'accapigliano a un livello tale che sembra stiano per passare alle mani, sotto lo sguardo divertito di Pietro Salis e quello impassibile di Omar Gentile che, per tutto il tempo, è rimasto seduto al suo posto, senza muovere un muscolo, senza mai tradire la minima emozione, bevendo un paio di bicchieri d'acqua mentre Salis, a forza di strisce e champagne, raggiungeva uno stato di beatitudine celeste.

«A Omare, e rilassate un po', cazzo, pare che stai a un funerale...». Strafottente.

«Mi rilasserò quando avremo finito, questo mercanteggiare non mi piace per niente». Glaciale.

Alla fine la contrattazione arriva al capolinea e, come tutte le contrattazioni che si rispettino, s'attesta su una via di mezzo: trentotto miliardi di cui venticinque in oro e valuta e il resto in gioielli. Er Cattivo pesca trionfalmente un Rolex da emiro del Kuwait, oro massiccio e gioielli, e se lo infila al polso, gongolando.

«E questo me lo pijo io come souvenir. Te piace quarche cosa, Omare? E tojetelo, 'no sfizio, quarche volta, no?»

«Mi basta la mia parte, grazie... Non mi piacciono i gingilli».

Salis sospira e pensa che se qualcun altro gli mancasse di rispetto in quel modo e in pubblico, per di più, non vivrebbe abbastanza per andarlo a raccontare ma, un po' perché è sballato di brutto e un po' perché è sicuro di avergli tirato una bella fregatura, lascia correre. La parte di Omar è di quindici miliardi e duecento milioni, tutti in lingotti e denaro visto che la maggior parte dei gioielli andranno smontati e l'oro squagliato e, comunque, qualunque ricettatore non potrà farci di più del cinquanta percento del valore reale. Salis sa benissimo che con la sua rete di gioiellieri collusi potrà arrivare anche al sessantacinque o addirittura al settanta, perché molti preziosi finiranno in blasonate oreficerie del Centro, magari corredati di documentazione farlocca. E poi ci sono i documenti che andranno passati al setaccio in un secondo momento e potrebbero nascondere miniere di segreti e ricatti. Conclusione: il più dritto è sempre lui.

Sono le venti passate quando Omar raccoglie banconote e lingotti in una grossa borsa sportiva e prende commiato. Nella mala una giornata del genere può finire in due modi: a tavola o con una sparatoria. Ma Omar non è un malavitoso, quindi stringe freddamente la mano a Pietro Salis, ignora il gioielliere ed esce dal garage con il suo perito esausto al seguito. Er Cattivo lo vede andar via e si domanda se si incontreranno ancora. Meglio di no, visto che quel tipo si porta la Morte appresso e la Sventura sulla spalla come il pappagallo dei pirati. Di terroristi, er Cattivo non ha mai capito molto ma una cosa gli sembra sicura. Possono solo perdere.

Lui, invece, è un vincente. E sta per diventare il Re della mala di Ostia. Resta solo da liquidare Maghetto, i Gemelli e Tortellino con la loro parte e Salis decide di mostrarsi munifico: mezzo miliardo all'allarmista, cento milioni a testa agli altri tre, basta che si levino dalle palle per sempre e, soprattutto, sappiano tenere la fogna cucita ma, su questo, er Cattivo ha pochi dubbi: sa che sono tutti professionisti di alto livello, gente d'omertà che non si farà scappare una parola. E se dovessero far andare troppo la bocca ci penserà lui a tappargliela per sempre.

Nicola Cavallini butta giù il caffè del bar interno con la solita smorfia di disgusto e si domanda perché diavolo continua a berlo tutti i giorni, visto che fa così schifo. Forse per il gusto maligno di prendersela col barista della questura che, ogni singola volta che lo vede, alza gli occhi al cielo e aspetta l'inevitabile frecciatina.

«Complimenti, Alfio, stavolta che ci hai messo dentro? No, aspetta, fammi indovinare... Cacca di topo? Scarafaggi tritati? Ossa di morto in polvere?»

«Miscela arabica Lavazza, dotto', la migliore, come sempre».

«Hai sbagliato mestiere. Sai una cosa? La prossima volta che interroghiamo qualcuno ti chiamo... Altro che strilli, gli fai un caffè, lui lo beve, io lo minaccio di dargliene un altro e quello si mette a cantare che neanche Ornella Vanoni».

«Quella se la ricorda solo lei, dottore... Forse perché è della sua generazione».

«Molto spiritoso. Torno su e ti denuncio per oltraggio... e attentato alla salute pubblica, ovviamente».

«Lei ha sempre voglia di scherzare, dotto'».

«Scherzare? E ti pare che uno abbia voglia di scherzare dopo aver bevuto una ciofeca come questa? Di suicidarsi, piuttosto». Finito il siparietto, Cavallini lascia una mancia munifica come fa ogni mattina, torna nel suo ufficio di capo della mobile, tira fuori il piccolo pettinino d'osso da cui non si separa mai e si dà una bella pettinata ai baffoni che gli sono valsi il soprannome di Tricheco. Un tricheco piccolo, massiccio, ironico, sagace come pochi e con una perenne voglia di scherzare e cazzeggiare anche nei momenti più convulsi e drammatici. Quando dirigi il primo team investigativo della questura di Roma, in una fase storica in cui i morti ammazzati di mala e terrorismo si contano a decine, devi trovare per forza una valvola di sfogo o la tensione che si accumula ora dopo ora e rischia di farti esplodere come un palloncino. C'è chi si rosicchia il tempo per giocare a tennis, chi si diverte a compilare verbali in versi che non arriveranno mai in Procura, chi si porta a letto tutte le colleghe disponibili senza distinzioni d'età e bellezza, chi passa l'ora della pausa pranzo a sparare al poligono o ad allenarsi nella palestra del primo distretto di piazza del Collegio Romano.

Nicola Cavallini scherza, sfotte, prende in giro. E non abbandona la sua scrivania al secondo piano di San Vitale dalle nove del mattino alle undici di sera con le poche eccezioni di una capatina al bar o in uno dei ristorantini economici sparpagliati lungo la direttrice di via Nazionale per uno spuntino al volo. Una vita, una missione. I suoi uomini, bersaglio perenne di frecciatine, punzecchiature, sfottò e ironia al vetriolo lo adorano.

«Dotto', hanno chiamato dalla Spagna per lei mentre era al bar». Il piantone s'affaccia senza bussare, come sempre, mentre Cavallini si accende una delle sue lunghe sigarette sottili che appestano l'aria peggio del napalm.

«Dalla Spagna, Griffo? Sicuro? Ma lo sai dov'è la Spagna?»

«Vicino alla Francia mi pare... O era il Giappone? Era un collega di lì, Carnicero Alfonso...».

«Azz... grazie, Griffo, va' a ripassarti il mappamondo: è quel pallone con tutte le scritte e un sacco di colori diversi, hai presente?»

«Provvedo subito. Ha lasciato un numero, ecco qui».

Cavallini pigia sui tasti del telefono mentre, con l'altra mano, tamburella sulla scrivania con lo chevalier che porta al mignolo, un altro dei suoi tic.

«Macellaio... Quanti ne hai squartati oggi?»

«Tricheco... Te li sei tagliati quei baffi? Guarda che prima o poi ci inciampi e ti rompi il grugno... Oddio, non sarebbe un gran danno, tanto più orrendo di come sei non puoi diventare».

