Ranieri Cafasso non ha il senso dell'umorismo e questo lo sappiamo già. Men che mai quando un superiore l'accusa di non ricordarsi un nome, quindi assume la sua migliore espressione da capitano impermalosito, guarda il vuoto alle spalle di Messina e s'irrigidisce sull'attenti.

«Sissignore, signor colonnello... Se crede posso descriverglielo: ha i capelli rossi anche se un po' ingrigiti, decisamente sovrappeso e...».

«Lo so, lo so benissimo com'è fatto... Ma, dico, è veramente il nuovo dirigente?»

«Così si è presentato signor colonnello... Ci siamo incontrati sul luogo della sparatoria e abbiamo scambiato qualche prima opinione. Concorda sul fatto che l'imboscata proviene sicuramente dal gruppo di Salis Pietro e che, molto probabilmente, il bersaglio non era il Di Sergio Guerrino ma qualcuno che, presumibilmente, si trovava in sua compagnia. Naturalmente non abbiamo un solo testimone oculare ma sono sicuro che dovrebbe trattarsi di Daga Consiglio, il capo del clan... Ho mandato Pettisi a interrogarlo ma sono certo che avrà almeno tre persone pronte a giurare che in quel momento si trovava altrove».

«E così ci siamo. È cominciata. Ma torniamo a quel tizio, Antonio Assisi, da quando è arrivato?»

«Ufficialmente prenderà servizio da luglio, quindi mancano venti giorni ma ha detto di essere già stato nominato e che il suo predecessore è in ferie quindi il questore l'ha spedito sul posto, visto che tra poco la competenza territoriale sarà sua. Se mi consente mi è sembrato molto informato sulla malavita locale».

«È un pezzo di merda... L'avevano cacciato a calci, non so come cazzo è riuscito a tornare, 'sto rottoinculo».

Ranieri Cafasso è uno che, di media, si fa uscire di bocca tre parolacce in un anno e un porcocazzo in aggiunta se proprio ci vuole. L'esplosione di turpiloquio di un superiore col castelletto e tre stelle sulle mostrine lo lascia interdetto.

«Sì, sicuramente è come dice lei, signor colonnello».

«Grazie, Cafasso. Ci aspettano tempi duri. Fammi sapere che dice Pettisi di Salis e, soprattutto, non molliamolo un attimo, il prossimo sicuramente sarà lui».

Il capitano capisce con sollievo di essere congedato, risponde "comandi", fa il saluto e gira sui tacchi mentre Antonello Messina sta già telefonando al questore.

Tre colpi in pieno petto. Un'esecuzione per Guerrino Di Sergio, ventiquattro anni, detto er Cozza, assassinato la scorsa notte davanti all'ingresso del pub Happy Beer, sul lungomare, poco dopo le tre. In azione due killer col viso coperto dai caschi integrali che, subito dopo la sparatoria, sono fuggiti in sella a una grossa moto. I carabinieri del capitano Ranieri Cafasso, intervenuti sul posto, non hanno rintracciato alcun testimone oculare disposto a raccontare l'accaduto anche se a quell'ora nel locale c'erano ancora diverse persone.

L'omicidio, secondo gli investigatori, è inquadrato nella guerra di mala che da tempo sta dilaniando il litorale. Er Cozza, che aveva numerosi precedenti penali per spaccio, aggressione e lesioni, era il cugino e guardaspalle di Consiglio Daga, considerato il boss emergente dell'omonima famiglia di origine sinti. Una gang cementata da legami familiari che sta conquistando rapidamente la supremazia sugli altri due clan storici della nostra zona: i Triolli e i Frisciotti. La recente scarcerazione di Pietro Salis, detto "er Cattivo", un tempo boss indiscusso di Ostia, tornato in libertà dopo dieci anni di detenzione, sembra aver rimescolato le carte e imposto nuovi equilibri nella geografia criminale del litorale. L'attacco, quasi sicuramente, era diretto a Consiglio (che, secondo indiscrezioni non confermate, al momento dell'imboscata non era sul posto) e chi ha colpito er Cozza voleva lanciare un inequivocabile messaggio di morte. Ma da che parte sono arrivate le pallottole assassine? Triolli? Frisciotti? O i fedelissimi di Pietro Salis decisi a tornare al vertice? È quello che i carabinieri e gli agenti del commissariato stanno cercando di accertare in queste ore convulse. Una sola cosa è certa: l'omicidio è destinato a scatenare una catena di ritorsioni...

«Pallottole assassine, eh...». Giulio Destri lascia cadere sul collo gli occhiali da presbite che porta appesi a un cordino e lancia a Davide Vincenzo un'occhiata in tralice.

«Be', insomma, mi sembrava una bella immagine».

«John Grisham non avrebbe fatto di meglio. E, dimmi, ci sono anche pallottole caritatevoli? Pallottole benedicenti? Pallottole simpatiche? Ah, e "ancora a quell'ora" è ripetitivo, cambialo».

Il giovane precario fa una faccia mortificata e cancella la parola, obbediente. Poi Desti gli allunga una pacca consolatoria sulla spalla.

«Dài, Davi, per il resto ottimo pezzo. Buon attacco, bella chiusa, ben scandito... Sembra scritto da Massimo Giugni di "Repubblica"».

«Magari...».

«Ci arriverai. Purtroppo questo mestiere non è più lo stesso. Una volta bastava saper mettere due parole in fila e aver voglia di scarpinare per farsi assumere... Oggi è tutto un casino».

«Lo dici a me, capo?»

«Lo so. Sono due anni che ti pagano a borderò e so anche che quello che prendi non ti basta neanche per la benza del motorino. Senti, Vince, io ci ho già messo una buona parola col vicedirettore da tempo. Sei un ottimo cronista e vorrei averne altri come te, in redazione. Continua così e un contrattino te lo fanno di sicuro, poi magari col tempo... Hai visto mai?».

Il bel viso di Davide Vincenzo avvampa di gioia. A venticinque anni il mestiere di giornalista, se ci credi, è tutto quello che vuoi dalla vita. Delusioni, incazzature, frustrazioni, recriminazioni arriveranno in seguito, di solito dopo almeno dieci anni di precariato e un'assunzione che ti premia quando ormai la dedizione al lavoro iniziale è evaporata da un pezzo.

Destri sospira perché capisce benissimo cosa gli passa per la testa. Anche lui, all'inizio, era così: un'esplosione di entusiasmo. Oggi, dopo anni che dirige la redazione di Ostia pensa soprattutto alla pensione. Nella sua posizione potrebbe candidarsi alla presidenza del Municipio e, conosciuto com'è, quasi certamente verrebbe eletto ma è rimasto un cronista duro e puro, con uno scetticismo innato per le versioni precotte di giudici, poliziotti e carabinieri e un sano disprezzo per la politica, locale o nazionale che sia. Nel suo futuro c'è una canna da pesca, lunghe passeggiate con Lapo, il suo labrador e, magari, un paio di nipotini da viziare visto che Giulia, col fidanzato, sta facendo veramente sul serio... Bravo ragazzo, magari non troppo sveglio ma affidabile e innamorato della figlia, il genero ideale.

«Ci vado?». La voce speranzosa di Vincenzo interrompe i suoi pensieri.

«Eh? Dove?»

«Da Consiglio Daga. La storia che era altrove è una pappola... Una fonte mi ha assicurato che il bersaglio era lui, che stava col cugino e che se l'è filata subito dopo. Poi ha trovato tre zammammeri e li ha pagati o spaventati per costruirsi un alibi».

«E perché? Mica ha fatto niente, no? Farsi sparare addosso non è un reato», lo stuzzica Destri.

Il giovane cronista alza le spalle. «Lo sai come sono i barabba. Magari non voleva essere ascoltato come testimone... boh... Sta di fatto che c'era, te lo dico io».

«E chi sarebbe 'sta fonte così bene informata? No, aspetta, fammi indovinare: magari un certo maresciallo dei carabinieri, attempato e sempre incazzato con cui sei andato a prendere un aperitivo stamattina?»

«Be', io... insomma, ecco...».

«Bravissimo. Così si fa. Le fonti vanno sempre protette anche se Pettisi soffiava a me le stesse cose dieci anni fa. Fai benissimo a coltivartelo, è un rompicazzo ma non dice stronzate ed è uno che ci crede ancora nel suo lavoro».

«Come noi?»

«Sì, come noi». Giulio si trattiene a stento dallo scarruffargli i capelli in un gesto da nonno affettuoso perché quel ragazzo trasognato e traboccante di vitalità gli ricorda qualcuno che conosceva bene: lui, Giulio Destri, alla sua età.

«Allora, capo... Ci vado?»

«Ma dove vuoi andare, benedetto ragazzo?»

«Te l'ho detto: da Consiglio Daga. Starà al pub come al solito a ricevere i sudditi e i postulanti. Mi presento, lo intervisto e sentiamo che dice».

«Non se ne parla: quello ti fa a pezzi».

«Davanti a tutti? In pieno giorno? Eddai, Giulio, tutt'al più mi manda affanculo, mica sarebbe la prima volta».

Giulio Destri considera il fatto che, se avesse cento lire per ogni mandata affanculo che ha preso durante la sua carriera, sarebbe Paperone. E che l'idea di Davide, in fondo in fondo...

«Be', vacci se proprio ci tieni ma portati un fotografo. Magari davanti alla macchina fotografica non farà troppo lo stronzo. E non lo provocare, quello è mezzo matto».

«E chi lo provoca?». Davide fa il gesto di piazzargli un microfono sotto il naso e imita la voce enfatica di un giornalista della TV: «Signor Consiglio, è vero che lei è un pezzo di merda di criminale assassino e spacciatore e che, adesso, ha anche la morte di suo cugino sulla coscienza? Ci dica, cosa prova? Cosa prova? La gente ha il diritto di sapere».

«Sei proprio un cazzaro...».

«Ho un buon maestro».

«Non prendermi per il culo, ragazzino».

«Non mi permetterei mai, il culo del mio capo è sacro e inviolabile».

«Togliti dalle palle. E sta' in campana. Se ti prende a pugni non venire a frignare da me».

«Allora vado». Davide Vincenzo schizza in piedi come una molla, infila la porta a razzo prima che Destri possa ripensarci e neanche sente le ultime parole del suo caporedattore. «Sta' attento, tieniti a distanza e se butta male squagliatela di corsa, non fare l'eroe».

«Ma come cazzo vi è venuto in mente di rimandarlo a Ostia?».

Nicola Cavallini s'acciglia e inghiotte la rispostaccia. Va bene che lui e Antonello Messina sono pari grado a rigor di burocrazia, un colonnello a tre stelle equivale a un questore, va bene che combattono sullo stesso fronte, va bene che dopo tanti anni e due carriere parallele possono considerarsi, se non proprio amici, quantomeno compagni di strada, va bene che il ruvido gergo della sbirraglia non si perde in convenevoli e infiocchettature e va dritto al sodo...

Va bene tutto ma quello è il suo ufficio e nessuna cornacchia con le bande rosse sui calzoni può permettersi di fare irruzione sbraitando come se avesse sorpreso un piantone a ronfare durante il turno di servizio.

Comunque si controlla e ricorre alla sottile arma dell'ironia.

«Prego Antonello, accomodati, anch'io sono felice di vederti, suppongo che tu abbia qualcosa di molto urgente da dirmi visto che non mi hai avvisato di questa gradita visita... Posso offrirti un caffè?».

Il colonnello riconosce una presa per il culo, quando la vede, capisce di essersi comportato come un bufalo e si dà una calmata.

«Scusa, Nicola, perdonami sono stato un cafone ma a volte mi va il sangue alla testa. E, sì, se non è troppo disturbo un caffè ci starebbe proprio bene».

Caffè e sigaretta, equivalente sbirresco di pane e sale in segno d'ospitalità o del calumet della pace, fate voi.

Perfidamente, Cavallini si tiene sulle generali, cazzeggia e si diverte a tirarla per le lunghe dato che è chiarissimo che Antonello Messina sta sulle spine.

«Allora, Antonello, che succede di tanto terribile?»

«Succede Antonio Assisi, ecco cosa. Il mio capitano se l'è ritrovato tra i piedi sulla scena dell'agguato di fronte al pub dei Daga. L'avete rimesso al suo posto, ma mi spieghi come è possibile, per favore?».

Cavallini fa un gesto di puro sconforto, touché.

«Non dipende da me, lo sai no?»

«E allora da chi? Sei il questore, no? Ma come cazzo...».

Il questore di Roma punta un dito verso il soffitto: alte sfere.

«È ammanicato. Credo che si sia arruffianato qualche politico importante o qualche papavero del dipartimento». Visto che sempre poliziotto è, Cavallini evita di fare nomi. Specie se il nome in questione è quello del ministro dell'Interno, che ha giurisdizione sulla polizia di Stato.

«Ma è assurdo». Messina butta alle ortiche la diplomazia e ricomincia a sbraitare. «Quello è un pezzo di merda. Scusa, Nicola, lo so che sto parlando di un tuo collega ma quando è troppo è troppo. E proprio adesso che sta per scoppiare il casino tra le bande locali, poi...».

«Vabbè, ti capisco ma se ci pensi bene... Assisi non sarà uno stinco di santo ma se non altro conosce bene il territorio e il vizietto di passare soffiate alla stampa ormai dovrebbe essergli passato. Tra l'altro quella stronza di Francesca Alati è stata cacciata a calci in culo dal "Messaggero" e non fa più la giornalista, quindi il problema mi sembra risolto».

«Sai quanto me ne frega della Alati... Il vostro uomo è colluso con Salis Pietro, er Cattivo è appena uscito di galera e scommetterei le palle che è stato lui a organizzare l'attentato ai Daga. Ci mancava soltanto che piazzaste un suo manutengolo al commissariato, così stiamo a posto».

«Ehi, frena... Assisi è un po' troppo chiacchierone e diciamo poco attento alle regole, ma addirittura colluso mi sembra troppo...».

«Troppo poco vorrai dire. Sono legati a doppio filo. Era sul libro paga del Cattivo e sicuramente sarà tornato a intascare mazzette da lui o comunque non vede l'ora di rimettersi al suo servizio».

«Ma che stai dicendo?». Cavallini sente il sangue che gli monta alla testa, dato che anche lui non è proprio un campione di autocontrollo e certe insinuazioni lo mandano in bestia, soprattutto se si tratta di un suo sottoposto.

«Colluso, lo dico e lo ripeto. Durante una perquisizione dieci anni fa trovammo la chiave di un appartamento affittato dal Salis Pietro. E indovina un po' chi ci andava a scopare con la bella cronista che, tra parentesi, adesso è diventata un cesso... Indovina... Ti do un aiutino: grosso, tappo, capelli rossi...».

Per una volta in vita sua Nicola Cavallini resta senza parole. Il comandante del Gruppo di Ostia ne approfitta all'istante come uno scacchista che vede un'apertura.

«Proprio così, Nicola. Assisi si faceva pagare lo scortico dal boss. E siamo assolutamente sicuri che intascasse anche soldi».

«E perché non l'avete detto subito?».

Alessandro Messina fa un gesto vago, sicuro che non ci sia bisogno di troppe spiegazioni.

«Sai come funziona, no? C'era questa indagine in corso, l'operazione Romolus, Salis era ricercato e, anche dopo l'arresto, non ha aperto bocca, l'appartamento era intestato a un prestanome e non ci sembrava il caso di alzare troppa polvere mettendo in mezzo un funzionario di polizia. Non sarebbe convenuto né a noi né tantomeno a voi. Abbiamo continuato a tenerlo d'occhio per un po' in attesa che facesse un passo falso ma poi è stato trasferito e ci stava benissimo così. Ma adesso...».

Cavallini annuisce, pensoso.

«E tutto questo lo diresti davanti al PM?»

«Certo, che cazzo... Con tanto di informativa riservata che, a suo tempo, inviai personalmente al comando generale. Se scoppia la guerra non possiamo permetterci di avere un infiltrato nemico nelle nostre linee».

Se Nicola Cavallini non apprezza il gergo militaresco coglie comunque il messaggio. Roger, ricevuto, chiaro e forte: o la faccenda si risolve in famiglia o "quelli vestiti uguali" faranno a modo loro. Denuncia, rapporto alla magistratura e tutto il resto.

«Va bene, Alessandro, mi hai convinto. Vado dal capo, gli spiego tutto e vedrai che ce lo togliamo dalle palle per sempre. Come niente quello finisce dritto in carcere».

«Sarebbe meglio per tutti, credimi. Allora ok, lascio fare a te. E... scusami il tono e l'irruzione inaspettata ma ero fuori di testa».

«Capisco benissimo. Dovresti vedere me, quando m'incazzo di brutto».

«Allora spero di non farti incazzare mai più. Amici?»

«Come sempre».

I due vecchi guerrieri si stringono la mano sulla tomba giudiziaria del vicequestore Antonio Assisi, il colonnello gira sui tacchi e, un minuto dopo, Cavallini sta chiamando il capo della polizia per fissare un appuntamento visto che, smilitarizzata o no, anche nella polizia si seguono le vie gerarchiche.

 

 

 

 

Capitolo VIII

 

«E vacci piano con quelli, non fare il kamikaze...».

Ma Davide Vincenzo s'è già avviato alla bersagliera verso il pub con l'aria del Marine che vuole sbaragliare un reggimento di Vietcong da solo. Rino Parilla scuote la testa rassegnato e gli arranca dietro faticando a stargli al passo per via del tendine del ginocchio sinistro, tranciato di netto due anni prima dalla puncicata di un ultrà dal coltello facile.

Rino Parilla, quarantacinque anni, il king dei paparazzi, presente.

Sei lustri di marciapiede, tra nera, rosa, terrorismo, catastrofi, cataclismi e tafferugli di stadio e di piazza. Motto personale, che porta inciso su una medaglietta d'oro appesa al collo: LA GUERA È GUERA, ovviamente senza troppi sprechi di doppie. Perché metterci due R quando ne basta una?

Rino è la Nikon più veloce del West, sia che tratti di beccare un calciatore coniugato e infedele in tenerezze da ristorante con una soubrette o rimediare la foto di un bambino ucciso da un bus convincendo i familiari a forza di lacrime e singhiozzi neanche troppo fasulli visto che un fotoreporter, spesso, potrebbe dar lezioni di metodo Stanislavskij all'Actors Studio.

