Parte III

 

 

Capitolo I

 

Londra, aprile 1995

 

«Mr Ansaldi, c'è una persona che chiede di lei».

«Sono molto occupato e non aspetto nessuno».

«Gliel'ho detto e gli ho fatto notare che non ha un appuntamento ma sostiene di essere suo vecchio amico».

«Come si chiama?»

«Antonio Molesti».

Omar fruga nella memoria, rivanga il passato, sfoglia l'agenda mentale: niente. Eppure qualcosa gli suggerisce di non far sbattere fuori lo sconosciuto, quel vago malessere che si tramuta in campanello d'allarme... sesto senso.

Lo stesso che gli ha salvato la vita tante volte.

«Ok, lo faccia entrare».

Dopo dieci anni di tranquillità, prosperità, amore, Omar ha smesso da un pezzo di girare armato e adesso, per la prima volta da quando è scappato dall'Italia, rimpiange di non avere una pistola. Si siede dietro la pesante scrivania di mogano scuro, simbolo della posizione di agiato immobiliarista che si è conquistato investendo, con sapienza, oculatezza e, a volte, un pizzico di incoscienza i soldi del bottino del furto a Marbella e passa in rassegna gli oggetti che potrebbero servirgli come arma. La scelta più ovvia è il lungo e acuminato tagliacarte d'avorio che avvicina per averlo a portata di mano. Quando Diana, la segretaria occhialuta e sexy, nei suoi strizzati tailleur manageriali, bussa alla porta, tutto il suo corpo è una molla pronta a scattare.

«Mr Molesti per lei».

«Ok».

L'uomo massiccio, stempiato, stropicciato, con un'espressione indecifrabile dietro le spesse lenti da miope, che entra nell'ufficio con la mano tesa non gli dice niente, almeno all'inizio. Omar si alza a metà, le mani sulla scrivania, a pochi centimetri dal manico del tagliacarte ma non fa in tempo a impugnarlo. Appena Diana chiude la porta, il tizio gli si lancia addosso come un bufalo, circumnaviga la scrivania al volo e lo stringe in un abbraccio da orso.

Omar ha appena il tempo di pensare che, dieci anni prima, non si sarebbe fatto sorprendere così facilmente mentre il ciccione fa una cosa che lo lascia senza fiato.

Lo bacia sulle guance con le lacrime agli occhi, smack, smack.

«Omar... Fratello. Che gioia, sei sempre lo stesso, beato te».

Omar allontana Molesti con le braccia, lo guarda bene e finalmente...

«Salvo? Cazzo, non ti avevo riconosciuto», balbetta sbalordito.

«Lo so... Mi sono un po' lasciato andare. La tensione, sai, ho avuto un periodo difficile. Anzi, per dirla tutta sono nella merda. Ma, cazzo, tu sei ancora un figurino, come fai?».

Omar pensa all'ora buona di allenamento quotidiano, tra corsa, palestra e krav maga, che si impone tutti i giorni, ai pranzi a base di insalate e acqua minerale, ai due bicchieri contati di vino che si concede a cena e risponde con un gesto vago della mano.

«Un po' di sport, cerco di stare attento a tavola... Ma dimmi di te. Che ci fai a Londra? E perché hai dato un nome farlocco? Siediti, racconta. È tantissimo tempo che non torno in Italia».

Salvo spalma il suo deretano XXL sulla sedia di cuoio davanti alla scrivania, nervoso, affannato e speranzoso. Omar lancia un'occhiata alle unghie rosicchiate, al colletto stazzonato e alla cravatta allentata che sembra un calzino annodato e il suo malessere aumenta. No, non è una visita di cortesia tra ex camerati. Vecchi amici, in fondo, non lo sono mai stati. Camerati, semmai. O complici, se preferite.

«Non so da dove cominciare, Omar...», esita Salvo.

«Chiamami Remo, per favore. Remo Ansaldi. È il mio nome, adesso».

«Lo so, lo so... Scusami. Non sai quanto mi ci è voluto per trovarti».

«Chi ti ha detto che ero qui?». Il tono di Omar diventa immediatamente sospettoso mentre sta già calcolando le mosse per una fuga a precipizio: contante, passaporto, avvisare Amparo...

Per fortuna ha tutto pronto da quando è fuggito. Destinazione designata: l'Argentina.

«Nessuno, nessuno, non ti preoccupare», lo rassicura Salvo con un colpetto bonario sulla mano. «La tua copertura è sicura. È stata una botta di culo. Qualcuno, tra i vecchi camerati, diceva che eri in Inghilterra ma nessuno aveva notizie precise, solo voci... Quando sono dovuto scappare sono venuto qui sperando di trovarti ma niente. La città è enorme, gli inglesi sono degli stronzi pazzeschi e non volevo chiedere troppo in giro. Sono a Londra da due mesi e non ho fatto altro che girare a vuoto come una trottola».

Omar sospira, sperando che sia vero e si limita ad annuire in segno di benevola approvazione tornando rapidamente al suo vecchio ruolo di leader rispettato e temuto.

«E allora?»

«Una botta di culo, te l'ho detto. L'altro ieri apro il "Times" e leggo una tua intervista sulla crisi del settore immobiliare. T'ho riconosciuto subito. Puoi fregare Scotland Yard coi capelli biondi e i baffi, ma non me».

Omar annuisce, rimpiange di aver sempre rimandato la plastica facciale che aveva programmato dopo la fuga perché, in fondo, si piace com'è, capisce che deve far sfoggio di un minimo di cordialità, fa cenno a Salvo di tacere e prende il telefono.

«Diana, may we have two coffies italian style, please?»

«Subito, dottor Ansaldi».

«Accidenti, che accento... sembri un professore di Oxford».

«Be', vivo qui da dieci anni... E cerchiamo di parlare inglese anche a casa». Omar si trattiene all'ultimo istante prima di nominare Amparo. Meno Salvo sa di lui, meglio è.

Come chiunque altro della sua vecchia vita, del resto.

«Ti sei sistemato bene, vedo». Salvo gira lo sguardo sulla libreria piena di volumi rilegati in cuoio, sul divano color tabacco, sui quadri a soggetto ippico, sui tappeti orientali e, insomma, tutta la paccottiglia classica di un affermato businessman della City.

«Già, mi sono arrangiato... E tu?».

Le grasse spalle di Salvo s'afflosciano come un pallone bucato da un chiodo.

«Nella merda, Om... Remo. Nella merda più nera. Ho fatto quasi tre anni di gabbio per associazione sovversiva, sono stato assolto in appello, sono uscito, ho lavoricchiato qua e là e alla fine avevo trovato un posto da contabile in una ditta di pneumatici... Niente di che ma mi arrangiavo. Il titolare è un vecchio camerata, anche se non è mai stato un combattente e quantomeno campavo...».

Omar ricorda l'agguato a Pitbull... Un Salvo magro, spiritato, esaltato che lui aveva immaginato dieci anni dopo: avvocato, grasso, posato, ricco. Be', ne ha azzeccata una su quattro, grasso lo è diventato.

«E poi che è successo?»

«È successo Pitbull, ecco cosa... Mi hanno incriminato. Ho un amico che fa il cancelliere in procura e m'ha avvisato che stavano per blindarmi di nuovo, così sono scappato».

Salvo si interrompe quando Diana, dopo aver bussato discretamente, entra, depone il vassoio con tazzine di porcellana fumanti, piattino di biscotti shortbread di quelli che ti fanno prendere mezzo chilo solo a guardarli e due bicchieri d'acqua e ancheggia fuori, seguita dallo sguardo estasiato di Salvo.

«Te la trombi?»

«Non faccio sesso coi dipendenti... E poi sono un marito fedele», taglia corto Omar pensando alla scopata selvaggia con Diana a pecorina sulla scrivania della sera prima.

«Sei sposato? E hai figli?»

«No. Ho una donna ma la chiamo mia moglie perché qui, su certe cose, sono molto tradizionalisti. Va' avanti per favore...». Poi si accorge che sta esagerando con la freddezza. In fondo Salvo è un vecchio compagno d'armi e conosce la sua identità ed è meglio tentare di tenerselo buono.

«Scusa, tu invece? Moglie? Figli?»

«Niente. Single. Ho avuto qualche storia ma è finita... La mia vita non è stata un granché e adesso sto nei casini».

«Continua».

«Non ho molto da dire... Quando ho saputo dell'ordine di custodia ho preso il volo. Per fortuna avevo conservato un vecchio documento farlocco... Ah, tu puoi stare tranquillo, almeno per quanto riguarda la storia di Pitbull. Non so perché ma hanno sgamato solo me. Forse qualcuno dei vecchi ha cantato ma aveva strizza di fare il tuo nome, a molti fai ancora paura, sai? C'è chi giura che giri per Roma con una nuova faccia, pronto a riprendere la lotta e a uccidere gli infami».

«Che cazzate».

«...Infatti non ci ho mai creduto. Ma tu sei ancora un mito, una leggenda per tutti noi».

«E?». Omar si tira indietro sulla sedia e lancia a Salvo uno sguardo eloquente: basta con le sviolinate, spiegami che vuoi da me.

Salvo capisce il latinorum e assume la postura e la mimica facciale dello sconfitto.

«Mi devi aiutare, Omar. Non ho soldi, non ho contatti, non ho un posto dove andare. Se continuo così, mi beccano entro pochi giorni e sarà un casino... Non solo per me voglio dire. Tu hai tutto: posizione, identità falsa, questo bell'ufficio, denaro. Devi darmi una mano, cazzo. Trovami un rifugio, un lavoro, un altro documento fasullo perché ho paura che il mio sia già bruciato, fa schifo ed è un miracolo se sono riuscito a espatriare. Te lo chiedo da camerata a camerata, abbiamo combattuto insieme, abbiamo punito quell'infame di Pitbull, siamo stati sullo stesso fronte, no?».

Omar annuisce, pensoso, si alza lentamente dalla sedia come per andare a prendere qualcosa, poi, fulmineamente, afferra il tagliacarte d'avorio e scatta come un giaguaro.

«E la pupa come sta?»

«Barbara. Devi chiamarla Barbara... Ci tiene moltissimo, dice che non è più una bambina...».

«Ha nove anni, cazzo, cos'è? Una donna? Vabbè che crescheno in fretta ma...».

«E ricordati di non dire parolacce, davanti a lei... Non troppe almeno. Voglio che cresca come una ragazza educata».

Er Cattivo sospira e alza gli occhi al cielo. Quante storie. Se una è figlia di un tizio che s'è appena fatto dieci gallinelle a Rebibbia mica può pretendere di vivere in una famiglia di focolarini. Ma il sorriso un po' ironico di Marisa, il suo sguardo pieno d'amore e di un pizzico d'apprensione, la sua bellezza ancora più radiosa, più matura dopo la gravidanza e la maternità, i suoi modi eleganti così diversi dall'ambiente in cui è vissuto lui lo hanno completamente conquistato e sa che non ci sarà niente da fare. Sconfitto in partenza.

«Me sa tanto che sarà dura co' voi due insieme contro di me...», chioccia.

«Sarà bellissimo, invece, non vediamo l'ora che esci...».

«Ormai ce semo: quarantasette giorni all'alba e sto fora».

Accanto a loro, solito brusio del parlatorio, le guardie che fanno finta di controllare, le conversazioni cifrate, una coppia che si bacia appassionatamente sotto lo sguardo accigliato di un "superiore", come vengono chiamati gli agenti della polizia penitenziaria. Er Cattivo lancia un'occhiata di sbieco, vede un movimento strano delle lingue e delle guance, trattiene un sorrisetto: sa che lei ha appena passato all'albanese la palletta di coca che teneva in bocca e si prepara a un po' di baldoria serale, visto che Pavel è uno giusto, che stecca tutto con gli amici, esattamente come fa Salis coi pacchi pieni di leccornie che riceve regolarmente da Marisa: banchetti pantagruelici in cella che servono a far passare un po' il tempo.

«Quanno esco me devo mette a dieta», considera er Cattivo passandosi la mano sul pancione. «Co' tutta la roba da magnà che me manni sto a diventà un popotamo...».

«Ippopotamo».

«Ipopotemo vabbè... Ar matrimonio vojo esse un figurino».

«Allora è meglio che cominci subito, ho parlato ieri con don Gaetano. Possiamo sposarci un mese dopo che sei fuori».

«Nun vedo l'ora amo'... Dev'esse un matrimonio mejo de cosa... Lady Diana... Te devi mette 'no strascico de quindici metri, io sarò tutto in bianco, me faccio fà er taighete su misura e se noleggiamo 'na Rolls bianca pure quella, tutta Ostia ne deve da parlà per anni».

«Be', vedremo... Magari anche qualcosa di più sobrio, soprattutto perché abbiamo una figlia grande e io temo di non essere più vergine».

«E che sei, Capricorno? Vabbè, 'na battuta der cazzo. Chissenefrega, amo', vergine o no quanno se sposa er Re de Ostia la gente deve da restà a bocca aperta... Devono rosicà tutti. Oh, a Marì, a proposito, che se dice de fora? Hai parlato cor Fanfara?»

«È venuto a trovarmi appena uscito dal carcere... A dire la verità, non sembrava molto soddisfatto di come vanno le cose. Mi ha chiesto di riferirti che, in tua assenza, molti equilibri sono cambiati. Le tre famiglie... aspetta... Daga, Triolli e Frisciotti si stanno allargando e che, insomma, ci sono dei problemi ma non mi ha spiegato bene di che si tratta».

«Sempre loro... Quanno er gatto sta a bottega i sorci balleno. Mo' che esco so' cazzi loro...», ringhia Pietro, anche se Marisa non gli sta dicendo niente di nuovo. In galera si parla e Giacchettone, ingabbiato per una rapina quattro mesi fa, gli ha fatto una relazione completa sui nuovi giochi di potere della mala del litorale. Niente di buono. L'organizzazione di Salis è quasi allo sbando, sotto l'avanzata costante e inarrestabile delle tre famiglie malavitose storiche di Ostia, molti dei suoi sono passati al nemico e la piazza dello spaccio è quasi monopolizzata dalla confederazione rivale.

Chissenefrega, pensa Salis, quando esco me li magno in un boccone e li ricaco tutti interi. Er Cattivo sa di avere un'arma segreta: il tesoro di Marbella, ancora sepolto nel giardino della villa di Mostacciano e sicuramente intatto. Con tutti quei soldi, reclutare altra gente e imporre nuovamente la sua supremazia sarà uno scherzo. Basta non avere fretta, visto che le giuste cominceranno a tenerlo d'occhio appena farà il primo passo fuori dall'istituto di pena dove ha buttato quasi dieci anni della sua vita (e meno male che le accuse di omicidio sono cadute al processo ed è rimasto solo lo spaccio e l'associazione per delinquere oltre a un paio di ferimenti), camminare sulle uova, non tirare fuori subito il gruzzolo ma aspettare di non essere più sotto osservazione, sondare il terreno prima di agire.

Er Cattivo sa aspettare. E ha imparato la lezione. Niente più gesti eclatanti, niente sbrasate ma un'opera lenta, meticolosa, inarrestabile di ricostruzione del suo potere criminale e... prima di tutto la vendetta. L'infame che l'ha venduto non camperà a lungo.

«Pietro, mi hai promesso che non ti metterai ancora nei guai...». La voce allarmata di Marisa lo riscuote dai suoi progetti di sangue. Pistola? Coltello? Garrota? Acido?

«Ehh... amo' ma stai a scherzà? D'ora in avanti vojo rigà dritto. Onesto lavoro, sarò 'n padre de famija, vivrò pe' te e la pupa... Barbara».

«Ha preso nove a scuola, un tema sul suo migliore amico...».

«Tutta su' padre... E chi sarebbi, 'st'amico? Me devo preoccupà? Oggi i reghezzini so' precoci, nun vorei che...».

«Batuffolo. Il coniglietto bianco che le ho comprato». Il sorriso di Marisa potrebbe sciogliere un ghiacciaio.

«Bono quello. La prima sera se lo famo ar forno co' le patate... E nun fà quella faccia, a Marì, sto a cazzeggià. Insomma sto a scherzà, e daje. Ma proprio 'n conijo se doveva pijà? N'era mejo un ber pittebull, un rottevaile, un burterié? Me sa che 'sta ragazzina c'ha quarcosa de strano...».

«Vedi che hai ragione, allora? È tutta suo padre. E sarebbe meglio che all'inizio tu ci vada piano con lei. È una bambina molto sensibile, ha visto il papà solo poche volte ai colloqui e...».

«Nun me piaceva de falla venì in questo schifo... Nun vojo che me pensi come un carcerato. Ma lo sai che ce l'ho sempre ner core, lei e te».

«Capisco, anche se non sono molto d'accordo, amore, ma ne abbiamo già parlato. Dovrà abituarsi a starti vicino. Devi considerare che siete quasi due estranei, dovrai conquistare la sua fiducia a poco a poco. Comunque, dài, è quasi finita, non vedo l'ora».

Er Cattivo lancia uno sguardo bramoso al seno di Marisa, piccolo ma ben fatto sotto il leggero golfino primaverile e sente un rimescolamento promettente al basso ventre. Dieci anni in bianco e un pochino d'apprensione per quello che succederà in camera da letto ce l'ha. Non è uno di quelli che s'arrangiano con un frocetto né uno di quegli impuniti che si fanno masturbare dalle compagne sotto il tavolo, al colloquio, contando sull'indulgenza delle guardie. Lui ha una reputazione da difendere e ha fatto quello che fanno i veri boss quando finiscono dentro: s'è anestetizzato. Ha cercato di non pensare al sesso, di seppellire il desiderio e s'è sfogato con qualche pugnetta quando proprio non ne poteva più. Adesso bisognerà vedere se tutto funziona come prima, lì sotto.

«Anch'io nun vedo l'ora amo'... Come vengo a casa te sfonno», commenta con galanteria.

«Shh, parla piano. Ci sentono, mi fai vergognare».

«E de che? Tra un po' saremo puro sposati... Ce pensi? La signora Marisa Salis, la Regina de Ostia...».

«Seh, la Regina Elisabetta... Mi basta una vita tranquilla, tesoro, e spero che ti terrai fuori dai tuoi giri. Non sopporterei di vederti tornare in carcere. Io ti amo, Pietro, ti voglio accanto a me, non dietro le sbarre».

Salis sente una stretta al cuore. E uno strano pizzicorino agli occhi.

«Anche io te amo, Marì. E devi da stà serena: qua drento cor cazzo che me ce rivedono, piuttosto me faccio ammazzà».

«Non dirlo neanche per scherzo, amore mio...». La campanella annuncia che il colloquio collettivo è finito, i detenuti e i visitatori scambiano gli ultimi saluti, le raccomandazioni, i messaggi in codice.

Marisa fa per alzarsi e bacia Pietro sulle labbra.

«Come sei venuta?»

«In motorino... E come sennò, col traffico che c'è sulla Tiburtina?»

«Lo sai che nun vojo che giri co' quer trabiccolo, c'ho paura... Come esco te compro 'na bella machinetta, 'na Mini o 'na Y10, così sto più tranquillo».

«Quando esci faremo tante cose... Sempre insieme».

«Sempre insieme, amore mio, pe' tutta la vita».

Marisa si alza, scambia un altro bacio a fior di labbra con Pietro e si mischia alla piccola folla in uscita. Pietro la guarda andar via, bellissima e regale e capisce ancora una volta che quella donna gli ha cambiato la vita. Non ha la minima intenzione di rigare dritto ma una cosa è sicura: d'ora in avanti sarà più cauto e, soprattutto, non la coinvolgerà mai nei suoi impicci. L'accusa di favoreggiamento le ha lasciato una macchia sulla fedina penale, anche se in galera c'è stata solo pochi giorni, e sarà la prima e ultima volta che accade. Sua moglie dev'essere pulita. Er Cattivo non è uno di quegli zammammeri come i Daga, che mandano le loro donne a spacciare e magari a fare le mignotte. Lui è un malavitoso di vecchia scuola, la famiglia è sacra.

Marisa esce dal portone di Rebibbia e toglie la catena al suo vecchio motorino Honda SH, riesce a metterlo in moto al quarto tentativo e si immette sulla Tiburtina che, per una volta, è quasi sgombera di auto, diretta al centro visto che, col cinquantino, non se la sente di andare sul raccordo per arrivare alla Colombo.

La Giulietta le arriva alle spalle come un proiettile, lanciata a centoventi all'ora.