«Tua moglie la pensa diversamente... mi trova stupendo, soprattutto quando sono nudo. A proposito, l'ultima volta ho lasciato un paio di mutande a casa tua, me le fai riavere?»

«Le abbiamo usate per concimare le piante... Sono morte tutte. Devi avere qualcosa di velenoso tra le gambe. Come stai?»

«Solito. Incasinato marcio, tu?»

«Non me ne parlare, hai letto del colpo a Marbella? Sono tutti impazziti. È per questo che ti chiamo, non per sentire le tue cazzate».

«Me lo immaginavo. Figurati se telefonavi per fare due chiacchiere con un amico... Dài, prima dimmi come state, tu e Dolores».

«Benissimo fino a tre giorni fa. Ora col pugnale tra i denti. Mi sono saltate le ferie e non l'ha presa bene. Se non chiudo in fretta questa storia mi sa che mi tocca divorziare. Verrò a vivere da te».

«Avvertimi quando arrivi che carico la 357 magnum. Comunque farebbe benissimo a mollarti, poveraccia. Dovrebbero farla santa solo perché ti sopporta».

«Itala invece non ti regge proprio. Me lo dice sempre quando mi telefona piangendo alle tre di notte».

Ci sono tre categorie di persone che possono vivere un'amicizia e un'empatia assoluta, quel tipo di fratellanza che nasce quando condividi una vita assurda fatta di rischio, pericolo e stress senza limiti: i militari, i malavitosi e gli sbirri.

Flashback sul passato: Cavallini e Carnicero sotto un diluvio scrosciante che corrono con le armi in pugno verso una villetta vicino Toledo dove sono asserragliati cinque banditi marsigliesi pronti a farsi ammazzare piuttosto che arrendersi, ultimo atto di una lunga indagine che si è snodata per mezza Europa. Poi spari, urla, elicotteri, cinque arresti in simultanea, un doppio encomio della polizia spagnola e italiana, pochi momenti di relax prima di prendere ognuno la sua strada, rare chiacchierate al telefono, promesse mai mantenute di vedersi una buona volta con mogli e compagne per una breve vacanza...

Basta per diventare quasi fratelli? A volte sì. Per Alfonso e Nicola è bastato. Anche perché Carnicero ama follemente l'Italia, parla un italiano perfetto che gli permette di tenere botta nei duetti con Nicola Cavallini e le rispettive compagne si adorano. E ora, finita la fase obbligatoria di cazzeggio, si passa alla modalità operativa.

«Dimmi, Macellaio».

«Ho tre sospetti, tutti romani. Hanno alloggiato in un albergo vicino alla banca e sono ripartiti il giorno dopo il colpo. Non è molto ma potrebbero essere loro. Se aspetto l'Interpol potrebbero morire di vecchiaia prima che arrivi la rogatoria. Gli dai una controllata por favor?».

Cavallini pesca un foglio e una biro nel caos primordiale della scrivania e si accende un'altra sigaretta prima di chiedere i nomi.

«Te li scandisco bene, visto che sei sordo come una campana: SAN-DRO BAL-DUC-CI, ER-ME-TE DE PA-O-LIS, AL-DO LI-VE-RA: ti dicono niente?».

Nicola Cavallini consulta rapidamente il suo archivio mentale e trova subito il file giusto.

«Mi sa che hai fatto bingo, frate'. I primi due sono i Gemelli, due specialisti nei furti ai caveau che lavorano sempre in coppia. Veri professionisti. Il terzo non mi dice niente, vedo se c'è un fascicolo su di lui ma mi sa tanto che è il classico scavatore, un manovale che si sono portati dietro per i lavori pesanti o magari per fare da palo. Strano che siano solo tre, però... Dovrebbe esserci stato almeno un quarto uomo, l'allarmista che non manca mai».

«Be', non ho altri nomi, almeno per adesso».

«Vedrò chi bazzicano di solito. Hai beccato il basista?»

«Non ancora, ci sto lavorando».

«Se ci lavori tu quello può stare tranquillo. Be', vado subito a controllare 'sti tre simpaticoni e ti faccio sapere».

«Gracias, amigo».

«Figurati. Ti richiamo».

Cavallini abbassa il telefono, caccia uno strillo baritonale a Griffo e convoca seduta stante Mimmo Rossi, il temibile ispettore Mastrolindo, una specie di cinghiale iperpalestrato che mette strizza solo a vederlo e gli ordina di correre all'istante a fare una visitina ai Gemelli e vedere se riesce a trovare anche Livera. Perquisizione, interrogatorio e tutto il resto.

«Mi raccomando, vacci giù duro». Il ghigno da squartatore di Mastrolindo è una promessa di sfracelli e devastazioni.

«Adesso. Bisogna farlo adesso, subito... Abbiamo aspettato anche troppo».

Giorgio lancia un'occhiata eloquente a Omar che finge di non vederla. Il clima è già abbastanza incandescente senza bisogno di mettersi a litigare. Furia, voglia di vendetta, dolore, frustrazione.

«È uscito di galera venti giorni fa... Mi sono appostato sotto casa sua, l'ho visto tornare da mammina, quel traditore». Dimagrito, spiritato, quasi isterico, Giorgio ha negli occhi la luce folle di chi ormai cerca solo la morte. Quel percorso di autodistruzione da cui raramente si torna indietro. Alle sue spalle, Salvo, il mite, servizievole spilungone del gruppo dei Neri si beve ogni sua parola come Vangelo e si capisce lontano un miglio che, ormai, è diventato un suo fedelissimo. In assenza di Omar, gli equilibri sono mutati, un cambio di direzione e di gerarchia sembra inevitabile a meno che lui non riprenda immediatamente il comando con un colpo di mano, come ha fatto con Pitbull spaccandogli la faccia e, probabilmente, trasformandolo in un infame.

Omar sospira e si domanda se ne ha voglia. Ma non è mai stato uno che abbandona il campo di battaglia, neanche per quindici miliardi e duecento milioni di buone ragioni.

«Ma tu dove cazzo eri finito?», sbotta Chen all'improvviso. Domandone da un milione di dollari.

«Stavo dietro la storia del colpo in Spagna. A quanto ne so è andata bene...».

«Quanti soldi sono?»

«Non lo so ancora... Devo vedere quel ladrone, Pietro Salis, ma prima volevo incontrare voi», mente Omar con disinvoltura perché almeno una cosa l'ha decisa: a Rivoluzione Nazionale andranno solo gli spiccioli, quanto basta per comprare un po' di armi, documenti fasulli, affittare o acquistare nuovi rifugi e, insomma, alimentare l'illusione di poter continuare a combattere una guerra già persa. Lui, Omar, è da un'altra parte, con la mente e con il cuore ma, prima di iniziare la sua nuova vita, c'è la faccenda di Pitbull da risolvere.

«L'avranno messo sotto scorta», obietta debolmente.

«No. Ho controllato. All'inizio c'era quella che chiamano vigilanza fissa, una volante sotto casa. Ma negli ultimi giorni neanche quella, solo una macchina della polizia che passa un paio di volte al giorno e neanche si ferma. Si vede che nemmeno gli sbirri vogliono sprecare energie per proteggere un bastardo spione».

Omar gli fa cenno di tacere e riflette a voce alta. Se questa dev'essere la sua ultima azione non ha la minima intenzione di correre rischi.