Una pellaccia segnata di cicatrici come quella di un veterano reduce dal fronte. Le ha prese da Ava Gardner, Walter Chiari, Robert Redford che lo ha quasi annegato nella fontana del Tritone, Gérard Depardieu che gli ha sfrittellato il naso, quella furia di Nannarella che graffiava come una lince. L'hanno spintonato, scazzottato, strattonato, sputazzato, sballottato. Ha il timpano sinistro mezzo andato per via dello scoppio di un bombone durante i disordini seguiti a Roma 2, Lazio 0 e un'ustione da molotov all'avambraccio, ricordo di un'epica battaglia tra centri sociali e celerini. Nel suo curriculum personale ci sono due fratture, quattro ricoveri, una montagna di premi e una fama imperitura di maestro del fotogiornalismo, l'uomo che ha fatto degli umili "scattini" di cronaca una categoria professionale apprezzata e valutata per i suoi giusti meriti. Insomma, l'angelo custode ideale, almeno secondo Giulio Destri per cercare di tenere a bada un cronista arrembante con una tendenza suicida a buttarsi allo sbaraglio.

Il problema è che il cronista arrembante manco lo ascolta, sennò che razza di aspirante suicida sarebbe? Rino Parilla è ancora sulla porta e Davide Vincenzo è già in avvicinamento rapido alla sedia dove Consiglio Daga sta distribuendo soldi e favori a una piccola sfilata di questuanti che si presentano al pub.

I clienti di Consiglio Daga si dividono in due categorie: quelli che chiedono un prestito e quelli che l'hanno già ottenuto. E che vengono a frignare e supplicare per una delazione, un rinvio o un nuovo finanziamento perché, in meno di un anno, il capestro degli interessi al due percento mensili li ha ridotti sull'orlo del baratro.

Ai primi, Consiglio Daga si presenta come una specie di zio compassionevole che ascolta, capisce e concede. Ai secondi con vari gradi di cipiglio che vanno dal fastidio alla furia omicida, a seconda di quanto ammonta il debito e quanto tempo ha deciso di far passare prima di stringere definitivamente il cappio e prendersi tutto. Come il tizio dell'autolavaggio, con una passione insana per i videopoker, che se ne sta andando quasi in lacrime dopo aver ricevuto l'ultimo, definitivo rifiuto a ritardare la cessione della sua attività, il contratto che ha firmato in anticipo quando ha intascato i suoi nove milioni.

La solita storia di cravattari che a Roma risale ai tempi del papa re.

«Signor Daga... Buongiorno».

Il grosso sinti guarda stupito il ragazzotto stropicciato col taccuino in mano e si domanda dove l'ha visto prima e perché gli sembra così incongruo in quel posto. Poi guarda il vecchiotto che somiglia vagamente a Domenico Modugno, tutto sbilenco, con un completo estivo stazzonato e una grossa macchina fotografica al collo, una borsa ancora più grossa a tracolla e comincia a capire.

E a incazzarsi, visto che gli hanno appena accoppato il cugino e non è in vena di conferenze stampa.

«Buongiorno signor Daga... Siamo del "Messaggero", ci dispiace disturbarla in questo momento di dolore e le faccio le sentite condoglianze per suo cugino... Se non le dispiace, vorremmo rubarle due minuti, solo qualche domanda per ricordare er Cozz... ehm, Guerrino Di Sergio, dal punto di vista umano, capisce? La polizia ne ha parlato come di un criminale ma sono certo che lei saprà descriverlo come era veramente, al di là delle versioni precotte della questura e...».

Rino Parilla ascolta e approva. Bel discorsetto, assertivo, rispettoso, ideale per accattivarsi una fonte riottosa, con quel riferimento al cugino ucciso che gronda pietas e solidarietà e può aprire il cuore più duro. Il ragazzo, in fondo, ci sa fare.

Consiglio Daga capisce una parola su cinque e quello che capisce lo fa imbufalire.

Di brutto. Lui s'imbufalisce sempre di brutto.

«Ma vedi de levatte dar cazzo, tu e 'sto pezzo de merda. E si provi a famme 'na foto te metto le budella in mano», sbraita.

Rino Parilla mette le mani avanti e fa una faccia che dice: io? Fotografie? Scherziamo? Non vede che sono il postino?

Davide Vincenzo è troppo giovane e troppo incosciente per capire quando è il momento di lasciar perdere, quindi ci riprova.

«Signor Daga, comprendo perfettamente il suo stato d'animo ma non è il caso di insultare, stiamo solo facendo il nostro lavoro. Sulla sua famiglia si dicono tante cose e le stiamo offrendo la possibilità di confutarle sulle pagine di un grande giornale nazionale se solo lei...».

«Allora nun hai capito, pennivennolo, falla finita de rompe li cojoni», e in un attimo si alza e torreggia su un Davide Vincenzo sinceramente stupito di quanto sia grosso.

«Scusi, signor Daga, mi spiace insistere ma lei...».

Consiglio ha già esaurito le riserve di diplomazia quindi fa quello che fa di solito quando qualcuno gli rompe le palle o non gli mostra il dovuto rispetto, tira velocemente la testa indietro e abbatte una capocciata di rigore sul naso di Davide che va in frantumi come un vaso Ming. Il cronista si ritrova lungo disteso con un dolore sordo su tutto il viso, lampi gialli davanti agli occhi, una fontana rossa che sgorga dalle narici e la sensazione di essere stato colpito da un ariete.

Rino Parilla reagisce da professionista, imbraccia la Nikon come una carabina e scatta a ripetizione: per soccorrere il collega c'è tempo, cogli l'attimo.

Mani sbucate da chissà dove l'agguantano, lo sballottano e cercano di strappargli la macchina fotografica. Rino si raggomitola su se stesso, pronto a difendere le foto a costo della vita, smarrona, fa resistenza, protegge la Nikon con tutto il corpo e cerca di arretrare verso l'uscita. Davide Vincenzo gli gattona dietro a quattro zampe, intontito come un pugile messo KO e quasi non s'accorge del poderoso calcio nel sedere che lo scaraventa letteralmente fuori.

Cronista e fotografo finiscono sul marciapiede, pesti, sanguinanti, doloranti mentre le finestre delle palazzine di fronte si abbassano quasi in simultanea in un concerto sferragliante e due o tre passanti si affrettano a scantonare. Rino Parilla riesce a mettere in piedi Davide, lo sorregge barcollante fino alla macchina, lo fa salire, accende il motore e parte a razzo verso il Giovan Battista Grassi dove lo aspettano, in ordine di apparizione...

...Un'attesa di due ore e mezzo al pronto soccorso prima che un medico si degni di visitare Davide, diagnostichi, da vero luminare di medicina maxillofacciale, la frattura scomposta del setto nasale e lo spedisca in sala raggi e poi in camera operatoria per farsi steccare un naso che non sarà mai più quello di prima.

...Un'inutile denuncia al posto di polizia, raccolta stancamente da un poliziotto a fine turno che la inoltrerà con comodo al commissariato, dove resterà a languire per sempre in fondo a qualche cassetto visto che a nessuno importa un accidente di un giornalista preso a capocciate e che, in fondo, se l'è cercata.

...L'arrivo di un trafelato e preoccupatissimo Giulio Destri, che si sente in colpa peggio di Giuda dopo il tradimento, parla col giornale, ottiene un paio di svogliate rassicurazioni che si tradurranno in uno scialbo comunicato di solidarietà dell'Associazione stampa romana e fine della storia perché è meglio non spendere troppe parole su un precario redazionale che potrebbe approfittarne per rivendicare l'assunzione.

Le tre bottiglie esplodono una dopo l'altra in uno zampillo di vetri. Omar si lascia scappare un fischio sommesso mentre Amparo soppesa la Kimber e fa il gesto di soffiare nella canna alla Calamity Jane.

«I shoot much better than you, querido», lo sfotte sapendo di mandarlo in bestia. Piccole rivalse femminili.

«È la fortuna dei principianti», grugnisce Omar che, in effetti, sta rosicando visto che nella sessione precedente lui ne ha lisciata una su tre.

«La fortuna è una volta e basta, mi amor... È la terza volta che veniamo e...».

«Vabbè, vabbè, non ti montare la testa tanto non potrai partecipare alle Olimpiadi, con quel pancione... E comunque è meglio che la smettiamo di venire qui, per un po', baby».

Amparo annuisce e mette su la faccia da brava ragazza giudiziosa. La cava abbandonata che hanno scoperto a una settantina di chilometri da Londra è l'ideale per esercitarsi con la Kimber, sia perché è deserta da anni e sia perché nella stagione di caccia al fagiano gli spari, nella campagna circostante, non rischiano di allarmare qualcuno, ma la prudenza non è mai troppa.

Omar ripone la pistola nella sua valigetta di plastica imbottita pregustando il meticoloso lavoro di solvente, olio, scovolini e pezzette che farà a casa e ha sempre un potere rilassante su di lui fin da quando era in clandestinità: lo zen e l'arte di pulire la semiautomatica.

Amparo sale sulla Jaguar senza allacciare la cintura. Al quarto mese di gravidanza, la pancia comincia a farsi vedere ma è sempre splendida, con la pelle ambrata che sembra brillare e una luce di perfetto appagamento negli occhi.

«Lo sai che sei bellissima?»

«Certo... E tu un gran marpione. Tanto per non farti venire strane idee, stanotte bottega chiusa».

«E perché?»

«Perché un certo maniaco sessuale insaziabile m'ha irritato la patatina la notte scorsa, ecco perché. Quindi mettiti l'anima e il coso in pace, amor».

«Vabbè, qualcosa ci inventeremo».

Amparo gli lancia un'occhiata in tralice ma la foga con cui Omar la prende almeno due volte alla settimana, il suo desiderio che sembra addirittura aumentato con la gravidanza è una delle cose che la fanno felice. Tante sue amiche parlano di mariti che al secondo anno di matrimonio si girano dall'altra parte dopo il bacetto della buonanotte mentre lei...

«Cambiamo argomento, honey, che sennò ti ecciti. Ormai sono in grado di difendermi bene con la pistola, no?»

«Sure, querida. Del resto non ci vuole molto. Devi ricordarti di prenderla per il manico, puntare la canna sul cattivo, togliere la sicura e premere il grilletto...».

«Molto spiritoso».

«Sai che qualche anno fa il governo ha lanciato una campagna contro le armi detenute legalmente qui in Inghilterra? Davano soldi in cambio di ogni pistola o fucile consegnati alla polizia e hanno praticamente vietato il porto d'armi per difesa. Una di quelle misure spot contro la criminalità».

«Ah, e ha funzionato?»

«Certo,ma per i delinquenti. Dall'anno successivo, il crimine violento è aumentato a livelli esponenziali e non è più sceso. I delinquenti non chiedono il porto d'armi e non denunciano le pistole. Togliere le armi ai cittadini onesti è una cazzata».

«Questo non ha niente a che vedere con noi. Non siamo cittadini onesti, noi».

«Brenno lo sarà».

«Chiiii?»

«Brenno». Omar indica la pancia di Amparo.

«Ma certo. E perché non Vercingetorige? O Teodorico? Aspetta, no... Teofrasio come lo vedi? Magari Ruperto... E Ademaro? Bello, no? Molto moderno», inorridisce Amparo.

«C'è poco da scherzare. Brenno è un bel nome. Maschio, virile... Mi è venuto in mente stanotte».

«Prenditi un sonnifero invece di pensare a 'ste cazzate. A parte il fatto che non sappiamo ancora se sarà un lui o una lei e...».

«Sarà maschio, me lo sento».

«E tu sei un inguaribile fascista, maschilista e sciovinista. Mettitelo in testa, loco: per mio figlio o mia figlia voglio un nome normale. Niente Benito, Adolfo o Attila. Si chiamerà Giovanni, Elsa o Maria, nulla che ricordi guerre, adunate oceaniche o sfilate militari, ci siamo capiti?»

«Ne parleremo. Abbiamo cinque mesi per pensarci».

«Yeah, ma intanto ficcati in testa che, maschio o femmina che sia, scordati un'educazione stile Balilla o Figlia della Lupa perché... Ah cazzo, me n'ero dimenticata, che testa».

«Che cosa?»

«Ha telefonato un tizio in galleria, un italiano. Cercava te».

Omar sente la lampadina rossa dell'allarme che gli si accende nel cervello.

«Che voleva? Chi era?»

«Ehi, frena. Si chiama Paolo Agostinelli, è un collezionista di Roma di passaggio a Londra. Ha saputo del Manzoni che ho comprato mesi fa e vuole vederlo».

«Cosa?»

«Il Manzoni, querido, mi stai ascoltando? Sai quello piccolo, quadrato, in polistirolo...».

«Quello che sembra una cassetta per le uova?»

«Molto professionale per il contitolare di una galleria d'arte, comunque sì, proprio quello. Potremmo venderlo per ottantamila sterline se ci sappiamo fare».

«Ma il tizio come ti è sembrato?»

«Normale. Ha detto che voleva ucciderti e fare a pezzi il tuo corpo per darlo in pasto ai maiali, poi...».

«Piantala di cazzeggiare, Amparo. Ricorda che siamo sotto tiro».

«Questo lo dici tu e solo perché un vecchio camerata ti ha cercato per chiederti un aiuto e tu l'hai quasi scannato. Relax, mi amor».

«Meglio non abbassare la guardia. Sul serio, non ti è sembrato... che so... sospetto?»

«Querido, ci ho parlato tre minuti al telefono... Cercava te. E comunque richiama domani a mezzogiorno per fissare un appuntamento».

«Scusa, perché non si è messo d'accordo con te, allora, se è il quadro che gli interessa?»

«E che ne so? Sarà un maschilista del cazzo come te, di quelli che pensano che le donne sono buone solo a letto o in cucina».

«Il sogno di tutti noi pisellomuniti: un'economa in cucina, una signora in salotto e una puttana a letto».

«E poi vi ritrovate con una signora in cucina, una puttana in salotto e un'economa a letto, è vecchia e non fa ridere...».

Omar fa per rispondere "Anche noi siamo vecchi", ma per fortuna si trattiene in tempo, visto che la sua splendida compagna è parecchio suscettibile riguardo all'età e lui non ha alcuna intenzione di restare in astinenza sessuale, almeno fino a quando è possibile, prima che la ginecologa imponga lo stop definitivo ante parto.

Godendosi il ronzio da belva addormentata del motore della Jaguar, tenta di rilassarsi e spegne la lampadina rossa nel cervello, anche se un impercettibile, fastidioso senso di disagio continua a infastidirlo fino a quando parcheggiano la macchina nel garage sotto casa.

«E mo' ce tocca... Paramose er culo che prima o poi ce vengheno a cercà».

Scrocchiazeppi risponde con un grugnito d'assenso, un Giacchettone così mogio che sembra la caricatura di se stesso cerca di farsi piccolo piccolo in attesa della sfuriata.

Che non arriva.

Il Cattivo non sembra neanche troppo inferocito. O magari sta per esplodere a scoppio ritardato, come un candelotto di dinamite a miccia lunga.

Hanno toppato, su questo non ci sono dubbi. E adesso se ne stanno davanti a Pietro Salis in silenzio, in trepida attesa della tempesta.

Er Cattivo stira le labbra in un ghigno e si gratta la testa. Scrocchiazeppi, che gli vive praticamente a fianco da sempre, lo guarda di sguincio e si domanda che accidenti gli stia capitando. Er Cattivo che conosce non tollera errori e, quando i suoi fanno qualche cazzata, non perdona. Una passata di botte è il minimo che potrebbero aspettarsi, anche se lui, Scrocchiazeppi, in fondo non c'entra: è quell'imbecille di Giacchettone, con la sua gamba sifulina, che ha mandato tutto in vacca inciampando come un fregnone mentre scendeva dalla moto. Scrocchiazeppi, quantomeno, ha ammazzato er Cozza ma Consiglio Daga s'è salvato quindi, a tirare le somme, l'agguato è stato un fallimento completo.

Nella mala non ci sono mezze misure o giustificazioni: o l'azzecchi o toppi. E se toppi la paghi cara.

Eppure er Cattivo non sembra incavolato. Rassegnato, piuttosto. Come se se l'aspettasse fin dall'inizio. A pensarci bene, rumina Scrocchiazeppi, è da quando è uscito di galera che è diverso: più assorto, meno incazzoso, più calmo. Sarà la figlia, per cui stravede, sarà che dieci anni e passa di buiosa, alla fine, ti cambiano come una malattia cronica ma, certe volte, Scrocchiazeppi stenta a riconoscere il suo capo.

Come adesso.

Giacchettone è troppo spaventato per queste considerazioni. Sa che la colpa è sua e non vede la minima possibilità di cavarsela. Se non l'ammazza subito, Salis quantomeno gli farà scoppiare anche l'altra gamba così dovrà andarsene in giro con le stampelle per tutti gli anni che gli restano da vivere. Durante la notte non ha chiuso occhio e s'è immaginato di tutto: scappare, correre alla polizia e autodenunciarsi, in fondo meglio in galera che morto, aspettare Salis sotto casa e ammazzarlo a tradimento, procurarsi dell'esplosivo e fargli saltare in aria la villa, pedinare Consiglio Daga e sparargli alle spalle, come viene viene e se l'arrestano sticazzi...

Invece non ha fatto niente. Alle sei del mattino, stanco di rigirarsi nel letto, s'è alzato, ha preso Drago, il suo pitbull, e s'è fatto una bella passeggiata sul lungomare, godendosi la salsedine nell'aria e il movimento sbilenco del camminare come un condannato a morte che, poco prima dell'esecuzione, assapora per la prima volta le piccole, grandi gioie della vita. È tornato a casa, s'è fatto il caffè, s'è fumato un pacchetto intero di MS, ha passato una giornata interminabile, come inebetito e adesso, finalmente, eccolo qui in sala giochi, a rapporto, in attesa del suo destino e della terribile punizione che er Cattivo sicuramente gli sta per infliggere.

Ma er Cattivo non s'incavola.

Sembra quasi che non gli importi niente.

Pazzesco.

«Vabbè, ragazzi, è ita storta... Mo' staranno in campana quindi è inutile riprovacce. Stamo appizzati puro noialtri, che ar sicuro i zingheri ce veranno a cercà... Tempo 'na settimana ar massimo quarcosa s'inventeranno de sicuro. Nun se dovemo fa beccà de sorpresa».

Tutto qui? Niente botte? Niente urla? Niente spari?

«Be', mo' me ne vado a casa a magnà, m'aspetta Barbara che la baby- sitter stasera nun pò venì. Se vedemo domani».

«T'accompagno, Pietro». Scrocchiazeppi si alza per un riflesso condizionato di gregario e fa per metterglisi a fianco ma er Cattivo lo blocca con un gesto della mano.

«Lascia perde, nun c'è bisogno. È ancora troppo presto, staranno tutti a piagne er Cozza, lo sai come so' fatti i zingheri no? Un funerale lo fanno durà tre giorni, tutti a magnà, beve, cantà e riccontà stronzate sur morto. Me faccio du' passi da solo».