Fausto Belizzi è strafatto di coca e sta armeggiando con lo stereo, cercando di sintonizzarsi su Radio Roma. Quando alza gli occhi e si vede davanti il ciclomotore tenta di frenare in extremis, ma è troppo tardi.

«È fatta, stia tranquillo».

«Sicuro? Scusi, non vorrei che... magari all'ultimo momento, un problema, un intoppo...».

«Con me non ci sono intoppi. Mai. Ho firmato stamattina».

«Io... Non ho parole, dottore. Davvero, grazie. Per qualunque cosa le dovesse servire sono a disposizione».

«Tranquillo Salnitri, tranquillo... E ora se non le spiace sono un po' impicciato».

«Naturalmente, dottore, scusi se l'ho trattenuta... Arrivederla. Grazie ancora».

Marcello Salnitri, titolare della Edilmarc, esce dalla stanza evitando per un pelo di fregarsi le mani e chiude la porta dietro di sé come se fosse fatta di vetro soffiato.

Antonio Assisi aspetta solo qualche istante per fare il giro della scrivania, prendere la grossa busta gialla che l'imprenditore ha lasciato sulla sedia e infilarla nella logora cartella di pelle da avvocato che porta con sé da dieci anni.

Non c'è bisogno di contare le banconote, tanto sa che non ne manca una: sette milioni in contante, tutti in biglietti usati di piccolo taglio. Altri sette li aveva ricevuti alla chiamata, come sempre: metà prima, metà a cose fatte, con una percentuale che varia dal due al cinque percento, a seconda dell'importo dei lavori. Sui più grossi, da oltre duecento milioni, prende anche di più ma è giusto così. Per le ditte che convoca a chiamata diretta, senza storie di bandi e concorsi, senza dover abbassare i capitolati all'osso e subappaltare a prezzi inferiori a quelli del materiale come si fa per il Comune o gli enti pubblici, i lavori commissionati dalla questura sono la manna dal cielo. Anche sui tempi di consegna si può andare tranquilli, tanto chi dovrebbe controllare ed eventualmente contestare è sempre lui, Assisi. Ristrutturazioni, manutenzioni, tinteggiature, impianti elettrici, tubature, allarmi, videocamere di sorveglianza, forniture per gli alloggi e le mense: i commissariati di Roma sono un unico, immenso, cantiere. Un fiume di denaro che scorre attraverso l'ufficio di Antonio Assisi ed è giusto che un po' finisca nelle sue tasche. Del resto, se non lo facesse lui, lo farebbe qualcun altro e Assisi ci ha messo poco a capire che, da una carriera rovinata e da un'umiliazione che ancora gli brucia, si può sempre ricavare qualcosa di buono, basta stare attenti ed evitare un'ingordigia eccessiva. Antonio Assisi non affida mai più di due o tre incarichi alla stessa impresa e, se lo fa, è solo dopo che la ditta si è camuffata sotto un nome diverso e qualche testa di legno come titolare.

È stato il primo imprenditore con cui si è trovato faccia a faccia, dopo un lungo e tortuoso giro di parole e un abboccamento più complicato dell'etichetta cinese, a fargli capire che gli spettava una fetta e che, sicuramente, i suoi predecessori non si erano tirati indietro. Da allora è andata avanti così, senza problemi, per dieci anni durante i quali Assisi ha messo su un bel gruzzolo: almeno centosettanta milioni nascosti nell'intercapedine del muro del box di un cugino ignaro, a cui aveva fatto rimettere a posto un vecchio garage in cambio del permesso di tenerci la moto. Quando legge le storie di manette e mazzette che escono, periodicamente, sui giornali, Assisi si meraviglia di quanto certa gente possa essere idiota: appuntamenti in pieno giorno, conversazioni al telefono, soldi infrattati in una borsa sotto il letto... Lui parla solo per allusioni e comunque il meno possibile, non risponde neanche alle chiamate degli imprenditori, li incontra solamente nel suo ufficio, che bonifica da solo una volta ogni due settimane con un marchingegno da spy story in grado di individuare cimici e microcamere e che ha comprato durante una trasferta a Milano a un'esposizione di sicurezza tecnologica. Acquisto in contante, irrintracciabile. Ma, soprattutto, Antonio Assisi evita di ostentare un benessere sospetto, vive esattamente come vivrebbe se potesse contare sul suo stipendio e considera il tesoretto una riserva per gli imprevisti che potrebbero arrivare o per una pensione decorosa. L'unico vezzo a cui non ha saputo resistere è stata la Guzzi California 1000, che ha comprato nuova fiammante e che tra l'altro usa pochissimo, solo qualche domenica per una corsa solitaria verso il mare o i castelli, visto che di solito gira con l'auto di servizio.

Ufficio servizi tecnici e logistici della questura di Roma, via Statilia 3. Un palazzone rosso smorto che è una piccola città di poliziotti: almeno mille agenti in divisa, con al fianco una pistola che non useranno mai, destinati a trascorrere quasi sempre l'intera carriera dietro le scartoffie in un microcosmo poliziesco quasi autosufficiente: mensa, bar, barbiere, agenzia bancaria, alloggi di servizio. Sbirri-travet, che non hanno mai fatto un giorno di servizio attivo e che lavorano con orari d'ufficio alle mille, diverse, pratiche che l'attività di una questura come quella della capitale impone: licenze, equo indennizzo, trasferimenti, amministrazione, sanità, straordinari. La manutenzione dei commissariati, ovviamente, è il più importante. E lucroso.

Assisi ha fiutato l'aria, si è adeguato con un'abilità camaleontica, ha assunto modi, lessico e tono a metà tra il manager e il burocrate e si è trasformato in un piccolo ras. Non c'è tinteggiatura di una stanza, presa elettrica da riparare, condizionatore in tilt che sfugga alle sue grinfie e alla sua percentuale. E, considerando gli anni che mancano al congedo e l'incremento matematico e prevedibile delle bustarelle che incassa, potrebbe ritenersi arrivato ma...

Il problema è che i soldi non gli bastano. E che vuole tornare in pista.

A forza di aggiungere fettine puoi ottenere un salame ma non sarai mai veramente ricco. E soprattutto non è quello il potere che vuole. Antonio Assisi, corrotto o no, è uno sbirro nato e ama tutto quello che amano gli sbirri veri: azione, adrenalina, decisioni da prendere al volo, predazione, schiaffoni, inseguimenti, paura negli occhi dei cattivi...

Polizia vera. Polizia sul campo. Lui è nato per quello e ci vuole tornare. A Ostia, nel suo dominio personale, era un topo nel formaggio e ancora gli brucia. Per la milionesima volta in dieci anni, Assisi si dà dell'idiota: si è fottuto la vita per colpa di una zoccola ingrata e arrivista che lo ha fatto girare come una trottola, lo ha usato e lo ha mollato quando non gli serviva più. L'unica consolazione è che è riuscito a salvare il matrimonio anche se con Teresa sono anni che si voltano la schiena e si mettono a dormire senza nemmeno il bacetto della buonanotte ma, se non altro, non ha alimenti da pagare.

La sua piccola, patetica, vendetta su Francesca l'ha avuta tre anni prima, quando le ha telefonato proponendole con tono disinvolto una rimpatriata per mangiarsi una pizza, visto che capitava da quelle parti per servizio e l'ha sentita accettare con entusiasmo e perfino un pizzico di trepidazione. L'intenzione era quella di scoparsela in macchina, volente o nolente, più per ritorsione che per desiderio e se avesse fatto la riottosa era pronto ad ammansirla a ceffoni ma quando se l'è vista davanti ingrassata, imbruttita, intristita, sciatta nel suo vestito troppo vistoso e troppo colorato e l'ha sentita parlare con rassegnazione del suo lavoro all'agenzia di assicurazioni a ottocentomila al mese, ogni libidine è evaporata all'istante.

Ha parlato ha monosillabi, ha finito di mangiare alla svelta, l'ha riaccompagnata sotto casa ha provato una gioia feroce vedendo che si aspettava di essere baciata e si è preso la sua rivalsa con una frase sibilata all'orecchio.

«Fai schifo. Non ti toccherei con un bastone. L'unica cosa buona con te è stata farla finita».

Francesca ha girato sui tacchi ed è corsa via in lacrime. Antonio si è sentito Caligola per mezza giornata, poi anche il ricordo di Francesca è sfumato e gli sono rimasti i soldi che accumula e quel tedio, quella svogliatezza, quella delusione anticipata con cui affronta ogni giornata di lavoro sapendo che non porterà novità o emozioni: magari solo una mazzetta in più. Uno sconforto quotidiano che rischia di trasformarsi in depressione.

Ma adesso basta. È finita. O quasi.

Assisi guarda il Citizen placcato oro: manca un'ora e un quarto ma non riesce a stare fermo. Va in bagno, si ravvia i capelli, s'aggiusta la cravatta regimental, spruzza un po' di Eau Sauvage ai polsi e dietro le orecchie, decide che, nel completo blu scuro ministeriale, trasmette affidabilità e professionalità esattamente come voleva, chiama l'autista e gli dice di prepararsi a partire per piazza del Collegio Romano.

 

 

 

 

Capitolo II

 

«Salis, ti devo parlare».

Er Cattivo solleva gli occhi dall'asso di bastoni che sta per calare sul tavolo e sbianca. La faccia dell'agente della penitenziaria preannuncia disastri. A neanche due mesi dalla scarcerazione la mazzata può essere una sola: un altro ordine di custodia cautelare che ti inchioda di nuovo in galera per chissà quanto. Succede. Ma di solito queste notizie le porta prima l'avvocato, al colloquio...

L'albanese raccoglie le carte in fretta e si rifugia il più lontano possibile per quanto lo permetta la cella.

Prima regola del galateo carcerario: discrezione.

Seconda regola: silenzio.

Terza regola: riservatezza.

L'agente si siede accanto a Pietro con un sospiro, poi lo guarda fisso come se non trovasse la forza di parlare. È un buon diavolo, di quelli che non si vendono, non s'atteggiano a ducetti coi carcerati, fanno il loro lavoro con dignitoso riserbo e mantengono le distanze da pari a pari. Quelli che, se scoppia una rivolta, vengono risparmiati dai pestaggi e dalle umiliazioni perché i detenuti rispettano chi li rispetta.

«È successa una cosa brutta, Salis...», tergiversa il poliziotto.

«Vabbè, nun ce stia a girà tanto intorno superio'... Ho capito. Che m'hanno accollato, stavolta?», capitola Salis che s'è già rassegnato e cerca di mantenere la marmorea impassibilità che si conviene a un boss come lui.

Lo sguardo del poliziotto è pieno di empatia dolorosa.

«Temo che non sia quello che pensi, Salis...».

«Ma perché? Che è successo?»

«Un incidente... Salis. Mi dispiace».

«Un incidente de che? A chi?». La voce di Salis sale di un'ottava.

«Alla... alla tua fidanzata, la signorina Caleppi, sono desolato».

Salis fa per agguantarlo per il bavero ma si trattiene in tempo.

«Che è successo? CHE CAZZO È SUCCESSO?»

«L'hanno investita, Salis... Sulla Tiburtina, quattro ore fa, era in motorino ed è stata tamponata da una macchina. Mi dispiace».

«Investita? Marisa? Sulla Tiburtina?». Er Cattivo si guarda attorno smarrito come se non riuscisse a capire. «E adesso me lo venite a dì? Come sta?»

«È... era... in ospedale, Salis».

«Ma chi è stato? Com'è successo? Come sta Marisa?», mitraglia Pietro, sconvolto.

«Una macchina... Una macchina pirata. Mi dispiace. L'ha presa da dietro e poi è scappata. La stanno cercando dappertutto, vedrai che lo beccano, quel bastardo...».

«Lo becco io, superio'. Appena sorto lo becco e l'ammazzo co' le mano mie... Ma come sta Marisa, come?». La domanda è un'implorazione.

L'agente risponde con uno sguardo di pura compassione e una leggera pacca sulla spalla.

«No... che vor dì? È grave? ME LO DICA SUPERIO'».

Il poliziotto maledice il suo mestiere mentre fa ancora cenno di no con la testa.

«Come? No... Nun è possibile... No».

«Non ce l'ha fatta, Salis... Mi dispiace. È arrivata al Policlinico in coma, hanno cercato di rianimarla, hanno fatto di tutto... Condoglianze, Salis».

L'urlo d'agonia del Cattivo echeggia per tutto il corridoio. Un grido inumano che esprime tutto lo strazio che un uomo può provare al mondo quando la sua vita gli si sbriciola davanti.

Er Cattivo si prende la faccia tra le grosse mani e piange come un bambino. L'agente si trattiene qualche istante, poi capisce che è meglio lasciarlo solo, gli dà un altro colpetto amichevole sul braccio, non sapendo che altro fare e si alza silenziosamente. Apre la cella, fa cenno all'albanese di uscire, tanto è scattata l'ora di socializzazione, e se ne va.

Pavel guarda Salis rannicchiato su se stesso che geme e piange, apre la bocca per dire qualcosa, ci rinuncia e sgattaiola via all'inglese.

Er Cattivo resta solo col suo strazio. Alza due occhi folli e pieni di lacrime, digrigna i denti come un pitbull, s'alza di scatto, afferra una sedia e comincia a devastare metodicamente tutto quello che ha intorno, ululando: televisore, cucinotto, macchinetta del caffè, armadietto vanno in pezzi, travolti da un turbine di colpi sferrati alla cieca.

Crisi di violenza e autolesionismo. Per queste cose, normalmente, cinque o sei guardie fanno irruzione in cella, ti bloccano, ti rifilano un fracco di botte, ti ammanettano e ti trascinano in infermeria. Bomba di Valium, cella d'isolamento e una nuova imputazione.

Nessuno interviene, nessuno fa qualcosa. Gli agenti si girano dall'altra parte. Un gruppetto di detenuti anziani, vecchie facce da galera grigie, segnate, solcate di rughe e rassegnazione, si raduna in semicerchio davanti alla porta semiaperta come per proteggere er Cattivo e la sua disperazione.

Salis fa il pazzo per almeno mezz'ora, fino a quando la cella sembra reduce da un bombardamento, poi non trova altro da distruggere, scaraventa la sedia contro il muro, s'affloscia sulla branda ansimando e resta a fissare il vuoto senza neanche accorgersi che non ha mai smesso di piangere.

Il cerchio di vecchi carcerati resta dov'è.

Aspetta.

Passa un'ora buona, in un silenzio irreale. Nel braccio, nelle celle, solo bisbigli dopo che la notizia si è sparsa in un attimo. Nel cortile una partitella di pallone disputata tra schiamazzi, scherni e imprecazioni s'interrompe all'istante come se l'arbitro avesse fischiato la fine del secondo tempo.

Tutto il braccio trattiene il fiato e rende omaggio al Cattivo con quella solidarietà che si crea solo tra carcerati e soldati al fronte.

Il semicerchio di detenuti è una muraglia protettiva che non si sposta di un pollice. Dopo due ore di silenzio e singulti smorzati dall'interno i carcerati si muovono lentamente, senza che nessuno abbia detto qualcosa. Entrano nella cella, impacciati, silenziosi, afflitti e restano lì, limitandosi a guardare Pietro e a esprimergli il loro affetto con occhi rivolti a terra e qualche scrollata di spalle che dice più di qualsiasi parola.

Salis siede sul letto, li guarda, annuisce, si pulisce gli occhi.

Le facce dei vecchi detenuti dicono tutto: non ti preoccupare, siamo tutti qui, non importa se piangi.

Lasciati andare.

Ti vogliamo bene.

Sei uno di noi.

Pietro Salis si alza come se avesse centocinquant'anni, barcolla verso Anguilla, un anziano rapinatore che sta scontando trent'anni per una rapina finita con una guardia giurata morta stecchita e lo abbraccia spasmodicamente.

«Grazie, Anguì. Grazie a tutti».

Anguilla gli accarezza la testa e si scosta, piangendo in silenzio.

Uno dopo l'altro, i vecchi carcerati stringono la mano a Pietro, lo abbracciano, lo baciano sulle guance, lo toccano sul braccio a seconda del grado di confidenza che hanno con lui, mormorano qualcosa in un sussurro. Poi escono alla spicciolata. Davanti alla porta si è formata una coda che s'allunga di minuto in minuto.

Pavel è il primo a entrare. Guarda il disastro, le sue cose devastate, i suoi pochi averi sfracellati e non fa una piega. Va da Salis, lo stringe a sé con le labbra che tremano e gli occhi lucidi, lo lascia andare e comincia a mettere a posto tutto come può.

Per almeno due ore i detenuti entrano a esprimere il loro cordoglio a un Pietro Salis dal cuore spezzato e dalla faccia di marmo. Gli ultimi a entrare, gravi e imbarazzati, sono altri due agenti della penitenziaria.

«Fai un fiato, un gesto e ti scanno come un maiale, stronzo».

Salvo sgrana due occhi terrorizzati mentre la punta d'avorio del tagliacarte gli preme sulla carne molle della gola fino a far scorrere un rivoletto di sangue sul colletto della camicia zuppo di sudore.

Omar l'ha afferrato da dietro con un balzo, lo ha costretto a rovesciare la testa prendendolo per i capelli e adesso aumenta la pressione della lama come se volesse farla penetrare lentamente. Salvo ansima, sbava, si strozza di saliva più per la sorpresa che per la paura.

«Adesso ascoltami bene, pezzo di merda... Credi di poter venire qui a battere cassa dopo tutto questo tempo e a pensare di ricattarmi in nome dei vecchi tempi? Pensi veramente che io sia così idiota da cascarci? È questo che pensi?».

Sembra una domanda, quindi Salvo prova a rispondere, cosa piuttosto difficile quando sei semisoffocato, hai un pugnale alla gola e te la stai facendo sotto dalla strizza.

«Mmmcrrrnon... nnnn richatttt... iosol... aiut...».

«Vuoi un aiuto, pezzo di merda?». Omar non molla presa e cipiglio. Il rivoletto rosso ha già inzuppato la stoffa e sente la vecchia sete di sangue che gli monta dentro. «Così puoi andare a dire a tutti i vecchi camerati dove sono e tra un po' me li ritrovo in fila alla porta a chiedere soldi o un posto di lavoro? Mi credi così idiota? Ci ho messo dieci anni per sistemarmi qui e far perdere le mie tracce e adesso arrivi tu e credi di potermi fottere?».

Salvo vorrebbe scuotere la testa per dire di no ma ha paura che il tagliacarte affondi ancora di più quindi si limita a tentare di non farsela addosso.

Omar lo costringe ad alzarsi, lo trascina fino alla finestra, la apre con una sola mano e lo fa spenzolare nel vuoto. Salvo guarda, terrorizzato, il traffico della City che scorre dodici metri più in basso. Un fiotto di urina gli inzuppa i pantaloni all'improvviso. Omar, disgustato, lo tira indietro, lo sbatte contro il muro due o tre volte e lo lascia andare. L'ex camerata s'affloscia a terra, seduto, come un sacco vuoto, ansimando.

Omar gli fa passare la lama d'avorio davanti agli occhi in un balenio bianco.

«Adesso ti scanno, stronzo... Poi ti metto in mano un coltello, chiamo la polizia e dico che hai tentato di rapinarmi. Diana testimonierà che è vero. Da queste parti non è come da noi: sulla legittima difesa non si scherza, non lo sapevi?».

Salvo fa cenno di no, con le lacrime agli occhi per la paura e l'umiliazione e non si capisce cosa sta negando: di conoscere la legge inglese sulla difesa personale? Di essere venuto a battere cassa? Di voler raccontare ai vecchi camerati dove si nasconde Omar?

«Ora stammi a sentire, Salvo, sentimi bene se vuoi continuare a vivere... Se ti lascio uscire da qui per le scale e non dalla finestra ti devi dimenticare di me. Per sempre. Non mi hai mai visto, mai sentito, mai saputo come mi chiamo adesso, dove vivo e cosa faccio. Chiaro?».

Salvo annuisce freneticamente come se avesse una scelta e a Omar importasse qualcosa della risposta.

«Mettiti in ginocchio. Le mani dietro la testa».

Salvo assume la classica posizione del prigioniero di guerra chiedendosi quali altri orrori abbia in mente Omar, lo vede allontanarsi cautamente, senza smettere di tenerlo d'occhio, avvicinarsi a una parete, staccare un quadro, armeggiare su un pulsante e aprire una piccola cassaforte. La distanza e il fatto che gli volti le spalle non lo ingannano: se solo tenta un movimento Omar scatterà come un falco e lo ucciderà. Per un attimo riflette sul fatto che non ha perso nulla dei suoi riflessi, della sua agilità e della sua spietatezza mentre lui...