«Se volessero farlo deporre al processo l'avrebbero messo nel piano di protezione dei collaboratori di giustizia e Pitbull sarebbe sparito... Evidentemente lo considerano una fonte confidenziale e ha già detto tutto quello che doveva dire, oppure è riuscito a trattare e a farsi rilasciare dopo aver parlato. Ammesso che abbia parlato, perché non ne siamo ancora sicuri».

«Cosa? Hai ancora qualche dubbio? È un traditore e va ammazzato come un cane», ringhia Giorgio di rimando. A Omar non sfugge il mormorio di approvazione generale, le teste che annuiscono.

Sempre così. Si inizia sparando al nemico, si finisce per ammazzarsi tra di noi. Dalla Rivoluzione Francese in poi, la storia si ripete: chi di spada ferisce eccetera eccetera.

«Se non è sotto protezione potremmo prenderlo e portarlo qui. Lo interroghiamo e scopriamo se è vero che ci ha traditi. Non mi va di ammazzare un camerata innocente solo perché è stato fermato per qualche giorno dagli sbirri... Non possiamo farlo fuori sulla base di semplici sospetti», argomenta Omar nel modo più assertivo possibile. Parole al vento.

«Sospetti? Innocente? Ma che cazzo dici, Omar? È stato lui e basta. Nessun altro, oltre a noi, sapeva del rifugio sulla Cassia, porca puttana», urla Giorgio.

«Omar, pensaci... Se non avesse spifferato tutto starebbe ancora in carcere», aggiunge Salvo.

«È un infame, va steso», conclude Maurizio "Chen".

Le comparse fanno sì tutte insieme e potrebbero mettersi ad applaudire a comando come il pubblico pagato di uno studio televisivo.

In democrazia la cosa sarebbe già risolta: tutti contro uno. In un'organizzazione di neofascisti che vuole rovesciare la democrazia e insediare una dittatura con le stellette le cose vanno diversamente. Omar, all'improvviso, sa esattamente quello che dovrebbe fare e sa che non lo farà mai: ribaltare la situazione, tornare a imporsi come capo indiscusso, rimettere Giorgio al suo posto con le buone o le cattive, ruggire, minacciare, picchiare, sfidare, tirare fuori il ferro...

Ma si sente troppo stanco, troppo demotivato per tutto questo. E poi perché? Per chi? In nome di cosa? Di un'Idea sempre più vaga, fumosa, incomprensibile? Della lealtà ai suoi camerati che gli stanno voltando le spalle? Della scia di sangue che si è lasciato dietro in tutti questi anni?

C'è un momento in cui chiunque capisce che la sua vita è a una svolta e quel momento, per Omar Gentile, è arrivato molto prima che uscisse da un garage di Ostia con una fortuna nascosta in un borsone sportivo.

«Va bene, mi sembra che siate tutti d'accordo. Spero solo che non dovremo pentircene», capitola.

«Nessun pentimento. Se non ti va di farlo lo faccio io». È Giorgio, ovviamente.

Omar gli si piazza di fronte e gli pianta in faccia le due lame di ghiaccio che ha al posto degli occhi.

«Lo faccio io, Giorgio. Io e nessun altro. Qualcosa in contrario?».

Tutti se la fanno addosso. Nessuna obiezione.

«Allora sia... Salvo, domani io e te ci appostiamo sotto casa di Pitbull, studiamo gli orari in cui entra ed esce e al momento buono facciamo questa cosa. Sarò io a sparargli, sia chiaro per tutti».

«E io?», salta su Giorgio, offeso e umiliato.

«Tu te ne stai buono ad aspettare... e nel frattempo cerchi di non fare cazzate. Per questa azione Salvo e io bastiamo e avanziamo».

«E perché?»

«Perché ho deciso così».

Sfida di sguardi. Giorgio cede, brontola, si rassegna. Omar gli allunga una pacca conciliante sulla spalla e chiede scusa mentalmente a Pitbull sperando che sia l'ultimo che dovrà ammazzare.

 

 

 

 

Capitolo V

 

«So' cinquecento meloni, Maghè... Sei ricco».

Maghetto strabuzza gli occhi e inghiotte a secco davanti alla borsa piena di banconote e fa una faccia come se qualcuno gli avesse agguantato i testicoli e stesse giocando al tiro alla fune.

«Che d'è? Nun te stanno bene i sordi? Preferivi i brillocchi? Guarda che non c'è problema...».

«Ma no, a Cattivo, è che...».

«Te l'avevo detto che era un ber botto, no? E mo' che ce fai co' tutta sta grana?»

«Ecco, io...».

«Te ce compri er parcheggio vero? Quer parcheggio der cazzo che te piace tanto... Artro che gestore, mo' diventi er proprietario, te butti a pancia all'aria, fai lavorà quarchedun artro e te becchi l'incassi».

«Sì, però, c'è...».

«Ma me sa tanto che te voi levà quarche sfizio, giusto? 'Na machina come se deve, 'na bella moto, quarche fica spaziale».

«La fica? Sì ma...».

«Ahó, ma che nun te piace, la fica? Mica sarai 'na checca, a Maghè?»

«Io? 'Na checca? Ma che stai a dì? No, veramente...».

«Ecco, lo dicevo io... Co' 'sto fatto che nun te se vede mai co' 'na donna magara quarcheduno penza male ma io ce l'ho sempre saputo che tu sei 'n omo vero... Sei un grande, a Maghè. Er mijore, fattelo dì da uno che 'ste cose le capisce. J'avete fatto un ber culo a strisce, agli spagnoli. Precisi, puliti, regolari, così se lavora, bravi».

«Grazie, a Cattivo, ma...».

«Pure quer cazzo de fascistone s'è dovuto ricrede... Faceva tanto er superiore, tanto sborone. S'atteggiava come si cacasse le margherite invece della merda... La verità è che senza de me e senza de voiartri regazzi se lo sognava, 'sto botto. Hai da vedè la faccia c'ha fatto quanno ha visto la robba che avete portato. Momenti je veniva 'no stranguglione. Io ce piscio, sui terroristi, rossi, neri o gialli, sai quanto me ne frega».

«Giusto, Cattì, parole sante, però...».

«Però stocazzo. Co' 'sto botto se semo fatti i sordi tutti, pure tu' cognato e li Gemelli... Ahó, a proposito, ma nun dovevate da venì tutti insieme? Guarda che qua ce stanno cento pippi pe' ciascuno che l'aspetteno. Ma che se so' montati la testa e se fanno aspettà?»

«A Pietro, è proprio questo che te volevo da dì, so' spariti».

«No perché si fanno li stronzi ce metto un cazzo a... CHE? COME HAI DETTO? SPARITI?»

«Spariti, scomparsi, nun li trovo più».

«Nun li trovi più? Che cazzo vor dì che nun li trovi più? E perché nun me l'hai detto prima?»

«È mezz'ora che ce sto a provà, Pietro, ma nun me fai parlà, parli solo tu».

«E allora spieghete, famme capì che cazzo è successo».

«A sapello, Cattì. Ieri sera ho detto a tutti che ce volevi vedè stamattina pe' dacce la stecca nostra e...».

«Ar telefono je l'hai detto?»

«Ma che stai a scherzà? Co' tutto er rispetto, Piè, mica so' un pischello. Ho fatto er giro delle Sette Chiese, prima da li Gemelli a San Lorenzo poi da mi' cognato ar Laurentino 38... Me so' ricomannato de esse puntuali pe' rispetto a te... Dovevamo esse tutti qua alle dieci alla rotonda, un'ora prima per nun fatte aspettà...».

«Invece che cazzo è successo?»