Pietro esce dalla sala giochi, lasciando i due sottoposti sbalorditi e sollevati, s'incammina verso la sua pasticceria preferita, compra un piccolo vassoio di paste per Barbara immaginando il suo sorriso raggiante, sta bene attento a scegliere quelle con più cioccolata possibile e se ne torna a casa col pacchettino come un nonno che va al pranzo della domenica dopo la messa di mezzogiorno.

Coi Daga è andata di merda. Consiglio doveva morire e adesso, invece, sarà più avvelenato che mai. Pietro lo sa benissimo ma ora, semplicemente, non ha voglia di pensarci. Risolverà anche questa grana, come ha fatto tante altre volte. Ma gli servono soldi ed è venuto il momento di riprendersi il tesoro di Marbella. Domani farà una visitina a Topo Gigio e tirerà fuori le sacche da dove sono rimaste sepolte per più di dieci anni. Con tutti quei miliardi può arruolare altri uomini, armarli, andare all'assalto degli zingari e farli fuori uno per uno... O magari comprarsi un accordo, buttare sul tavolo qualche centinaio di milioni, negoziare una nuova spartizione del territorio che gli convenga e non gli faccia perdere la faccia. Chiederà le scuse di Consiglio per la faccenda di Palle d'Oro, ristabilirà il suo ruolo, farà la faccia feroce, sborserà quello che c'è da sborsare e tutto ricomincerà come prima...

Forse. Adesso ha solo Barbara in testa.

Ma Barbara deve aver fatto il diavolo a quattro tutto il giorno con la colf filippina che, servita la cena, se n'è andata a casa come sempre, e ora ciondola di stanchezza. Mangiucchia svogliatamente un paio di paste, non gli chiede neanche di rivedere, per la centesima volta, la cassetta della Carica dei 101 e gli si addormenta in braccio.

Pietro la porta in camera sua, la spoglia con dolcezza, le infila il pigiamino rosa coi coniglietti, le rimbocca le coperte, le dà un bacio lieve come una piuma sulla fronte fresca, assaporando il suo profumo di pulito e si va a rintanare in salotto con un whisky e un paio di strisce. Accende la TV, fa un po' di zapping, la spegne, la riaccende, pippa di nuovo e alla fine se ne va a letto anche lui.

Alle 23:45. Mai successo.

Nel buio resta a lungo in un dormiveglia affannato, rivede confusamente tanti episodi della sua vita: l'infanzia, i primi furti, la scalata ai vertici della gang, gli omicidi, i Neri, il colpo a Marbella, la morte di Mario Porcu, l'esecuzione di Gufetto, il carcere, Marisa... Marisa no, il ricordo gli fa troppo male e proprio mentre si sforza di pensare ad altro s'addormenta di schianto come se qualcuno gli avesse sferrato una botta in testa.

Si sveglia strano, guarda l'orologio e si rende conto di aver dormito fino alle 9:30 eppure si sente stanco. Si fa un caffè, fuma, resta a lungo davanti allo specchio a contemplare il suo corpo esausto e slabbrato di cinquantaquattro anni, s'infila una vecchia tuta della Roma e le infradito e, mentre sta cercando di fare mente locale e organizzarsi la giornata sente la voce della bambina che lo chiama.

«Papà, ti stanno rubando la macchina...».

 

 

 

 

Capitolo IX

 

Ha sentito suonare l'allarme della sua Mercedes 190 ed è sceso di casa con una mazza da baseball per avventarsi contro i ladri senza immaginare che stesse andando incontro alla morte. Due killer coi volti coperti dai caschi integrali lo stavano aspettando in strada e non gli hanno lasciato scampo: Pietro Salis, cinquantaquattro anni, detto "er Cattivo", boss indiscusso della mala di Ostia, uscito qualche mese fa dal carcere dopo aver scontato una condanna a dieci anni, è stato freddato in pieno giorno da due proiettili calibro 9 al petto e alla testa. Gli assassini sono fuggiti su una grossa moto. Nessun testimone. Un omicidio che s'inquadra nella guerra tra gang rivali che sta insanguinando le strade della nostra città, quasi certamente una ritorsione per l'assassinio di Guerrino Di Sergio, "er Cozza", cugino del boss Consiglio Daga, ucciso qualche giorno fa davanti a un pub sul lungomare. Con la morte di Salis, un personaggio rispettato e temuto in tutta Roma, gli equilibri criminali della città sono destinati a cambiare... Ed è fin troppo facile prevedere altro sangue e altri morti...

Davide Vincenzo si ferma, rilegge quello che ha scritto e annuisce, soddisfatto: bell'attacco drammatico, in presa diretta anche se, stando alle vecchie regole del lead giornalistico, nome della vittima, luogo, ora e movente dell'omicidio andrebbero messi nel primo capoverso. Ma chissenefrega del lead, lui non scrive per il «Washington Post», il giornalismo asettico, telegrafico, tutto notizie, di stile anglosassone non gli è mai piaciuto e un po' di letteratura, per un pezzo da prima pagina, non ci sta male...

Prima pagina, wow.

«Be', ti sei bloccato? Guarda che devi darti una mossa, ho bisogno di leggere le cacate che scrivi per mettermi a lavorare sul mio fondo». La voce di Giulio Destri, che s'è avvicinato alla scrivania silenzioso come un serpente, lo fa sobbalzare.

«Giacché ci sei, da' un'occhiata all'attacco, please». Davide si scosta quel tanto che basta per permettere al suo capo di scorrere velocemente la mezza schermata sul monitor del computer. A Giulio basta un'occhiata veloce per approvare.

«Non male, anche se ripeti due volte la parola "boss". Quando parli di Consiglio Daga definiscilo capoclan, meglio. Comunque comincio a pensare che, prima o poi, riuscirò a fare di te un giornalista vero», e Destri fa finta di allungare un pugno verso il naso steccato di Davide, che lo fa vagamente assomigliare a un tapiro. Gli occhi sono ancora pesti e ridotti a due fessure con un singolare effetto bull terrier, ma il giovane cronista non ha perso un briciolo del suo spirito battagliero, anzi.

La capocciata, tirando le somme, è stata una benedizione. Davide è stato convocato in redazione in via del Tritone e il direttore in persona gli ha fatto i complimenti, gli ha espresso solidarietà e gli ha stretto la mano. Giulio Destri ne ha approfittato per strappare al caporedattore centrale una mezza promessa su un futuro contrattino di collaborazione fissa che, in un domani ancora estremamente nebuloso, potrebbe perfino trasformarsi nell'assunzione ad articolo Uno, il sogno irrealizzato di tutti gli sfigati dell'informazione.

Parecchi precari sarebbero disposti a farsi castrare per molto meno.

«Non so se dovevo mettere subito il nome di Salis, nelle prime righe... Sai, la storia delle cinque W, però...».

«'Fanculo alle cinque W, ormai tutti hanno saputo la notizia dalla televisione o dalla radio», lo rassicura Destri che, dal giorno dell'aggressione, si scopre a provare sentimenti sempre più paterni e benevoli verso quel ragazzo entusiasta e indomabile, che è voluto tornare al lavoro appena uscito dall'ospedale e si dimostra veramente tagliato per il mestiere.

«E cosa scriverai nel tuo fondo, capo, se posso saperlo?»

«Te lo puoi immaginare: Ostia come il Bronx, malavita scatenata, sangue e spaccio di droga che dilagano, la gente ha paura, che fa la polizia? Il solito bla bla bla ben confezionato che piace tanto all'ufficio centrale. Magari, se continui così, tra quarant'anni te ne faranno scrivere uno perfino a te, di fondo».

«Sempre che tra quarant'anni i giornali esistano ancora. Il futuro dell'informazione è online, ascolta questa profezia, vecchietto».

«Che stronzate... Mi sa che quella testata ti ha mandato in pappa quel poco cervello che hai. I lettori non rinunceranno mai al loro foglio da cesso. Primo comandamento? Rispondi, recluta».

Davide scatta in piedi, si mette sull'attenti e fa il saluto militare.

«Sissignore. Primo comandamento: "NON SCRIVERE MAI UN PEZZO CHE UN UOMO MEDIO NON POSSA LEGGERE DURANTE UNA CACATA MEDIA", signore».

«Bravo, sette più, vedi che non sei poi completamente idiota...».

«Signore, la recluta chiede il permesso di rimettersi a lavorare in modo che lei, signore, possa approfittare del suo pezzo per affastellare un mucchio di stronzate precotte e stantie nel suo fondo da prima pagina, signore».

Destri fa ancora il gesto di allungare un cazzotto sul naso ingabbiato d'alluminio e cerotti del collaboratore, che finge di ritrarsi terrorizzato, anche se quel siparietto, ormai, è diventato routine e lo ripetono almeno tre o quattro volte al giorno. Poi Davide si rimette a scrivere.

Ma chi era Pietro Salis? Prima di tornare alla dinamica dell'omicidio è bene ripercorrere le tappe principali di una carriera criminale iniziata quasi quarant'anni fa con i primi furti di auto e di stereo e che lo ha portato a diventare una figura di spicco nel giro di spaccio, usura, rapine ed estorsioni...

Troppo lungo? Troppo prolisso? No, va bene. Eppure...

Davide Vincenzo si ferma un attimo e si distrae. Quello che ha detto al suo capo lo pensa veramente: un futuro senza carta. Possibile? Lui crede proprio di sì, ma del resto è sempre stato affascinato dalla tecnologia.

Davide guarda l'enorme, massiccio computer che sembra un televisore. Fantascienza? Eppure solo dieci anni prima i giornalisti scrivevano con la Olivetti e vent'anni fa, spedivano con la posta pneumatica i fogli pieni di cancellature che arrivavano a una sferragliante tipografia a piombo, con i tipografi chini sulle linotype.

Giulio Destri, con tutto il rispetto che gli deve, è un fossile. Il suo modo di fare giornalismo, accurato, rispettoso, puntiglioso nella ricerca della verità fin nei minimi dettagli («Intervista anonima? Mi ci pulisco il culo, chi parla con un giornale deve avere il coraggio di metterci la faccia»), appartiene inevitabilmente al passato.

«Be'? Ti sei incantato di nuovo? Ma che cazzo hai, oggi, Davide? Sveglia...».

«No, scusa, ora finisco... Pensavo... Mi mandi ai funerali di Salis, vero? Sarà uno spettacolo tipo Il padrino».

«Sei scemo? Vuoi beccarti un'altra capocciata?»

«Eddai, capo, per favore... Sarà pieno di poliziotti e carabinieri, che vuoi che mi succeda? E poi mica ho scazzato con il clan di Salis, io...».

«Consiglio Daga ci sarà di sicuro, in prima fila. Fanno sempre così quando ammazzano qualcuno».

«Pensi sia stato lui a far uccidere er Cattivo?»

«Ci giocherei le palle. Tu no? Ah già, dimenticavo che sei un eunuco».

«Mandame tu' sorella, glielo faccio vedere io l'eunuco...». Davide si accorge troppo tardi di aver esagerato visto che il suo capo, in effetti, una sorella ce l'ha, ma ormai è fatta. E Destri non sembra offeso, anzi sogghigna.

«Se la vedessi e riuscissi a scopartela saresti Rocco Siffredi. Vabbè, basta cazzeggio, al lavoro».

«Obbedisco, negriero. Ma i funerali? Mi ci mandi, vero?»

«Cheppalle, vedremo. Finisci 'sto cazzo di pezzo e poi ne parliamo».

Destri gira le spalle a Davide, raggiunge la sua postazione e si mette a scrivere il fondo, tanto ha già letto abbastanza.

Un altro cadavere insanguinato sull'asfalto. Un altro omicidio. Le strade di Ostia sembrano diventate quelle della Chicago anni Trenta...

Un viso gonfio, flaccido, segnato dalle rughe e dal dolore. Il viso di un vecchio. La lunga barba che la tintura ha reso definitivamente bianca, i capelli, completamente grigi anche loro, raccolti in un codino, gli occhiali spessi con la montatura di plastica nera, l'orecchino d'oro al lobo sinistro che gli dà un tocco di eccentricità, perfetto per un collezionista d'arte...

Pitbull contempla il risultato allo specchio, soddisfatto. Almeno per una volta il suo sfacelo fisico e morale servirà a qualcosa. Impossibile che Omar riesca a riconoscerlo, dopo più di dieci anni: il camerata giovane, arrogante, palestrato, belloccio di una volta non ha niente a che vedere col vecchio devastato che vede riflesso.

Il vecchio che è diventato proprio grazie a Omar.

Pitbull alza il bracciolo della carrozzina e scopre la cavità dove ha nascosto il piccolo tubo di metallo lungo una quarantina di centimetri e i due minuscoli dardi con la punta imbevuta di aconito. All'aeroporto, come prevedeva, non ci sono stati intoppi, nessuno ha controllato la carrozzina e, anzi, gli agenti della sicurezza sono stati solleciti e premurosi nel farlo passare. La prima parte del piano è andata liscia e, sicuramente, anche la seconda non sarà un problema. Non lo riconoscerà.

Certo, Omar ha i riflessi di un coguaro e sta sempre all'erta, non per niente nessuno è mai riuscito a sorprenderlo durante gli anni della lotta armata, ma tutto questo tempo è passato anche per lui e, probabilmente, alla fine si è rilassato. Pitbull si domanda come sarà diventato adesso e rimpiange di non averlo chiesto a Salvo ma la notizia che vive a Londra e che può rintracciarlo lo ha scioccato al punto tale che tante domande gli sono rimaste in gola e Salvo è scomparso subito dopo senza lasciare un recapito. Meglio così. Quando tutta la storia sarà finita se ne tornerà alla sua erboristeria e alla monotonia ipnotica della sua vita, anche se si rende conto che una vita non ce l'ha più, che tutti gli anni passati in questa bambagia d'odio e di rancore sono stati solo una lunga, interminabile attesa.

Scivolando silenziosamente sulle ruote di gomma torna in bagno e si dà un'altra occhiata. Irriconoscibile, può stare tranquillo. All'inizio aveva pensato di fingersi cieco in modo da poter indossare un paio di grossi occhiali neri a coprire gli occhi, l'unico dettaglio che potrebbe tradirlo, ma ci ha ripensato: i non vedenti di solito non si interessano all'arte figurativa. O magari sì? Forse un cieco può acquistare un quadro per farlo vedere agli amici o per cercare di rivenderlo dopo qualche anno e guadagnarci qualcosa? Be', nel dubbio meglio lasciar stare anche perché i ciechi di solito hanno un accompagnatore. Magari un paio di lenti sfumate, blu o gialle, di quelle che alcuni portano per vezzo, perché no? Domattina farà un salto da un ottico. Tanto ha ancora qualche giorno di tempo da far passare.

Pitbull apre il frigobar, stappa una bottiglietta di vodka e la scola a canna, incurante dei prezzi da rapina, poi prende le sigarette, spalanca la finestra e si siede a fumare e guardare il traffico serale della City che scorre tre piani più sotto, le luci intermittenti di Trafalgar Square in lontananza con la colonna di Nelson, le fontane, i leoni di bronzo scolpiti da Sir Edwin Landseer, la facciata della National Gallery, le frotte di turisti sciamanti e starnazzanti a tutte le ore. Non è mai stato a Londra, in realtà è stato in pochissimi posti in vita sua, ma non ha la minima voglia di fare il turista paraplegico, accodarsi a una visita guidata, farsi un giro su uno di quei pullman a due piani con le spiegazioni multilingue in cuffia ammesso che abbiano posti per disabili. Queste cose le fa la gente normale e lui, di normale, non ha più nulla.

Sono solo uno storpio, per colpa tua, Omar.

È la vendetta che l'ha tenuto in vita, la vendetta che gli ha impedito di tagliarsi le vene col coltello da frutta dell'ospedale quando gli hanno spiegato che non avrebbe mai più camminato con le sue gambe, che no, purtroppo non c'è un intervento per ripristinare la frattura del midollo e quanto al sesso... Be', signor Rosa, questo tipo di lesioni provoca una disfunzione erettile permanente ma su questo non abbiamo certezze, forse con il tempo e magari le iniezioni di proctoglandina potrebbe ottenere delle erezioni ma adesso la cosa più importante è che si rimetta, che affronti la situazione, che si renda conto che la vita le offre ancora tantissime cose e se intanto vuole parlarne con i nostri psicologi...

Tutte cazzate, affanculo anche gli aggiustacervelli. A venticinque anni non vuoi sentire stronzate consolatorie sul pensiero positivo, se sei inchiodato per sempre su una carrozzina e con una lumaca morta tra le gambe, morte anche quelle, inutili, fredde, insensibili e che ancora oggi, quando le guarda, gli fanno paura.

Che cosa ti può offrire la vita quando tutto quello che volevi era combattere e scopare, magari morire da martire dell'Idea, giovane e bello e non finire in questa melma, un mezzo uomo impotente che raccoglie sguardi furtivi ed espressioni di comprensione durante il percorso tra casa ed erboristeria, un invalido che nessuna donna avrebbe voglia di baciare?

Quando la madre è morta, Pitbull ha venduto una casa a Orbetello e ha aperto l'erboristeria. Ha studiato sodo, visto che non aveva praticamente niente altro da fare, e gli affari vanno bene ma anche fare soldi non gli interessa e le prime spese folli che s'è concesso, da quando ha incassato l'eredità della mamma, sono state il viaggio in prima classe e l'albergo a quattro stelle nel centro di Londra.

Quando fai la cosa che aspetti da una vita devi farla alla grande.

E poi, senza moglie, figli, compagne o parenti a cui lasciare il denaro, tanto vale goderselo nei pochi modi che gli sono consentiti. Una volta ha provato ad andare con una escort da trecentomila lire a botta, sperando in un miracolo, ma il fallimento è stato così umiliante e angosciante nonostante le rassicurazioni patetiche della donna che ha deciso di dare forfait per sempre. Anche la puttana cianciava a vuoto, come gli strizzacervelli: «Non ti preoccupare, la paralisi non c'entra, sapessi quanti ne ricevo come te, tesoro... È l'emozione, succede anche a moltissimi clienti normali, torna e vedrai che andrà meglio». Affanculo tutti. Fatevi spezzare la schiena anche voi e ne riparleremo. Ma i gruppi di autoaiuto per handicappati sono semplicemente inconcepibili, per Pitbull, la sola idea di tutti quegli stronzi sulle loro sedie a rotelle che si piangono addosso e cercano di sollevarsi a vicenda lo fa vomitare. Meglio solo.