Qualcosa di soffice si abbatte sul tappeto persiano con uno schiocco morbido. Salvo abbassa lo sguardo offuscato su una grossa mazzetta di banconote.

«Sono trentamila sterline... Abbastanza per andare avanti per un po'. Te le do perché mi fai pena, ridotto così. È l'unica cosa che avrai da me. E l'ultima. Dimenticati il posto di lavoro e il rifugio. E dimenticati di me. Se ti rivedo, anche solo una volta, ti ammazzo, se scopro che mi stai alle costole, se solo ti incontro per strada sei morto. È chiaro?»

«Shh».

«Non ho capito bene. È CHIARO?»

«Sì. È chiaro».

«Allora vattene, levati dal cazzo».

Salvo si rimette in piedi, prende la mazzetta di banconote, se la caccia in tasca e, prima di uscire, lancia a Omar un lungo sguardo indecifrabile, forse di sfida, forse di rabbia, forse di disprezzo. Omar fa il gesto di scacciare una mosca, infastidito, e lo guarda andar via.

Poi siede dietro la scrivania, resta a lungo in silenzio, sospira, prende il telefono a chiama Amparo alla galleria d'arte.

«Tutto bene, honey?»

«Certo, tesoro, perché? Ho saputo di un Manzoni in vendita a Glasgow e sto pensando di farci un salto, è un periodo che vanno forte, good business».

«Ah, be'... ok».

«Ma mi stai ascoltando? Sembri strano, che succede?»

«Niente, niente... Mi è sembrato di vedere una persona che conoscevo in strada ma mi sbagliavo. Tu? All right? Tutto bene?»

«Ma sì, darling... Me l'hai già chiesto... Sicuro che stai bene? Hai una voce strana».

«Sì sì, pensavo al lavoro... A che ora chiudi?»

«Alle sette, come al solito. Prendo la metro e vado a casa, ricordati che abbiamo una cena con John e Paula».

«Cheppalle...».

«Non cominciare, abbiamo fissato due settimane fa. E poi sono simpatici».

«Lui è uno stronzo e lei una zoccola, non so perché continuiamo a vederli».

«E tu sei un misantropo, mi amor, staresti sempre tappato in casa».

«Non è vero. Ascolta, sai che faccio? Sbrigo una faccenda qui e passo a prenderti con la Jaguar, diciamo alle 7 meno in quarto, ok?»

«Ok, va bene. Ricordati di prendere una bottiglia di champagne, please».

«Ok, baby, a tra poco».

«A tra poco, I love you».

Omar resta ancora seduto, in silenzio, pensando ad Amparo. La galleria d'arte che ha messo su quasi per gioco sta andando a gonfie vele e lei ha rivelato un talento inaspettato nell'individuare artisti promettenti e sconosciuti e nell'accaparrarsi pezzi di gran valore e rivenderli al doppio. I dieci anni in più sono stati clementi. È ancora bella, scintillante, seducente, col fisico temprato dallo squash e la pelle vellutata a forza di trattamenti estetici e massaggi esfolianti. Per le rughe solo un po' di botulino anche se ogni tanto l'affligge con l'idea di farsi liftare. In società è una star, come Omar del resto.

Omar ripensa a Salvo, considera le varie possibilità e scarta l'idea di una fuga precipitosa con Amparo, quella fuga che hanno programmato da tempo e per cui hanno messo da parte una riserva di contante, gioielli e documenti falsi.

No. Non ancora. Non per Salvo. Ha troppo da perdere. Ha una vita che gli piace e non vuole buttarla nel cesso. E, di sicuro, quel verme non parlerà con nessuno, gli ha messo in corpo troppa paura. Omar sa riconoscere un vigliacco quando lo vede e Salvo, in fondo, lo è sempre stato. Non lo tradirà, questione chiusa. Eppure più tenta di convincersi e più il serpentello del dubbio continua ad agitarglisi dentro.

Si alza e all'improvviso, si sente eccitatissimo. La violenza può fare questo effetto.

Amparo è bella, sexy, brillante ma non ringiovanisce. E scoparsi la stessa donna per dieci anni, alla lunga, stufa chiunque.

Omar fa irruzione nell'ufficio dove Diana sta battendo a macchina e senza una parola o un gesto comincia a sbottonarsi i pantaloni. Lei non fa una piega, si alza, si gira, si tira su la gonna e s'appoggia alla scrivania, lanciando un urlo di piacere e di sorpresa quando lui la penetra con un colpo violento e comincia a sbatterla selvaggiamente, la fa godere in pochi minuti masturbandola da dietro e sgorga dentro di lei con un ruggito che sembra più un urlo di guerra che di piacere.

Il primo distretto di polizia, in piazza del Collegio Romano, nel cuore di Roma è un commissariato-questura che opera su un territorio più grande di Bologna e sovrintende quelli di Trastevere, Celio e Castro Pretorio. È il più grande commissariato d'Italia: trecento uomini in organico di cui sei funzionari subordinati al dirigente, venticinque agenti all'informativa, venti alla polizia giudiziaria, un team investigativo che è un po' una versione ridotta della squadra mobile, tre volanti sempre in strada, ufficio denunce aperto ventiquattro su ventiquattro.

Da qui sono partite le prime esperienze del poliziotto di quartiere, un'idea mediatica sbandierata ai quattro venti tra taccuini e telecamere e rientrata in sordina, meno di un anno dopo, perché gli organici sono quello che sono. Il primo distretto di polizia ha competenza su tutti i palazzi del potere: governo, Viminale, presidenza della Repubblica, ministeri, TAR, DDA, oltre a diverse ambasciate tra cui USA e Giappone. Ogni giorno, il dirigente deve vedersela con almeno quattro o cinque manifestazioni e gli vengono aggregati temporaneamente rinforzi che vanno dai trecento ai cinquecento uomini tra poliziotti, carabinieri, finanzieri. Una poltrona che può proiettarti verso le altissime sfere della polizia o farti precipitare irrimediabilmente nel dimenticatoio. Molte carriere prestigiose sono passate di qui, altre si sono arenate per sempre: basta un "lei non sa chi sono io" detto al poliziotto sbagliato che sporge denuncia e crea una grana spaziale o una manifestazione con troppe teste rotte (o troppo poche, a seconda di come gira il vento della politica) e arriva il siluro. Trasferimento semipunitivo o promoveatur ut amoveatur, a seconda dei casi. In ogni modo sei fottuto. E infatti i funzionari che arrivano qui camminano sulle uova per due o tre anni, stanno bene attenti a non combinare casini e non vedono l'ora di essere spostati a un incarico che non comporti qualche chilo d'esplosivo sotto la scrivania.

Dentro la palazzina che si staglia sulla piazza come un fortino, a pochi passi dal cicaleccio degli studenti del classico Visconti, una cittadella con parcheggio interno, bar, palestra e camere di sicurezza che fanno invidia a quelle della questura. All'attico, il principesco alloggio di servizio riservato al dirigente e attualmente in ristrutturazione.

Antonio Assisi ha deciso che la sua riscossa partirà da qui. Dall'appartamento signorile da rimettere completamente a nuovo che il ministro dell'Interno Giovanni De Stefanis, arrivato fresco fresco da Pescara, ha reclamato per sé sfrattando su due piedi il funzionario che ne aveva diritto. Un colpo di mano che viola tutte le regole, visto che l'assegnazione degli alloggi spetta al dipartimento di PS e di conseguenza al capo della polizia, ma chissenefrega delle regole quando c'è un pesce grosso di mezzo.

Assisi ha fiutato l'aria e ha capito che De Stefanis, anche se non l'ha mai visto, è un'anima affine, ragiona esattamente come lui con quella dose di spregiudicatezza che non guasta e un sano disprezzo per i moralismi inutili. Tutto sta a vedere fin dove può spingersi e lo scoprirà presto.

Quando il ministro arriva, col suo piccolo corteo di auto blu e un'ora e mezzo di ritardo, Assisi è sulla porta assieme a una pattuglia di funzionari (tra cui l'incazzatissimo dirigente sfrattato che rosica in silenzio), elegantissimo nel suo completo blu con cravatta regimental ed è il primo a stringergli la mano con quel mezzo inchino servile, una specie di inclinazione del busto in avanti e gli occhi bassi che equivale a una riverenza del Settecento, ma con molta meno dignità.

Il ministro fa quello che fanno tutti i ministri del mondo: sorride, scambia pacche sulle spalle e qualche battuta stantia, si congratula, ascolta nomi che dimentica all'istante, si mostra affabile, accessibile e alla mano e poi, sbrigate le formalità, segue Assisi nella visita guidata al cantiere edile che diventerà casa sua, per lo meno fino a quando non lo schioderanno dalla poltrona.

Assisi sonda il terreno e capisce che è fertile.

«Per l'ingresso, signor ministro, avrei pensato a un cotto toscano chiaro che fa veramente il suo effetto». Ogni mattonella potrebbe essere incorniciata e battuta a un'asta di Christie's tanto è costosa. Il ministro approva senza riserve.

«Nel salone, invece, metterei il parquet se lei è d'accordo. Di teak o mogano, scelga lei».

Meglio il teak, che costa come un incrociatore della Marina.

«Qui mi sono permesso di ordinare due divani e una poltrona Frau, neri, in tono col pavimento e una scrivania Maggiolini che ho trovato da un antiquario del Corso ma se lei preferisce qualcosa di più moderno...».

No, divani Frau e scrivania Maggiolini vanno benissimo. Come le lampade a stelo d'acciaio inox, ipermoderne che contrastano con l'aspetto severo dell'ambiente, i sanitari Signorini da ordinare a Firenze («Normalmente ci vogliono mesi ma non si preoccupi, saltiamo la lista d'attesa»), la libreria di faggio, gli elettrodomestici Miele, i doppi vetri, gli infissi in ottone.

«Purtroppo come lei sa la Sovrintendenza ci impedisce di installare il motore dell'aria condizionata all'esterno, perché questo è un edificio storico... Ho ordinato un paio di Pinguino con cui si dovrebbe rimediare, sempre se lei è d'accordo».

E sui Pinguino, quegli aggeggi rumorosi da attaccare alla finestra con un foro nel vetro ma che, comunque, garantiscono un po' di freschezza mentre nella gran parte dei commissariati d'Italia si suda come bestie, l'alleanza tra Antonio Assisi e Giovanni De Stefanis si cementa con una stretta di mano molto più cordiale di quella che l'ha preceduta e decisamente più sincera.

«Lei è un ragazzo intraprendente, sa? Mi compiaccio», concede il ministro anche se il "ragazzo", presumibilmente, ha un paio di anni più di lui. Assisi quasi si mette a uggiolare come un cucciolo.

«La ringrazio, signor ministro, troppo buono...».

L'occhiata interrogativa di De Stefanis gli fa capire molto di più. Non diventi capo del Viminale se non sai riconoscere le persone e non ti destreggi alla grande nei meccanismi che regolano le carriere dei funzionari di polizia. Neanche sottosegretario, se per questo. Almeno allora, oggi è cambiato tutto. In peggio.

«Un giorno io e lei dovremo farci una chiacchierata». Il ministro guarda l'orologio, un Piaget d'oro sottile come una buccia di cipolla. «Mi interessa sapere come mai si è ritrovato all'ufficio tecnico logistico ma, purtroppo, adesso ho un impegno urgente».

«Quando crede, signor ministro, a sua disposizione». Antonio Assisi estrae fulmineamente un biglietto da visita in rilievo, pieno di svolazzi e di titoli e lo porge a due mani, come i giapponesi, senza rendersi conto di quanto sia ridicolo il gesto. «Ovviamente mi troverà spesso qui, a sovrintendere i lavori».

«Molto bene, uno di questi giorni la invito a colazione».

«Troppo onore, signor ministro, troppo onore».

Giovanni De Stefanis gratifica Assisi di una lieve pacca sulla spalla e marcia trionfalmente fuori mentre il poliziotto si trattiene a stento dal mettersi a saltare di gioia e si gode le occhiate invidiose dei colleghi per quello sfoggio di confidenza.

Rosicate, rosicate, teste di cazzo. E se tutto va come credo presto qualcuno dovrà rosicare molto di più.

 

 

 

 

Capitolo III

 

«Venite santi di Dio. Accorrete Angeli del Signore. Accogliete la sua anima e presentatela al trono dell'Altissimo».

Pietro Salis fissa imbambolato le volute d'incenso che si alzano verso il soffitto della basilica di San Lorenzo Fuori le Mura mentre il sacerdote e l'accolito girano attorno al feretro, circondato da un tappeto di fiori, cuscini e corone adorni di lunghi nastri viola, recitando le ultime formule rituali e agitando il turibolo.

Er Cattivo sbatte gli occhi, pesti e gonfi e scuote la testa come se non riuscisse a capire che, dentro quella cassa di legno chiaro, impreziosita da maniglie e fornimenti d'ottone che brillano come oro zecchino c'è veramente lei, la sua Marisa.

Sua moglie, se avesse fatto in tempo a sposarla.

Chiesa gremita, come si conviene ai funerali della donna di un boss del suo calibro. In prima fila, il gruppo storico di Salis: Scrocchiazeppi, più lugubre che mai nel completo scuro da vespillone che s'è comprato apposta, con la cravatta che sembra mettere in risalto il pomo d'Adamo nel lungo collo da giraffa, Giacchettone, compunto e afflitto, Palle d'Oro in fresco lana color canna di fucile, i capizona dei quartieri limitrofi a Ostia che si sono svenati nella gara a chi mandava l'omaggio floreale più vistoso e costoso.

Manca er Fanfara, assente giustificato visto che sta a buiosa.

Salis, invece, è libero. Scarcerazione anticipata, decisa dal giudice di sorveglianza assieme al permesso per assistere alle esequie, in considerazione del fatto che Salis si è comportato da detenuto modello.

Tutti i boss sono detenuti modello. Almeno fino a quando si scopre che, dalla loro cella, hanno continuato a dirigere i traffici e, magari, a ordinare omicidi e gambizzazioni.

Salis non ha ordinato alcun omicidio. Il prossimo lo farà con le sue mani e col lungo coltello a scatto che ha comprato appena uscito e che, ogni tanto, tasta nervosamente nella saccoccia come fosse un portafortuna.

Ma per l'infame c'è tempo. Almeno fino alla fine del rito.

In seconda fila, rappresentanza al completo delle tre famiglie malavitose che, da quando è finito al gabbio, stanno tramando per fargli le scarpe e prendere il suo posto: i Frisciotti, i Triolli e soprattutto i Daga, i più vistosi, i più sgargianti nei loro completi sartoriali di seta lucida, con le donne che sembrano uccelli esotici in gonne lunghe multicolori, gioielli sfolgoranti, chiome grigie o corvine raccolte in lunghe trecce o sciolte sulle spalle.

Consiglio Daga, attuale capo della famiglia, rivolge a Salis un cenno benevolo, da lontano, a metà tra un saluto e una benedizione, con un pizzico di condiscendenza regale che manda istantaneamente il sangue agli occhi di Pietro, pur nella sua afflizione.

Con te faremo i conti dopo, si ripromette. Poi torna a concentrarsi su Marisa. I suoi uomini stanno dragando tutta Roma alla ricerca del pirata della strada che l'ha uccisa, in una sorta di gara coi vigili urbani: carrozzerie, sfasciacarrozze, meccanici, autorimesse, parcheggi all'aperto, a caccia di una macchina color crema con i segni di un incidente recente, portata precipitosamente a riparare o abbandonata da qualche parte. Più o meno la stessa cosa che sta facendo la polizia municipale con la differenza che gli sgherri di Salis hanno parecchie armi in più: pagano, menano, mettono strizza, minacciano e promettono ricompense.

Salis ha già deciso come morirà il pezzo di merda che guidava: occhio per occhio, appena l'avrà individuato lo farà mettere sotto da una macchina e spera che l'agonia sia lunga e dolorosa o che magari, perché no, resti un vegetale per il resto dei suoi giorni.

Ogni cosa a suo tempo. Prima l'infame.

Poi Consiglio Daga. Uno di noi due è di troppo e non sono io. Ma Salis è indeciso se colpire immediatamente o tentare un accomodamento, quindi la faccenda è in stand by.

Terzo: il pirata. Prima bisogna individuarlo, però.

Er Cattivo sbatte gli occhi rendendosi conto con sorpresa che sta piangendo. Da quando gli hanno dato la notizia, gli capita spesso. Lacrime traditrici che sgorgano all'improvviso, quando meno se l'aspetta, e lo costringono ad andare in giro con un fazzolettone sempre umido in saccoccia per asciugarle e soffiarsi il naso, magari simulando un raffreddore.

Barbara, la sua incantevole figlia di nove anni, è rimasta a casa con la tata. Molti consigliano di far assistere i bambini ai funerali dei genitori ma a lui sembra una gran cazzata: chissenefotte dell'elaborazione del lutto, della presa di coscienza di una separazione definitiva e bla bla bla... Questa non è roba per una creatura innocente e stop. E del resto ha già parecchi problemi a farsi accettare come un padre da una bambina che ha visto solo tre o quattro volte in parlatorio e che, quando si ritrovano soli, sembra tanto incuriosita quanto intimidita da quell'omone spuntato dal nulla che la chiama "tesoro" e "amore mio" e la ricopre di regali. Er Cattivo non ha dimestichezza coi bambini, non li ha mai frequentati e non ci sa fare: oscilla tra i due estremi. O la tratta come se fosse deficiente, si mette a quattro zampe, fa cucù, fa le boccacce, la subissa di coccole e carezze e la infastidisce a forza di baci o si comporta come se fosse adulta, parla complicato, la fa partecipe di ragionamenti che non può capire e che Barbara ascolta serissima, aggrottando la fronte e domandandosi che sarà mai un infame da parcheggiare.

Però lo chiama papà da quando se l'è ritrovato davanti. E ogni volta er Cattivo rischia di mettersi a frignare di nuovo. Forse, tutto sommato, non è più tanto cattivo.

Scrocchiazeppi dà di gomito a Salis per avvertirlo che il funerale è finito e bisogna portare fuori la bara. Come un automa, Pietro Salis si alza, si piazza a un lato del feretro assieme a Giacchettone, Palle d'Oro, Scrocchiazeppi stesso e tre vespilloni, tira su la cassa assieme agli altri, se la issa in spalla ed esce.

L'applauso che accoglie l'uscita della bara gli fa capire che non tutti gli hanno voltato le spalle, che Pietro Salis è ancora qualcuno a Ostia e non solo. Deve solamente riprendere le redini in pugno, premiare chi gli è rimasto fedele in tutti questi anni, punire i voltagabbana che sono passati al nemico e ristabilire il suo dominio.

La cassa viene caricata su un furgone della Scifoni e inizia la sfilata di chi viene a stringere la mano al Cattivo. Prima di tutti il padre di Marisa, torvo e abbacchiato, con una luce di rimprovero negli occhi come se fosse lui il colpevole della sua morte. La mano di Giosuè Caleppi è moscia come una seppia, tutto il suo corpaccione sembra una massa tremolante di gelatina. Sarà lui, per un accordo preso velocemente in anticipo, ad accompagnare Marisa fino al piccolo cimitero di Anticoli Corrado, paese gioiello sulla Sublacense da cui viene la famiglia. Salis non ha protestato, anche perché ha parecchie faccende da sbrigare immediatamente dopo il rito. Una in particolare, ma prima...

Er Cravatta, monumentale ed elegantissimo, lo abbraccia con un piccolo gemito di conforto e rassegnazione.

Topo Gigio, grigio e anonimo, stringe la mano a braccio teso e fa un piccolo inchino.

I capizona, ossequiosi e impacciati, in ordine di grado e di importanza.

Salis resta basito quando si sposta e, per caso, si trova davanti un Antonello Messina in borghese, ingrigito e rinsecchito, il volto duro e contratto. Di sicuro è venuto per sorvegliare, non per un omaggio a un vecchio nemico, ma Salis lo stupisce, gli porge la mano e l'ufficiale, dopo un istante di esitazione, gliela stringe con qualche parola di condoglianze. Per una volta er Cattivo vede il tenente colonnello dei carabinieri (che oggi, dopo aver scalato la gerarchia e girato mezza Italia, è tornato a Ostia a capo del Gruppo dell'Arma) come un essere umano e non solo come una divisa da odiare e maledire.