«NUN-CE-LO-SO. Quanno nun l'ho visti so' ito a telefonà dalla cabina qua vicino. Nun risponde gnisuno. Manco mi' sorella che pure, a quell'ora, doverebbe de stà a casa perché 'sta settimana fa er turno de notte e...».

«Nun me ne frega un cazzo de tu' sorella... Scusa, Maghè, nun te vojo offenne, sei uno bravo, ma 'ndo cazzo saranno iti tutti quanti?»

«Nun c'ho idea, Pietro... Le guardie ancora nun li possono stà a cercà, figurete. Prima che ariveno le carte dalla Spagna, ammesso che arivino mai, possono passà mesi... So' du' ore che me sto a fà bollì er cervello. Magara quarcheduno ha svagato tutto e l'ha presi pe' falli parlà».

«Impossibile. Lo sapemo solo io, voi, er Fanfara e Scrocchiazeppi e su quelli nun se discute».

«Per carità, Piè, chi dice gnente? E se fossero stati li fascistoni?»

«E perché? Omar ha già preso la stecca sua... je l'ho data ieri».

«E che ne so? Comunque so' proprio strani. Pensa che Omare me voleva addobbà in Spagna perché pensava che me scopassi la donna sua, Amparo».

«Am... paro de palle. Che nome der cazzo. A proposito, com'è? Gnocca?»

«Spaziale, Cattivo. 'Na fica ar quadrato. Ma io stavo lì pe' lavorà, mica p'arimorchià. E comunque quello stronzo me s'è imbruttito a un livello che pensavo me volesse da ammazzà. Pensa che s'è 'mbarcato sull'aereo nostro co' 'na barba finta e la parucca e pensava de nun fasse riconosce...».

«Be', sì, c'hai ragione, so' proprio strani... Ma nun posso crede che so' stati loro a pijasse Tortellino e li Gemelli, manco sanno dove abitano. 'Sta storia nun me torna».

«Manco a me, Pietro. Mo, si me permetti, prenno la stecca mia, la inguatto ner garage di una retta che c'ho pe' le mani e li vado a cercà».

«E vai, Maghè... Me riccomanno appena sai quarcosa torna e dimme tutto».

«Allora vado, Cattivo. E grazie».

Er Maghetto agguanta la borsa con la sua piccola fortuna e si precipita fuori. Prima tappa, casa dell'incensurato che, per un piccolo stipendio di duecentomila lire al mese, gli custodisce soldi, refurtiva quando c'è, e attrezzi da lavoro. Seconda tappa: Laurentino. Terza tappa: San Lorenzo, regno dei cassettari, dove vivono i Gemelli, nel tentativo di scoprire cos'è successo.

Pietro Salis resta solo alle prese con un pessimo presentimento che gli ha guastato umore ed euforia e cerca di darsi una sferzata d'energia col suo spuntino preferito: due piste di coca grosse come rotaie.

Flashback: sette ore prima. Piccolo prologo giurisprudenziale.

Articolo 41, Testo unico delle leggi di pubblica sicurezza.

«Gli ufficiali e gli agenti di pubblica sicurezza che abbiano notizia, anche solo per indizio, dell'esistenza, in qualsiasi locale pubblico o privato o in qualsiasi abitazione, di armi, munizioni o materiale esplodente non denunciate o non consegnate o comunque abusivamente detenute, procedono immediatamente a perquisizione e sequestro».

Traduzione: dimenticate le stronzate sul mandato di perquisizione e i diritti legali, l'inviolabilità dell'abitazione e tutto il resto. La polizia e i carabinieri fanno quello che gli pare. Ti entrano in casa con la scusa di cercare una spingarda o un paio di bombe a mano, trovano un po' di cocaina o di marijuana e sei panato e fritto. Il concetto ha una pomposa definizione latina: male captum bene retentum, il che significa chissenefrega se lo scopo della perquisizione era un altro, ormai t'abbiamo incastrato con la droga, la refurtiva, un gioiello di cui non sai spiegare la provenienza e sei fottuto comunque. Una legge che risale al vecchio, buon codice Rocco.

Sbirri e barabba sanno benissimo come funziona da noi, quindi, quando Sandro Balducci sente la porta che quasi si schianta sotto calci e spallate da rugbisti e la voce di Mastrolindo che barrisce: «Squadra mobile, apri 'sta cazzo de porta o la butto giù», non sta tanto a menarla con mandati e avvocati, s'infila un paio di bermuda sulle mutande e ciabatta ad aprire.

La sberla a momenti lo manda lungo disteso. Sellerone oscilla come un salice al vento e, come un salice, non si spezza ma riconquista faticosamente un precario equilibrio statico.

«Buongiorno pure a lei, ispetto'», ironizza sputando sangue perché le mani di Mastrolindo sono dure e pesanti come foratini. «S'accomodi pure co' i colleghi sua, ve faccio er caffè?».

L'ispettore e gli altri sbirracci da strada manco l'ascoltano, lo spingono su un divano e cominciano a buttare all'aria dappertutto e, in quanto a buttare all'aria, i mobilieri dell'antirapine non sono secondi a nessuno. Quando abbandoneranno il campo, resterà solo da spargere il sale sulle macerie, tipo Roma con Cartagine. Sarà già tanto se a Ermete resteranno un paio di pentole e di padelle intatte. Tutto il resto è da discarica.

Al momento, però, Sandro ha problemi molto più grossi, in particolare un collier con un rubino rosso sangue che manda bagliori vermigli tra le mani di Mastrolindo.

«E questo, Sellerò?»

«Questo? È un ricordo de mamma».

Mastrolindo si ricorda di essere un ufficiale di polizia giudiziaria nell'esercizio delle sue funzioni ed evita di dire quello che pensa della mamma di Sandro e della sua professione, anche perché, di sicuro, ci azzeccherebbe in pieno.

«Ah... E pure 'sto bel bracciale co' le pietre era di tua madre?»

«No, quello era de nonna, porella, prima de morì j'ho giurato che nun l'averebbi mai venduto...».

«E io te giuro che tra dieci minuti me supplicherai de smetterla di strapparti i coglioni se continui a prendermi per il culo, stronzo».

«A ispetto', ma che è reato avecce du' ricordi de famija?»

«No, è reato pensare che siamo così stronzi da crederci, Balducci. Daje, mettiti qualcosa addosso che andiamo in questura».

Sellerone obbedisce, s'infila giubbotto e scarpe da jogging e si prepara a passare una giornataccia a San Vitale sicuro che, bene o male, ne uscirà al massimo con una denuncia a piede libero sul groppone, visto che, tutt'al più, potranno accollargli un'accusa di ricettazione: è impossibile che le giuste infami abbiano già qualche prova sul colpo a Marbella... Gli ha detto male e basta, capita quando sbarchi il lunario svaligiando banche o gioiellerie. Le visite di guardie e carubba, con tutto quello che segue, sono ordinaria amministrazione.

Stessa scena, con pochissime varianti, a casa di Ermete De Paolis, er Palletta, che abita a cinquecento metri di distanza, tradito da un paio di collier di perle e da una spilla multicolore tempestata di zaffiri, diamantini, smeraldi e topazi blu. Quella di prendersi qualche souvenir dal pavimento del caveau, evidentemente, è stata una pessima idea. Quanto pessima, i Gemelli lo scopriranno presto.