Vorrebbe un'amante, magari, una vera, che possa provare qualcosa per lui e non una puttana o una specie di infermiera che tenti di farglielo rizzare succhiandolo per mezz'ora, ma ormai è così bloccato che non ha più nemmeno il coraggio di fare un altro tentativo. Ci sono paraplegici che si sposano, fanno figli, tirano di scherma, giocano a basket, scrivono romanzi, incidono canzoni... Beati loro.

Pitbull vegeta dietro il banco dell'erboristeria, la sua tana, circondato da barattoli e avvolto nel profumo di essenze e tisane. E aspetta. Ha aspettato dieci anni senza neanche sapere cosa.

Adesso è finita. E, dopo, il futuro non avrà più importanza. Forse sarà finito anche lui.

Apre un'altra bottiglietta a caso (stavolta gin Bosford) e fa una domanda a se stesso.

LA DOMANDA.

Perché?

Perché odia tanto Omar?

Le gambe morte, il sesso flaccido, la solitudine?

No... Non è questo. In fondo Omar non lo ha ucciso. Pitbull era cosciente, quando la pallottola gli ha spezzato la spina dorsale e sa benissimo che lo ha risparmiato di proposito. Il tizio della 127 non c'entra un cazzo, Pitbull, steso a terra, sanguinante, strisciante come una lumaca, ha percepito l'indecisione di Omar, il sollievo che ha provato per avere una scusa e poter scappare invece di finire il lavoro e piantargli due pallottole in testa.

Non voleva ucciderlo.

Neanche mutilarlo, probabilmente. Il colpo doveva essere diretto alle gambe, la paralisi è stata un incidente. Succede.

E allora? Perché questo odio sovrumano, implacabile, che arde come una fiamma e lo consuma da quando...

...Da quando Omar lo ha picchiato e umiliato davanti ai camerati? No, neanche quello: è stato uno scontro leale, nessuna vergogna a essere battuti dal capo indiscusso del gruppo, nelle risse si prendono e si danno.

Allora perché?

Pitbull conosce la risposta ma è soltanto da quando Salvo è tornato con la vendetta sul palmo della mano che ha ammesso a se stesso quello che sa da sempre.

Odia Omar da quando ha parlato. Da quando semiaffogato e terrorizzato sulla "cassetta", con lo stomaco gonfio di acqua salata fino a scoppiare, scosso dai conati di vomito e dalla tremenda sensazione di annegare, è scoppiato a piangere come un bambino e ha tradito i camerati in una confessione fiume estorta dal professor De Tormentis, ripetuta nei dettagli al PM e che gli ha evitato il carcere. Da quando ha dovuto ammettere di non essere l'eroe che pensava. Da quando ha fatto il Giuda per salvarsi. Da quando ha scoperto la sua paura, la sua meschinità, il suo egoismo.

Ti odio perché mi hai fatto diventare un vigliacco, Omar. O forse mi hai fatto capire che lo sono sempre stato.

Per questo sto per ucciderti. Solo per questo.

«Allora, Cafasso? Che mi dici? E siediti, per favore, non restare sull'attenti, non siamo mica alla Nunziatella».

Il capitano siede con la solita rigidità da stoccafisso e Antonello Messina trattiene a stento un sorrisetto ironico. Chissà se si è fatto cucire le bande rosse sui pantaloni del pigiama... Un blocco compatto e inamovibile d'etichetta militare e senso del dovere.

«Comandi, signor colonnello, a rapporto».

«Com'erano 'sti famosi funerali?»

«Una cosa pazzesca, signor colonnello, se mi permette l'espressione...».

«Permetto, permetto... C'era tanta gente?»

«Una folla, signor colonnello, chiesa piena e piazza strabordante. Sembravano le esequie di un capo di Stato. Una sceneggiata incredibile, la bara è arrivata con un tiro a sei di cavalli bianchi, c'era la banda che suonava...».

«Cosa?»

«La banda che suonava...».

«No, cosa suonava?»

«Ah, mi scusi, non avevo capito la domanda, signor colonnello... Be', non m'intendo molto di musica ma Pennisi ha riconosciuto la colonna sonora del Padrino, ha presente il film con Marlon Brando?»

«Oh Signore, ci mancava Il padrino... I giornali domani ci faranno a pezzi».

«In effetti mi è sembrato fuori luogo ma non potevamo interrompere il funerale...».

«Certo che no, non è mica un'adunata sediziosa... E comunque se ci fosse stato un problema di ordine pubblico, il divieto di celebrare il rito sarebbe spettato al questore... Ma 'ste cose le sappiamo solo noi e immagino i titoli di domani: Ostia in ostaggio del funerale del boss, La malavita celebra se stessa, L'arroganza della criminalità... Vabbè, vai avanti».

«I miei ragazzi, in effetti, hanno riconosciuto parecchi volti noti della mala romana... In una parola c'erano tutti quelli che contano. Caviglia Ettore inteso Robertino, considerato uno dei capi di una grossa consorteria criminale e recentemente tornato in libertà, Giusti Nicola detto er Cravatta, noto usuraio e finanziatore del gruppo, Amedei Giovanni alias Scrocchiazeppi, braccio destro del Salis con tutto il suo gruppo al seguito, Marciano Sergio conosciuto come er Maghetto, scassinatore di professione e sospettato del furto di dieci anni fa alla banca di Marbella, assieme al cognato, Rivera Aldo, chiamato Tortellino e inquisito a suo tempo, senza risultati, per il medesimo furto, Giacinti Romeo, inteso Palle d'Oro, gestore di una sala giochi riconducibile alla vittima e...».

«Insomma, se avessimo potuto bombardare dall'alto non avremmo fatto un gran danno...».

«Prego?»

«Niente, Cafasso, scherzavo... A volte capita anche ai colonnelli, sai?».

L'espressione perplessa del capitano fa capire che i bons mots non sono il suo forte. Messina si domanda se Ranieri Cafasso abbia mai raccontato una barzelletta in vita sua. Magari neanche sa che esistono, le barzellette.

«Continua, Cafasso...».

«Abbiamo annotato diversi numeri di auto: Maserati, Mercedes, BMW, due Ferrari, tre Porsche... Mi sembra di aver riconosciuto alcuni elementi noti della camorra napoletana e della mafia siciliana, tutti debitamente fotografati di nascosto. Appena saranno stati identificati redigerò un rapporto completo, signor colonnello».

«E i nostri amici di zona? Intendo Triolli, Frisciotti e Daga? Ah, Cafasso, l'espressione "amici" era ironica».

«Tutti presenti, in prima fila e, ovviamente, la corona più grande era quella di Daga Consiglio».

«Tipico: lo fa ammazzare e piange come un vitello al funerale. E come niente era addolorato sul serio... Insomma, più che un funerale era una specie di raduno di malavita».

«Ecco, per la verità... Non solo, signor colonnello. A San Lorenzo c'era tantissima gente per bene, lavoratori, titolari di bar e ristoranti, proprietari di stabilimenti balneari, tutti venuti fin da Ostia. Quando la bara è stata portata fuori a spalle è scoppiato un applauso lunghissimo, molti erano in lacrime e un gruppo di ragazze sinti ha gettato petali di rose sul feretro... Mi spiace doverlo ammettere ma evidentemente il Salis Pietro si è fatto amare, a suo modo, anche da molte persone oneste, ho riconosciuto perfino la signora che viene da me per le pulizie».

Antonello Messina trattiene la battuta idiota che gli viene in mente all'istante sul fatto che magari Cafasso se la scopa pure (se non altro dimostrerebbe di avere qualche debolezza umana) e riflette amaramente a voce alta.

«Questo quartiere è abbandonato, lo Stato è concepito solo come tasse, multe e balzelli, Cafasso. Quando manca lo Stato, la malavita guadagna terreno».

«Certo, signor Colonnello, come in Calabria, in Sicilia, in Campania».

«Appunto. E un personaggio come Salis, pace alla sua anima nera, può diventare un riferimento: presta soldi, aiuta a trovare un lavoro, risolve una controversia, dà una mano per un alloggio nelle case popolari... Ecco perché molti lo piangono».

«Capisco ma non dovrebbe andare così».

«Non dovrebbe, già... Passiamo ad altro: ho rivisto il video delle telecamere davanti al pub dove hanno ucciso er Cozza. Una scena incredibile: i due arrivano con la moto, uno dei killer scivola mentre scende e Consiglio Daga riesce a ripararsi dietro la macchina. Il cugino ci mette qualche istante di troppo e viene attinto dai proiettili».

«Il viso di Daga, però, non si vede chiaramente...».

«Il problema è quello. Siamo sicuri che sia lui ma non potremmo mai provarlo, con quelle immagini. La macchina era del cugino, se fosse stata la Maserati di Daga Consiglio avremmo fatto Bingo. E a questo punto è inutile anche interrogarlo: ci prenderebbe in giro. Purtroppo neanche i killer si riconoscono: hanno entrambi i caschi integrali ma uno dei due, dalla figura, sembra il nostro Amedei Giovanni, alias Scrocchiazeppi. L'altro, quello claudicante, dovrebbe essere il suo compare De Rossi Raffaele, inteso Giacchettone che fu ferito in una sparatoria e da allora è mezzo sciancato».

«Ma non possiamo accusare neanche loro, purtroppo».

«No, non ancora. Ma i Daga sicuramente sì e non hanno bisogno di prove. Mi sa tanto che quei due sono già nel mirino».

Scrocchiazeppi cammina curvo, con le mani in tasca e le lacrime agli occhi mentre torna a casa mezzo sbronzo. Dopo il funerale, ha passato la giornata in bisca, ha perso una piccola fortuna e s'è bevuto sette o otto Ceres cercando inutilmente di soffocare il senso di vuoto, di abbandono che lo tormenta dal giorno della morte del Cattivo.

E adesso che succede? Che faccio?

L'idea di una vita senza la presenza fissa e incombente, rassicurante, di Pietro è assolutamente inconcepibile: lo ha seguito come un'ombra per quasi trent'anni, ha regolato la sua routine e i suoi orari in base alle esigenze del Cattivo e non ha mai dovuto prendere un'iniziativa di testa sua. Adesso non sa semplicemente che fare di se stesso. E non è una questione di soldi. Er Cattivo lo ha sempre pagato generosamente, Scrocchiazeppi ha messo da parte un bel tesoretto, è frugale come un cenobita e quello che ha gli basta per vivere decorosamente fino alla vecchiaia, senza contare che uno con le sue referenze criminali un altro boss che lo metta sul libro paga lo trova subito. Scrocchiazeppi potrebbe addirittura mettersi in proprio e creare un suo gruppo ma non ci ha mai pensato. Gregario nato. Pietro Salis gli è sempre sembrato onnipotente, invulnerabile, onnipresente perfino quando era in carcere e Scrocchiazeppi non riesce a immaginare un futuro senza di lui.

È per questo che è così afflitto?

No, c'è un'altra cosa.

Scrocchiazeppi gli voleva bene. E nel suo modo contorto Salis voleva bene a lui. Adesso lo piange come un amico.

Alcol e dolore non sono il massimo per stare all'erta quando qualcuno ti vuol fare la pelle. Scrocchiazeppi non immaginava un attacco così fulmineo, a poche ore dal funerale del boss, quindi si fa sorprendere come un idiota, non nota la grossa Mercedes che lo segue da qualche minuto, non si volta quando due figure massicce scendono e lo raggiungono silenziosamente, non reagisce quando due mani d'acciaio lo afferrano per le braccia e la canna di una grossa pistola lo colpisce brutalmente alla tempia.

«Sali in macchina, pezzo di merda, o ti faccio scoppiare la testa», ringhia una voce con l'inconfondibile accento degli zingari italiani. Scrocchiazeppi si lascia trascinare verso la Mercedes senza nemmeno divincolarsi o chiedere aiuto, rassegnato al suo destino. È finita.

 

 

 

 

Capitolo X

 

«Va fatto e basta».

«Lo so...».

Nicola Cavallini sospira e si tira indietro sulla sedia. Dal suo pupillo si sarebbe aspettato di più, magari un commento di solidarietà, un gesto di comprensione, una presa di posizione e invece solo quel "lo so" buttato in tono rassegnato, come per dovere. Risposta rituale, come quelle della messa.

Ma questa non è una messa. È una montagna di merda.

Mandare in galera un collega non è una cosa da prendere sottogamba. Puoi fottergli la carriera, fargli un esposto, infliggergli una punizione, sollecitare il trasferimento al posto di polizia di Linosa a sorvegliare i capperi fino alla pensione ma la galera...

È un'altra faccenda. Sbirro contro sbirro. E una voce maligna dentro di te ti chiama Giuda.

La solidarietà tra poliziotti è un sentimento universale, un legame transnazionale e trasversale che unisce chiunque, in qualunque Paese, indossi la stessa uniforme, e porti alla cintura, realmente o metaforicamente, manette e pistola per arrestare i cattivi. È un mestiere brutale, logorante, scivoloso che spesso ti porta a cambiare strada, a imboccare piste secondarie, a percorrere sentieri sconnessi e irti di trappole. Fai una cazzata e il collega ti copre, ne fai un'altra e in qualche modo te la cavi e a quel punto hai due scelte: ti metti in riga o passi dall'altra parte. Da quella dei cattivi. Diventi un criminale come loro.

Molti neanche se ne accorgono e, a un certo punto, si ritrovano invischiati in un gioco di ricatti, bustarelle e soffiate senza neanche ricordare com'è iniziata. Alcuni restano per anni sospesi a metà, in una specie di limbo in cui qualche strappo alla regola passa ma, sostanzialmente, rimangono dalla parte giusta, quella della legge, del bene comune, della fedeltà allo Stato eccetera eccetera. La maggior parte tira dritto dall'inizio alla fine e non si fa neanche scalfire. Quelli tutti d'un pezzo.

Come Nicola Cavallini.

Come Ambrogio Satta.

Capo della mobile di fresca nomina, è uno che ci crede con tutto se stesso e glielo si legge in faccia. Curriculum di prima linea: volanti, Digos, Criminalpol, ufficio tappezzato di encomi, un carattere di ferro e una volontà da schiacciasassi che stridono con l'aspetto dimesso, quasi mite, i capelli biondi già radi, gli occhiali spessi, gli sciatti completi ministeriali antracite estate e inverno. Se ti venissero a raccontare che ha ucciso due rapinatori in uno scontro a fuoco vicino Reggio Calabria non ci crederesti. Lui, di sicuro, in giro non la racconta e se qualcuno gli chiede qualcosa scrolla le spalle e cambia argomento o taglia corto.

Come adesso. «Lo so». Stop.

«Be', allora diamoci una mossa e andiamo». Nicola Cavallini si alza, si stiracchia e trotta verso la porta anche se all'appuntamento col procuratore mancano quaranta minuti buoni e di sicuro arriveranno in anticipo e dovranno fare anticamera. Qualsiasi cosa pur di non star lì a ruminare rancori e rimorsi.

Antonio Assisi se lo merita, su questo non c'è il minimo dubbio. La storia è di dieci anni fa e se fosse rimasto buono buono nel suo ufficio ai servizi logistici, a rimestare scartoffie, di sicuro anche Cavallini, nonostante la vecchia ruggine, l'avrebbe lasciata insabbiare. I carabinieri lo hanno fatto, a suo tempo, quando hanno scoperto la chiave dello scannatoio affittato da Salis e tutto il resto. Quieta non movere et mota quietare.

Ma Assisi ha smosso mari e monti, ha intortato il ministro, lo ha scavalcato e s'è fatto trasferire al suo vecchio ufficio. In fondo si è scavato la fossa da solo.

Cavallini sa che non può lasciarlo lì, non col casino che è esploso negli ultimi tempi, l'attentato a Consiglio Daga e l'omicidio di Salis che, sicuramente, avrà un seguito di sangue.

Il questore ricorda l'epopea dei Marsigliesi: i vecchi boss romani, che si opponevano all'invasione e al mercato dell'eroina, sterminati uno dopo l'altro dai gangster con la R moscia, la morte in siringa che dilagava in tutta la città, i sequestri di persona, le esecuzioni e le torture per punire gli infami, i processi show con gli imputati vestiti come star dei fotoromanzi e le donne di mala tra il pubblico, in occhiali neri, cappello da vamp e trucco da maîtresse, a lanciare baci e promesse d'amore ai loro uomini.

Sembra un film in bianco e nero ma sono passati solo vent'anni. E questa nuova ondata criminale più spietata, meno folcloristica, più rozza e molto più pericolosa, va fermata subito. I Marsigliesi sono morti e sepolti. Poi sono arrivati i Bravi Ragazzi della Magliana e, quasi contemporaneamente, i bagliori del terrorismo che ancora non sono finiti. Cicli e ricicli storici di una mala romana sempre in guerra fin dai tempi der Tinea e dei bulli di rione.

Ora è ricominciata. E Antonio Assisi va fermato. Un dirigente del commissariato colluso è come un infiltrato dietro le linee. Dev'essere sloggiato e, con l'aggancio politico che ha, l'unico sistema è fotterlo alla grande, in modo che anche il ministro debba tirarsi da parte. Probabilmente Giovanni De Stefanis dirà di averci scambiato, al massimo, qualche parola durante la ristrutturazione del suo ufficio: i politici ti scaricano più in fretta di una tazza del cesso.

Sì, Assisi va fermato. E se per farlo bisognerà sbatterlo a Forte Boccea, il carcere militare dove finiscono gli sbirri arrestati, amen. Se l'è cercata. L'essenziale è toglierselo dai piedi e in fretta. Sempre che Alfonso De Pinolis, il procuratore, non si metta di traverso.

La macchina imbocca la rotonda di Ostia e prende la complanare della Colombo che lambisce le ombre della pineta. Scrocchiazeppi capisce dove lo stanno portando e gela: una radura isolata, un colpo di pistola alla testa o, più probabilmente, una lama alla gola e zac, semplice e pulito senza neanche sprecare un proiettile. Un lieve odore di benzina che sembra venire dal bagagliaio gli conferma le sue paure. Hanno una tanica piena per lui. Il suo corpo sarà ridotto a un tizzone.

«Che volete? Non v'ho fatto un cazzo», farfuglia in preda al panico che lo ha assalito all'improvviso. La canna di una semiautomatica gli schianta il naso, l'osso si spezza di netto, un fiotto di sangue spruzza a fontana sullo schienale del sedile anteriore, bestemmie in romaní, Scrocchiazeppi scalcia, si divincola, tenta di liberarsi finché una mano gli afferra i capelli sulla nuca, lo strattona, gli tira indietro la testa e la punta di un coltello gli punge la gola.

«Sta' zitto e bono, porcatroia, che sinnò te scanno come una gallina», ringhia la voce con l'accento sinti.

Scrocchiazeppi sente che sta per pisciarsi sotto. Come se tutto il suo coraggio fosse evaporato dopo la morte di Pietro. Senza il suo capo è solo un coniglio.