E ancora: amici, conoscenti, gente di Ostia che teme, rispetta o venera il vecchio boss uscito dal carcere per il funerale della compagna, la sfilata è interminabile.

Subito dopo è il turno degli avversari, Frisciotti, Triolli e Daga. Le corone di fiori delle tre famiglie, ovviamente, sono le più grandi.

Consiglio Daga è l'ultimo e non per caso. Con una teatralità tutta zingaresca, abbraccia stretto er Cattivo come fossero fratelli e lo bacia ritualmente tre volte sulle guance con le lacrime agli occhi. Tipico dei sinti: magari ti fanno accoppare e poi piangono calde lacrime al tuo funerale senza neanche fingere. Violenti, sbrasoni, sentimentali.

Salis accetta abbraccio e baci, poi scosta il capo dei Daga e gli pianta in faccia due occhi di ossidiana.

«Io e te dovemo parlà», annuncia asciutto.

«Quanno te pare, Cattivo».

«Domani te manno Scrocchiazeppi pe' organizzà 'na cena».

«A disposizione».

Consiglio annuisce, si ritira, viene immediatamente circondato dalle sue guardie del corpo e s'infila nella grossa Mercedes blu che lo sta aspettando.

Pietro si chiede se lo dovrà ammazzare o se ci sarà un modo di appianare le cose tra di loro. All'improvviso si sente stanchissimo e ha paura di mettersi a piangere di nuovo ma capisce che non può permetterselo. Qualcun altro dovrà piangere, tra poco.

«'Namo a casa, Pietro?».

Scrocchiazeppi indica la tamarrissima Golf nera con cerchi in lega e modanature rosse che ha lasciato parcheggiata davanti alla basilica, di fronte a uno dei chioschi dei marmisti.

Pietro si riscuote e fa cenno di no.

«C'ho 'na cosa da fà. Me pijo la machina, tu torna co' quarcheduno oppure pijate un tassì. Se vedemo domani».

Scrocchiazeppi annuisce e, se ha qualche domanda, se la tiene per sé. Del resto ha parlato fin troppo, secondo i suoi standard di gregario silente, e non sa che il giorno dopo gli toccherà fare un'ambasciata ai Daga che lo costringerà a dare più aria ai denti di quanta ne dia di solito in un mese ma, col Fanfara carcerato, il secondo in comando è lui e non ci sono scuse. Onori e oneri.

Pietro sale in macchina, s'infila la mano in tasca, tasta il coltello per l'ennesima volta, resiste alla tentazione di tirarlo fuori e far scattare la lama e parte verso casa dell'infame che sta per morire.

«Comandi, signor colonnello».

«Comodo, Cafasso, comodo... Siedi pure, volevo fare due chiacchiere con te. Caffè?»

«Grazie, signor colonnello, se non è troppo disturbo».

Antonello Messina sospira, ordina il caffè a un carabiniere e guarda in tralice il giovane seduto ad angolo retto e in punta di sedia davanti a lui come se avesse un manico di scopa infilato nel sedere, il cappello posato ordinatamente sulle ginocchia, la divisa impeccabile su cui spiccano i nastrini di due missioni all'estero e la spilla di paracadutista che brilla come argento.

Capitano Ranieri Cafasso, trentadue anni, presente. Legnoso, formale, tosto, faccia da falco predatore, fisico da karateka, uno che farebbe la sua porca figura sulla copertina del calendario dell'Arma, figlio e nipote di ufficiali, tipico rampollo di famiglia nato con gli alamari già cuciti sulla pelle e un futuro predestinato. Uno di quelli che ci credono, perfino troppo visto che un minimo di flessibilità, soprattutto da queste parti, non guasta mai e il regolamento, all'occorrenza, va interpretato piuttosto che applicato alla lettera. Curriculum eccellente: massimo dei voti all'accademia, istruttore di tiro e di combattimento a mani nude, sottotenente a Palermo, tenente a Reggio Calabria, capitano qui a Ostia da due mesi, dove occupa la stessa scrivania, strapazzata dagli anni, alla quale si è seduto Antonello Messina fino al trasferimento al ROS col grado di maggiore. Quando gli ha annunciato che andava al funerale della compagna di un bandito appena scarcerato, ha fatto in tempo a notare negli occhi di Cafasso un breve guizzo di disapprovazione, subito mascherato da quello sguardo impassibile, fisso al muro dietro di lui, che s'impara fin dai primi giorni dopo l'arruolamento e serve a nascondere qualsiasi emozione davanti ai superiori.

I mongoli di Gengis Khan la chiamavano faccia di pietra.

Cafasso saluta sempre militarmente, mano alla visiera, batte i tacchi, resta sull'attenti fino a quando non gli viene ordinato il riposo e, insomma, incarna perfettamente l'ideale del carabiniere tutto d'un pezzo. Di sicuro non ha mai allungato un ceffone o perso le staffe durante un interrogatorio come succedeva a Messina da giovane e il tenente colonnello si domanda quanto gli ci vorrà per ammorbidirsi un po'. Il maresciallo Pettisi, ormai prossimo al congedo per anzianità ma sempre irriducibile, lo guarda come fosse un extraterrestre e, sicuramente, lo considera un rompicoglioni galattico con le sue fisse sulla disciplina, l'uniforme e l'etichetta, ma Antonello Messina è felice di averlo a capo di una delle compagnie del suo Gruppo, che arriva fino a Velletri e comprende la fascia più turbolenta della provincia di Roma, quella del litorale. Se tra un po', com'è facile prevedere, cominceranno a piovere pallottole da una parte e dall'altra il capitano Ranieri Cafasso è l'uomo giusto al posto giusto.

E adesso è il momento di vedere se ha fatto i compiti.

«Sono stato al funerale di Marisa Caleppi, la compagna di Salis Pietro, a vedere un po' di facce nuove... E parecchie che conosciamo da anni», annuncia come se il capitano non lo sapesse benissimo.

«Naturalmente, signor colonnello. Ho mandato De Rossi e Franceschini a tener d'occhio la situazione e a prendere qualche numero di targa, giacché c'erano».

Messina sorride al ricordo di una scena del Padrino, coi poliziotti in borghese sbeffeggiati dai mafiosi al matrimonio della figlia del boss.

«Mi è sembrata una misura da prendere, se non altro per precauzione», s'acciglia il capitano. Il senso dell'umorismo non è contemplato dal manuale di comportamento della Benemerita e, di conseguenza, Cafasso ne è totalmente privo.

«Certo, certo, hai fatto benissimo... Sorridevo perché immagino che saprai a menadito chi erano tutti gli intervenuti alle esequie».

«Molti, in effetti, sono facce note, signor colonnello, come diceva lei giustamente, ma alcuni non li conoscevamo... Sto provvedendo a una ricerca informativa nei loro confronti».

Il colonnello beve la brodaglia immonda che non avrebbe il diritto di definirsi caffè e offre una sigaretta a Cafasso che, sorprendentemente, l'accetta. Una debolezza, finalmente. O, forse, non fuma e lo fa adesso solo per non mettere a disagio il superiore.

Magari la prossima volta gli offro una pista di coca, tanto per vedere che faccia fa... Messina, che non ha mai provato una droga in vita sua, reprime a fatica un altro sorrisetto. Cafasso gli ispira strane idee da vecchio monello, lui non è mai stato così rigido neanche ai tempi dell'accademia.

«Dunque, abbiamo di nuovo il Salis in libertà... Niente di buono, soprattutto ora che sarà addolorato e incattivito per la morte della compagna», constata tanto per dire qualcosa.

«Naturalmente, signor colonnello».

«So che sei qui da poco ma vorrei sapere che idea ti sei fatto di come funzionano le cose in zona, per questo ti ho chiamato».

Ranieri Cafasso si schiarisce la voce e consulta gli appunti mentali. La full immersion nella geografia criminale di Ostia è cominciata quando ha saputo della sua destinazione: ore e ore a compulsare fascicoli, leggere vecchi giornali, ascoltare anziani sottufficiali. Poi, appena arrivato, si è buttato a pesce nel lavoro come fa sempre.

«Come lei m'insegna, signor colonnello, l'assenza del Salis Pietro ha modificato gli equilibri nella malavita locale», attacca senza un attimo di esitazione. «Il soggetto in questione ha avuto sempre un ruolo determinante nel giro di spaccio, estorsioni e riciclaggio del quartiere, anche e soprattutto grazie ai legami con una grossa organizzazione criminale sgominata a suo tempo dall'Arma e dalla polizia di Stato ma attualmente in fase di riorganizzazione, di cui era esponente di rilievo. Non a caso è sospettato di un omicidio in pieno giorno a viso scoperto...». Cafasso esita per tre secondi poi riparte spedito. «La vittima era tal Fiorentino Empedocle, inteso Gufetto, e si sospetta che Salis l'abbia assassinato di proposito davanti a tutti per riaffermare il suo potere intimidatorio. In tale occasione rimase gravemente ferito, forse accidentalmente, uno degli accoliti del Salis, il De Rossi Raffaele alias "Giacchettone" che tra l'altro, stamattina, era presente al funerale della signorina Caleppi come lei stesso avrà avuto modo di notare».

«Complimenti, Cafasso... continua».

«Ecco, signor colonnello, oserei dire che la situazione sul territorio si è evoluta negativamente, negli ultimi anni, fino a raggiungere una connotazione prettamente mafiosa per altro estranea al resto della capitale. Se mi consente, ritengo che l'applicazione dell'articolo 416 bis per la malavita di Ostia sarebbe ampiamente giustificata».

«Sono perfettamente d'accordo, Cafasso, ma purtroppo dobbiamo vedercela coi magistrati che, spesso, hanno una deplorevole tendenza a cavillare troppo». Messina s'interrompe notando l'espressione scandalizzata del capitano davanti a una critica al potere giudiziario che deve apparirgli come una bestemmia durante la messa di Natale e si trattiene dallo sparare una battuta sardonica che, certamente, non sarebbe capita né apprezzata.

«Comunque vada, noi facciamo il nostro lavoro e i giudici il loro. Va' avanti».

«Le famiglie storiche che si dividono il business criminale qui a Ostia sono tre: Frisciotti, Triolli e Daga... Questi ultimi, un clan di origine sinti, inizialmente erano relegati a un ruolo sostanzialmente marginale, di recupero crediti, estorsioni o intimidazioni, quasi una bassa manovalanza al servizio degli altri due gruppi... Zammammeri, se mi perdona l'espressione gergale».

«Certo, Cafasso, proprio così, bravissimo. E ora che sta succedendo?»

«Le cose stanno cambiando velocemente, signor colonnello. I Daga, anche grazie alla loro... come dire... prolificità sono cresciuti in numero e in influenza. Non dimentichiamoci che gli zingari, anche quelli stanziali, fanno molti figli e i bambini crescono e diventano piccoli malavitosi. Inoltre si tratta di un clan molto coeso, in cui è impensabile infiltrare militari sotto copertura, in considerazione del fatto che sono vincolati da legami parentali e matrimoniali e, tra di loro, si esprimono in romaní, un idioma derivato...».

«So benissimo cos'è il romaní, Cafasso, grazie. Quindi il pericolo maggiore adesso sono i Daga, secondo te?»

«Ritengo di sì, o almeno lo ritenevo, signor colonnello, visto che il ritorno del Salis cambia tutto».

«In che modo?»

«Dubito che un soggetto di tale caratura possa essersi ritirato dai suoi traffici o che accetti di rassegnarsi a un ruolo secondario e, di conseguenza, cercherà di riprendere il comando, anche se alcuni dei suoi ex subordinati sono ormai passati in forza alle altre famiglie. Salis ha pur sempre un bel gruppo di fedelissimi su cui contare».

«E quindi?»

«Quindi suppongo che presto ci troveremo in mezzo a una guerra criminale, signor colonnello, se mi perdona il pessimismo».

«Realismo, Cafasso, lo chiamerei realismo. Mi congratulo per l'acutezza della tua analisi. Purtroppo, con le forze che abbiamo in campo, sia noi sia l'altro ente, sai bene che non sarà facile far fronte a una catena di sparatorie e agguati ma non possiamo sperare che mandino l'esercito, mica siamo in Sicilia».

«Temo che il contesto sia molto simile, se mi è concesso il paragone».

«Lo temo anch'io. Sono contento di averti qui. Inutile che ti raccomandi di stare dietro a Salis... Niente pedinamenti, è troppo scaltro e non funzionano. Piuttosto facciamogli capire che lo teniamo d'occhio, non lo molliamo un momento e appena alza un dito è fritto. Chiaro? E torna a riferirmi qualsiasi novità appena la sai».

«Sarà fatto, signor colonnello. Comandi».

Messina si alza e stringe la mano al capitano che subito dopo, prevedibilmente, s'impala sull'attenti, batte i tacchi, fa dietrofront e marcia fuori dalla stanza con la meccanica compostezza marziale di un ufficiale della Royal Guard.

Antonello Messina scuote la testa, divertito, accende un'altra Marlboro light e riflette sul fatto che, in fondo, l'ossatura stessa dell'Arma è fatta di personaggi così. E, a pensarci bene, è per questo che funziona.

«Buongiorno, dottore, la disturbo?»

«Mai signor ministro, mai... Ai suoi ordini».

«Per carità, dottore, mi mette in imbarazzo, lei è sempre così gentile...».

«Dovere, signor ministro, dovere... Cosa posso fare per lei?». Antonio Assisi s'accorge di essersi alzato in piedi e di aver fatto un mezzo inchino anche se sta parlando al telefono, si guarda attorno imbarazzato e si rimette seduto.

«Pensavo al colore delle poltrone... Ecco, mi piacerebbero di un marrone scuro, non nere».

«Naturalmente, signor ministro, ottima scelta se mi permette, provvedo subito a cambiare l'ordine... Il marrone scuro, in effetti, è un classico, molto sobrio e molto fine, il nero va bene, ovviamente, ma a pensarci bene mi sembra un po'... come dire...».

«Luttuoso? Eccessivamente severo?»

«Sì, esattamente, troppo severo, stavo proprio per dirlo...».

«Vede che io e lei c'intendiamo a meraviglia? L'ho capito subito, sa, che è un funzionario estremamente professionale... Ammiro molto il modo in cui si dedica al suo lavoro».

«Lei è veramente troppo gentile. Cerco solo di fare il mio dovere al meglio, dovunque mi mandino».

«Bene, guardi, e proprio di questo le vorrei parlare. Che ne dice di fare colazione insieme, se è disponibile?».

Antonio Assisi guarda l'orologio sconcertato. Ma a che ora si sveglia questo? Sono le 11:45 e l'idea di sgargarozzarsi cappuccio e cornetto quando le persone normali cominciano a sentire i primi languori di stomaco...

«Se è impegnato facciamo un altro giorno...».

«Per carità, signor ministro, un paio di faccenduole da sbrigare ma non c'è problema. A che ora pensava di vedermi?»

«Facciamo alle 13:30 se va bene a lei. Che ne dice se la invito alla Rosetta? Hanno dell'ottimo crudo di pesce che è l'ideale per tenersi leggeri a colazione. Ma anche gli spaghetti ai crostacei sono una meraviglia».

«Gli spaghetti ai... va bene signor ministro, alle 13:30 alla Rosetta».

«A tra poco, allora, arrivederci».

«Arrivederla, signor ministro, e grazie».

Antonio Assisi mette giù la cornetta e s'asciuga un immaginario rivoletto di sudore dalla fronte al pensiero della grezza stratosferica che ha evitato per un soffio.

Colazione. Che cazzo di modo di chiamare il pranzo. E lui che s'immaginava di inzuppare una brioche nel caffellatte, in piedi, in qualche bar da turisti vicino a palazzo Chigi.

Antonio Assisi mette via la relazione di servizio che stava scrivendo, tanto non c'è modo di concentrarsi, e decide che ha tutto il tempo di fare un salto dal barbiere, anche se s'è tagliato i capelli due settimane prima, per presentarsi al meglio. L'abbigliamento non è un problema. Da quando ha incontrato per la prima volta Giovanni De Stefanis indossa esclusivamente completi grigi o blu, proprio in attesa di un incontro col ministro, magari col pretesto di discutere qualche dettaglio della ristrutturazione dell'appartamento che procede a un ritmo molto più serrato della costruzione delle tendopoli dopo un terremoto. Al commissariato Trevi Campo Marzio ha spedito una coorte di operai, li pungola ogni giorno come un sergente dei Navy SEAL e controlla ogni pennellata, ogni pezzo di parquet, ogni presa elettrica o maniglia delle porte.

Evidentemente il ministro sa riconoscere il merito, quando lo vede.

Il problema coi politici è che tendono a essere ingrati. Una bella pacca sulle spalle, grazie di cuore e arrivederci. E a durare poco.

Comunque sia, Assisi ha capito da un pezzo che deve giocarsi la sua occasione alla svelta e soprattutto prima che l'appartamento sia pronto, altrimenti il ministro si dimenticherà della sua esistenza a una velocità aerospaziale. Per questo ha lanciato lì l'amo: «Dovunque mi mandino». Come a dire: sono un soldato, faccio il mio dovere anche nelle retrovie ma vorrei stare in prima fila, sotto il fuoco nemico...

E De Stefanis ha fiutato l'esca e ha abboccato.

Antonio Assisi è abbastanza scafato da capire che un funzionario di polizia fedele come Lassie e di larghe vedute dal punto di vista dell'etica professionale può fare molto comodo a un ministro dell'Interno che, spesso, non può sporcarsi le mani di persona. Magari per tenere d'occhio qualche PM troppo curioso, informarsi discretamente su un'inchiesta fastidiosa, di uno di quei giudici che cercano di farsi pubblicità indagando su nomi altisonanti o semplicemente per tirar fuori dai guai qualche amico o parente che s'è cacciato in un casino.

Succede dappertutto e da sempre. A Roma molto di più.

Antonio Assisi s'è candidato: sarà il manutengolo di De Stefanis. Aspettava la chiamata e la chiamata è arrivata. Ora deve solo giocarsi bene le sue carte.

Fischiettando si alza dalla scrivania, si accende una sigaretta e si appresta ad andare dal barbiere, poi si ricorda che non ha la minima idea di dove sia il ristorante, controlla le Pagine Gialle, scopre che si tratta di uno dei posti più fichi e costosi di Roma, almeno a giudicare dall'inserzione a pagamento, di sicuro uno di quei locali dove un poliziotto come lui non metterebbe mai piede e decide che si sacrificherà per la causa e mangerà anche lui il crudo di pesce anche se la sola idea lo fa vomitare.

I giapponesi dicono che noi italiani siamo sfaticati. Sarà, ma, almeno, il pesce facciamo la fatica di cuocerlo.

 

 

 

 

Capitolo IV

 

La Signora si dà una controllata allo specchio e storce la bocca.

Dieci anni prima era meglio.

Anche cinque se per questo.

Per infilarsi i jeans elasticizzati che una volta le stavano a pennello c'è voluta un'apnea che neanche Enzo Maiorca e adesso il bottone stringe a un punto tale che decide di slacciarlo, tanto lo nasconde dietro il cintone rosso largo come il sottopancia di un cavallo. La ricrescita sta velocemente sopravanzando sulle mèche con un effetto paglia e fieno che richiede un improcrastinabile intervento del parrucchiere e quanto a rughe... Be', lasciamo perdere. Ingrassare, di solito, ha almeno l'effetto secondario di rendere il viso più disteso ma con lei non ha funzionato. Più il corpo si gonfia, più la faccia sembra imprugnita.

Sospiro rassegnato, scrollata di spalle, dietrofront.

Da domani dieta e palestra, il mantra di ogni mattina. Smettere di fumare è fuori questione, visto che di solito si mangia di più e si mettono su altri chiletti di cui, sicuramente, non ha bisogno: le bastano quelli che ha preso, grazie.

Da lontano fa ancora il suo effetto, specie col tacco dodici e le gonne con lo spacco assassino. Una MILF strizzata in una taglia quarantaquattro che ormai non le corrisponde più, con una criniera leonina di capelli ormai fintobiondi e quell'aria provocante, sfrontata, che la fa camminare come se ballasse e attira sguardi concupiscenti e pensieri lubrichi, ma quando si avvicinano e la guardano in faccia...

Dietro liceo, davanti museo.