Interessante e imprevista (non tanto imprevista per chi lo conosce) variazione del copione nell'appartamento di Aldo Livera, er Tortellino, troppo stupido e troppo obbediente per sgraffignare anche solo una fede nuziale (anche perché non ne ha avuto occasione) dal bottino ma così incazzoso che, quando un poliziotto butta all'aria le lenzuola e svela Samantha in négligé color carne perde la brocca, parte di capoccia come un rinoceronte bianco e manda KO il sovrintendente Mitozzi Gianfrancesco, detto er Banana per un'assurda acconciatura imbrillantinata alla Fonzie. Gianfrancesco sputa sangue e otturazioni dentarie mentre i colleghi cercano di rianimarlo, Tortellino si becca una passata di botte che neanche avesse fatto sparring sulle cinque riprese con Muhammad Ali e viene trascinato via urlante e scalciante tra i singhiozzi della moglie (anche lei in stato di fermo con accuse che andranno inventate sul momento visto che, a parte disperarsi e strillare come un'aquila, non ha fatto assolutamente niente), pronto per una seconda ripassata nelle segrete stanze di San Vitale e per il verbale di oltraggio, violenza e resistenza a pubblico ufficiale che ne seguirà. Per rappresaglia, come succede quasi sempre in questi casi, i poliziotti si dedicano a una meticolosa devastazione di tutto quello che c'è in casa mentre arraffano alla rinfusa carte, oggetti, soprammobili, un vecchio coltello a serramanico, qualche vestito, attrezzi vari. In una busta di plastica accanto a una copia della vita di Mussolini (che Tortellino manco sa da dove cavolo possa essere arrivata visto che a malapena sa chi era il duce) e a un paio di gagliardetti della Brigata Tafferugli finisce, all'insaputa di tutti, l'unico indizio veramente utile e che potrebbe dare una svolta reale all'inchiesta sul furto: una carta d'imbarco del volo di ritorno da Marbella che Tortellino, chissà per quale misteriosa ragione, ha deciso di tenersi per ricordo.

I tre uomini d'oro si ritrovano pochi minuti dopo nel cortile della questura per la "Sirenata", quella sceneggiata fatta (appunto) di sirene, manette, di fermati costretti a darsi una mossa tra calci nel sedere e tirate di capelli, urla, ordini e imprecazioni di cui i poliziotti vanno matti e i cronisti di nera ancora di più. Infatti, quando capita, non se ne perdono una.

Antonio Assisi esce proprio in quel momento dalla filiale della banca interna, al piano terra, dov'è andato a rinegoziare il mutuo con quell'avvoltoio del direttore, si dà una grattatina alla chioma color rame che ha intenzione di farsi aggiustare dal barbiere al primo piano (mille lire il taglio, cinquecento lo shampoo) e si affaccia sullo spettacolo che anche lui, come ogni sbirro che si rispetti, ama più del cinema.

«Bell'acchiappata, Mastrolindo... Chi sono?».

L'erculeo ispettore dà una scrollata di spalle, esita qualche istante poi abbassa la voce: in fondo sta parlando con un vicequestore aggiunto che, un giorno, potrebbe ritrovarsi come dirigente e non è il caso di aggrapparsi a quisquilie e pinzillacchere come il segreto d'ufficio e l'indagine ancora in corso.

«So' quelli de Marbella, dottor Assisi, li abbiamo beccati con la refurtiva».

«Davvero? Complimenti. Grande squadra mobile».

Assisi se ne va tranquillo e pacioso dal barbiere, felice di aver posticipato almeno la scadenza di una rata del prestito bancario e ancora più soddisfatto all'idea di stasera quando, dopo una cena di pesce e champagne al ristorante dove ormai paga conti pro forma da pizzeria al taglio, potrà spassarsela alla grande con Francesca Alati nello scannatoio messo a disposizione da Pietro Salis che, in realtà, è un decoroso appartamento al terzo piano con vista pineta, arredato perfino con un certo gusto. Per la serie, niente male la vita del dirigente di un commissariato distaccato, ammesso che abbia la foresta di peli sullo stomaco necessaria per godersela alla grande.

I Gemelli e un Tortellino così gonfio di ecchimosi, labbra rotte e naso sfrittellato da sembrare la caricatura di se stesso si ritrovano per pochi istanti in un corridoio e hanno il tempo di scambiarsi un'occhiata tra il rassegnato e il furbastro che significa: chissenefrega, tanto se sperano di farci parlare si sbagliano di grosso, visto che due su tre sono già morti. Poi ognuno finisce in una stanza diversa e inizia la tarantella.

Quando escono, ormai a notte fonda, hanno un'accusa in più sul curriculum giudiziario, le orecchie che fischiano, le ossa doloranti e, per quanto riguarda Tortellino, una frattura scomposta del setto nasale che va aggiustata alla svelta. Ci penseranno i medici di Regina Coeli visto che è l'unico che va in carcere: le botte che ha preso si spiegheranno con un tentativo di resistenza e con la colluttazione che ne è seguita mentre i Gemelli non hanno segni o lividi visibili e, di conseguenza, possono tornarsene a casa fino a quando non verrà provato che i gioielli, effettivamente, provengono da un furto. Coi tempi elefantiaci delle indagini internazionali possono passare mesi.

Quindi, bene o male, si sentono molto soddisfatti di loro stessi: nessuno ha detto una parola e se la sono cavata alla grande.

Sbagliano.

Di grosso, visto che nessuno dei tre sa che sono già morti.

«Lo ammazzo io».

«No. Tocca a me, questione chiusa».

«Ma...».

«Ascoltami bene, Salvo, perché lo dirò una volta sola: sei un soldato, giusto?»

«Naturalmente, un soldato della Rivoluzione Nazionale come te...».

«Un soldato obbedisce agli ordini dei superiori, ci siamo?»

«Certo, Omar però...».

«Però non esiste. Io sono il tuo superiore e quindi tu obbedisci ai miei ordini e gli ordini sono di restare di copertura, con l'arma pronta ma senza aprire il fuoco e senza scendere dalla macchina. Mi sono spiegato?»

«Sì, è che...».

«Sì e basta. Non voglio sentire altro».

Salvo capisce che è venuto il momento di stare zitto e digrigna i denti per la frustrazione. Tre ore d'appostamento sotto casa di Pitbull sono lunghe come secoli, nella 128 rubata a cui hanno applicato una targa fasulla che corrisponde a una macchina dello stesso modello e colore in modo che, a un controllo superficiale, risulti pulita. Tipica precauzione da anni di piombo, usata con successo da terroristi rossi e neri e che inganna molto spesso poliziotti e carabinieri visto che la risposta dei terminali, quasi sempre, è quella che fa scattare un ordine di fermarsi e mostrare i documenti, un posto di blocco improvvisato o un pedinamento. Anche così, però, restare troppo tempo in auto in un viale dove, tra uffici, studi medici e palazzine di media borghesia, il vai e vieni è continuo comporta qualche rischio di essere notati. In questi anni di sangue e terrore la gente è diventata circospetta, aguzza gli occhi, cammina lontano dai cestini della spazzatura che potrebbero nascondere un ordigno e, soprattutto, fa molta attenzione a facce e atteggiamenti sospetti. I due neri ogni tanto si spostano, uno scende e resta a far la guardia al portone, l'altro fa un giro in macchina e torna dopo un po', poi si scambiano i ruoli.

«Sei sicuro? Rientra sempre a quell'ora?»

«Te l'ho detto, Omar, puntuale come un orologio. Va in palestra ad allenarsi e verso le 19:45 ritorna a casa da mammina per cenare. L'abbiamo tenuto d'occhio per una settimana intera... Per questo io...».