«Fermi... Ve devo dì una cosa», farfuglia disperato. Ma sì, vaffanculo, ormai non ha più obblighi verso nessuno. È fedele solo a se stesso. E ha appena scoperto che non vuole morire.

«Sta' zitto, merda, tanto t'ammazzamo uguale».

«Fermi... Fateme parlà con Consiglio Daga... Ve lo giuro, è 'na cosa grossa», implora Scrocchiazeppi senza più ritegno.

«Anvedi questo, se sta a cacà sotto, lo facevo più tosto».

«Namo, Scrocchiazè, tanto nun te salvi, nun c'è gnente da fà... È er momento tuo».

«Fermi, fermate 'sta machina, portateme da Consiglio che ve conviene puro a voi».

«Consiglio te vole parcheggiato e noi te parcheggiamo, cerca de morì da uomo, pezzo de cazzo».

«È 'na cosa importante, giuro, almeno chiamatelo...». La voce di Scrocchiazeppi è stridula, il naso frantumato continua a buttare sangue, un dolore spaventoso gli si irradia su tutto il viso.

«E che je dovresti dì a Consiglio?»

«...Un sacco de sordi... Almeno venti mijardi... Io so dove stanno... Fatemece parlà».

Lo zingaro più grosso, quello che guida, fa per svoltare a destra poi ci ripensa, accosta, si gira e sferra un manrovescio che sbatte Scrocchiazeppi addosso a quello con la pistola.

«Quanto hai detto?»

«Venti mijardi boni... Forse de più... I sordi del colpo in Spagna, dieci anni fa... Io so dove stanno». Scrocchiazeppi intravede una piccola luce di speranza e parla a mitraglia. «Me l'ha detto Pietro, in galera».

«E dove starebbero 'sti sordi?»

«Fateme parlà co' Consiglio, je lo dico a lui...».

Zingaro Grosso resta perplesso e lancia un'occhiata interrogativa a Zingaro Pistola, che scrolla le spalle, indeciso anche lui. Pensare non è il loro forte, hanno un lavoro da fare e stop ma venti miliardi...

Un'altra sberla e quello che resta del naso di Scrocchiazeppi finisce di spappolarsi.

«Nun ce fa incazzà, 'ndo stanno li sordi?»

«Lo dico a Consiglio... Si nun te sta bene ammazzame e vaffanculo», ringhia Scrocchiazeppi. Se parla adesso muore, questo è sicuro.

Zingaro Grosso tira fuori un cellulare grosso come un fon, scende dalla macchina, fa un numero, parla sommessamente per qualche istante, risale e mette in moto.

La Mercedes procede ancora sulla complanare, Scrocchiazeppi trattiene il respiro, poi, al primo semaforo, la macchina fa inversione e ritorna verso Ostia.

«Si hai detto una cazzata te famo rimpiagne de nun esse morto subito».

Il capannone puzza di piscio di gatto, fumo stantio, lubrificante per motori. Consiglio Daga l'ha affittato due anni prima, senza neanche sapere bene cosa farci. Un posto appartato, isolato, fuori mano poteva sempre fargli comodo e ogni tanto i suoi ci vanno a nascondere qualche auto o moto rubata, o a inguattare qualche ferro per un breve periodo. Una colonia di gatti grassi come bouledogue ci si è stabilita dentro. I mici cacano e pisciano dappertutto in continuazione, giocano e s'azzuffano tra loro e Dio sa cosa trovano da mangiare per essere così ciccioni. Forse è meglio non saperlo. Consiglio all'inizio ha pensato di sloggiarli ma qualcosa l'ha trattenuto. In fondo erano lì prima di lui. E poi tanto al capannone non ci va mai se non in qualche occasione speciale. Come questa.

Scrocchiazeppi è in ginocchio davanti a lui, le mani legate dietro la schiena con i polsi stretti da una fascetta di plastica, il torso scarno nudo ricoperto di graffi, lividi e bruciature di sigaretta. Piange. I sinti ci sono andati giù duri, aspettando il capo. Consiglio ha detto vivo, non illeso.

«Che cazzo è 'sta storia? Guarda che si m'hai fatto venì pe' 'na stronzata so' cazzi tua». Il tono del capo è indulgente, quasi benevolo. Scrocchiazeppi sputa sangue attraverso i denti spezzati.

«È vero, Consiglio, te lo giuro su mi' madre morta. So' venti mijardi, vabbè, forse qualcosa de meno ma armeno quindici sicuri tra oro, sordi e brillocchi...».

«E tu come ce lo sai?»

«Pietro me diceva tutto, er colpo assieme ai fascisti l'avemo organizzato assieme... Ma er posto dove l'ha inguattati lo sapeva lui solo, nun l'ha detto a nisuno, manco a Marisa».

«E perché lo conosci, allora? Solo tu?»

«Io e quello che li nasconne... Me l'ha detto Pietro a casanza, dopo che è morta la moje. Era fori de testa, pensava de nun sortì più, j'era venuta la fissa che sarebbe morto ar gabbio, così un giorno m'ha preso da parte e m'ha detto a chi aveva dato li sordi der bottino... Armeno si schiatto quarcuno se li gode, ha detto proprio così».

«E chi è 'sto tizio che li nasconde? Una retta?»

«Una retta, sì. Fidata. Uno che nun sgarra mai. I sordi so' tutti lì, me ce gioco quarsiasi cosa... Nun ha preso una lira».

«Er nome?».

Scrocchiazeppi guarda Consiglio da sotto in su e gioca il tutto per tutto.

«Si te dico er nome tu che fai? Giura che nun m'ammazzi».

«Si me lo dici te lascio annà. E si scopro che è una cazzata te ritrovo e te levo la pelle co' le mani mia».

«Giuralo. Giura che me lasci annà».

Consiglio si tocca la Madonna dei Miracoli in oro e diamanti che porta al collo.

«Giuro che si me dici er nome te lascio annà».

«Hai giurato, eh?»

«Ho giurato. Er nome».

«Topo Gigio. La retta è lui. Dove tiene i sordi nun lo so ma er Cattivo je l'aveva dati da infrattà e, di sicuro, ce l'ha ancora».

Consiglio Daga si prende il grosso mento tra il pollice e l'indice della mano e riflette.

Topo Gigio... La retta del Cattivo da sempre. Nella mala certe cose si sanno.

Il bottino del colpo in Spagna scomparso nel nulla su cui sono nate mille leggende.

I Neri e Salis in società, una voce che girava da anni.

Tutto torna. La storia è vera.

«Grazie, Scrocchiazeppi».

Consiglio gli volta le spalle, estrae la sua Beretta nichelata da narcotrafficante, si gira e gli piazza due pallottole in testa. Il cranio di Scrocchiazeppi si scoperchia a metà, schizzi di sangue e cervello volano ovunque e due gatti famelici si precipitano a leccarli.

Consiglio Daga rimette a posto la pistola e si volta verso i suoi, sogghignando.

«Portatelo in pineta e fatelo sparì. Oh regà, sete tutti testimoni. Ho giurato e ho mantenuto: l'ho lassato annà... all'inferno».

«La brillante operazione che abbiamo appena concluso è la miglior smentita per tutte le false notizie uscite su certa stampa».

Occhiataccia.

«L'insinuazione secondo cui il nostro territorio sarebbe in balia delle consorterie criminali che spadroneggiano e si combattono tra loro è totalmente infondata».

Sguardo da basilisco.

«Al contrario, come abbiamo appena dimostrato, la polizia mantiene saldamente il controllo su tutti gli ambienti di malavita, di concerto con la procura. Questo non è il Bronx, non lo è mai stato e mai lo sarà».

Aria compiaciuta, espressione che significa: ve l'ho cantata chiara, stronzetti.

Antonio Assisi s'aggiusta il nodo della cravatta che lo sta strangolando, asciuga un rivoletto di sudore, maledice il condizionatore che è andato in tilt dopo neanche due mesi (e che gli aveva fruttato una misera mazzetta da cinquecentomila lire) e guarda la piccola platea di cronisti locali, doverosamente intenti a scribacchiare sui taccuini.

Quattro o cinque stronzetti, appunto. La squinzietta del «Quotidiano di Ostia» che, se non fosse bionda e magra, potrebbe essere la controfigura di Alessandra Alati, lo spilungone di Radio Lido, la cicciona di «Ostia Today»... L'unica testata importante è il «Messaggero» ma Giulio Destri non s'è degnato di venire e ha mandato quel coglione col naso steccato, l'imbecille che è andato a stuzzicare Consiglio Daga nella sua tana, s'è beccato una capocciata in faccia e adesso se la tira da veterano di guerra ferito sul campo...

Chissenefrega. La conferenza stampa era solo un modo per farsi conoscere, marcare il territorio, mandare un segnale dentro e fuori: anche un trafiletto in cronaca, segnalato dall'ufficio stampa della questura, può far capire a Nicola Cavallini che lui ci sta dando dentro e che merita di restare al posto che s'è conquistato con tanta fatica, tanti inchini, tante sviolinate a quel pallone gonfiato di ministro e perfino un'abboffata di pesce crudo che manco un tricheco.

Il resto è fuffa. Venti perquisizioni ai soliti noti, posti di blocco, controlli nei bar e nei circoli in odor di mala, stando attenti a non pestare piedi troppo sensibili e suscettibili, l'arresto di sei cavalli, spacciatori di strada di livello infinitesimale, il sequestro di una decina di stecche di ero e quindici grammi di cocaina e, unico colpo di fortuna, di un grosso coltello da Rambo col dorso della lama seghettato e un campionario di ammennicoli da survival nascosti nel manico cavo, beccato al volo in una macchina durante un controllo. E chissenefrega se il conducente stava andando a pesca e l'ha dimostrato con tanto di armamentario, canne, mulinelli, esca viva e tutto il resto. Giustificato motivo o no, il pugnale fa la sua porca figura e il tizio se la vedrà col giudice.

«Dottor Assisi, potrei farle una breve intervista...». Lo spilungone di Radio Lido s'è avvicinato quatto quatto col microfono in pugno e l'aria speranzosa.

«Certamente». Assisi si dà un'allisciata ai capelli rossi e ricci, manco dovesse comparire a Telefono Giallo.

«Dottor Antonio Assisi, come si inquadra l'operazione di oggi nel contesto del conflitto criminale tra la gang dei Daga e il gruppo di Pietro Salis, assassinato di recente a Ostia?».

Il funzionario sbianca, reprime l'impulso di strappargli il microfono di mano e ficcarglielo nel sedere, si dà una calmata e si esibisce nel suo miglior sorriso al limone.

«Come ho appena detto, non c'è alcuna guerra tra bande rivali a Ostia... Si tratta di episodi isolati, direi quasi endemici in un territorio di queste dimensioni, su cui la polizia di Stato sta facendo luce con oculate indagini e di cui presto avrò il piacere di illustrare i risultati».

«E potrebbe anticipare qualcosa su queste indagini per gli ascoltatori di Radio Ostia Lido?»

«Ogni cosa a suo tempo. Il segreto istruttorio ci impone la debita riservatezza ma posso assicurarle che stiamo lavorando senza sosta e che presto i responsabili dell'omicidio Salis saranno assicurati alla giustizia. Per il momento non posso dirle altro».

«Grazie, dottor Assisi».

Davide Vincenzo s'è già fiondato fuori, ha conquistato una cabina del telefono e ha tirato fuori il gettone che, come ogni bravo nerista, porta sempre in saccoccia visto che i cellulari di servizio devono ancora arrivare e quelli personali costano un botto e trovano campo una volta su dieci. Lui, comunque, non se lo può permettere, uno di questi aggeggi che, come tutte le novità tecnologiche, lo affascinano da morire. Non con il contrattino a termine da cinquecentomila al mese, spese incluse.

«Ciao capo, parla l'inviato al fronte».

«Ciao Tapiro... Allora? Chiamo il nazionale e dico di sbaraccare la prima?»

«Piantala di chiamarmi Tapiro... Una gran stronzata, altro che nazionale. Quattro spacciatori di strada arrestati e le solite perquisizioni. Tutta frattaglia. Taglio basso al massimo».

«Da quando ti hanno fatto caporedattore centrale, Tapiro? Per tua informazione Ostia è sotto i riflettori dopo l'omicidio del Cattivo e la nera locale va tenuta alta, quindi preparati a scrivere un'apertura di sessanta righe».

«Ma, Giulio, ti dico che è una cazzata... Assisi sta facendo la ruota ma è roba di bassa polizia, quisquilie e pinzillacchere».

«E io ti dico che merita un'apertura e siccome lo dico io tu la scrivi, punto... A meno che non vuoi un'altra testata sul naso che il tuo solerte caporedattore sarà ben lieto di appiopparti appena porterai il tuo culo secco in redazione».

«Agli ordini capo, quando chiedi le cose con gentilezza sai essere molto convincente».

Davide riaggancia e si prepara a fare quello che fanno tutti i giornalisti del mondo quando il superiore dà un input: dire la loro, rimangiarsela e obbedire agli ordini.

Un tocco lieve sulla spalla lo fa trasalire come un coniglio. Ebbene sì, da quando s'è beccato la capocciata Davide ha i nervi a fior di pelle, anche se non lo ammette neanche con se stesso.

«Scusa, ti ho spaventato?». Il sorriso di Serena Grottini, unica redattrice di nera di «Ostia Today», è terrificante come quello di Frankenstein Junior. Davide si chiede sempre se qualcuno l'ha mai informata dell'invenzione di spazzolino e dentifricio. Grassa, sciatta, grigia, attempata e, orrore, gli fa anche un filo senza ritegno e senza speranza. Ma in quanto ad agganci e fonti sul litorale, chissà come, è praticamente irraggiungibile. A parte Giulio Destri, ovviamente, ma quello è di un'altra categoria.

«No, Sere, scusa tu... Ero sovrappensiero. Belle stronzate eh?». Davide fa un accenno verso l'edificio del commissariato dove i poliziotti stanno rimettendo a posto bustine, coltello e tutto il resto.

«Ignobili. Quel testa di cazzo pensa di buttarci un po' di fumo negli occhi con queste cretinate, mi chiedo perché l'hanno rimandato qui dopo che l'avevano cacciato a calci nel culo. Comunque ho una notizia vera, appena uscita dai carabinieri».

Altro sorrisone ammaliatore e concupiscente. Zaffata di napalm. Davide rabbrividisce ma una notizia è una notizia.

«Be', grazie allora, Serena. Che roba è?»

«Ne hanno fatto secco un altro. Cadavere bruciato in pineta, sembra che prima di dargli fuoco gli abbiano sparato in testa. Mi accompagni con la tua macchina?».

Topo Gigio sente squillare il campanello della porta troppo a lungo e si domanda chi cazzo può essere. Una scampanellata così marca guardie ma lui, con polizia e carabinieri, non ha mai avuto a che fare, ha la fedina penale di un seminarista e sa per esperienza che le giuste fanno le prepotenti coi pregiudicati, non con le persone perbene. Comunque sia, dato che non s'è mai sentito in pericolo in vita sua, protetto com'era dall'alone rassicurante di Pietro Salis, corre ad aprire così come si trova, in maglietta e calzoncini cachi senza neanche sbirciare dall'occhio magico.

Quello che gli si para davanti gli fa ghiacciare il sangue nelle vene.

Consiglio Daga ha un'espressione da squalo bianco affamato. E i due spaccagambe alle sue spalle lo guardano come se aspettassero di mangiarselo vivo.

«Me riconosci?».

Topo Gigio balbetta, farfuglia, si strozza di saliva e fa segno di sì. Chi non conosce l'uomo che ha fatto ammazzare er Cattivo?

«Allora stamme a sentì, te la faccio breve. Dove tieni la roba de Pietro?»

«Scusi... ci dev'essere un equivoco, non capisco di cosa stia parlan...».

La scafetta è un mezzo schiaffo quasi affettuoso tra orecchio e guancia sinistra che lo fa avvampare di umiliazione.

Gli spaccagambe ghignano all'unisono e pregustano il banchetto.

Topo Gigio sente la vescica che si contrae.

«Nun fà lo stronzo, Topogì, che nun te conviene. So' tutto. I sordi della Spagna... 'ndo stanno?»

«Mi deve credere, non so niente, temo l'abbiano informata male... Davvero, l'aiuterei con piacere, signor Daga, la conosco e la rispetto ma proprio...».

Consiglio sospira, più rassegnato che spazientito. Topo Gigio è una buona retta e tiene botta anche se il suo boss è morto. Per le maniere forti c'è tempo, visto che non può torturare e ammazzare due persone in due giorni e comunque, per adesso, si tratta solo di mettergli un po' di strizza addosso. Topo Gigio se la farà sotto e, presto, sarà lui stesso a cercarlo per mettergli in mano il bottino, appena si renderà conto che, morto Scrocchiazeppi, non c'è più nessuno a coprirgli le spalle.

«Vabbè, a Topo Gigio, continua a fà lo stronzo e sarà peggio per te. Mo' io e 'sti due amici qui se n'annamo ma ripasso tra due settimane e vojo trovà li sordi pronti. Tutti, fino all'ultima lira. Semo intesi?»

«Lei è stato chiarissimo, signor Daga, ma io veramente...».

Ma Consiglio non lo ascolta più, gli gira le spalle e lo lascia solo col suo terrore.

 

 

 

 

Capitolo XI

 

«È una storia vecchia... sono passati dieci anni, che senso ha tirarla fuori adesso?».

Nicola Cavallini sospira. Esattamente quello che si aspettava. Certe volte avere il dono della preveggenza è una iattura. Una certa Cassandra ne sapeva qualcosa.

«È vero, signor procuratore», ammette. «Ma deve considerare che...».

«...Che questo signore potrebbe aver continuato a intrallazzare con altri elementi di mala? È questo che pensa, dottore?». Alfonso De Pinolis guarda il questore in tralice, le stesse occhiate che, da giovane PM, riservava agli indagati durante gli interrogatori e agli imputati in aula. Sguardi capaci di metterti a nudo l'anima.

«Esattamente, signor procuratore. Il lupo perde il pelo ma non il vizio, dubito che sia diventato un santo».

«E la posizione in cui si trova ora è... come dire... delicata...».

«Lei mi toglie le parole di bocca. Sono assolutamente convinto della necessità di indagare sul vicequestore Assisi e, mi creda, non è una decisione che ho preso alla leggera».

«Non ne dubito, dottor Cavallini, ci conosciamo bene, noi due».