Gli uomini dicono così e le si attaglia alla perfezione. Ne ha visto più d'uno cambiare strada dopo averla tallonata per un po' e averla guardata in faccia e, una volta, le è sembrato addirittura di sentire la parola "befana". È avvampata al punto tale che non ha neanche avuto la prontezza di girarsi e mandare affanculo lo stronzo. Altro sospiro. Del resto ha cinquantatré anni e un'attività fiorente da gestire, quindi non può sprecare tempo in frivolezze come le signore vellutate dei Parioli o del Fleming che non fanno un cazzo e passano la giornata tra estetista, beauty center e lezioni di gag o aerobica. Lei deve guadagnarsi da vivere.

Il centro massaggi è stata una svolta e lei ringrazia la previdenza che le ha fatto mettere da parte un po' di soldi, mese dopo mese, quando Pietro la foraggiava e la riempiva di regali, per investire il tesoretto nella nuova attività che sta andando a gonfie vele. Ragazze di buona famiglia, educate, gentili, mica le solite strappone da strada. I clienti si fanno massaggiare e chiedono il solito extra, di solito un lavoretto veloce di mano o di bocca, molto raramente una sveltina, lei sta alla cassa e prende la percentuale e tutti sono felici. Prestazioni gratis per gli agenti del commissariato di zona e i carabinieri della stazione, così evita rotture di palle. Insomma, per essere una single senza più speranze di trovare un uomo che la mantenga si è sistemata e assicurata una vecchiaia tranquilla.

Il guaio è che la vecchiaia è già arrivata, senza neanche suonare alla porta.

Adesso, invece, stanno suonando e la Signora, che non aspetta nessuno, si domanda se siano quei rompicoglioni della Folletto, della Fabbri o, peggio i testimoni di Geova, uniche persone che possano presentarsi alle 12:15 di un giorno feriale quando ha una fretta boia e sta uscendo per andare al lavoro.

Apre con un vaffanculo già carico sulle labbra e resta di sasso.

Er Cattivo la spinge dentro senza complimenti e torreggia su di lei, con un sorriso che sembra un taglio diagonale sulla faccia.

«Ciao Rosa, è parecchio che nun ce se vede...».

La Signora boccheggia e si stropiccia gli occhi come se vedesse un fantasma, facendo un disastro col rimmel.

«Amo'... ma che... quanno sei uscito? Perché nun m'hai avvisato? Te sarei venuta a prenne ar carcere...», balbetta chiedendosi se sia il caso di abbracciarlo. Nel dubbio, fa per avvicinarsi ma la mano di Pietro la respinge bruscamente.

«Ah, me saresti venuta a prenne? Doppo dieci anni senza manco 'na lettera, 'na cartolina, nun dico 'na visita a buiosa?», ringhia Salis.

«Io... spettavo che te facessi vivo tu. Ho pensato che magara te volevi isolà pe' tutta la pena... M'avevi sempre detto che quanno se sta ar gabbio è mejo così, bisogna tajà li ponti co' l'esterno... Tu lo dicevi, Pietro, amore mio e t'ho voluto dà retta. Ma mo' che è quello? Che me devi fa? Tesoro mio che è quer cortello?».

Pietro le appoggia la punta della molletta sulla gola.

La Signora riesce a non afflosciarsi per non restare infilzata e si alza sulla punta dei piedi, respirando a fatica.

«Troia infame, te scanno come 'na gallina... Puttana zozza che m'hai fatto carcerà», la voce di Pietro è un gorgoglio di belva che sta per avventarsi.

La Signora piange in silenzio e fa cenno di no con la mano.

«Nun... Nun so' stata io. Amore ma che te viè in mente? Ma che dichi?», squittisce in preda al panico.

«Ah no eh? Neghi pure, zoccola? Guarda che l'avvocato m'ha fatto legge er verbale dei carubba: voce femminile anonima da una chiamata partita alle ore 10:57 da una cabina telefonica di via Cristoforo Colombo... A quell'ora eri appena sortita dall'albergo de Marisa. M'hai visto co' lei, te sei incazzata e hai chiamato le guardie, infame...».

«Io... Nun volevo...», singhiozza la Signora senza spiegare cos'è che non voleva: sorprendere Pietro con Marisa? Chiamare il 112? Farlo arrestare? L'ha fatto in un momento di folle gelosia e se l'è rimproverato per dieci anni, senza mai riuscire a perdonarsi. Adesso è venuto il redde rationem che, in fondo al suo cuore, ha sempre aspettato quasi con ansia. Sapeva da sempre che Pietro non perdona e che avrebbe scoperto chi l'aveva tradito. Il Cattivo scopre sempre tutto. Ma non è ancora pronta a morire.

«Pietro, amore mio, non m'ammazzare, ti prego. Ti scongiuro», balbetta tra le lacrime.

Er Cattivo esita. Per dieci anni, giorno e notte, ha immaginato quella scena, le lacrime della puttana, il suo ghigno vendicatore, la lama che le tranciava il collo facendo sgorgare una fontana di sangue. Si è preparato, si è esaltato, ha pregustato, ha aspettato e ha deciso che il momento migliore sarebbe stato subito dopo il funerale, quando probabilmente le giuste non avevano ancora organizzato i pedinamenti. Ora, finalmente, il momento è arrivato ma...

Pietro guarda la donna invecchiata, ingrassata, imbruttita, che supplica per la sua vita e sente qualcosa che non ha mai sentito in vita sua.

Compassione.

Non è un residuo d'amore o di tenerezza per l'ex amante, di Rosa non gli frega un accidente da anni e, ridotta com'è, col trucco sfatto, in ginocchio, e i capelli grigi che contrastano coi residui di tintura gli fa addirittura schifo.

È un'infame e gli infami devono morire. Pietro alza il coltello come Abramo su Isacco ma non c'è un angelo del Signore che intervenga a fermargli la mano.

È qualcosa dentro di lui. Qualcosa che non riconosce ma che gli impedisce di colpire: una sorta di stanchezza mortale, di tedio infinito, di disgusto per quella logica di vendetta e di morte che è sempre stata il suo credo nella vita.

Nessuno sa della Signora e della sua infamata. Nessuno s'aspetta che la uccida. È una faccenda privata tra lui e lei. E all'improvviso decide che non può, chiude il coltello e se lo rimette in tasca.

La Signora singhiozza piano, fa dei versi come un micetto impaurito.

«Te ne devi annà». Pietro annuncia la condanna all'esilio, severo come un giudice di corte d'assise. «Devi scomparì da Roma oggi stesso. Se scopro che sei rimasta qui, giuro che t'ammazzo. Nun vojo più sentì parlà de te in vita mia. Sei morta, Rosa, almeno a Roma. Si torni in questa città, finché sarò vivo io, duri du' giorni ar massimo. Se semo capiti?».

La Signora fa cenno di sì, incredula, sbalordita di essere ancora viva.

Pietro scuote la testa come un professore che approva la risposta giusta di uno studente, gira sui tacchi e se ne fa. Mentre sale sulla Golf si sorprende di sentirsi così sollevato.

«Non dormi amore?».

Amparo si materializza in salotto, avvolta in una vestaglia di seta, le lunghe gambe snelle nude, i piedi infilati in due vezzosi zoccoli col tacco alto che usa per casa: un'apparizione nonostante i capelli scomposti e gli occhi pesti di sonno.

Omar le lancia un'occhiata distratta, fa roteare il ghiaccio nel bicchiere e spegne la sigaretta. L'orologio a pendola dell'Ottocento, comprato in un negozio d'antiquariato che costa come una Lamborghini, segna le 3:30.

«Che succede? Sei preoccupato? Problemi al lavoro?». Amparo si accucciola accanto a Omar e gli posa la testa sulle spalle, facendo le fusa. Negli ultimi tempi è diventata più coccolona, più tenera e un po' meno pantera a letto. Omar considera fuggevolmente che forse è un passaggio naturale, a quarantatré anni, accompagnato da certi, quasi impercettibili, cambiamenti fisici e psicologici che probabilmente solo lui riesce a notare: il seno leggermente più pieno, i fianchi ancora sottili ma, forse, un pochino più larghi, una vaga instabilità d'umore e quella continua ricerca di attenzioni, di consenso, che stride con la sua personalità di donna tosta, affermata e indipendente.

Forse sta invecchiando, considera Omar... come me del resto.

Comunque è un gentiluomo, non lo direbbe mai e, visto che gli ha fatto una domanda, qualcosa deve pur rispondere.

«Be', è un periodo nero per l'immobiliare, baby, e il business ne risente», butta lì. La prima scusa che gli è venuta in mente.

Amparo gli vellica i capelli dietro l'orecchio, una cosa che di solito lo innervosisce ma che, stavolta, gli sembra molto dolce.

«E allora? Chissenefrega amore mio... Abbiamo tanti di quei soldi che, se butta male con gli appartamenti, puoi chiudere bottega e campiamo di rendita. Magari mi dai una mano in galleria, tanto per fare qualcosa... A me, al contrario, sta andando alla grande».

Omar non coglie la stoccata da femmina rivendicativa perché sta pensando a tutt'altro.

«Ehi? Pronto, vorrei parlare col dottor Remo Ansaldi, please...». Amparo fa finta di telefonare col pollice e il mignolo accostati all'orecchio. Quella di usare sempre il nome falso per evitare di tradirsi in pubblico è una regola presa pari pari dai manuali di comportamento in latitanza di terroristi rossi e neri. Diventa la tua identità di copertura, dimentica quella reale. Se puoi...

Omar non può. Non più, dopo la visita di Salvo. E all'improvviso capisce cosa deve fare.

«È successo un casino, amore mio... Dobbiamo andarcene», sbotta.

Amparo sgrana i suoi incredibili occhi cangianti ma si limita a fargli segno di parlare, poi si mette seduta, allunga la mano verso il pacchetto di Marlboro, la ritrae subito, guarda con desiderio la bottiglia di Bushmills etichetta nera ma non si versa neanche un goccio.

«Dimmi tutto, che succede?»

«È venuto un camerata in ufficio... Uno sfigato, Salvo, ti ricordi? Te ne avevo parlato».

«Quello... di Pitbull?»

«Bravissima, proprio lui. Non ho idea di come abbia fatto a trovarmi, tesoro, lui ha detto che è stata una botta di culo e potrebbe perfino essere vero».

«Che voleva?»

«Soldi, un lavoro, un posto sicuro, una copertura... È allo sbando, ricercato e muore di strizza».

«E tu? Che hai fatto?»

«L'ho minacciato. Gli ho dato un po' di denaro e gli ho detto che se si fa vedere un'altra volta l'ammazzo. Se l'è squagliata con la coda tra le gambe, credo che non lo rivedrò mai più, si cacava sotto».

«Allora è tutto a posto... Di che ti preoccupi?»

«Non so, amore mio... Sono tre giorni che non penso ad altro, non ci dormo la notte, come vedi. Ho paura che possa farmi una soffiata per vendicarsi o che, magari, possa vendermi alla polizia».

«Che ci guadagnerebbe? Mica c'è una taglia su di te, no?»

«Certo che no... Anzi, credo che dopo dieci anni i giudici, in Italia, mi abbiano dimenticato, hanno altro a cui pensare, specialmente a Roma».

«E poi, tesoro, perché dovrebbe vendicarsi? Gli hai dato i soldi, no? Quanti a proposito?»

«Trentamila».

Amparo considera che anche ventimila potevano bastare e magari coi diecimila che avanzavano... quei deliziosi orecchini con smeraldi e rubini.

Poi scaccia il pensiero e cerca di rassicurare Omar che, forse per la prima volta da quando si conoscono e si amano, gli sembra disorientato e indeciso. Proprio lui, l'uomo di ghiaccio. E proprio adesso...

«Ma allora non capisco il problema, amore... Ha avuto il denaro e anche tanto, perché dovrebbe fotterti?».

La domanda da un milione di dollari. Amparo ha ragione ma Omar si fida delle sue intuizioni che spesso hanno poco a che vedere con la logica.

«Non lo so, baby... È un uomo distrutto, senza lavoro, senza un posto nel mondo. Quando si è disperati, a volte, si fanno cose assurde. Probabilmente ce l'ha con me e potrebbe volersi vendicare».

«Ma perché? Che gli hai fatto?»

«Niente... A lui almeno. Ma tanti di noi si sono fottuti la vita in nome dell'Idea. Parecchi sono morti, altri stanno in carcere, altri sono finiti chissà dove. Io mi sono ricostruito un'esistenza nuova, ho te, sono ricco, sono al sicuro... L'invidia è molto pericolosa, sai?»

«Non ti sembra di esagerare?»

«Forse... Lì per lì avevo pensato di ammazzarlo. L'avrei scannato, avrei detto che aveva tentato di rapinarmi e Diana avrebbe testimoniato. Ma non ce l'ho fatta».

Solo a sentir nominare quella troia sculettante della segretaria Amparo sente un rigurgito di bile ma, al momento, ha cose più importanti a cui pensare.

«E che vorresti fare?»

«Pensavo... Quello che avevamo programmato fin dall'inizio se qualcosa fosse andato storto. Scappare in Argentina. Abbiamo i contanti e i documenti, poi, da lì, potrei liquidare la società e incassare il ricavato. Tra l'altro il governo di Carlos Saúl Menem è molto accogliente con gli ex camerati, non avremmo problemi di estradizione nel caso molto improbabile che ci scoprissero. Potrei organizzare tutto in un paio di giorni, tre o quattro al massimo».

«No». Il tono di Amparo è così tranchant che stupisce lei stessa.

«Ma perché? Ne avevamo parlato, eri d'accordo con me...».

«Dieci anni fa, quando pensavamo di dover vivere sempre in fuga. Adesso ho la mia vita, ho i miei amici, la galleria... Non me la sento di mollare tutto per una tua paranoia, scusami».

«A volte le paranoie ti salvano il culo. Tesoro, ti rendi conto di cosa succederebbe se mi beccano? Sono stato condannato in contumacia per tre omicidi tra cui quelli di due poliziotti. Se finisco in carcere non ne esco più».

«È solo una tua fantasia. L'incontro con Salvo ti ha riportato indietro nel tempo ma adesso è tutto cambiato. Dammi retta, non ci pensare più. Non ho voglia di seppellirmi in un Paese di negri solo perché un ex camerata è venuto a batter cassa».

«Veramente non sono negri ma sudamericani e poi è pieno di italiani».

«Fa lo stesso, non ci vengo. Mi spiace Omar, questione chiusa».

Omar la guarda sbalordito. La sua devota, appassionata, arrendevole Amparo sembra sul punto di dirgli che, se vuole, può partire da solo.

«Ma che hai? Stiamo solo parlando, cazzo...».

«Appunto, stiamo parlando. E io ti dico come la penso... O devo fare solo e soltanto quello che decidi tu senza fiatare? Credere, obbedire, combattere? Non fa per me».

E Amparo finisce di stupirlo del tutto con una mossa imprevista: scoppia a piangere.

«Amore... Mi spiace... Non so che dire, ne parleremo ancora. Vuoi un drink?»

«Non posso bere».

«E perché? È vero, sono le quattro del mattino ma un goccetto ci vuole».

«Ho detto che non posso bere, cazzo».

«Va bene, va bene, ma perché? Stai male?»

«Mai stata meglio. Sono incinta. Aspetto tuo figlio, Omar Gentile».

Le ostriche sanno di moccio. Antonio Assisi medita su questa profonda verità mentre, eroicamente, si sgargarozza la seconda Fine de Bretagne, cercando di mandarla giù tutta d'un colpo senza sentirne il sapore.

«Le piacciono?». Giovanni De Stefanis interrompe la dotta disquisizione su Speciale de Claire, Belon des Hermelles, Belon di Cancale, piatte, concave, a carne bianca e verde, estive e invernali... «Molti dicono che non vanno consumate nei mesi con la R, ma ormai la distinzione è superata perché con le nuove tecnologie la catena del freddo viene mantenuta comunque e... ma non mi ha detto se le gradisce...».

«Moltissimo. Squisite», si strozza Assisi che riesce, eroicamente, a inghiottire il malloppo vischioso che sa vagamente di acqua di mare, limone e lumaca cruda senza vomitare sul tavolo.

«Allora prenda l'ultima, la prego».

«Non potrei mai, signor ministro, mai...».

«Insisto. Altrimenti mi offendo».

Visto che tutto vuole meno che farlo incazzare, Antonio Assisi si sacrifica e tenta di consolarsi pensando che, in fondo, poteva perfino andargli peggio: in Africa ci sono grosse larve considerate una prelibatezza, i cinesi tagliano la testa ai serpenti e ne bevono il sangue, servono zuppa di cane e aromatizzano la grappa con le scolopendre, gli eschimesi vanno pazzi per lo stomaco di caribù, le cavallette fritte sono uno snack molto apprezzato in Thailandia e Giappone...

Gli italiani hanno dato al mondo la pizza, gli spaghetti e i supplì. E lui sta qui, in un ristorante da cento sacchi a botta, a ingozzarsi di molluschi crudi e a rischiare l'epatite in nome della carriera. La vita può essere veramente ingiusta.

Seguono tartare di tonno, gamberoni (ovviamente crudi) e tartare di spigola alle noci.

Antonio Assisi tenta di estraniarsi magnificando le virtù della resina che ha scelto per il pavimento della cucina, delle piastrelle in ceramica verde acquamarina del bagno e del letto col futon, ma il sadico continua a riempirgli il piatto e a insistere che assaggi, pilucchi e degusti senza mai decidersi a venire al sodo. E siamo solo all'inizio.

Per fortuna, dopo gli antipasti, De Stefanis si decide a passare a qualcosa di più commestibile, sterza sul risotto ai frutti di mare, poi ordina un dentice al forno con patate, insalatina mista per pulirsi la bocca, sorbetto di limone, una seconda bottiglia di Franciacorta, gelato e un amaro Averna con ghiaccio subito dopo il caffè.

Il pranzo (colazione, pardon) dura più di un'ora e mezzo e Assisi, che finalmente è riuscito a riempirsi lo stomaco con qualcosa che non sia ancora vivo o, comunque, in limine mortis, riflette sul fatto che il ministro, evidentemente, ha un concetto tutto suo dell'espressione "tenersi leggero a colazione" e che, in generale, i politici hanno capacità digestive da supereroi.

«Lei è un vero gourmet, dottor Assisi, mi compiaccio».

Il poliziotto si domanda che cazzo vuol dire, decide che, visto il tono, non dev'essere una parolaccia, non sa che accidenti rispondere e si trincera dietro un modesto: «Si fa quel che si può».

«Davvero, sa, dottor Assisi, lei è una persona speciale, un uomo di mondo... Nella mia posizione è essenziale capire le qualità di un funzionario fin dalla prima stretta di mano e le sue mi sono apparse subito evidenti».

«Troppo buono, signor ministro, troppo buono».

Giovanni De Stefanis versa un altro bicchierino d'amaro per entrambi dalla bottiglia lasciata sul tavolo dal cameriere e fa roteare il liquido scuro assieme ai cubetti di ghiaccio.

«Io credo molto nel lavoro di squadra. E lei?»

«Assolutamente, signor ministro, assolutamente».

«Bene, siamo d'accordo anche su questo. A proposito, che mi diceva della resina? Non è che poi, magari, dopo un po' si aprono delle crepe?»

«Impossibile, signor ministro, è uno dei materiali più solidi ed elastici che esistano, studiato per resistere a tutte le sollecitazioni e agli assestamenti statici dei fabbricati e, tra l'altro, facilissimo da pulire, ideale per una cucina». Assisi recita a memoria la lezioncina appresa dai resinisti (due stronzi che se la tirano da neurochirurghi e lavorano in mascherina, guanti in lattice e pedalini bianchi), chiedendosi quando mai il crapulone si deciderà ad andare al sodo.

«Bene, resina sia allora. Ma torniamo a lei, dottor Assisi. Da una sua garbata allusione mi è sembrato di intuire che il suo attuale incarico non la soddisfi pienamente, o sbaglio?»

«Per carità, signor ministro, forse mi ha frainteso. La mia unica ambizione è servire al meglio l'amministrazione, ovunque io sia destinato».

«Parole encomiabili, raro senso del dovere. Ma la prego, parli pure liberamente e mi consideri un amico».

Assisi si domanda se il tizio è sbronzo, cosa plausibilissima dopo due bottiglie di spumante e due amari ma De Stefanis, oltre che di uno stomaco da Gargantua, sembra dotato di un'incredibile capacità di reggere l'alcol, quindi decide che è venuto il momento di osare.