Omar incenerisce Salvo con un'occhiata che lo riduce al silenzio. Non può sapere che Omar gli sta salvando la vita e il futuro: Salvo non ha mai sparato in azione e Omar si augura che non debba farlo né stasera né mai. Da un pezzo si è reso conto che le uniche due prospettive per lui e i suoi camerati sono morte o galera. Chi ha ucciso, a meno che non passi tra le fila degli infami, ci resterà a vita, dietro le sbarre, altri se la caveranno con i reati di banda armata e associazione sovversiva e, dopo qualche anno, potrebbero uscire. La vittoria dell'Idea, ormai, è un palazzo con fondamenta di sabbia e probabilmente lo è sempre stata. Omar sa che nessuno riuscirà a rinchiuderlo in una cella: se non riuscirà a fuggire a Londra e iniziare una nuova vita con Amparo (quella vita che adesso gli sembra il paradiso) morirà combattendo come i vichinghi che si facevano uccidere con la spada in pugno per conquistarsi il Valhalla. È il suo destino e lo seguirà fino in fondo ma per Salvo è diverso. Omar lancia di sottecchi un'occhiata al giovane camerata che freme dalla voglia di versare sangue: magro, allampanato, occhialuto, educato, servizievole. Chissà come c'è finito in questa baraonda di spari, omicidi, attentati. Omar l'immagina tra dieci anni, avvocato, un po' ingrassato, magari con moglie e figli, avviato all'esistenza di tranquillità e di benessere che la sua famiglia gli aveva programmato fin dall'infanzia. Una delle tante vite bruciate sull'altare di sogni improbabili. Non può salvarlo del tutto ma risparmiargli il peggio sì, perché Omar sa bene che quando punti un'arma su qualcuno e premi il grilletto hai passato il limite da cui non si torna più indietro. La morte è una droga che ti aggancia più dell'eroina.

«Eccolo...».

Omar vede l'inconfondibile sagoma di Pitbull, in tuta e borsone sportivo a tracolla, che cammina tranquillamente incontro al suo destino e scende dalla macchina. C'è ancora luce ma per fortuna il marciapiede è deserto: a quell'ora la strada comincia sempre a spopolarsi.

Salvo fa per scendere, Omar gli stringe il braccio in una morsa d'acciaio, lo blocca al suo posto, aspetta che Pitbull sorpassi la 128 dove sono appostati, esce dalla macchina e lo raggiunge alle spalle. Punta il revolver ma, al momento di premere il grilletto, ha un'esitazione.

No.

Non così.

Non alla schiena.

Pitbull è stato un camerata, forse lo è ancora anche se ha tradito e ha il diritto di guardare la sua fine faccia a faccia.

«Pitbull».

Pitbull si gira, vede Omar e la pistola puntata contro di lui e reagisce con la velocità di un ramarro: gli scaglia contro la borsa nel momento esatto in cui echeggia lo sparo.

La pallottola wad cutter con punta piatta calibro .38 special trapassa il borsone e gli si schianta nella clavicola, stracciando muscoli e frantumando l'osso. Pitbull non cade, arranca disperatamente verso il portone lasciandosi dietro una scia di sangue mentre Omar prende la mira e spara il secondo colpo. Il proiettile entra nell'anca destra di Pitbull, spezza di netto le ultime vertebre della spina dorsale e lo sbatte a terra. Pitbull gattona su un solo gomito e un solo ginocchio strisciando sull'asfalto, in una parodia del passo del serpente che insegnano ai corsi dei parà.

Omar gli torreggia sopra col revolver spianato, mirando alla nuca, la falange dell'indice che preme lentamente e impercettibilmente sul grilletto, deciso a non sprecare il terzo colpo.

Una 127 verde pistacchio si ferma improvvisamente accanto al marciapiede. L'uomo che scende ha un'aria dimessa: sulla settantina, grassottello, coppola ben piantata in testa, occhiali, aspetto conciliante.

Con un salto, si piazza tra lui e il ferito che geme e singhiozza piano e allarga le braccia in un gesto di supplica.

«E basta... Basta, dài».

Omar gli punta la pistola dritta in fronte con un ringhio assassino ma il vecchietto non si sposta, anzi, cerca di intercettarlo come il difensore di una squadra di basket mentre Pitbull approfitta del vantaggio inatteso e riesce a guadagnare strisciando il portone del palazzo.

«Gli hai sparato... Basta ora... Per favore». Coppola gli parla come a un bambino capriccioso, Omar si trattiene a fatica dal freddarlo all'istante e chiudere la faccenda con Pitbull ma qualcuno urla qualcosa dalla finestra, una macchina suona il clacson, l'effetto sorpresa è andato e soprattutto non se la sente di ammazzare quel piccolo ometto coraggioso che rischia la vita per proteggere un tipo che nemmeno conosce.

Omar rimette in tasca la pistola, annuisce, fa un mezzo sorriso sghembo a Coppola, lancia un'occhiata alle gambe di Pitbull che stanno per scomparire nel portone dopo il suo corpo, gira sui tacchi e torna in macchina, dove Salvo sta aspettando con la marcia ingranata e il motore imballato. La 128 schizza via in direzione della Nomentana, verso la rampa della Tangenziale.

«L'hai fatto?»

«Non hai sentito gli spari?»

«È morto?»

«Non lo so... All'ultimo momento si è messo in mezzo uno stronzo. L'ho colpito due volte ma forse se la caverà, vedremo i giornali domani».

Salvo fa per dire qualcosa ma rinuncia. A Omar sembra di leggere i suoi pensieri come se avesse sopra la testa la nuvoletta dei fumetti.

Se ci fossi stato io l'infame sarebbe già morto.

Altro che colonnello, Omar s'è rincoglionito.

Omar guida in silenzio fino sulla tangenziale, esce a corso Francia, raggiunge il parcheggio di via Tuscia dove scende dalla macchina, scambia un cenno di saluto con Salvo e sale su uno dei due motorini che hanno lasciato lì per proseguire la fuga in direzioni diverse.

Mentre il vento gli fa svolazzare i capelli e il piccolo motore del cinquantino ringhia a sessantacinque all'ora si rende conto di due cose.

È contento che Pitbull non sia morto. Sa benissimo che le ferite non sono letali e, in cuor suo, ringrazia quel deficiente che ha rischiato di farsi uccidere al suo posto.

Probabilmente Salvo ha ragione. Si è rincoglionito. O magari ha semplicemente perso la Fede. Senza quella, continuare a combattere non ha più senso.

Champagne in ghiaccio. Il solito Krug che er Cattivo gli spedisce a casse. Mazzo di rose rosse a gambo lungo, recapitate mezz'ora prima da un cingalese così ossequioso che a momenti si faceva venire il colpo della strega a forza di inchinarsi come un mandarino cinese. Letto tondo con specchio al soffitto... wow. Finestra sulla pineta da cui nessuno può spiare dentro, con la fondata speranza che ci sia qualcosa da spiare. Aria condizionata a ventidue gradi per evitare di buscarsi un malanno visto che tra poco, se il diavolo non ci mette la coda, si suderà a litri. Stuzzichini in frigo per accompagnare lo champagne che, alle 11:30 del mattino, rischia di sballarti peggio di una pasticca di ecstasy. Stereo in sottofondo: compilation evergreen comprata dal senegalese visto che i gusti musicali di Antonio Assisi non vanno molto oltre l'inno della Roma.