Nuvoloni di non detto aleggiano nella stanza. Se Assisi è in odor di intrallazzi come mai lo hanno spedito proprio a Ostia, praticamente in braccio ai suoi vecchi compari? Già, perché i trasferimenti dei funzionari vengono disposti dal dipartimento ma, di solito, li propone il questore. Poi ci sono le eccezioni. Il procuratore conosce troppo bene i meccanismi di raccomandazioni, spintarelle e camarille che regolano certe faccende. Il retroscena è fin troppo evidente ed è inutile fare domande imbarazzanti.

«Quindi, a suo parere, Antonio Assisi potrebbe aver riallacciato i legami con la mala locale... Sempre che questi legami siano mai esistiti».

«Sì, ne sono quasi certo. I carabinieri, a suo tempo, scoprirono evidenti tracce di collusione con Pietro Salis e la sua cricca. Assisi aveva a disposizione un appartamento preso in affitto dal Salis, ovviamente dietro un prestanome, ma erano assolutamente sicuri che ci fosse anche molto altro: parlo di mazzette e favori in cambio di spiate sulle indagini. La cosa fu fatta cadere perché...».

«...Perché era in corso una grossa indagine sulla mala stanziale e quella romana, l'operazione Romolus, e il coinvolgimento di un funzionario di polizia non avrebbe fatto comodo a nessuno, giusto?»

«Proprio così».

«E adesso lei vuole riaprire quella vecchia storia... Pensa sia assolutamente necessario?»

«Non ho dubbi. A Ostia è scoppiata una faida tra la famiglia Daga e il gruppo di Salis Pietro, assassinato dopo il fallito attentato al capoclan, Consiglio Daga. È un momento difficilissimo e a ciascuna delle due fazioni farebbe molto comodo un dirigente del commissariato come dire... malleabile. Una cosa che non possiamo permetterci».

«Come intenderebbe procedere?».

Cavallini prende fiato e accenna al capo della mobile che, per tutta la durata del colloquio, è stato molto impegnato a contemplarsi le unghie e non ha aperto bocca. Evidentemente indagare sui colleghi non è la massima aspirazione di Ambrogio Satta.

«Nel solito modo, signor procuratore... Intercettazioni telefoniche, se lei mi firma l'autorizzazione, e magari ambientali, in ufficio e nell'abitazione, pedinamento, fonti confidenziali...».

«Cimici al commissariato?». Alfonso De Pinolis fa un'espressione contrariata. «E non pensa che un funzionario di polizia di una certa esperienza sia in grado di evitare di tradirsi? Non lo conosco di persona ma non ce lo vedo a parlare apertamente al telefono delle mazzette che incassa, sempre che sia vero».

«Anche i più smaliziati, prima o poi, finiscono per tradirsi, dottor De Pinolis, lei lo sa meglio di me. E non sottovalutiamo il fatto che Assisi, nel suo territorio, si sente un imperatore. Già in passato aveva commesso diverse imprudenze: frequentava le sale giochi gestite dal Salis, si faceva vedere nei suo stabilimenti in compagnia della sua amante di allora. Insomma era convinto di essere intoccabile. Forse lo è ancora, specialmente con certe protezio... insomma penso che se è colluso non sarà impossibile smascherarlo».

Cavallini s'è tirato indietro sull'orlo del burrone e si staccherebbe la lingua a morsi. Parlare di raccomandazioni del ministro dell'Interno al procuratore capo di Roma è più idiota di infilare la testa tra le fauci di un coccodrillo affamato. De Pinolis, fortunatamente, non raccoglie e resta qualche istante a tamburellare le dita sulla scrivania, indeciso, poi prende la sua decisione.

«E va bene, mi ha convinto. Ma le concedo solo una settimana. Se entro sette giorni non si trovano le prove l'indagine si chiude lì. Del resto, come ha detto lei, signor questore, abbiamo una situazione esplosiva da fronteggiare e non possiamo assolutamente permetterci di sprecare tempo, energie e uomini dietro semplici sospetti che risalgono a dieci anni fa. Siamo d'accordo?»

«Come crede, signor procuratore».

Time's over.

I tre uomini in completo ministeriale si stringono la mano e Cavallini esce dall'ufficio con la consapevolezza di un mezzo fallimento. Una settimana non basta minimamente per raccogliere le prove contro un funzionario corrotto, è solo un contentino, e difficilmente l'inchiesta si concluderà con qualcosa di più di un avviso di garanzia contro Assisi.

Informazione di garanzia. Avviso, per il volgo, ma è la stessa cosa.

Articolo 369 del codice di procedura penale.

In via teorica un provvedimento a tutela dell'indagato che può nominare un difensore, avvalersi della facoltà di non rispondere, mentire senza essere incriminato per falsa testimonianza, essere messo al corrente degli atti istruttori eccetera eccetera.

Questa è la teoria. La realtà è completamente diversa.

Resi noti e sbandierati a mezzo stampa, gli avvisi di garanzia diventano una sorta di condanna anticipata, di marchio d'infamia, soprattutto se c'è di mezzo la politica. Funziona così e basta.

A Cavallini, comunque, il provvedimento basterà e avanzerà per scaraventare Assisi giù dalla poltrona dov'è appena risalito, sospenderlo o spedirlo in qualche remoto buco di ufficio distaccato a compulsare scartoffie inutili. In fondo è quello che voleva. Il questore lancia un'occhiata d'intesa al capo della mobile e si fa sfuggire un ghigno mefistofelico: fatta, Assisi ha i giorni contati.

E Ambrogio Satta?

Niente, neanche una piega, seguita a tacere. Non è un caso se i cronisti lo chiamano il Muto.

«Molto loquace, oggi, eh?», lo stuzzica Cavallini mentre si avvicinano alla macchina parcheggiata nel cortile arroventato dal sole ma s'interrompe vedendo l'autista, agitatissimo, che gli viene incontro a passo di carica.

«Signor questore, hanno appena chiamato via radio da Doppia Vela... C'è una bomba allo stabilimento La Paranza, a Ostia».

«Niente. Ho chiesto un po' in giro, nessuno ne sa nulla».

«E allora?»

«Be', se fosse un gallerista conosciuto, qui a Londra si saprebbe, invece nothing at all... Nessuno ha mai sentito nominare 'sto Paolo Agostinelli».

«Stai diventando paranoico, tesoro. Non è un gallerista, è un collezionista. Hai presente quei tipi pieni di soldi che comprano i quadri per il piacere di attaccarli al muro e guardarseli? Sono loro che fanno girare il mercato dell'arte. I galleristi, invece, comprano per rivendere, esattamente quello che facciamo noi. A proposito, honey, adesso sei anche tu un gallerista, cerca di ricordartelo».

«Sarà ma non capisco perché non puoi sbrigartela tu».

Amparo alza gli occhi al cielo, sospira e si accarezza la pancia, un gesto che è diventato abituale da quando ha scoperto di essere incinta. A volte gli uomini sono proprio dei bambini. Anche gli ex terroristi che hanno sparato e ucciso, alla minima contrarietà, quando non sanno che pesci pigliare, vogliono la mamma.

«Perché, come ti ho spiegato, ha chiesto espressamente di te. Perché è ora che tu cominci a impratichirti di questo mestiere, mi amor... Perché quello potrebbe sganciare ottantamila sterline sull'unghia e se vuole una trattativa tra maschi l'avrà».

«Magari è finocchio. Ha visto la mia foto da qualche parte e s'è innamorato».

«Claro, chi può resistere al tuo fascino? Uomo o donna che sia, tutti a pecora davanti a Mr Supermacho».

«Te lo do io il supermacho... anzi, vieni qui...».

«Giù le zampacce, maniaco, devo andare dalla ginecologa e non mi va di raccontarle che ho appena avuto un rapporto in pieno giorno, penserebbe che sono un'assatanata. E poi non ho tempo e non mi piacciono le sveltine, as you know».

«Cheppalle, da quando stai aspettando Brenno quasi non si scopa più».

«Non pronunciare mai più quel nombre assurdo davanti a me. E a ogni modo è meglio che te ne faccia una ragione e ti rassegni fin d'ora: tra cinque mesi, biberon, pannolini, pianti, sveglie notturne, adios noches de fuego».

Amparo quasi s'intenerisce davanti all'espressione da cane bastonato di Omar. Eppure sa che sarà un padre stupendo. Lo sente. Basta che si levi dalla testa l'idea di quei nomi da visigoto e non pretenda che il figlio o la figlia (magari) gli faccia il saluto romano.

«Vabbè, dammi qualche dritta. Come devo comportarmi con 'sto tizio?»

«Entra, lo metti a suo agio, gli chiedi se vuole un caffè o magari qualcosa da bere, fai quattro chiacchiere, poi gli mostri il Manzoni e spari il prezzo senza bisogno di illustrare l'opera, visto che sicuramente la conoscerà meglio di te. Parti da centomila».

«Per un quadratino di polistirolo che sembra una cassetta delle uova? Mi vergogno».

«Per un'opera di uno degli artisti italiani più quotati del momento. Sei davvero un ignorante, my love, è ora che cominci a farti una cultura sull'arte contemporanea. Comunque è una proposta civetta. Lui si metterà a contrattare, tu scenderai a poco a poco, con molta riluttanza e alla fine vi assesterete su ottantamila. Se proprio fa il duro puoi arrivare a settantamila ma non una sterlina di meno. Claro?»

«Agli ordini, generale. Visto che sei tanto esperta non capisco perché non la fai tu, la trattativa».

«Ancora? Cheppalle. Sei proprio un ragazzino, un niño. Ma di che hai paura? Che ti mangi vivo? È anche disabile».

«Cosa?»

«Disabile, handicappato, paralizzato, do you understand? Mi ha chiesto se poteva salire in ascensore con la sedia a rotelle, per fortuna la cabina è abbastanza grande».

«E perché non me l'hai detto prima?»

«Boh, mi sarò dimenticata e del resto non mi sembra fondamentale, mica dovete giocare a tennis... Oh, Signore come sono in ritardo».

Amparo lancia un'occhiata al Rolex tempestato di diamanti, squittisce, agguanta la borsa, lancia un bacio a Omar e sfarfalla via lasciandosi alle spalle un lieve effluvio di Chanel N° 5 e le occhiate concupiscenti del suo compagno che, dopo tanti anni insieme, ancora la guarda come un tredicenne in fregola. Molte sue amiche potrebbero uccidere per un uomo così.

Rimasto solo, Omar si versa due dita di Bushmills, accende una sigaretta e sprofonda nella sua poltrona preferita.

Questione numero uno: Diana.

Qualche scopata in ufficio va bene, soprattutto in un periodo di magra coniugale, ma la segretaria sta diventando appiccicosa, gli fa le smorfiette, lo chiama amore e comincia pericolosamente a cianciare su quanto sarebbe bello stare sempre insieme, uscire alla luce del sole come una vera coppia, condividere il quotidiano e bla bla bla. È ora di togliersela dai piedi: una bella liquidazione e una raccomandazione per un altro impiego per tapparle la bocca e addio. Sta per diventare padre, ama la sua donna e non può permettersi casini. E poi, anche se non lo ammette neanche a se stesso, quella relazione comincia a farlo sentire in colpa e gli mette un filo di strizza: se Amparo la scopre come minimo gli cava gli occhi. Stop, chiuso, finito.

Questione numero due. Paolo Agostinelli.

Omar non s'è informato solo tra galleristi e mercanti d'arte, ha fatto un giro di telefonate ai suoi vecchi camerati per sentire se qualcuno lo conosceva. Niente. Peccato non aver potuto specificare che è sulla sedia a rotelle.

La cosa dovrebbe rassicurarlo e invece, in qualche modo, lo inquieta.

Un collezionista d'arte paralitico che spende ottantamila sterline per un quadro? Ma sì, perché no? Amparo ha ragione, deve cominciare a conoscere il giro se vuole collaborare a mandare avanti la galleria e questo è un ottimo inizio.

Finisce il whisky, resiste alla tentazione di fare un bis e, a buon bisogno, apre il cassetto, controlla che la Kimber sia carica, mette il colpo in canna, richiude il cassetto assicurandosi che scorra bene e non rischi di incastrarsi e si prepara a ricevere il compratore.

Pedsco avanza lentamente sulla sabbia, fluttuando e ondeggiando sui cingoli filoguidati che, da lontano, sembrano sollevare nuvolette di polvere a ogni movimento. Il piccolo robot di fabbricazione canadese raggiunge il punto dell'arenile dove gli artificieri hanno scavato la sabbia tutt'intorno all'ordigno semiseppellito vicino alla prima fila di ombrelloni. La torretta ruota di 340 gradi mentre uno dei quattro bracci metallici si allunga verso la bomba, la afferra e la soppesa con l'artiglio, la pinza fissata all'estremità.

La piccola folla tenuta a distanza di sicurezza dalle transenne bianche e rosse trattiene il fiato. Meglio che al cinema, altro che Guerre stellari.

L'artificiere, bardato come un cavaliere medievale, che suda e soffre sotto le massicce protezioni in kevlar, controlla sul monitor che l'obiettivo sia stato inquadrato e preme il pulsante. Dai cannoncini del robot esplodono due getti d'acqua a milleduecento chili di pressione per centimetro quadrato che distruggono l'ordigno in un attimo.

Pedsco torna indietro cigolando sulla sabbia mentre qualcuno applaude e i fotografi, a distanza, spianano teleobiettivi grossi come mortai. L'artificiere si alza, arranca faticosamente sull'arenile affondando fino alle caviglie a ogni passo, si china su quello che resta della bomba muovendosi addirittura più rigidamente del robottino, solleva l'ordigno, fa il gesto di ok rivolto ai colleghi rimasti indietro e torna al suo posto col suo bottino.

Antonello Messina scuote la testa nauseato. Una sceneggiata totalmente inutile ma gli ordini sono ordini: il Provinciale decide che il robot deve intervenire, visto che sul posto sono arrivate più telecamere e macchine fotografiche che alla prima serata del Festival di Sanremo? E robot sia. Teoricamente sarebbero gli artificieri a decidere come operare sul posto: quel gruppo di specialisti un po' fuori di testa in cui tutti se ne fregano delle gerarchie, si danno del tu tra loro incuranti dei gradi e si considerano un mondo a parte ma, anche loro, hanno le bande rosse sui calzoni e, quando da piazza di San Lorenzo in Lucina parte un diktat che rimbalza al comando del Gruppo di Ostia, sono costretti a sbattere i tacchi e rispondere signorsì.

«Era inattiva?». La voce di Ranieri Cafasso strappa il colonnello alle sue cupe riflessioni sull'influenza dei media sulle decisioni operative che dovrebbero essere esclusivamente tecniche.

«Sì. Mancava l'innesco, avrebbero potuto prenderla a calci, non poteva scoppiare anche se la dinamite è vera».

Cafasso annuisce e si accende una sigaretta. Ha ricominciato da poco ma sta riguadagnando in fretta il tempo perduto e veleggia già sul pacchetto al giorno.

«Così sarà molto più difficile trovare qualche indizio... ammesso che ce ne fossero. Il marzianetto deve averla distrutta», commenta nauseato. Il suo superiore fa un gesto rassegnato che significa tutto e mette fine a ogni altra lamentela.

«I nostri amici della stampa avranno di che divertirsi...», depreca Cafasso.

«Già. Credo che organizzeranno qualcosa a Roma, un incontro coi cronisti e una gran sceneggiata... meno male, così ce li tolgono di torno».

«Concordo, signor colonnello. Quel Davide Vincenzo del "Messaggero" non mi dà tregua. Tra un po' me lo ritroverò anche in camera da letto».

«È un rompicazzo ma se non altro è corretto, Cafasso. Comunque la linea è niente indiscrezioni ai giornalisti su questa storia. Ci pensa l'ufficio stampa del comando».

«Per me va benissimo, non li sopporto».

Messina sospira e pensa che il capitano non sopporta un sacco di cose: i cronisti, il maresciallo Pettisi, la sciatteria, il disordine, gli ordini insensati, le sceneggiate uso stampa, i superiori incompetenti... Quando avrà un castelletto sulle mostrine accanto alle stellette dovrà ammorbidirsi un po' per forza di cose. Se Cafasso non fosse così rigido, probabilmente, glielo direbbe lui stesso, parlandogli quasi come un padre, ma sa che la risposta sarebbe solo un "signorsì signor Colonnello" e quindi lascia perdere. Ci penseranno il tempo, le delusioni e l'esperienza.

«Allora, Cafasso, cosa sappiamo?»

«Si è trattato di un gesto intimidatorio, molto ben architettato, signor colonnello... L'ordigno dev'essere stato piazzato durante la notte e alle 10:45, quando lo stabilimento era già pieno di gente, una telefonata anonima al 112 lo ha fatto ritrovare. Il chiamante parlava da una cabina del lungomare, voce maschile con un forte accento romanesco. Ha fornito all'operatore indicazioni molto precise su dove era stata piazzata la bomba e ha riagganciato».

«Mmm». Antonello Messina approva mentalmente il rapportino stringato e preciso. «E che mi dici del titolare? L'abbiamo già sentito?»

«Sì, signor colonnello. Si chiama Matopi Luigi, anni cinquantadue, inteso Topo Gigio. Incensurato, nubile, mai controllato assieme a pregiudicati. Un imprenditore pulito, almeno stando alle nostre risultanze. Oltre allo stabilimento ne gestisce un altro, un paio di ristoranti qui a Ostia e un bar a Mostacciano, dove risiede. Se ne sta occupando il maresciallo Pettisi».

«E che ci dice, il nostro Topo Gigio?»

«Niente, signor colonnello, o almeno niente di utile. Sembra sconcertato e terrorizzato. Sostiene di non aver mai ricevuto minacce o richieste di pagare il pizzo, di non occuparsi di politica e di non avere nemici. Secondo Pettisi se la sta facendo sotto, se mi permette l'espressione».

«E lo credo bene. Un chilo di dinamite, innesco o no, non è roba da teppisti di strada. Una bomba in pieno giorno, che blocca mezzo quartiere e semina il panico... Troppo eclatante».

«Lo penso anch'io, signor colonnello. Il tizio è finito nel mirino di gente pericolosa, questa non è la solita minaccia per costringerlo a sganciare una bustarella. C'è sotto qualcosa di molto più grosso».

«Qualcosa e qualcuno... I Daga per esempio?»

«Potrebbe essere, signor colonnello. Anche perché, stando a certe voci raccolte da Pettisi, il Matopi era il prestanome preferito di Salis Pietro e i locali che gestisce, in realtà, erano del Cattivo».

«E con il Salis passato a miglior vita è rimasto senza protezione. Sì, da questo punto di vista tutto torna eppure qualcosa non mi convince».

«Neanche a me, signor colonnello. Troppo clamore. C'è ancora qualche elemento che ci sfugge».