«Se proprio insiste, signor ministro, ma non vorrei tediarla con le mie problematiche, avrà senz'altro cose più importanti a cui pensare», si schermisce. Gli uomini della scorta di De Stefanis, impalati all'ingresso nei loro dozzinali completi scuri, mantengono quell'impassibilità che si acquista fin dai primi giorni di servizio, abituati a sentire senza ascoltare e guardare senza vedere. Cani da guardia che custodiscono segreti, incontri e intrighi ben più importanti di questo.

«Parli, parli pure, dica tutto. Insisto».

«Be', ecco, visto che lei è così disponibile... Il fatto è che in passato sono stato accusato ingiustamente di qualcosa che non ho mai commesso e...».

«Sarebbe?»

«Per farla breve si è trattato di una svista. I miei superiori hanno creduto che io abbia passato alcune notizie riservate alla stampa ma si tratta di una vile maldicenza senza alcun fondamento, tant'è vero che non sono mai stato sottoposto ad alcun provvedimento disciplinare né tantomeno penale».

«Mi sta dicendo che lei è stato sbattuto all'ufficio tecnico logistico sulla base di voci inconsistenti?»

«Sì, signor ministro, proprio così, dato che me lo ha chiesto. Ma, intendiamoci, sono molto soddisfatto del mio incarico, massimamente ora che ho avuto la possibilità di incontrarla».

«Bene, bene, molto diplomatico, un'altra qualità preziosa. Ma se ho capito bene le piacerebbe tornare a un posto più, come dire, operativo, giusto? Un posto dove le sue qualità di investigatore possano essere messe giustamente in risalto? Insomma, un incarico dove le sia data la possibilità di esprimersi al meglio?»

«Esattamente, signor ministro, lei sa leggere nell'animo delle persone».

«È una dote essenziale per chi fa politica e indispensabile per un ministro. Vede, dottor Assise... Assisi, scusi, come le dicevo punto tutto sul lavoro di squadra. E ci tengo ad avere un pool di funzionari affidabili, professionali, esperti e su cui soprattutto si possa contare per ogni evenienza. Lei mi sembra uno di questi».

«Non so che dire, mi mette in imbarazzo, troppa gentilezza, io...».

«Su, su, non faccia il modesto. E allora, dottor Assise, quale destinazione gradirebbe in un prossimo futuro, dopo aver ultimato la ristrutturazione del mio alloggio?»

«Be', vede, se devo essere sincero... Ecco, mi piacerebbe tornare al posto che occupavo prima. Stavo programmando un'offensiva contro la criminalità stanziale e ho la brutta sensazione di aver dovuto lasciare il lavoro a metà. Mi piacerebbe portarlo a termine».

«Capisco perfettamente, solide motivazioni, encomiabile senso del dovere... E quale sarebbe questo posto, dottor Assise... pardon, Assisi?»

«Il commissariato Ostia Lido, se potessi scegliere vorrei tornare lì».

«Domani parlerò col capo della polizia. Si consideri già trasferito, giusto il tempo delle formalità burocratiche e, naturalmente, alla fine dei lavori».

«Io... Non ho parole, non so come ringraziarla». Antonio Assisi scarta velocemente l'idea di genuflettersi o buttarsi in ginocchio e si limita a chinare il capo e arrossire, cosa che, satollo e mezzo sbronzo com'è, gli riesce benissimo.

«Bene, allora è fatta. E adesso che ne dice di festeggiare? Un altro sorbetto, magari irrobustito con un po' di vodka?».

Venti minuti di ossequi, sviolinate e ringraziamenti dopo, il ministro esce dal ristorante e marcia verso l'auto blu, tallonato dalla scorta, come un maratoneta nonostante tutto quello che ha mangiato e bevuto, Assisi barcolla fino all'auto di servizio dove l'autista è rimasto a calcinarsi al sole con la magra consolazione di un trancio di pizza al taglio e di una Peroni in lattina, si schianta sui sedili e s'appennica all'istante cullato dal dolce senso della vendetta che sta per compiersi.

Antonio Assisi II, il Ritorno. Tremate.

 

 

 

 

Capitolo V

 

«Cinque pippi d'acconto, te stanno bene?»

«Sette so' mejo».

«E famo sei, annata?».

Mezzodito tira un sospiro di pura rassegnazione e stringe la grossa mano del Cattivo col suo moncherino: tutte le falangi amputate da ragazzino giocando con un bombone trovato in strada a Capodanno. Sei pippi sono quasi un'offesa ma gli tocca abbozzare. Funziona così e basta. È il prezzo da pagare per un business che va alla grande.

Sei milioni sono una miseria per una Mercedes 190 nuova di zecca anche perché la parola "anticipo", per Pietro Salis, ha un significato tutto particolare: Mezzodito non vedrà una lira in più e lo sanno entrambi ma, quando sei in affari con Salis & C. da anni, gestisci una concessionaria che dovrebbe chiamarsi "Impicci e imbrogli", piuttosto che "Intercar", ti destreggi tra importazioni parallele, truffe carosello per evadere l'IVA, auto taroccate o da taroccare e un po' di coca sottobanco come optional, hai poco da fare lo schizzinoso. Un giro d'affari che va a gonfie vele e che, tra l'altro, gli permette di bazzicare calciatori, cantanti, attori, gente di spettacolo che arrivano a frotte, attirati dai prezzi concorrenziali e fanno da testimonial per incrementare la clientela.

Insomma, Mezzodito incassa l'assegno, consegna le chiavi e fa buon viso a pessimo gioco.

Er Cattivo si mette al volante, aspira l'odore di radica, pelle, polimeri e lusso come fosse Eau Sauvage e avvia il motore, restando estasiato al rumore attutito che esprime una potenza dormiente e ricorda le fusa di una pantera. Questa si che è una macchina, cazzo, gongola ingranando la prima.

Al contrario di gran parte dei boss er Cattivo non è un patito dei motori e non lo è mai stato. Detesta le ostentazioni e disprezza quegli sbrasoni dei Daga che si fanno un dovere di girare in BMW, Maserati o addirittura Ferrari, quando non inforcano una Honda 1000 o perfino una Harley per fare ancora più scena. Per Pietro l'auto è uno strumento di lavoro e gli basta che sia decorosa, senza esagerare, ma, da quando è tornato in circolazione e ha fiutato la nuova aria che tira, s'è reso conto che i tempi sono cambiati e anche gli status symbol hanno una valenza nuova. Se vuole tornare a imporre il suo ruolo deve curare anche le apparenze e non ha intenzione di presentarsi all'incontro durante il quale metterà al suo posto Consiglio Daga come un pezzente. Poi, magari, tra un anno o due restituirà la Mercedes a Mezzodito, si farà dare un po' di soldi indietro e comprerà qualcosa di meno vistoso: non c'è niente di più idiota, per un malavitoso di razza e di stazza, che attirare l'attenzione con gingilli da zingaro.

Quando parcheggia davanti al bar vicino alla Rotonda, comunque, la nuova macchina riscuote l'incondizionata ammirazione dei fedelissimi che ha convocato per una riunione operativa: l'immancabile Scrocchiazeppi, er Girello di Nuova Ostia che, appassionato di motori com'è, sembra un cane davanti alla vetrina di un macellaio, Giacchettone, mogio come al solito visto che la ferita alla gamba l'ha cambiato nello spirito, oltre che nel fisico, ed è costretto a camminare col bastone come un vecchierello, er Canetto dell'Infernetto e un paio di nuove leve che conosce solo di vista e che si sono fatte le ossa mentre era al gabbio. Manca er Bojaccia di Vitinia che, fedele al suo soprannome, ha cambiato bandiera ed è passato al nemico. Er Cattivo, appena lo ha saputo, ha programmato una cura medievale per il suo culo, se la storia coi Daga non s'aggiusterà con le buone. E anche se s'aggiusterà: Pietro non perdona i tradimenti e gli basterà far passare un po' di tempo, er Bojaccia può considerarsi ufficialmente un morto che cammina.

«Anvedi che machina, a Cattivo, era ora», s'estasia Scrocchiazeppi mostrando un'inconsueta loquacità: addirittura sette parole senza essere interpellato.

Poi, ovviamente, starà zitto per tutta la riunione.

Convenevoli, strette di mano, giro di birre e dritti al sodo.

«Allora, Giacchettò? Che cazzo sta a succede co' 'sti zingheri? Nun ve posso lascià soli un momento, porcatroia».

Giacchettone riflette sul fatto che dieci anni non sono esattamente un momento ma tiene la considerazione per sé.

«Tutto è cominciato quanno Bruno Frisciotti s'è squajato, Cattì... J'avevano accollato er 416 bisse, lui nun s'è fatto beve, ha fatto la bella e mo' dicheno che sta in Spagna... Comunque sia, la famija è rimasta senza capo e i Daga se so' approfittati subito. Manco 'na settimanella dopo hanno sparato a Fregnapecora e ar Lattina, c'hai presente?»

«Chi? Silvio e Manuel Frisciotti? Ma so' du' creature».

«Lo ereno, Pietro, so' passati dieci anni, so' cresciuti... So' due che conteno o mejo contaveno, adesso».

«L'hanno addobbati?»

«Er Lattina ha stirato er calzino, Fregnapecora è rimasto in ospedale per sei mesi e mo' nun se fa più vede in giro, j'è presa strizza. E come lui tanti altri, Cattì. I Daga hanno cominciato a fà casino, a brucià i chioschetti pe' chiede er pizzo, a fà i padroni, a mette sotto tutti... So' tanti, so' belli gasati e se senteno stocazzo».

«E mo' ce pensamo noi a falli ragionà... E i Triolli?»

«Hanno abbozzato, come i Frisciotti. C'hanno ancora er giro loro ma, piano piano, i Daga se stanno a magnà tutto».

«Be', mo' so' tornato e devono abbassà la cresta...».

Giacchettone esita... La notizia peggiore l'ha tenuta per ultimo e adesso si domanda se ha fatto bene visto che er Cattivo è incavolato come un bufalo con l'orticaria.

«C'è 'n'artra cosa, Pietro...».

«Pure? E daje...».

«Palle d'Oro sta sotto schiaffo... Deve sgancià un pippo ar mese».

«Cosa?», ruggisce er Cattivo fuori di sé. Poi scarica un cazzotto sul tavolo che fa saltare in aria sei bottiglie vuote di Ceres.

«Va avanti da sei mesi, Pietro, mortacci loro», solidarizza Giacchettone.

Pietro digrigna i denti come un alligatore. Chi tocca Palle d'Oro tocca lui in persona e sicuramente non è un caso se i Daga hanno deciso di imporgli una bustarella. È un'invasione di campo che ha il sapore di un'umiliazione, un affronto intollerabile che equivale a una dichiarazione di guerra.

Dieci anni prima, Pietro Salis non avrebbe esitato un giorno: avrebbe rimediato un ferro, sarebbe salito in macchina con uno o due dei suoi e avrebbe fatto capire a quegli zammammeri chi è che conta veramente a Ostia, ma il tempo è passato, le cose sono diverse, Marisa è morta, ha la bambina a cui pensare ed è diventato meno impulsivo. In fondo era al gabbio ed è abbastanza logico che altri abbiano tentato di fargli le scarpe: nella mala romana funziona così da sempre, equilibri che si compongono, si disgregano, tornano a ricomporsi in una miscellanea di alleanze cementate dalla paura.

Er Cattivo fa più paura di tutti, su questo non ci sono dubbi, e riprenderà il suo trono ma, prima di andare in guerra, vuole fare un tentativo con la diplomazia. Ne vale la pena. Consiglio Daga non è altro che un pischello cresciuto in fretta che fa la voce grossa, Pietro è sicuro di poterlo mettere a cuccia senza bisogno di sparare un colpo.

«Che famo, Cattì?». Giacchettone guarda speranzoso l'uomo che lo ha trasformato in un mezzo invalido.

«Domani ce parlo io, vedemo si fa tanto lo stronzo... Tu, Scrocchiazeppi, vacce subito e dije che se vedemo qua domani a mezzogiorno, io e lui da soli pe' chiarì 'sta faccenda».

Scrocchiazeppi annuisce in silenzio visto che ha dato fondo alla sua personale riserva di parole.

«Tranquilli, regà, che aggiustamo tutto», conclude Salis, rassicurante, alzandosi. «Mo' me ne vado che c'ho una persona importante da vedè, nun ve preoccupate de li zingheri, ce penso io».

Tutti salutano e approvano con meno convinzione di quanto er Cattivo s'aspetterebbe ma, dieci minuti dopo, neanche ci pensa più mentre guida verso casa: la persona importante, importantissima, che lo aspetta è Barbara a cui ha promesso solennemente che la porterà al luna park dell'Eur.

«Che aspettavi a dirmelo?»

«Di esserne sicura... Il Predictor era positivo da una settimana ma non mi sono fidata. Ho fatto le analisi et voilà... Incinta».

«E adesso?».

Lo schiaffo coglie Omar di sorpresa, come il manrovescio che segue un istante dopo.

«CHE CAZZO VUOL DIRE ADESSO, PEZZO DI MERDA? Che intendi, avanti, dillo, brutto stronzo?». Amparo lo afferra per la maglietta, gli graffia il volto con le unghie smaltate di rosso cupo, gli sbraita in faccia, stravolta dalla rabbia. «Sono una sedicenne che ti sei scopato in macchina dopo una festa? Una cameriera d'albergo che hai fottuto da dietro senza neanche guardarla in faccia? O magari quella troia della tua segretaria che ti fa i bocchini in ufficio? Rispondi, avanti, testa di cazzo, chi sono io?»

«Ampa...».

«IO SONO TUA MOGLIE, hai capito, pezzo di merda? Anche se non ho la fede e non siamo stati davanti a un prete sono la tua donna, la tua compagna... Stiamo insieme da quindici anni e per te... ho... io... lasciamo perdere, mi fai schifo».

«Ma, amo...».

«Amore un cazzo, verme che non sei altro. Non osare pronunciare quella parola, cabrón... La tua donna ti annuncia che è rimasta incinta a quarantatré anni e tutto quello che hai da dire è... "e adesso"?». Amparo tenta di imitare la voce di un idiota ma ne esce una specie di falsetto incomprensibile, si alza, si risiede, si alza di nuovo, afferra la bottiglia del whisky e la scaraventa contro un muro mancando d'un soffio una litografia firmata e numerata di Andy Warhol, cammina avanti e indietro come una tigre in gabbia, rossa in viso, s'accende una sigaretta alla faccia delle raccomandazioni del ginecologo e chissenefrega del pupo in arrivo, peggio per lui: beccati un po' di nicotina prenatale e impara subito che la vita è un merdaio.

«Perché tu vuoi che abortisca, vero, pallemosce?», tempesta. «È questo che vuoi, abbi il coraggio di ammetterlo. Non te la senti di affrontare le tue responsabilità, eh, scarafaggio? Di diventare finalmente un adulto, non l'eterno adolescente idealista rincoglionito che sei rimasto, il soldato votato all'Idea che non ha tempo per la famiglia? Mi fai vomitare, tu e l'Idea...», e visto che lo fa tutte le mattine di nascosto da due settimane e che il solo pensiero le fa salire i conati, Amparo si ferma un attimo per riprendere fiato e inventarsi qualche nuovo insulto. Omar ne approfitta per infilare due parole o almeno ci prova.

«Ma io...».

«Ma un cazzo, asshole, non dire "ma" che mi fai incazzare... Lo sapevo, lo sapevo, anche se speravo che fossi cresciuto ma io ti conosco, cacasotto, ti conosco bene... Mi dicevo: vedrai che sarà felice, vedrai che ti farà un sacco di coccole, che ti abbraccerà, che ti dirà che ti ama e che vuole il bambino ma, in fondo in fondo, ero sicura che avresti fatto così perché tu non sei un uomo sei una caccola, sei un lombrico strisciante, anche se fai tanto il duro...».

«Se poss...».

«Zitto, non fiatare. Parlo io. E ti dico chiaro e tondo una cosa, ficcatela bene in quella testa di cazzo che ti ritrovi. IO NON ABORTISCO. Concetto chiaro? Roger? Ricevuto? Questo bambino lo voglio e me lo tengo, con te o senza di te, non ho bisogno di un coglione che mi ciondola accanto, di un imbecille senza palle che fa finta di fare il padre, di un irresponsabile incompetente incapace che non sa nemmeno da che parte sta la responsabilità. Io...».

«Hai finito?»

«Sì. No. Vaffanculo».

«Ora che ti sei sfogata potrei dire due parole?»

«Mmm...».

«Era un sì?»

«Avanti, sbrigati, che cazzo devi dire?»

«Semplicemente che ti amo, che sono felice, sbalordito ma felice e voglio un figlio da te con tutto me stesso».

Adesso tocca ad Amparo restare basita. Guarda Omar come un pubblico ministero, non vede traccia di ironia, opportunismo o falsità nei suoi occhi, solo una gioia senza limiti, una commozione mai vista e perfino qualcosa di inconsueto, un tremolio dell'iride, un bagliore liquido che non può non essere una lacrima.

E siccome incazzarsi le piace da morire quasi rimpiange di non aver potuto prolungare la scenata un altro po' e magari fracassare qualche ninnolo da duemila sterline, mentre si scaraventa tra le sue braccia.

Omar la bacia a lungo, appassionatamente, le appoggia la testa sulla spalla, la ninna, la culla come una bambina, sente la sua furia che evapora velocemente, il suo corpo snello e sodo sotto la vestaglia che si rilassa, il suo respiro che si calma, poi accelera di nuovo mentre lui comincia a toccarla tra le gambe.

Fanno l'amore velocemente, ferocemente, sul divano, senza preliminari, senza il solito crescendo d'eccitazione, il balletto erotico in cui sono maestri e che hanno affinato nel corso degli anni. Quando Omar sgorga dentro di lei con un ruggito Amparo si contrae in un orgasmo quasi doloroso che le fa emettere un urlo roco da tigre ferita.

Poi si rotolano a terra e scoprono che stanno piangendo entrambi.

«Spero che sia un maschio... almeno ci ragiono. Un'altra femmina come te mi ammazzerebbe».

«Stai zitto... Stringimi forte e non dire cazzate, amore».

Omar obbedisce e si rende conto che la battuta era effettivamente fiacca poi guarda il lampadario a gocce con la testa vuota e il cuore che trabocca di gioia, sente Amparo addormentarsi velocemente, come una bambina, le accarezza i capelli umidi di sudore e si rende conto di tre cose.

Non andrà in Argentina, non andrà da nessuna parte, la sua vita è qui con la sua donna e suo figlio. Anzi, a pensarci meglio, anche una figlia sarebbe stupenda.

Se Salvo, o chiunque altro, si fa vedere lo uccide.

La prima cosa da fare è procurarsi una pistola. La seconda fare un po' d'esercizio al tiro perché sono più di dieci anni che non spara. Una vita. La sua vita di prima.

Con effetto immediato si dispone il trasferimento dall'ufficio tecnico logistico al commissariato di Ostia, a far data dal 1º luglio corrente anno.

Nicola Cavallini fa una smorfia di disgusto, guarda la circolare di servizio come se fosse un pezzo di carta igienica usata e la scaraventa davanti ad Antonio Assisi che siede compunto di fronte a lui, come uno studente convocato dal preside.

E in effetti, Cavallini è il suo preside, visto che, dopo dieci anni in giro per tutta Italia, è tornato a Roma con l'incarico di questore, cinque chili in più e parecchi capelli in meno, salutato con affetto da vecchi sbirri ancora in servizio, cronisti d'esperienza ed ex collaboratori sparpagliati tra commissariati e uffici di polizia della capitale. Un Cavallini appesantito, ingrigito, incattivito da un brutto divorzio (ammesso che esistano divorzi belli) ma arrembante e determinato come al solito. E adesso ha un diavolo per capello. Non molti diavoli, purtroppo, ma bastano.

«Che cazzo significa questo, Assisi? Spiegamelo tu».

Antonio Assisi legge le tre righe come se non ne conoscesse il contenuto e il ministro non gliel'avesse anticipato in una telefonata che gli è costata un attacco di mal di schiena a forza di inchinarsi («Ho deciso che prenderà servizio a luglio, mi aspetto che prima finisca i lavori dell'appartamento».