Insomma, tutto perfetto. Forse troppo.

Troppo?

Antonio Assisi si dà un'annusatina furtiva all'ascella sinistra, si rende conto che il deodorante Nivea long action sta facendo il suo dovere (visto che ci è andato giù pesante come un imbianchino) e si domanda perché sta zoccola non si metta a squittire di gioia, non si spogli in due nanosecondi e non lo trascini su 'sto letto circolare Casamonica style, che aspetta solo di essere inaugurato anziché continuare a gironzolare per l'appartamento con aria dubbiosa, naso all'insù, e l'aspetto dell'infanta di Spagna in visita a una favela di Rio de Janeiro. E sì che vive a Ostia ponente, lavora quasi gratis per un foglio locale che vende sì e no duemila copie e ha poco da tirarsela alla Oriana Fallaci, se proprio vogliamo dirla tutta.

Ma visto che comincia ad avvertire promettenti movimenti tellurici al basso ventre e che Francesca, in minigonna, gambe abbronzate, sandali da schiava e maglietta che sembra bagnata, tanto aderisce alle forme opulente della giornalista più sexy del litorale, è veramente uno schianto, Antonio reprime l'impulso di buttarla fuori a pedate, ingoia incazzatura e delusione e le si accosta con una vocina di miele.

«Un goccio di champagne, tesoro?», propone facendo una penosa imitazione di Richard Gere in Ufficiale e gentiluomo e spruzzando schiuma dappertutto come un pilota di Formula 1 sul podio. Francesca sibila di dispetto, tende la flûte di malavoglia, sorseggia distratta senza neanche aspettare il brindisi, poi rimette giù il bicchiere senza degnare di uno sguardo l'assortimento di pizzette, rustici, minitramezzini e pan brioche che Antonio ha già cominciato a lavorarsi con entusiasmo da naufrago.

«Ma che c'è, amore mio... Stai storta?»

«Mmmmnnoooo».

«Non ti piace 'sto posticino? È tutto nostro tesoro...».

«Mmmmmgiaaaa».

«Carino, no? Guarda i muri? Tinteggiati di fresco... E soprattutto discreto. Non c'è portiere, gli inquilini so' vecchi e se fanno gli affari loro, insomma, qui non ci becca nessuno».

«Tua moglie, soprattutto». Solo un'amante sa pronunciare "tua moglie" come dicesse: quella gran bocchinara sifilitica.

«Ma... Amore, che c'entra mia moglie adesso? Quella sta a Roma con la ragazzina e tra l'altro lo sai che viviamo come fratello e sorella, che sto con lei solo perché è in depressione ma appena le passa io...».

«Bla bla bla, guarda, puoi evitare di cercare di intortarmi con le solite stronzate, tanto di te e di tua moglie non me ne può fregare di meno, ma che ti credi che voglia fare casetta con te? Ma ti sei visto allo specchio?».

Colpo basso. Bassissimo.

Antonio, in effetti, allo specchio si è contemplato a lungo proprio poche ore prima, nudo, mentre sceglieva jeans e polo e non è che lo spettacolo gli sia piaciuto granché: pancia da birraio, gambe da tacchino, spalle in caduta libera, pettorali così flosci da sembrare un accenno di seno da Grande eunuco dell'harem, foresta di peli rossicci e soprattutto quella capigliatura color fil di ferro, impossibile da pettinare o da domare in qualche modo, che va sempre per conto suo e che, fin da ragazzino, è stata la sua maledizione. Sugli occhi cinghialeschi color diarrea meglio sorvolare. Alla fine si è stretto la cinta fino a rischiare una lesione interna, ha cercato di dissimulare il cocomero sotto una agghiacciante camicia hawaiana di due taglie più grandi, s'è cosparso di Eau Sauvage come se annaffiasse i garofani e ha stabilito che il fascino di un uomo si misura in base a intelligenza, potere, galanteria e savoir faire... Eccheccazzo, è un alto dirigente di polizia, mica un DJ del Gilda on the beach. Quello che gli manca dal punto di vista estetico lo compensa abbondantemente con tutto il resto e adesso 'sta stronzetta...

«Ma che hai, amore mio? Non ti piace? Preferivi quella fetecchia di albergo?», protesta tra l'incazzato e il querulo visto che, chissà per quale strano motivo, quella mezza giornalista zinnona che, senza gli scoop che le allunga quasi ogni settimana, non andrebbe oltre le brevi di nera, ha il misterioso potere di farlo sentire a disagio.

«No, no, è carino... Molto carino. Mi domando solo da dove viene...».

«Cazzo vuol dire da dove viene? Era libero, sono andato in agenzia e l'ho preso in affitto. Speravo di farti una bella sorpresa, puccettina...».

«Non mi chiamare puccettina che mi fa incazzare».

«Abbè, pucc... tesoro, ma cazzo fammi un bel sorriso, siamo nella nostra tana, non sei contenta?»

«E... chi paga?».

Antonio Assisi resta inchiodato come se Francesca gli avesse fracassato la bottiglia di Krug sulla zucca.

«In che senso chi paga, scusa?»

«Chi pagare affitto. Tu capire italiano?». La voce della giornalista stride come un corvo a cui stanno devastando il nido. Una corva, magari.

«Ma... io no... Se hai paura che ti chieda un contributo stai tranquilla, tesoro, non ci penso neanche».

«Neanche io, tranquillo. È che i prezzi di qui, soprattutto in alta stagione, li conosco meglio di te... Per un appartamento arredato come questo minimo ottocento sacchi ad andarci cauti... E so anche quanto guadagna un funzionario di polizia del tuo livello, che ti credi? Sono quindici anni che faccio la nera, non sei il primo poliziotto che frequento».

«Senti un po', ragazzina, adesso esageri... Intanto non capisco che diritto hai di farmi i conti in tasca e in secondo luogo un uomo nella mia posizione avrà anche diritto a qualche piccola facilitazione, a qualcuno che ti viene incontro per rispetto, per amicizia, per...».

«Corruzione. Si chiama corruzione, Antonio. Non voglio neanche sapere da dove vengano tutte queste... facilitazioni, come le chiami tu, ma posso immaginarlo benissimo e ti assicuro che non ci voglio entrare. Punto».

Qualcuno potrebbe obiettare che portarsi a letto uno sbirro sposato ed esecrabile da tutti i punti di vista, a cominciare da quello estetico, per rimediare qualche notizia esclusiva è, di fatto, una forma di corruzione. A ogni modo Francesca la vede a modo suo. Antonio anche.

«Senti un po', squinzietta, bada a come parli... Io ho le mie conoscenze e le mie relazioni professionali qui in zona e se vogliono farmi un piacere non vedo che male ci sia», s'inalbera col veemente sdegno del bugiardo matricolato.

«Sarà, ma questa faccenda non mi piace neanche un po'. Lo sai che gira già qualche voce su di te? Dicono che te la fai coi banditi, che vai in sala giochi, che frequenti gente di mala... Guarda che se scoppia un casino e finisci nella merda io non voglio essere coinvolta, chiaro?»

«Ma di che cazzo parli? Mi vuoi insegnare il mestiere, ragazzina? Ma non lo sai che un investigatore ha i suoi informatori, i suoi confidenti? Cazzo ne capisci di queste cose? Non sono un poliziotto da scrivania, io devo conoscere il territorio su cui lavoro e non ci sono solo le anime belle come te, qui in giro...». Il ruggito di Antonio Assisi è tanto indignato quanto poco convincente. Sì, decisamente la squinzia è parecchio sveglia.