«Vediamo di scoprirlo, Cafasso... E ovviamente marchiamolo stretto, 'sto Topo Gigio».

«Naturalmente, signor colonnello».

I due ufficiali si aggiustano le divise estive e si preparano ad affrontare l'arrembaggio dei giornalisti senza dire una parola. Mischiato tra la folla dei curiosi, in maglietta, bermuda e zoccoli di gomma, Consiglio Daga li vede infilarsi in una gazzella, accerchiati dai cronisti vocianti, e fa un ghigno da lupo.

Sala intercettazioni della questura, secondo piano, interno giorno. Un grande stanzone con quaranta postazioni dove siedono altrettanti poliziotti in borghese, la cuffia sulle orecchie, intenti ad ascoltare, decifrare, registrare le conversazioni rubate ai sospettati. Ciascuno ha due registratori davanti: quello a sinistra, intoccabile, è riservato alla procura e non si può manovrare in alcun modo: i discorsi carpiti e spediti alla magistratura devono essere intatti per diventare una prova. Quello a destra, invece, è per la polizia: gli agenti tornano indietro, riascoltano, cercano di eliminare i rumori sullo sfondo, si scervellano per decrittare allusioni, sottintesi, indicazioni camuffate, frasi in dialetto stretto o in lessico malavitoso. Le spedizioni di hashish, eroina o cocaina possono diventare meloni, bottiglie di vino, biglietti del cinema, le armi si trasformano in castagne, ghiande, bambole, le puttane arrivate dall'Est si reincarnano in cavalli, macchine, motorini. La fantasia dei malavitosi non ha limiti. I poliziotti devono isolare i discorsi sospetti, capirli, tradurli in italiano, segnalarli, estrapolarli in un mare di banalità.

Gli agenti in ascolto vengono dalla Digos, dalla mobile, dalla Criminalpol o, più raramente, dai commissariati e, con pochissime eccezioni, detestano cordialmente quello che fanno: è un lavoro lungo, tedioso, monotono che molto spesso ti costringe ad ascoltare dialoghi inutili, commenti sul calcio, scenate coniugali e la noia, a volte, rischia di farti distrarre e di farti scappare la frase rivelatrice, il passaggio che conferma un sospetto, l'indizio di un reato.

Pierfrancesco Asti è già sulla soglia della saturazione visto che i due calabresi che sta virtualmente spiando da ore di tutto chiacchierano meno che della partita di coca che dovrebbe arrivare domani a Fiumicino. Il telefono sulla consolle lo fa sobbalzare proprio mentre uno dei sospettati si dilunga sull'impepata di cozze che ha mangiato ieri da Ezio alle Scalette.

«Asti, sono il dottor Satta». Il capo della mobile in persona, grane in arrivo.

«Dica, dottore...».

«Vieni un attimo, per favore».

Mezz'ora dopo, il poliziotto scende le scale diretto in procura. A piazzale Clodio c'è un'altra sala registrazioni, quasi identica a quella di San Vitale, riservata alle indagini più delicate e riservate e quella che gli è stata appena appioppata lo è, eccome. Se non altro Pierfrancesco Asti la smetterà di sentirsi sciorinare le delizie di tutti i ristoranti di pesce di Roma.

Attraversa il cortile e quasi va a sbattere contro un amico di vecchia data. Andrea Basilici, il Vermilinguo del commissariato di Ostia, è appena approdato in questura per uno di quegli incarichi di routine fatti apposta per arrivare a fine orario senza praticamente muovere un dito: ritirare le disposizioni per l'ordine pubblico del giorno dopo che, quotidianamente, vengono spedite a tutti i commissariati di Roma: un viaggetto andata e ritorno, cercando di metterci il più possibile, quattro chiacchiere coi colleghi, caffè, sigaretta e le sei ore sono belle e passate. Classica, rassicurante, routine poliziesca.

«Ue', Andrea, come va?»

«Da povero vecchietto...».

«Figurati, e chi t'ammazza? L'aria di mare ti fa bene, stai una favola».

«Tiro avanti... Tu?»

«Solito... Sto andando in procura».

«Ma un caffè ce lo facciamo?»

«Sicuro».

Al bar del piano terra i discorsi sono praticamente fossilizzati: calcio, famiglia e la stronzaggine dei superiori. Visto che la Lazio, domenica scorsa, ha beccato tre pallini dalla Juve, Basilici si ingoia la sua brava razione di sfottò, paga il caffè e cerca di passare ad altro.

«Sai che è tornato Antonio Assisi? L'avevano sfanculato ma ce lo siamo ritrovato di nuovo lì... Comunque c'è di peggio. Quello di prima era un rompicazzo stratosferico, almeno con questo si ragiona».

Pierfrancesco Asti lo guarda strano, che più strano non si può.

«Sapessi una cosa...».

«E dimmela».

«Col cazzo. È riservata».

«E dài, siamo amici, no? Mi conosci, sono una tomba».

Asti esita un attimo ma ha già capitolato. E del resto Basilici è quasi un fratello, si conoscono da sempre, si capiscono al volo anche se, come praticamente tutti i poliziotti di Roma, si vedono pochissimo.

«Giura che non fai lo stronzo, neanche una parola con nessuno... Io non ti ho detto un cazzo».

«Eccheppalle, va bene, giuro».

«Accompagnami fuori».

I due poliziotti escono dal portone con aria da cospiratori. Asti prende il collega per un braccio.

«Ma che cazzo sta succedendo da voi?»

«Perché?»

«Il tuo dirigente è sotto schiaffo. È lui che stanno intercettando... Mi mandano in procura per questo».

«Assisi?»

«No, Maradona. Proprio il tuo caro Assisi... Oh, mi raccomando».

Andrea Basilici fa il gesto di cucirsi la bocca con le mani, saluta con una pacca sulle spalle, promette una rimpatriata in pizzeria che non avverrà probabilmente mai e s'affretta a salire sulla macchina di servizio gongolando.

Quando sai qualcosa che può salvare il culo al tuo capo hai due scelte. Fai finta di niente e lo lasci affondare, cercando di tenerti il più possibile a distanza, o la usi per guadagnarti benevolenza, gratitudine e favoritismi.

Andrea Basilici, la lingua più lunga di Ostia, la sua scelta l'ha già fatta.

 

 

 

 

Capitolo XII

 

«C'è l'Iraniano che je guarda le spalle... E pure er Bufacchio».

Momento di riflessione. Giro di birra e sigarette. Strategie da inventare.

Consiglio, Marcello e Romolo Daga, il triumvirato del clan in riunione. In teoria Consiglio sarebbe una sorta di primus inter pares, in realtà comanda lui: gli altri due, suo fratello e suo cugino, ascoltano, propongono, obiettano e, alla fine, obbediscono.

Ma ora sono tutti e tre ugualmente indecisi sulla prossima mossa. La bomba allo stabilimento ha funzionato solo a metà: Topo Gigio è nel panico ma, a quanto sembra, non è ancora disposto a cedere e, poche ore dopo che l'arenile è stato finalmente sgomberato, ha assoldato due guardie del corpo: er Bufacchio è un ex pugile grosso come un armadio a quattro ante, incazzoso come una iena, famoso per gli scatti d'ira, le risse e le devastazioni, che fa il buttafuori part time ma, a parte i pugni, non sembra particolarmente pericoloso: saper stendere chiunque con un diretto da KO serve a poco contro una calibro 9x21. A quanto se ne sa, er Bufacchio non ha mai sparato a nessuno: si fida troppo della sua mole e della sua forza fisica. Quindi non è un problema.

L'Iraniano è tutta un'altra storia.

Una storia maledettamente pericolosa.

Secco, legnoso, un metro e settanta di altezza al massimo, un viso da falco predatore che sembra intagliato col bulino, due occhi di ghiaccio totalmente inespressivi, è approdato a Ostia tre anni prima e tutti hanno capito, fin dai primi giorni, che era meglio non andarlo a stuzzicare. Ex militare, ex dissidente del regime degli ayatollah, avrebbe partecipato ad azioni di sabotaggio e guerriglia in montagna prima di espatriare e una delle tante storie che circolano su di lui è che la sua famiglia sia stata completamente sterminata e che abbia scovato e ucciso gli assassini a uno a uno, con calma, nel giro di due settimane. Vero o falso che sia, l'Iraniano è una specie di leggenda nera. Le voci di mala gli attribuiscono due omicidi e innumerevoli ferimenti sempre a pagamento. È un sicario di professione, una figura rarissima nella criminalità italiana, che si vende al miglior offerente ma, una volta ingaggiato, fa il lavoro e resta leale come un samurai. Non teme nessuno e i tre clan del litorale non se ne sono mai serviti ma, spesso, viene convocato dalle cosche calabresi o napoletane per un incarico in trasferta: parte, sta via qualche giorno e torna. Non ha famiglia, non ha amici e l'unico modo di fermarlo è ammazzarlo, ammesso che qualcuno ci riesca. La lacrima che si è fatto tatuare sotto l'occhio sinistro conferma che in passato ha perso qualcuno che gli era caro. Per il resto non ha mai parlato con nessuno della sua vita e del suo lavoro. Tutte le storie che raccontano su di lui sono dicerie e nessuno ha voglia di controllarle. Meglio lasciarlo stare.

Insomma, una brutta gatta da pelare.

«Dev'essergli costato un botto», commenta Romolo, il fratello di Consiglio che, da bravo galletto di ventitré anni, non riesce a nascondere l'ammirazione per un tipo simile.

«Be', i sordi nun je mancano di sicuro», taglia corto Marcello.

«Venti mijardi, ce pensate?», si estasia Consiglio che, Iraniano o no, non ha la minima intenzione di rinunciare a metterci le mani.

«E quello l'ha tenuti inguattati per tutto 'sto tempo, nun ce se crede...».

«Puro quando er Cattivo stava in galera...», trasecola Marcello.

«Si ero io, pijavo tutto e via... Sai quanno me ritrovaveno? Me n'annavo 'n Messico o in Bolivia, tutta vita... Spiaggia, fica, tutto er giorno senza fà un cazzo», s'illumina Romolo.

«Ma che ce so' le spiagge, in Bolivia?»

«Cazzo ne so? Credo di sì... Boh».

«Nun sai mai un cazzo, sei ignorante, è questo er problema tuo».

«Ha parlato er professore... Manco le medie hai fatto».

«Armeno 'a giografia la conosco, in Bolivia er mare nun ce sta».

«E sticazzi, vor dì che me n'annavo in Cile».

«E fatela finita, porcocazzo, sete peggio dei regazzini». Consiglio cala un pugno sul tavolo da far cadere le birre perché se quei due cominciano a sfrucugliarsi non la finiscono più visto che si divertono da matti a punzecchiarsi di continuo.

«Cercamo de ragionà. I sordi ce so' tutti di sicuro. Topo Gigio è un cacasotto, nun avrebbe preso un centesimo ar Cattivo, se contentava de quello che je passava lui. Er problema è scoprì dove l'ha inguattati».

L'idea dei Daga, all'inizio, era semplice: dopo l'intimidazione della bomba, si sarebbero ripresentati a casa di Topo Gigio, ormai terrorizzato, e l'avrebbero costretto a svelare dove si trova il bottino. Di sicuro non ci sarebbe stato neanche bisogno di usare le maniere forti e non avrebbero rischiato neanche una denuncia, un po' per la strizza di ritorsioni e un po' per il fatto che Topo Gigio, parlando con le giuste, avrebbe accusato se stesso di ricettazione e svelato troppi segreti del passato. Alcuni uomini di Salis sono ancora vivi e liberi e di sicuro non avrebbero gradito. Neanche gli ex terroristi, se per questo: Topo Gigio avrebbe tenuto la bocca cucita.

Torturarlo e ammazzarlo come Scrocchiazeppi? Era l'ultima possibilità, la mossa disperata, perché a Ostia si sono accumulati fin troppi cadaveri, negli ultimi tempi e, quando il clamore è eccessivo, guardie e carabinieri hanno l'antipatica tendenza a rivoltare il quartiere come un guanto, cosa che non giova agli affari. E poi l'omicidio di un barabba come Scrocchiazeppi è una cosa che può passare quasi sotto silenzio, ma quello di un imprenditore incensurato è un'altra faccenda. I giornali fanno un casino e le divise s'ingrifano.

Comunque sia, adesso c'è l'Iraniano che veglia su Topo Gigio e bisogna inventarsi un piano B. Un approccio diretto rischia di trasformarsi in un bagno di sangue e venti miliardi non valgono la pelle di Consiglio, Romolo e Marcello.

«Je dovemo mette una strizza che nun campa più... Deve venì lui a cercà noi co' li sordi in mano pe' facce smette», decreta Consiglio.

«Vabbè, ma come?»

«Mo' ve lo spiego. Cominciamo stanotte».

Lingue di fuoco alte cinque metri che danzano nel buio. Una colonna di fumo nero che si alza da via Bocche di Bonifacio alle 3:30 di stanotte seguita dalle esplosioni di almeno tre bombole di gas. Decine di vigili del fuoco che hanno lavorato fino al mattino per spegnere le fiamme ed evitare che si propagassero agli edifici vicini. Scene da inferno di cristallo e un sospetto inquietante: è bruciato come una torcia il ristorante Il Faro, intestato a Luigi Matopi, l'imprenditore titolare dello stabilimento La Paranza, dove, due giorni fa, era stato fatto ritrovare un ordigno inattivo composto da un chilo di dinamite, ma privo di innesco. Gli investigatori non si sbilanciano ancora sulle cause del rogo ma, almeno in questa fase, ipotizzare una coincidenza rasenta l'assurdo. Matopi è stato ascoltato per tutta la notte dagli agenti di Antonio Assisi, dirigente del commissariato Lido di Ostia e...

Già, che cazzo ha detto? A saperlo.

Davide Vincenzo smette di mitragliare sulla tastiera, si stropiccia gli occhi arrossati e sbadiglia, esausto. La notizia l'ha buttato giù dal letto poco prima delle quattro, s'è precipitato sul posto assieme al fotografo e c'è rimasto fino alle otto poi, prima di andare in redazione, è tornato a cassa, s'è buttato sul letto e ha cercato inutilmente di riguadagnare un po' di sonno. Niente da fare, tra caffè e agitazione non è riuscito a chiudere occhio e, dopo aver cincischiato inutilmente, s'è fatto una doccia, è andato al giornale e si è preparato ad affrontare un'estenuante giornata di lavoro. Ma adesso è bloccato e non ha idea di come andare avanti.

«Capo, posso chiederti una cosa?»

«Ai tuoi ordini, Tapiro».

«Piantala co' 'sto Tapiro... Non riesco a parlare con quella testa di cazzo di Assisi, al commissariato non me lo passano e nessuno mi dice niente... Non è che tu, magari, potresti fare una telefonata? Di sicuro non ti trattano a pesci in faccia come il sottoscritto».

«Il problema con voi pivelli è che non sapete allacciare i contatti giusti con le fonti. Che vuoi sapere?»

«Che dice il titolare del ristorante. Questo mi manca. Lo stanno torchiando da ore, magari va a finire che l'arrestano per favoreggiamento se non fa il nome di chi lo sta tenendo sotto tiro. Me la dai una mano, please?»

«Vabbè, ci provo, disutile e incapace ragazzotto che mai e poi mai diventerà un giornalista vero. Lascia fare al tuo riverito mentore, sempre pronto a cavarti le castagne dal fuoco e preparati a pagarmi una lauta cena con il tuo primo stipendio, nel caso quasi impossibile che un giorno tu venga assunto».

«Grazie capo, anche se mi sa che quando m'assumeranno sarai già morto e sepolto».

Il caporedattore si gratta doverosamente i testicoli ma prende il telefono.

Il nome di Giulio Destri, decano del giornalismo del litorale, apre tutte le porte e perfino un Antonio Assisi, preoccupatissimo per la notizia che gli ha portato Vermilinguo e incasinato con la storia dell'incendio, non può rifiutarsi di parlargli.

«Dimmi, Giulio, ma datti una mossa che sto impicciato blu».

«Me lo immagino... Grazie di avermi risposto. Chiamo per la faccenda del Faro, come puoi immaginare».

«Be', una cosa te la posso dire, è doloso».

«Ma va'? Chi l'avrebbe mai detto...».

«Per adesso non è ufficiale, quindi non mi citare ma i vigili hanno trovato tracce di accelerante in tre punti diversi del locale. Gli incendiari hanno rotto una finestra, hanno buttato dentro la benzina e ne hanno cosparso anche l'ingresso e l'uscita sul retro, poi hanno appiccato il fuoco. Un lavoretto da professionisti».

«Grazie, Antò, a buon rendere. E Topo Gigio che dice?»

«Matopi? Il titolare? Lo stiamo interrogando adesso, se vuoi ci sentiamo dopo».

«Ma sono ore che lo tenete lì, non è che esce in manette?»

«Te l'ho detto, lo stiamo ascoltando. Non farti un film in testa, è una cosa lunga... Ti richiamo io nel primo pomeriggio, adesso scusami...».

«Va bene, grazie, a dopo, cià».

Antonio Assisi butta giù il telefono, s'asciuga il sudore dalla fronte e decide di tornare nella stanza dell'ispettore Basilici dove un Topo Gigio sull'orlo dell'isteria sta chiedendo disperatamente di lui da ore e rifiuta di parlare con chiunque altro nonostante urla, minacce di incriminazione e pugni sul tavolo.

Prima di prendere la giacca, Assisi si guarda intorno sospettoso chiedendosi dove avranno piazzato i microfoni per spiarlo: nel lume? Sotto il telefono? Dentro una presa di corrente?

L'ispettore Basilici gli ha dato la notizia praticamente in diretta, appena tornato dalla questura e prima ancora che le intercettazioni iniziassero. Col suo tradimento, Vermilinguo s'è guadagnato una posizione di totale predominio su tutto il commissariato: in pratica fa quello che gli pare, va e viene a piacimento, si sceglie gli incarichi, decide da solo giorni di permesso e date delle ferie: un topo in un caseificio. Per Assisi è tutta un'altra faccenda: impedire di piazzare i microfoni è fuori questione visto che un commissariato è un porto di mare e tra poliziotti, operai, tecnici e visitatori chiunque potrebbe essere una spia della procura. E del resto la tattica migliore è far finta di nulla, comportarsi normalmente, evitare di compromettersi e aspettare che la buriana passi. Da funzionario esperto, Assisi sa bene che l'inchiesta su un poliziotto non può andare avanti per mesi: troppi rischi. O si trova subito qualcosa o la storia finisce lì, quindi è questione di tempo ma, da quando ha saputo di essere sotto sorveglianza, sta diventando paranoico: in strada ha l'impressione di essere pedinato, controlla ogni giorno le serrature della macchina cercando segni di effrazione e qualunque faccia sconosciuta che incontra gli sembra sospetta. Nel suo ufficio parla il meno possibile ed evita qualsiasi conversazione compromettente. Per questo un campanello d'allarme mentale gli dice che è meglio interrogare questo Luigi Matopi in un'altra stanza, anche se non lo ha mai frequentato e non ha mai fatto impicci con lui.