«Naturalmente, signor ministro, me ne occuperò giorno e notte... Ossequi, signor ministro, non so come ringraziarla, per qualsiasi cosa potessi esserle utile, nel mio piccolo, non esiti... Sì, signor ministro, non la deluderò, ancora ossequi».

Cavallini aspetta una risposta come se non fosse tutto chiaro, nero su bianco. Scavalcato direttamente dal capo della polizia, uno schiaffo in piena faccia per colpa di questo traffichino untuoso.

«Be', signor questore, mi hanno trasferito», squittisce.

«Lo vedo, cazzo, direttamente dal dipartimento. Voglio sapere come hai fatto».

«Io, signor questore? Mi scusi ma non capisco...».

«Capisci benissimo, Assisi, non cercare di prendermi per il culo».

«Non mi permetterei mai...».

«Ah non ti permetteresti mai, eh? Voglio sapere come hai fatto ad arruffianarti le alte sfere e lo voglio sapere adesso... Guarda, Assisi, stai bene attento a quello che fai perché se ne combini un'altra, una sola, non te la cavi con un trasferimento, io ti sbatto in galera, chiaro? Ti fotto per sempre, ti rovino, ti distruggo».

Assisi corruga le sopracciglia e si prepara a impersonare la Dignità Offesa ma Cavallini l'anticipa con un gesto imperioso.

«Non mi raccontare cazzate, non ho mica l'anello al naso... Tu ti sei intortato il ministro con la faccenda dell'alloggio di servizio che, tra l'altro, spettava di diritto al dirigente del commissariato, chissà che razza di impicci hai combinato per convincerlo a farti spostare a Ostia. Di' che non è vero, se hai il coraggio».

«Ma, signor questore, non so di che stia parlando, mi scusi... In effetti ho conosciuto il ministro De Stefanis, che mi ha onorato della sua benevolenza, ma non ho fatto altro che il mio dovere. E, mi perdoni, ci tengo a precisare che in passato sono stato oggetto di accuse false e infondate. Io non ho mai passato alcuna notizia riservata alla stampa».

Cavallini si produce nella sua migliore espressione da lupo mannaro e si rimprovera di essere stato troppo morbido dieci anni prima. Altro che soffiate a una cronista zoccola, questo era in combutta col peggior bandito di Ostia che, proprio pochi giorni prima, è tornato libero e, adesso che gli ci vorrebbe un uomo fidato sul posto per arginare la tempesta in arrivo, gli tocca mandarci proprio Antonio Assisi, l'ultima persona al mondo che dovrebbe dirigere quel commissariato, ma...

«Dio, concedimi la serenità di accettare le cose che non posso cambiare, il coraggio di cambiare le cose che posso e la saggezza per conoscere la differenza», dice la preghiera della serenità scritta, in forma moderna, dal teologo protestante Reinhold Niebuhr.

Cavallini, ovviamente, non lo ha mai sentito nominare come la maggior parte della gente ma il concetto è universale: gli ordini dall'alto non si discutono e mettersi di traverso col dipartimento è fuori questione, quindi gli tocca abbozzare.

Almeno per ora.

«Togliti dalle palle che mi fai venire il voltastomaco... E ricordati, sei sotto schiaffo... Fai un'altra cazzata, una sola e ti giuro che non ti salverà neanche il presidente della Repubblica, siamo intesi?»

«Mi dia fiducia, signor questore, sarà pienamente soddisfatto del mio operato».

«Fuori».

Assisi si alza ed esce in punta di piedi, rannicchiato su se stesso come un eunuco alla corte del Celeste Impero ma, appena fuori, si raddrizza in tutta la sua (bassa) statura, scambia un paio di battute e pacche sulle spalle con un paio di colleghi che incontra sulle scale e si precipita all'enoteca di via Nazionale a ordinare sei bottiglie di Dom Pérignon da spedire al ministro come pegno della sua imperitura gratitudine.

«Vorrei una tisana per dormire... Soffro d'insonnia ma non mi va di intossicarmi coi tranquillanti».

«Ottima idea... Posso dargliela sfusa o in confezione già pronta. Gli ingredienti sono più o meno gli stessi: camomilla, melissa, valeriana, papavero, biancospino...».

L'erborista scivola agilmente sulla sedia a rotelle tra barattoli ed espositori, la lunga barba da profeta che gli arriva fino al petto, i capelli folti raccolti in un codino, un bracciale di rame che manda bagliori sul polso massiccio, un ciondolo d'avorio con simbolo yin/yang al collo. Sembra un vecchio hippy, un residuato dei figli dei fiori approdato a un lavoro semialternativo dopo gli anni del libero amore e delle comuni anche se non dovrebbe avere neanche quarant'anni.

Salvo lo guarda in tralice e cerca di individuare qualche elemento di somiglianza. Ma sì, la dritta del vecchio camerata era giusta e, del resto, il negozio è intestato proprio a lui, ha controllato sull'elenco del telefono. E poi, a guardare bene, lo riconosce, nonostante i venti chili in più, la coda di cavallo e, naturalmente, la carrozzina: il naso leggermente storto, gli occhi duri e sfrontati, la mascella squadrata nascosta dal barbone alla Mosè...

«La prenda in infuso, tutte le sere, vedrà che le gioverà... E cerchi di non bere troppo a cena e, naturalmente, di non prendere il caffè che, del resto, sarebbe meglio abolire del tutto specialmente se si trova in un periodo di stress e nervosismo perché...».

«Pitbull???».

L'erborista sgrana gli occhi e tira indietro la testa, inclinandola leggermente di lato, in un gesto interrogativo che Salvo riconosce all'istante.

«Tu sei...».

«Sì, Pitbull, sono io... Salvo».

Momento di silenzio che può precedere tutto. Colonna sonora: la resa dei conti, Ennio Morricone.

«Non ci posso credere... Come mi hai trovato?». La voce di Pitbull è neutra. Gli occhi diventano due stiletti e Salvo si domanda se non ha un cannemozze caricato a pallettoni sotto la coperta da paraplegico che gli copre le gambe morte.

«Non c'è voluto molto, sei sull'elenco. Io invece sto nei casini e devo usare un nome fasullo, gli sbirri mi cercano per blindarmi», risponde asciutto.

«Però sei venuto... Cosa vuoi da me? Il perdono? Mi dispiace, quello non lo vendo né in tisana né in confezione». Be', se non altro non si è precipitato a chiamare il 113, riflette Salvo. E adesso gli tocca giocare le sue carte al meglio perché Pitbull può comunque denunciarlo un istante dopo che uscirà dalla porta.

«Ascolta, Pitbull, lo so che mi odi e ti capisco... Lo farei anch'io al posto tuo ma se solo mi lasci parlare un minuto cerco di spiegarti. Sono venuto apposta da Londra, ho rischiato di farmi beccare ai controlli e tornare a Roma è la cosa peggiore che potessi fare ma dovevo vederti. Due minuti, non ti chiedo di più», supplica.

«Parla».

«Ecco... È vero, c'ero anch'io quel giorno. È inutile negarlo ma ti giuro sulla mia vita che non volevo. E non ho sparato, ho solo fatto il palo. L'azione contro di te è stata decisa da Omar, è lui che ha fatto tutto, è lui che ti ha... sì, insomma, ti ha ridotto in questo stato. Puoi non credermi ma voleva ammazzarti e sono stato io a fermarlo. Mi dispiace da morire, non avrei mai creduto che... che saresti rimasto invalido».

«Capita quando ti becchi una pallottola nella spina dorsale, non lo sapevi?»

«Pitbull... avevo ventiquattro anni».

«Io ventitré. E da allora non ho più camminato, non mi sono più allenato e sono fortunato se, ogni tanto, riesco a farmelo drizzare. Che dovrei fare, ringraziarti?».

Salvo china la testa come un penitente. Ma sta andando perfino meglio del previsto.

«So benissimo che è inutile chiederti scusa. Non puoi immaginare quante volte ho pensato di scriverti ma non sono riuscito a farlo. Adesso mi metto nelle tue mani: puoi farmi arrestare e ne hai tutto il diritto ma se ti ricordi com'erano quegli anni, nel profondo del tuo cuore capirai che non avevo scelta. Eravamo tutti burattini nelle mani di Omar. Era lui che faceva, disfaceva, ordinava. Decideva della nostra vita e della nostra morte. Io sono una vittima come te, Pitbull».

«Chiamami Francesco, è il mio nome. Pitbull è morto dieci anni fa».

«Certo, Francesco, scusami... L'abitudine. Insomma, ti ho detto quello che dovevo dirti e mi sento sollevato, anche se dovrò finire in galera ma...».

«Io non chiamerò le guardie. La polizia mi fa schifo, non sai cosa mi hanno fatto quando mi hanno interrogato. Tutto mi fa schifo, anche tu, Salvo».

«Lo capisco perfettamente. Ma forse ho qualcosa che potrebbe interessarti».

«Cosa?»

«Omar. So dove si nasconde».

 

 

 

 

Capitolo VI

 

Giacca di lino color crema. Camicia nera aperta fino all'ombelico a mostrare una foresta di peli e un catenone d'oro da un chilo e mezzo. Jeans neri, stivaletti texani, anello d'oro a serpente con due rubini al posto degli occhi. Capelli impastati di gel. Lacrima tatuata sotto l'occhio sinistro.

Consiglio Daga sembra esattamente quello che è: un sinti malavitoso che ha fatto i soldi e la Maserati parcheggiata ostentatamente nel posto riservato ai portatori di handicap non è solo uno status symbol ma un'ostentazione di potere. Nessun vigile urbano oserebbe fargli la multa, almeno se vuole arrivare fino a sera con le ginocchia intatte.

Pietro Salis lo guarda di sottecchi e non si lascia impressionare neanche dal modo in cui sta seduto, ben staccato dallo schienale come se avesse qualcosa dietro la schiena, infilato nella cintura dei pantaloni, che sicuramente non è un cercapersone né il portafoglio.

Zammammero del cazzo. Così idiota che è capace di andarsene in giro col ferro, tanto per fare scena, riflette er Cattivo che, dal canto suo, è venuto con la Mercedes nuova e ha scelto una mise molto più sobria: pantaloni tecnici, Lacoste e rennino. In tasca ha solo la molletta visto che non ha alcuna intenzione di tornare a bottega per un controllo casuale di sbirri o carubba. Ha ancora un piccolo arsenale, sepolto in varie zone di Ostia e sfuggito alla perquisizione durante la tornata di arresti e ha dato ordine ai suoi di recuperare le armi, controllarle, revisionarle e tenersi pronti per la guerra ma spera ancora di risolvere tutto con la diplomazia. In fondo conosce Consiglio da quand'era ragazzino e svoltava qualche lira tra scippi e furti di stereo, uno stronzetto sbruffone che se la tirava da gangster. Be', adesso, a quanto pare, lo è diventato.

«Ammazza quanto te sei fatto grande, a Consì, me te ricordo pischello», esordisce benevolo mentre gli porge la mano. La stretta di Daga è breve e decisa.

«Er tempo passa pe' tutti, Cattivo».

«Già. A me m'è passato male, però... Dieci anni de Rebibbia e quanno torno trovo tutto cambiato».

«Le cose cambieno... Te fai 'no sciampagnino?»

«E famoselo. Ma offro io però. Questa è casa mia».

«Come te pare, Pietro».

Il Fettuccia, il cameriere che s'affretta a raccogliere le ordinazioni non può capire che Salis ha appena segnato un punto. Il bar, teoricamente, è zona neutra e se er Cattivo lo considera casa sua significa che è ancora il boss di Ostia, dato che non è gestito dai suoi prestanome. Sottigliezze malavitose.

Scrocchiazeppi aspetta vicino alla Mercedes con lo stesso atteggiamento vigile, anche se apparentemente distaccato, del grosso guardaspalle di Consiglio Daga che fa la guardia alla Maserati. L'incontro bilaterale tra i due boss non prevede spettatori né assistenti.

«Le cose cambieno, già, e nun sempre in mejo», filosofeggia er Cattivo. «Guarda che m'è successo...».

«M'è dispiaciuto pe' tu moje, Pietro».

«Grazie. E te? In famija tutto bene?»

«S'arangiamo, Cattivo...».

«Già. L'ho sentito...».

Il cameriere interrompe le schermaglie iniziali con un vassoio su cui troneggiano due calici di Krug millesimato e un trionfo di stuzzichini. Salis caccia venti sacchi e glieli allunga senza neanche guardare il conto, facendogli segno di tenere il resto e di levarsi dalle palle. Il Fettuccia si smaterializza all'istante.

«A noi». Consiglio e Pietro levano i calici in un brindisi neutro.

«Allora, Pietro, che me volevi da dì?». Daga rompe gli indugi con un'occhiata al Rolex d'oro che ha il sapore di uno sgarbo, come se stesse perdendo tempo.

«Dunque, come dicevi tu ve state ad allargà e me sta bene... Fino a quanno nun esagerate, però».

«Spieghete mejo». Nel tono di Consiglio non c'è più niente di amichevole né di rispettoso.

«Semplice. Qua comanno io. So' io che decido chi deve stà sotto schiaffo e chi no. E la gente che sta co' me va lasciata in pace. Si se capimo, allora nun ce so' problemi».

«E sinnò?»

«Sinnò so' casini. E nun conviene a nessuno. Se semo intesi?»

«Dipende».

Salis si lascia sfuggire un sospiro e scola il resto dello champagne. Lo zammammero è venuto a questionare, non a trattare.

«Allora, tanto pe' esse chiari, Palle d'Oro è mio. Da domani nun paga più una lira. Te sta bene?».

Il sinti corruga la fronte, come se stesse riflettendoci su e non sapesse, fin dall'inizio, che il problema era questo, poi annuisce.

«Nun ce so' problemi...».

Er Cattivo resta sbalordito di fronte a quella resa inaspettata ma Consiglio lo gela all'istante.

«Vorà dì che er melone al mese me lo dai tu, ar posto suo».

Lo schiaffo è così veloce che Daga non ha il tempo di scansarsi e finisce a terra con tutta la sedia. I tavolini attorno restano deserti in pochi secondi, scalpiccio di piedi, mormorii in sordina.

Consiglio si rialza, rosso in viso, mentre il Cattivo torreggia su di lui, pronto a prenderlo a calci se solo fa un gesto sbagliato, tipo portare la mano dietro la schiena. Il coltello a scatto, aperto, è nascosto nella manica del giubbetto, impugnato alla traditora con la lama lungo l'avambraccio come fanno i carcerati per nasconderlo fino al momento di colpire.

Ci sono momenti nella vita di un boss in cui bisogna giocarsi il tutto per tutto a rischio di farsi ammazzare o di finire all'ergastolo, se si vuole conservare il proprio ruolo.

Questo è uno di quei momenti.

Consiglio Daga fronteggia Salis, il volto paonazzo di rabbia, umiliazione ed effetto della cinquina.

«Qua e adesso, zingaro di merda», lo provoca il Cattivo.

Il sinti fa per replicare ma tace, forse perché gli uscirebbe un falsetto tremulo visto che se la sta facendo sotto. Poi stira le labbra in un mezzo sorrisetto che vorrebbe essere ironico, annuisce, si spolvera ostentatamente i pantaloni, gira le spalle e s'infila nella Maserati.

Salis si gode il suo piccolo trionfo sapendo che è l'inizio di una carneficina, si rimette seduto, accende una Marlboro, se la fuma con calma e se ne va, lasciando altri dieci sacchi per il disturbo e i bicchieri frantumati.

Scrocchiazeppi gli apre ossequiosamente la portiera, si mette al volante e, ovviamente, non fa domande. Guida e basta.

Arrivati sotto casa di Salis, Pietro gli passa le consegne con pochi ordini asciutti.

«Tutti in sala giochi stasera alle sette, coi ferri pronti. Li dovemo colpì subito, prima che lo fanno loro».

«Allora siamo d'accordo, domani cominciamo a installare l'impianto, ci vorranno due settimane al massimo».

«Una sarebbe meglio».

«Dieci giorni, dottore, è il massimo che posso fare».

«Mi raccomando, si dia una mossa. Al mio ritorno voglio trovare tutto a posto».

«Ci conti, dottore, grazie ancora».

Antonio Assisi stringe la mano a Nereo Rossi, l'ultimo imprenditore a cui scucirà una mazzetta visto che, quando sarà finalmente trasferito a Ostia, ha capito che dovrà muoversi con circospezione ed evitare impicci e imbrogli, col questore che lo terrà d'occhio come un falco, in attesa di un passo falso. Intanto, grazie a una richiesta del suo predecessore (che lo guarda in cagnesco dato che in questura le voci corrono veloci e sa di essere stato, virtualmente, già rimosso), a Ostia c'è tornato assieme a Rossi per l'installazione di un nuovo circuito di telecamere esterne. Un boccone da sessanta milioni tondi di cui, stavolta, s'è concesso un bonus del dieci percento, prendere o lasciare. Rossi ha ingoiato il rospo e il tesoretto di Assisi s'è arricchito di una bustarella di sei milioni.

E giacché c'è, Antonio Assisi decide di fare un giretto in quello che è stato il suo regno e che, presto, tornerà a esserlo. Solite facce, con qualche novellino in più, solite stanze disadorne, intonaci ingialliti, scrivanie traballanti, gente esasperata e incavolata che fa la fila per una denuncia, un passaporto, un permesso di soggiorno, un porto d'armi. Burocrazia poliziesca che soffoca gli agenti e impedisce un controllo efficace del territorio visto che gran parte dell'organico è perennemente alle prese con le scartoffie. Niente di nuovo sotto il sole e, anzi, ogni anno che passa va peggio, coi blocchi delle assunzioni e dei turnover per i tagli della spesa pubblica.

«Dottore, lieto di rivederla, la trovo in gran forma».

Ispettore Andrea Basilici, presente. Secco, nodoso come un vecchio ulivo, grigio, tabaccoso... Il classico poliziotto neghittoso e lecchino che conta i minuti che lo separano dalla pensione e s'è specializzato nell'arte sublime di arruffianarsi i superiori. Eppure, scansafatiche com'è, Basilici resta una colonna del commissariato e, dopo ventidue anni di servizio, conosce uno per uno i barabba del territorio e potrebbe scrivere un'enciclopedia sulla mala del litorale.

«Ue', Basilici, come va? Anche tu stai bene, vedo».

«Da povero vecchierello, dottore, troppo buono».

«Ti sei trovato bene con Latini?».

L'ispettore fa una faccia che dice: non fatemi parlare, e in effetti è sincero. Antonio Latini, che sta per dire addio all'ufficio, è uno che ci crede sul serio: ha fatto i salti mortali per rafforzare la squadra di giudiziaria, ha pungolato i suoi uomini in tutti i modi, ha cercato di racimolare le poche forze disponibili per toglierle dalla scrivania e piazzarle sulle volanti (auto fatiscenti con una media di ottantamila chilometri sul groppone ma è quello che passa il convento) e, insomma, ha tentato di restituire un minimo di sicurezza alla gente di qui che si sente abbandonata dallo Stato.

Esattamente quello che Basilici detesta con tutto se stesso: lavorare.

«Di' un po', Basilici, sai tenere un segreto?».

L'ispettore mima il gesto di cucirsi la bocca, come ha fatto quel magrebino per protesta al centro di identificazione ed espulsione.

«Bene, a luglio tornerò qui... Resti tra noi».

«Congratulazioni veramente, dottore, finalmente le cose ricominceranno a funzionare». Basilici esulta e pregusta qualche altro anno di dolce far niente all'ombra del suo capo.

«Nel frattempo, dovresti farmi un favore».

«Comandi, dottore».

«Mi piacerebbe sapere che sta succedendo qui... Come si sono mossi i ladroni, che gruppi stanno emergendo ora che Salis è stato scarcerato. Voglio un rapporto dettagliato pronto sulla scrivania il giorno che sarò insediato nuovamente».

«Naturalmente, dottor Assisi, in effetti c'è un po' di maretta, specialmente con i Daga, sa, gli zingari».

«Bene, scrivi tutto e ci vediamo a luglio e... un'altra cosa».

«Dica, dottore». Basilici nasconde il disappunto dietro un'espressione servile: ma non è che questo s'è messo in testa di fare il poliziotto sul serio?

«Detto fra noi: vorrei sapere quali sono i vecchi colleghi che, quando m'hanno trasferito, hanno festeggiato. Quelli che sparlavano di me... Tanto per capire di chi posso fidarmi».

Il viso scarno dell'ispettore si rasserena all'istante: spiate, soffiate, maldicenze sono il suo campo d'azione preferito.