«Non ne capirò un cazzo, ma la storia dei tuoi soffioni e confidenti non me la bevo. Quanto a questa specie di scannatoio di lusso, non voglio neanche sapere chi te lo ha prestato o regalato ma è una cosa che non mi piace affatto», conclude sussiegosa. «E, tanto per essere sincera, mi sono rotta di una relazione clandestina in una garçonnière pagata da chissà chi e, oltre tutto, con uno sbirro che potrebbe essere mio nonno e che per tenermi buona ogni tanto mi passa qualche notizia che va bene al massimo per un trafiletto nella cronaca di Ostia... Ti saluto, Antonio, goditi le tue amicizie coi barabba e cerca di non farti arrestare».

Questo è veramente troppo. Antonio Assisi fa per avventarsi col braccio levato ma si trattiene a stento sapendo che rischia, nell'ordine:

Un calcio dritto nelle palle.

Una denuncia per violenza, maltrattamenti, lesioni e chissà che altro.

Lo sputtanamento totale sulle pagine di quel fogliaccio che chiamano «Quotidiano di Ostia» e che, per quel che lo riguarda, va bene solo come sostituto in extremis della carta igienica.

Quindi, come molti saggi, sostituisce la diplomazia alla violenza e sgancia l'arma segreta.

«Allora è questo che cerchi? Uno scoop nazionale? Eccoti servita, tesoro, apri bene le orecchie...».

«Non lo hai finito, dovevi...».

Omar agguanta Giorgio per il collo con tutta la forza della rabbia che gli bolle dentro, lo sbatte contro il muro senza mollare la presa e, all'improvviso, lo colpisce allo stomaco con un tremendo pugno corto e secco dritto al plesso solare. Giorgio crolla in ginocchio ansante, cercando disperatamente di respirare mentre Omar estrae fulmineamente il revolver e si gira verso Salvo e gli altri tre camerati che hanno assistito alla scena impietriti. Un'esplosione di violenza improvvisa, devastante, terrificante che serve a ricordare a tutti chi comanda, almeno fino a quando Omar deciderà di continuare a essere il capo.

«Qualcun altro mi vuole insegnare come ci si comporta in azione?». Silenzio totale, a parte il gemito d'agonia di Giorgio ancora in ginocchio, tutto rattrappito su se stesso.

No, nessun lupo giovane vuole sfidare il vecchio lupo che ha ancora zanne abbastanza lunghe per farsi rispettare. E obbedire.

«Per carità, Omar, è solo che...», prova a intervenire Salvo, conciliante come sempre, dopo una pausa interminabile carica di tensione. «Sai, purtroppo è andata male e allora... ma nessuno pensa che tu... cioè, Omar, non ti incazzare, siamo solo un po' delusi, niente di personale».

«Niente di personale eh, Salvo?». La voce di Omar è uno scudiscio. «Be', per come la vedo io, invece, ammazzare uno di noi è una cosa molto personale, moltissimo. Stiamo parlando di un camerata, uno che ha condiviso le nostre idee e che ha lottato assieme a noi, ha rischiato la buccia per l'Idea, porcaccia troia. Sì, avevamo avuto dei problemi, l'ho dovuto mettere al suo posto come farò con chiunque di voi testa di cazzo tenti di pestarmi i piedi, ma questo non conta». Omar fa una pausa, domandandosi al tempo stesso perché sta dando di matto in quel modo ma ormai è partito e tanto vale continuare.

«Sì, Salvo, sono deluso anch'io, che ti credi? Deluso perché abbiamo deciso di stendere Pitbull senza neanche discuterne tutti insieme per tutto il tempo che ci voleva e prendere in esame le prove che avevamo contro di lui. I rossi, almeno, fanno una specie di processo popolare prima di emettere una condanna a morte».

«'Fanculo ai rossi». Il ringhio sincronico di due camerati fa capire a Omar che stavolta ha esagerato.

«'Fanculo ai rossi, sicuro. Ma ogni tanto bisogna capire il nemico per poterlo combattere, rileggetevi Sun Tzu».

«Scusa, Omar, ma... eri d'accordo anche tu, mi pare. Anzi, hai voluto essere proprio tu a...». Salvo, ormai, si è calato nel ruolo della voce della ragione che, tra l'altro, gli è estremamente congeniale.

«Sì, Salvo. Ho voluto farlo io... Mi sono preso questa responsabilità perché mi sembrava giusto così. In assenza di Massimo sono io che comando, onori e oneri, se non avete obiezioni».

Domanda retorica. Nessuno vuole finire come Giorgio che sta ancora, faticosamente, tentando di riassumere la posizione eretta del bipede e un respiro regolare.

«Volete sapere perché non l'ho finito? Bene, ve lo spiego: mentre stavo per sparargli in testa si è messo in mezzo un tizio spuntato da chissà dove. Non lo conosceva, passava di lì per caso ma è sceso dalla macchina e gli ha fatto scudo col suo corpo, era pronto a farsi ammazzare per un perfetto sconosciuto. Cari camerati, in quella circostanza credo di aver capito due cose: la prima è che il coraggio non è solo ammazzare qualcuno a sangue freddo... La seconda che non possiamo permetterci una vittima innocente. Avrei potuto sparare anche a lui ma vi immaginate i titoli sui giornali? Le radio, le TV, le manifestazioni? Dobbiamo riguadagnare consenso, camerati, non perderlo. La gente non deve pensare che siamo solo un branco di assassini... Il fascismo non è questo».

Nessuna obiezione, anche stavolta. Tutti si domandano cos'avrebbero fatto al posto di Omar e pochissimi sanno darsi una risposta.

«E con Pitbull come la mettiamo?». Omar stringe gli occhi e fissa il camerata che ha parlato, uno dell'ultima leva, reclutato tra gli ultrà della Lazio, rozzo e ignorante come un tapiro, di quelli che chiedono solo una cosa: sangue.

«Vuoi sapere che succede adesso con Pitbull? Te lo dico io cosa succede: niente. Per quanto mi riguarda la faccenda è chiusa. È stato punito per il suo tradimento, ammesso che abbia effettivamente tradito. Probabilmente non camminerà mai più come prima e potrebbe anche morire... complicazioni impreviste, lesioni interne, un'infezione da ospedale. Avete letto i giornali, no? È ancora in terapia intensiva, prognosi riservata. Non sarò io a sparargli un'altra volta e neanche l'organizzazione. Pitbull è acqua passata. Se poi Massimo De Signori, una volta libero, deciderà altrimenti faremo come dice lui, sono stato chiaro?»

«Come il sole. E intanto che facciamo?»

«Prepariamo un documento in cui rivendichiamo l'azione ma senza parlare di eliminazione. Scriviamo solo che il traditore è stato colpito dalla giustizia della Rivoluzione Nazionale e che non ci sarà mai tregua per gli sbirri e i loro collaboratori... Salvo e Giorgio, buttate giù la bozza e fatemela leggere. Magari potremmo anche far saltare una sezione dei rossi tanto per ricordare agli sgherri che non siamo sconfitti e aspettiamo Massimo. Tutti d'accordo?».

La votazione non è prevista né apprezzata, ma Omar vuole capire se c'è qualcun altro che gli rema contro e corre il rischio. Nessun contrario.

Colpo miliardario a Marbella

Gli uomini d'oro arrestati a Roma

di Francesca Alati