«Be', posso dirle subito che Franceschi e D'Agosti, come dire... Erano contenti che lei se ne andasse. E anche Viola, che ora è alla giudiziaria. Ha detto una cosa...».

«Cosa?»

«Be', veramente... Insomma: finalmente ce lo siamo levati dal cazzo. Parole sue, dottore, per carità. Non davanti a me, non l'avrei permesso, me le ha riferite Totaro, che, invece, ha sempre manifestato la massima stima per lei».

«Buono a sapersi, grazie Basilici e... acqua in bocca».

«Sono una tomba».

Tornando a Roma, Assisi compila le liste di prescrizione anche se sa benissimo che, probabilmente, Basilici ne ha approfittato per prendersi qualche piccola vendetta personale. Per gli ispettori Franceschi e D'Agosti la soluzione è semplice: basta spostarli e invertire i rispettivi incarichi. D'Agosti, ai passaporti, è un topo nel formaggio: orario d'ufficio, nessun rischio e qualche regaletto della gente che lo ringrazia per non aver dovuto aspettare i quaranta giorni di prammatica. Mandiamolo alla squadretta di polizia giudiziaria a fare lo sbirro di strada e vediamo come se la cava. Per Franceschi il discorso è l'opposto: lavora in borghese, sempre sul pezzo, sempre entusiasta e motivato e si crede Starsky e Hutch, tutti e due insieme. Il 2 luglio gli toccherà ripristinare la divisa dalla naftalina e dire addio agli atteggiamenti da Mel Gibson: ai passaporti fino alla pensione, dove, sicuramente, non ci capirà un accidente e si dannerà l'anima. Quanto a Viola, agente semplice di grande disponibilità e ottime speranze, il suo destino è segnato: al posto di guardia, a fare il portiere sei ore al giorno senza la minima prospettiva di avanzamento. Il fedele Totaro, invece, continuerà a fare quello che ha sempre fatto: poco o niente, esattamente come il suo grande amico Basilici. Un buon dirigente deve saper utilizzare al meglio i suoi sottoposti.

«È una Kimber Micro Raptor calibro .45 ACP. Un pezzo d'acciaio, puoi usarla come un martello, spaccarci i sassi, buttarla in acqua, riempirla di sabbia e continua a sparare. Niente plastiche o polimeri: metallo pesante, calcio in legno, roba tosta. Il criterio costruttivo è quello della vecchia Colt M1911, una delle semiautomatiche più affidabili mai esistite. L'unico problema è che è un po' complicata da smontare e riassemblare ma basta farci la mano. Sennò ho un revolver Colt Python in buone condizioni che costa anche un po' di meno ma non c'è gara, io prenderei questa».

Omar soppesa la pistola, godendosi il bilanciamento e la presa perfetta sul calcio di legno zigrinato, scarrella un paio di volte, la esamina da intenditore, punta con entrambe le mani contro il ritratto di una nobildonna del XV secolo inquadrando il diodo fosforescente tra le due tacche di mira sulla punta del naso, preme leggermente il grilletto fino allo scatto ma, come chiunque conosca le armi e le sappia usare, evita di sparare a vuoto.

«Da dove viene?».

Vincenzo Spatafora alza le spalle.

«Furto in abitazione dieci anni fa... È pulita, mai usata per un reato. Naturalmente la matricola è abrasa».

«Naturalmente».

«Se ti serve un'arma che spari bene e non rischi d'incepparsi quando ne hai bisogno allora te la consiglio. Costerebbe mille sterline ma te la do a ottocento, con due scatole di proiettili in omaggio, in fondo siamo camerati».

E che camerati. Vincenzo è uno dei fascisti che si sono rifugiati a Londra durante gli anni di piombo, ha fatto fortuna e ha tessuto, pezzo dopo pezzo, la rete di alleanze, conoscenze, favori che ha creato in Inghilterra una piccola internazionale nera per neofascisti in fuga. Omar s'è appoggiato a lui appena arrivato, ha mantenuto un legame che potrebbe perfino definirsi amicizia e, quando ha deciso che gli serviva un ferro, ha pensato subito a lui: le leggi britanniche sul porto d'armi sono severe come quelle italiane e non ha voglia che la polizia inglese ficchi troppo il naso nei suoi documenti fasulli. Soluzione: Vincenzo che, adesso, lo guarda con un punto interrogativo negli occhi.

«Una Beretta non ce l'avevi?»

«Che mi fai il nazionalista?»

«Certo. Siamo fascisti, no?»

«Fino alla morte... No, niente Beretta, sorry. Non tratto molte armi. Questa è meglio, fidati».

«Dovresti fare il piazzista. Mi hai convinto, la prendo». Omar tira fuori il portafoglio e conta le banconote.

«Posso farti una domanda?». Vincenzo non si tiene più.

«Certo».

«A che ti serve?».

Omar sospira ma aveva stabilito, in anticipo, che la sincerità è la cosa migliore.

«Non so, Vince, una semplice precauzione... Qualche tempo fa è venuto un vecchio camerata, che sicuramente non conosci. Voleva appoggiarsi a me ma è inaffidabile, gli ho dato qualche soldo e l'ho mandato affanculo. Non vorrei che arrivassero altri, circolano un sacco di infami e approfittatori in Italia e se si sparge la voce che sono qui rischio di ritrovarmeli tutti alla porta. Senza contare qualche zecca che potrebbe cercare di farmela pagare per chissà quale faccenda del passato. Insomma, mi sento più tranquillo se ho una pistola».

«Amparo lo sa?».

Omar sorride. Tutti le sbavano dietro anche se nessuno ha il coraggio di tentare un'avance: la sua fama fa ancora paura.

«Di Salvo, il tizio di cui ti parlavo, sì, le ho detto tutto... Per la pistola vedremo... ma mi sa che glielo dirò, è una che capisce certe cose».

«Certo, certo, è tosta più di noi due messi insieme. E come va la gravidanza?»

«Bene, lei sta una favola. Non beve, non fuma, mangia sano e ha sostituito l'aerobica con lo yoga. Quello che la fa infuriare è che il medico la definisce primipara attempata, sai come sono le donne, no... Come se a quarantatré anni fosse ancora una ragazzina. Comunque è in gran forma. Una sera di queste andiamo a cena insieme, salutami Sheila».

«Con piacere, da' un bacione ad Amparo, uomo fortunato».

«Presenterò. E... Vince...».

«Yes?»

«Tieni gli occhi aperti, please, se vedi qualche faccia strana in giro avvisami».

«Contaci, fratello».

Rimasto solo, Omar infila sette colpi nel caricatore, soppesa ancora la pistola con una gran voglia di sparare e decide di prendere la Jaguar e farsi un giro fuori Londra alla ricerca di una cava isolata per provare la Kimber e soprattutto vedere se la sua mira micidiale lo ha abbandonato o no.

La morte può entrare in una fiala.

Aconitum Napellus, una pianta estiva della famiglia delle Ranunculaceae, sormontata da un bel fiore violetto che ha la vaga forma di un elmo antico, una delle più tossiche della flora italiana particolarmente abbondante nelle zone montagnose delle Alpi. Procurarsela è facilissimo. Le ragazze montanare ci confezionano graziosi mazzolini.

Il nome è tutto un programma e viene dal greco antico: pianta velenosa, anche se, secondo Plinio, deriva invece da Aconae, il luogo dove Ercole discese agli inferi. Ovidio, molto più fantasioso, racconta che la pianta nacque dalla bava di Cerbero, il cane a tre teste che faceva la guardia all'Inferno, quando fu trascinato fuori dall'Ade. Uno storico tedesco sostiene che fu un cocktail a base di aconito a uccidere Cleopatra e non il famoso morso dell'aspide: una questione di cui a nessuno può importare un accidente. Sta di fatto che il veleno era ben conosciuto fin dall'antichità: galli e germani ci intingevano dardi e giavellotti e la grandinata di proiettili avvelenati seminava il terrore tra le testuggini romane. Un graffio della punta intinta nell'aconito era morte sicura. Il solito Plinio narra che, nell'isola di Ceo, gli anziani ormai inutili venivano soppressi col veleno, senza tante polemiche sul diritto all'eutanasia. Una bella tisana di aconito e addio nonno, ci rivediamo nell'Ade.

I sintomi dell'avvelenamento sono rapidissimi: perdita della sensibilità, senso di angoscia, formicolio, rallentamento del battito cardiaco, sensazione che la pelle del viso si stia ritirando, ronzio alle orecchie, disturbi della vista e, quando il veleno raggiunge il midollo, un iniziale aumento della mobilità seguito da una paralisi totale. Si muore con il corpo bloccato, la gola stretta come da una garrota ma la mente lucida, in un'angoscia indicibile. La vittima osserva letteralmente tutte le funzioni vitali del corpo che l'abbandonano, senza la misericordia di perdere i sensi.

Per uccidere un uomo adulto bastano sei milligrammi e stiamo parlando di ingestione. La ferita di una lama o di una punta bagnata di aconito è più mortale di un proiettile e ammazza quasi all'istante. L'unica salvezza è un ricovero immediato in ospedale.

Per un erborista, procurarsi i tubercoli, molto più velenosi delle foglie e delle radici, e trasformarli in un liquido opaco e vagamente traslucido è un gioco da ragazzi.

Pitbull soppesa in controluce la morte in fiala, la avvolge con tenerezza in una piccola pelle di daino, la mette da parte e inizia a lavorare sulla seconda parte del piano.

Seduto sul letto, le gambe morte e rattrappite che penzolano inerti, taglia con cura uno dei tubi concavi che sostengono la sedia a rotelle con una sega da ferro. Lavora con calma, perfettamente concentrato, come un calligrafo zen o un maestro di ikebana, senza distrarsi, senza pensare, totalmente assorbito in quello che sta facendo.

Alcuni saggi taoisti sostengono che questo è il segreto della serenità.

Una volta separate le due metà del tubo, Pitbull inserisce nella cavità la cannula di alluminio lunga quaranta centimetri con all'interno due minuscoli dardi di titanio, leggeri come una piuma, con un impennaggio di cartone, poi prende il giunto di metallo dello stesso colore del tubo ma appena un po' più stretto, lo fa entrare nelle estremità dei due tronconi e li spinge fino a farli combaciare, con tutta la forza delle braccia, muscolose come quando faceva culturismo per l'esercizio quotidiano coi pesetti e la necessità di spingere continuamente la sedia a rotelle. Molti paralitici hanno bicipiti e tricipiti da atleti.

Ai bordi delle due sezioni del tubo appena tagliato e riassemblato mette qualche goccia di un mastice speciale per metallo, anche se non ce ne sarebbe bisogno visto che il giunto regge comunque. Il taglio è quasi invisibile ma per precauzione passa una mano di vernice color alluminio all'esterno con un minuscolo pennellino. Quando ha finito, si tira un po' all'indietro e contempla il lavoro: perfetto. Nessuno può individuare la linea sottilissima che divide i due pezzi, a meno che non si metta a controllare con la lente d'ingrandimento. La sedia a rotelle è un cavallo di Troia che nasconde la morte. Il metal detector non sarà un problema perché i dardi sono lillipuziani ma soprattutto perché le sue ossa maciullate sono tenute insieme da una grossa placca di titanio e di sicuro la polizia di frontiera non farà tante storie con un paralitico in carrozzina. Poteva semplicemente smontare le piccole frecce e portarle in valigia ma non è il caso di correre rischi. Non adesso che la vendetta è a portata di mano.

Pitbull si rimette sulla sedia, la scuote leggermente per provarne la solidità, si accerta che il tubo segato non faccia gioco e non traballi, si muove avanti e indietro per la stanza e, all'improvviso, sente un giramento di testa e una fitta allo stomaco. All'inizio viene preso dal panico pensando di aver ingerito inavvertitamente qualche goccia di veleno mentre pestava i tubercoli di aconito ma poi si rende conto che è la fame. Sono le 21:30 e ha iniziato a lavorare alle tredici senza interrompersi neanche per un caffè. Va in cucina, si prepara velocemente un panino imbottito di formaggio, prosciutto e sottili fette di pomodoro, lo divora annaffiandolo con due Ceres e, quando ha finito, prende le Pagine Gialle e cerca il numero della British Airlines.

«Ce vado puro io».

Er Cattivo lancia uno sguardo scettico a Giacchettone, con un'espressione che dice tutto.

«Nun te preoccupà, Pietro... Nun potrò core la Roma-Ostia ma pe' sparà cor fero so' bono come chiunque altro».

Incerto per una volta in vita sua, Pietro Salis si rivolge a Scrocchiazeppi che annuisce silenziosamente. Se sta bene a lui, ed er Cattivo non ha obiezioni dato che non entrerà in azione di persona e, quando si tratta di parcheggiare due nemici che, quasi sicuramente, staranno all'erta e col dito sul grilletto, ci vuole gente motivata. Giacchettone vuole dimostrare agli altri e a se stesso di non essere soltanto un povero zoppo? Benissimo, abile e arruolato.

«Li beccamo ar pub, quello che sta dietro ar benzinaro», riassume in due parole. «La moto ce l'avete?»

«Un Kawa che è 'na favola, me dispiace de dovella brucià, l'ho presa due ore fa a Casal Palocco», interviene er Girello che ogni tanto si ricorda di essere stato uno dei più bravi topi d'auto e di moto di Roma e si tiene in esercizio rubandone qualcuna solo per il gusto di farsi un giretto.

«Bene... Dopo er lavoro annate in pineta e je date foco».

Scrocchiazeppi annuisce ancora, ovviamente senza aprire bocca. In tutta la serata ha detto solo "ciao".

«Quanno lo famo?», domanda Giacchettone, entusiasta del suo nuovo ruolo di killer.

«Stanotte verso l'una... De sicuro ancora nun se l'aspettano».

 

 

 

 

Capitolo VII

 

«Sta cor cugino, er Cozza».

«Mejo, ne parcheggiamo due insieme».

«Entramo?»

«No, aspettamo... Appena sorteno se li famo».

Lungomare di Ostia, notte. Bagliori arancioni dei lampioni nella caligine. Quasi nessuno in giro, è mercoledì e il circo della movida si mobilita solo nel weekend. Il pub dei Daga è uno dei pochissimi locali ancora aperti. Alle 3:30 del mattino il litorale ha chiuso i battenti.

Scrocchiazeppi e Giacchettone sono in agguato da ore, i ferri infilati nelle cinture, i caschi integrali con la visiera scura, che verranno bruciati assieme alla moto per non lasciare tracce di DNA, calati sul viso. Nervosissimi.

«Er Cozza, quer pezzo di merda... Ce penso io». Giacchettone fa per tirare fuori il revolver Taurus calibro .38 special a canna corta, ci ripensa e si accontenta di accarezzare il calcio di gomma zigrinata. Con Guerrino Di Sergio, alias er Cozza, ha una vecchia ruggine: una discussione di tre anni prima per un rigore della Magica degenerata a sganassoni. Giacchettone ne ha prese parecchie, prima che li dividessero e la cicatrice sul labbro superiore, adesso, sembra bruciargli ancora. Il destino glielo ha messo in mano. Requiem per er Cozza.

Scrocchiazeppi tace come al solito, respira a fondo, cerca di darsi una calmata. Di solito è freddo come un calamaro ma l'attesa logora: prima di un omicidio l'adrenalina sale a mille, il cuore batte come un tamburo, le gambe tremano, la tensione ti fa digrignare i denti. Puoi mancare il bersaglio a un metro di distanza, tanto ti balla la mano, e l'unica mossa sicura è sparare a bruciapelo più colpi possibile. La vista si riduce a un tunnel, le percezioni si offuscano, le orecchie sembrano rimbombare.

Succede a tutti, anche ai killer. Il resto, l'assassino glaciale che spara a bruciapelo senza un fremito è roba da film.

Giacchettone solleva la visiera e sputa, ha una voglia spaventosa di fumare ma non è il caso di togliersi il casco proprio adesso e infatti...

«Eccheli, annamo».

Scrocchiazeppi accende il motore della Kawasaki mentre due figure massicce e un po' barcollanti escono dal pub: Consiglio Daga e il cugino, sghignazzanti e parecchio bevuti, si scambiano battute oscene in romaní mentre si avviano verso la Mercedes del Cozza, così lucida da riflettere la luce stanca dei lampioni.

La moto ruggisce mentre s'accosta alla macchina ma Scrocchiazeppi sbaglia i tempi, estrae troppo in fretta, lascia la frizione di scatto e la Kawa si spegne a due metri dalla macchina.

«Scegni, cazzo».

Giacchettone balza giù dal sellino, la gamba offesa lo tradisce, incespica, cade, si rialza col revolver in pugno mentre Scrocchiazeppi apre il fuoco con la sua vecchia, fidata, semiautomatica cecoslovacca CZ 75.

«Bada...». L'urlo di avvertimento del Cozza si smorza di colpo quando tre ogive ramate calibro 9x21 lo centrano in pieno petto, gli trapassano il polmone sinistro, gli spaccano il cuore, si conficcano nella schiena. Morte istantanea.

Cadendo, Guerrino fa scudo involontariamente a Consiglio che riesce ad accucciarsi dietro la Mercedes, mentre tira fuori la Beretta da narcotrafficante, col calcio personalizzato di finta madreperla.

«L'ammazzo io...». Giacchettone zoppica attorno alla macchina, punta il revolver verso l'ombra indistinta rannicchiata vicino al cofano, spara alla cieca.

Cinque colpi, sei, poi il clic del percussore contro un bossolo esploso nel tamburo.

«Via, via, annamo...».

Giacchettone arranca verso la Kawa mentre Scrocchiazeppi sgasa furiosamente per evitare che il motore si spenga di nuovo. Giacchettone salta sul sellino, la moto parte d'impennata, vola verso il lungomare mentre Consiglio Daga, miracolosamente illeso, cerca di prendere la mira nel buio e fa partire tre pallottole che si perdono nel nulla.

«L'hai beccato?», ringhia Scrocchiazeppi attraverso la visiera appannata.

«Nun lo so, penso de sì...».

«Ma si ce stava a sparà».

«Cazzo ne so a Scrocchiazè, nun ce se vede... Magara è ferito».

«Si l'hai lisciato er Cattivo ce s'encula».

Giacchettone stringe i denti e cerca di rivedere la scena... La sagoma accucciata, la canna del revolver, l'arma che gli rimbalzava in mano. Possibile che abbia mancato il bersaglio?

Sì, possibilissimo. È andato tutto in vacca.

Scrocchiazeppi rallenta, prende la Colombo, svolta a destra alla prima stradina che s'inoltra nella pineta. È tardi, troppo tardi anche per i transex e le puttane nigeriane, tutti a nanna da un pezzo.

La Kawasaki si ferma in una piccola radura dove Scrocchiazeppi ha lasciato una macchina pulita, la Panda di una tipa con cui scopa un paio di volte al mese e che, ovviamente, non sa nulla. Scende dalla moto, apre il bagagliaio della macchina, tira fuori la tanica da dieci litri piena di benzina, rovescia meticolosamente il contenuto sulla moto e sui due caschi integrali, dà fuoco a uno straccio e lo lancia sulla Kawa.

L'incendio divampa all'istante: una fiammata alta tre metri che incenerisce qualche ramo basso.

Giacchettone e Scrocchiazeppi restano qualche istante a guardare la moto che si trasforma rapidamente in un ammasso di plastica sciolta e metallo annerito, poi, senza una parola, salgono in macchina e se ne vanno.

È andata di merda e lo sanno entrambi. Domattina er Cattivo sarà una belva.

Consiglio Daga guarda il corpo del cugino steso a terra, con la polo blu da fichetto inzuppata di sangue che sembra petrolio, sente le urla che arrivano dal pub e capisce che c'è una sola cosa da fare. Apre lo sportello della Mercedes, sale, mette in moto e si allontana velocemente a fari spenti. Lungo la strada sente le lacrime silenziose che gli scendono sulle guance, se le asciuga con rabbia, butta la Beretta da narcotrafficante sul sedile accanto, poi ci ripensa e se la mette in saccoccia.

Non ha bisogno di fare indagini per sapere da dove è arrivato l'agguato. Er Cattivo è un uomo morto, fosse l'ultima cosa che fa in vita sua.

«Chi hai detto che c'era?»

«Si chiama Antonio Assisi, signor colonnello, è il nuovo dirigente del commissariato».

«Non è possibile, sei sicuro?».