Topo Gigio non è un bello spettacolo: tremebondo, sporco di fuliggine, terrorizzato, sfiancato da ore di domande a cui ha risposto solo col ritornello: "voglioparlarecoldirigente", lo vede entrare e quasi si mette a piangere dal sollievo.

«Grazie, dottore... devo dirle una cosa».

«E non può dirla all'ispettore?»

«No, mi perdoni ma... insomma, solo con lei».

Assisi lancia un'occhiata eloquente a Vermilinguo che si alza lentamente, incenerisce Matopi con uno sguardo ed esce.

«Allora? Spero che abbia un motivo valido, potremmo già accusarla di reticenza».

«Mi deve perdonare, dottor Assisi, ma è una faccenda troppo delicata. Vede, io ero in affari con Pietro Salis».

Assisi si irrigidisce al nome del Cattivo ma gli fa cenno di continuare. L'ufficio di Basilici è sicuro, di sicuro nessuno sta intercettando anche l'ispettore, ma è meglio non compromettersi.

«Ecco... insomma... So che lei e Pietro eravate... come dire? Amici. Sa, io mi occupavo di diverse incombenze e tra le altre cose ho preso in affitto, su incarico di Salis, quell'appartamento dove lei... Ci siamo capiti».

La faccia di Antonio Assisi è di marmo. Ma, visto che è possibile che l'omuncolo abbia in mano qualche elemento di prova sui suoi intrallazzi passati con il Cattivo, evita di tappargli la bocca a sganassoni e gli fa cenno di continuare.

«Vede, dottore, Salis si fidava di lei. Diceva sempre che è una persona con cui si può ragionare, che capisce certe cose. Adesso sono in una bruttissima situazione, come sa bene, e Pietro non c'è più. Non so a chi altro rivolgermi, quelli prima o poi riusciranno ad ammazzarmi e io ho paura».

«Quelli chi? Chi è che la sta perseguitando?»

«I Daga, dottor Assisi, come vede sono sincero con lei. Ce l'hanno con me, sono venuti a casa mia a minacciarmi, poi hanno messo la bomba allo stabilimento e adesso hanno bruciato il ristorante. Sono stati loro, sempre loro. Quelli non scherzano, sto rischiando la vita e solo lei mi può aiutare».

«E perché ce l'hanno tanto con lei? Vogliono una tangente?».

Topo Gigio tira un lungo sospiro e passa il Rubicone. Alea iacta est.

«No, dottor Assisi, non si tratta di questo... È più complicato. Se ha un po' di pazienza devo raccontarle una lunga storia».

«Buongiorno dottor Ansaldi, lieto di conoscerla».

«Piacere mio, signor Agostinelli, si accomodi, prego».

Omar resta sulla porta un po' indeciso: deve aiutarlo a entrare spingendo la carrozzella o fa da solo? Ma il visitatore lo precede e sguscia dentro con la sedia a rotelle con un movimento fluido e sicuro, spingendo le ruote con i bicipiti muscolosi che s'intravedono sotto le maniche della giacca di lana leggera.

Omar lo precede verso lo studio e lo esamina di soppiatto: è un invalido, non un simulatore e su questo non ci sono dubbi. I polpacci scheletrici che escono dai pantaloni di buon taglio, quei muscoli plasmati dal continuo spingere le ruote, il busto massiccio, le spalle poderose ma soprattutto la pelle grigiastra e quell'alone di infelicità rassegnata che lo circonda sono fin troppo eloquenti. È grosso, gonfio, un po' bolso, stravagante col codino candido e la barba fino al mento, la pipa nel taschino e gli occhiali da lettura assicurati con un laccio sul petto gli danno un'aria da professore in pensione, da intellettuale alternativo. Lenti sfumate blu gli nascondono in parte gli occhi. Potrebbe essere un romanziere o uno studioso ma di sicuro non sembra pericoloso. Di fronte a un handicappato, Omar si comporta come chiunque altro e cerca di non guardarlo troppo a lungo e di non far trapelare un'espressione di compassione, distoglie lo sguardo, si dilunga in ciance per mascherare un lieve senso di disagio, s'informa sul viaggio, sull'albergo, sul clima in Italia, su come ha saputo del Manzoni, sui ristoranti dove ha cenato a Londra.

E intanto si domanda cos'è quella sensazione di déjà-vu.

Un vago senso di familiarità. Come un ricordo nebuloso che emerge dal passato.

No, non lo ha mai visto, non ci sono dubbi. E allora perché il suo vecchio sesto senso lo mette in allarme? Sarà la voce, il modo di gesticolare, certe inflessioni romane che stridono con quell'aspetto da intellettuale?

Omar va a preparare il caffè, visto che la dipendente della galleria venerdì non lavora e, mentre armeggia con la moka, cerca di tranquillizzarsi. Che ne sa lui dei collezionisti d'arte? Probabilmente sono tutti un po' bislacchi, altrimenti perché uno dovrebbe spendere ottantamila sterline per una specie di cassetta delle uova che qualunque falegname saprebbe fare meglio?

Mentre torna in salotto col vassoio e lo depone cerimoniosamente su un tavolino di fronte a Pitbull, Omar decide che è venuto il momento di guadagnarsele, quelle ottantamila sterline, mette da parte i sospetti ed entra in modalità gallerista d'arte.

«Allora, signor Agostinelli, vogliamo parlare del quadro?»

«Sono qui per questo».

«Be', lo guardi con tutta calma, eccolo lì».

Il disabile si avvicina al Manzoni, lo esamina a lungo con aria competente, fa qualche commento sul fatto che uno dei lati è leggermente ingiallito e che, probabilmente, occorrerà un piccolo restauro, cosa su cui Omar non sa assolutamente come replicare ma che, di sicuro, abbasserà il prezzo.

«Se non sbaglio lo sfondo della cornice dovrebbe essere blu... È stata rimaneggiata?».

Omar si morde la lingua e rimpiange di non aver fatto un corso full immersion su Pietro Manzoni, di cui sa solo che ha avuto la faccia tosta di vendere la sua merda d'artista in un barattolo guadagnandoci anche un botto di soldi e farfuglia la prima cosa che gli viene in mente.

«Be', signor Agostinelli, nel catalogo non c'erano cornici blu... Forse si confonde».

«Potrei sbagliarmi... A ogni modo l'opera mi interessa. Qual è la vostra quotazione?»

«Ampa... cioè noi, io le la mia socia lo valutiamo centomila sterline ma non abbiamo considerato il restauro quindi potremmo venirle un po' incontro... Diciamo novantamila? In fondo ci fa piacere che il quadro vada a un nostro connazionale anche se la mia compagna è spagnola».

Il collezionista esita, come se stesse considerando una controfferta e si prende il mento tra pollice e indice della mano destra nella classica posa del pensatore. La manica della giacca scivola leggermente in basso scoprendo un avambraccio da marinaio e in quel momento Omar lo vede.

Un tatuaggio blu quasi completamente scolorito.

La croce celtica di Ordine Nuovo.

Omar sente una scarica elettrica che gli attraversa tutto il corpo mentre riconosce all'istante il visitatore.

«Tu... tu sei Pitbull».

Pitbull risponde con un sorriso satanico, estrae fulmineamente la cerbottana da sotto la giacca e soffia con tutta la forza dei suoi polmoni. Il dardo d'acciaio con la punta intrisa di veleno e un piccolo impennaggio di cartone a cartoccetto fissato col mastice vola verso Omar come un missile in miniatura alla velocità di sessanta metri al secondo.

 

 

 

 

Capitolo XIII

 

«Fermi un momento, per favore, mi aspetti qui... Devo prendere una cosa, questione di due minuti».

Il tassista sikh risponde con un grugnito e scuotendo la testa nel gesto che in tutto il mondo significa "no" e solo in India "sì" accosta il grosso taxi nero londinese accanto al marciapiede. Amparo scende al volo, entra nell'enoteca, fa scorrere velocemente lo sguardo sulle bottiglie di champagne, sceglie la più costosa (cinquanta sterline, un autentico furto con destrezza), se la fa incartare, paga, torna velocemente nel taxi e guarda l'ora.

Incredibile, sono solo le 17:30. Pensava di passarci il pomeriggio intero, dalla ginecologa, e invece la paziente precedente non è venuta, la visita con ecografia è stata una faccenda rapida e, per una volta, il centro di Londra non è il solito blocco compatto di traffico. Omar, probabilmente, starà ancora contrattando con il tizio venuto da Roma. Amparo si domanda se è meglio perdere un po' di tempo, farsi un giro per negozi e presentarsi tra un paio d'ore, ma sa già che non ce la farà e andrà dritta in galleria. Probabilmente è molto meglio così: il suo uomo è ancora abbastanza imbranato, in materia di compravendita di opere d'arte e, di sicuro, in due riusciranno a spuntare un prezzo più alto. Pancione di sei mesi o no, sa di avere ancora abbastanza fascino e sex appeal per convincere qualsiasi uomo a fare quello che vuole: il compratore non farà eccezione.

Ma la vera ragione è che non vede l'ora di incontrare Omar. E di dirglielo. Appena il compratore si sarà levato dai piedi, ha intenzione di organizzare una piccola cenetta romantica a due, fare uno strappo alla regola, bere un bicchiere di champagne e concludere degnamente la serata tra le lenzuola anche se il suo desiderio, con l'avanzare della gravidanza, si è notevolmente attenuato.

Se vuoi tenerti stretto un uomo fallo felice in due modi: tavola e letto. La zia Julia, l'indipendente, la spregiudicata, l'unica divorziata e risposata della sua tradizionalissima famiglia, aveva ragione. Be', stasera Omar avrà anche una terza ragione per toccare il cielo con un dito.

Amparo si rilassa sullo schienale imbottito del taxi, stringe la bottiglia come se fosse un bambino e rivive al rallenty i fotogrammi della visita medica.

Il freddo del gel sulla pancia, la sonda appoggiata sulla pelle nuda, la paura di sentirsi dire che qualcosa non va, che si vede una malformazione, che il bambino ha smesso di respirare, che ha tre gambe e un braccio solo, che sembra un embrione di tirannosauro, che è stata una pazza incosciente a restare incinta alla sua età, che bisogna abortire immediatamente, che...

Poi le parole della dottoressa, il suo sorriso rassicurante, la stretta affettuosa sul braccio, il gesto tipico di spostare all'indietro i capelli sale e pepe. In quel momento le è sembrata la donna più bella, più saggia, più dolce del mondo.

«Va tutto bene, si rilassi... Non vedo niente di anomalo».

Le lacrime di gioia e di sollievo che le sono scivolate sulle guance, la sensazione di essere una perfetta cretina, la voglia disperata di abbracciarla e mettersi a singhiozzare come una bambina.

Invece ha recuperato il suo self control, ha benedetto la ginecologa italiana in grado di capire e condividere le emozioni di una puerpera attempata e terrorizzata e ha trovato la forza di fare la domanda da un milione di dollari.

«Maschio o femmina, dottoressa?»

«Guardi, non posso essere sicura al cento percento, l'ecografo non dà una precisione assoluta ma mi sembra proprio che sia maschio. Diciamo che in base a quello che vedo potrei scommetterci».

Maschio. Strana reazione: misto di gioia e di delusione.

Una femminuccia le sarebbe piaciuta, le avrebbe insegnato i segreti della femminilità, come vestirsi, truccarsi, comportarsi, nascondere una volontà d'acciaio dietro un paravento di grazia, eleganza e arrendevolezza, ne avrebbe fatto un'allieva e una complice, l'avrebbe istruita passo passo nel difficile cammino di una donna che vuole restare sempre autonoma, che non deve mai dipendere da nessuno né economicamente né psicologicamente e che rifiuta senza se e senza ma i ruoli che gli uomini cercano di appiopparle. Per una bambina aveva già scelto il nome: Giovanna, come la ragazza che divenne papa.

Invece è un maschio. Se l'aspettava perché allo specchio si vede sempre più brutta e - stando a quello che raccontavano le nonne e le zie vissute in un'epoca in cui non c'erano ecografie né test clinici e si aspettava fino al parto - è un sintomo sicuro.

Un maschietto. Amparo sorride e trattiene a fatica un altro diluvio di lacrimoni. Un piccolo Omar scatenato. Lo immagina a dieci anni, coi capelli cortissimi, robusto, vivacissimo, incontenibile.

Omar sarà in estasi, è quello che voleva e se Omar è felice anche Amparo lo è.

Cercherà di evitare che il padre lo trasformi in un aspirante ducetto, sorveglierà entrambi con indulgenza materna, si opporrà solo quando sarà necessario, lascerà che Omar gli insegni il pugilato o le arti marziali, li guarderà uscire insieme, eccitati e vocianti, con sciarpe e bandiere per andare alla partita e sarà inflessibile solo su due cose: violenza e politica. Al primo accenno di indottrinamento fascista, Omar dovrà vedersela con lei e non gli piacerà neanche un po'.

Quanto al nome, sa già che sarà una dura battaglia.

Giovanni, perché no? Amparo cerca di ricordare se c'è qualche eroe dell'antica Roma o generale del Fascio con questo nome ma, dato che s'è fissata con i pontefici, le viene in mente solo il papa buono. O magari il santo barbone, vestito di pelle di cammello, che mangia locuste e grida la gloria di Dio nel deserto.

Vabbè, per il nome c'è ancora tempo. Adesso non vede l'ora di dare la notizia a Omar e passare una serata d'amore come ai vecchi tempi. Nel frigo c'è una trota salmonata, uova di quaglia, patate lesse e scampi comprati in mattinata in previsione dei festeggiamenti. Mancava solo lo champagne che non ha comprato prima della visita per scaramanzia.

«Twelve pounds».

La voce di Jajit Singh, l'assurdo nome che ha letto sul cartellino, la riscuote dalle sue fantasie e la fa sobbalzare: non si era neanche accorta di essere arrivata.

Amparo paga, lascia una principesca mancia di una sterlina accolta da un elegante saluto namastè a mani giunte e s'infila in ascensore, domandandosi se il compratore in carrozzina ha avuto difficoltà a entrarci e se è ancora lì.

Topo Grigio.

No, non è un refuso. È grigio come un gatto grigio, come un vestito di tweed, come un pomeriggio di smog. Paura, ansia, preoccupazione, rimpianto.

Sta per dire addio a venti miliardi per salvarsi la buccia e il rimpianto c'è tutto.

Antonio Assisi arriva di notte, in felpa col cappuccio e jeans, dopo un lungo giro di depistaggio che, prima di approdare a Mostacciano, lo ha portato da Ostia alla Garbatella con una deviazione tra i vialoni che s'intrecciano attorno al Fungo e poi di nuovo a sud, guardando continuamente nello specchietto, con un continuo stop and go di soste, occhiate circospette, appostamenti e controlli prima di rimettersi in viaggio. Adesso è ragionevolmente sicuro di non essere pedinato. Due possibilità: la sorveglianza è finita oppure non lo marcano così stretto, il che significa che non hanno poi sospetti così gravi su di lui.

Un poliziotto conosce le tecniche dei poliziotti. E in ogni caso è il momento di osare.

«È venuto solo, dottore?»

«No, c'è la banda della polizia che sta per arrivare... Grazie al cazzo, Matopi, voglio vedere se 'sta storia è vera, prima di coinvolgere il commissariato, e ti avviso fin d'ora che se mi hai raccontato una stronzata te ne pentirai».

«Entri e giudichi lei... Si accomodi».

Assisi lascia la macchina nel garage della villa ed entra nel salone, meravigliandosi della sua sobria eleganza. Evidentemente si guadagna bene a fare il prestanome di un bandito, specie se il bandito in questione si chiamava Pietro Salis.

«Ho disseppellito le sacche due ore fa, le ho solo ripulite dalla terra, non ho toccato niente... Faccia pure». Bufacchio e l'Iraniano non si vedono, appostati fuori dalla villa a fare le sentinelle.

Antonio Assisi fa scorrere la chiusura lampo di uno dei borsoni, lo apre e resta abbagliato. Denaro, gioielli, lingotti, orologi, altro denaro. Il tesoro dei pirati, il deposito di Paperone, la pentola d'oro alla base dell'arcobaleno.

Una fortuna che ti cambia la vita e che ne ha stroncate già parecchie, anche se ha dormito sottoterra per più di dieci anni.

Lo sguardo indagatore del poliziotto è più eloquente di qualsiasi domanda diretta. Topo Gigio si schiarisce la gola.

«Er Cattivo venne da me poco prima di essere arrestato, da solo. Mi disse che dovevo nascondere una cosa, non mi spiegò di che si trattava e non feci domande, tra noi funzionava così... Sì, mi creda, era meglio per tutti e due. Quando Pietro è stato assassinato, i Daga hanno cominciato a perseguitarmi e a quel punto ho fatto due più due, ho collegato le sacche alla morte dei Gemelli e all'arresto di Tortellino, mi sono ricordato di quella vecchia storia del colpo a Marbella e non ho avuto bisogno di aprirle per capire cosa c'era dentro. La metà o forse qualcosa di meno dev'essere andata ai Neri, questa è la parte di Pietro Salis e dei suoi. Intatta, salvo qualche cosa che deve aver dato al Maghetto e alla sua batteria. Non ho preso un centesimo».

Assisi corruga la fronte mentre si domanda se il tizio è un idiota, un codardo o semplicemente un tipo fidato. Probabilmente le tre cose insieme ed è per questo che è ancora vivo.

«Adesso che facciamo, dottore?»

«In che senso, Matopi?»

«Be', ecco... pensavo che... insomma Pietro è morto, Scrocchiazeppi anche, i Neri hanno avuto la loro fetta. Non c'è nessuno a parte i Daga che possa rivendicare questa roba... Magari io e lei potremmo metterci d'accordo e...».

Assisi alza la mano per sferrargli un manrovescio e Topo Gigio si rannicchia tutto, tremando. Sì, un vigliacco di sicuro ma un vigliacco furbo.

«Stammi bene a sentire, Matopi, perché te lo dirò una volta sola. Questo è il bottino di un furto con effrazione in una banca estera. Associazione per delinquere, complicità nel colpo e tutto il resto, se solo decido di denunciarti. Ovviamente il bottino è sotto sequestro e devi ringraziare il cielo se non ti arresto qui e adesso per complicità. Mi sono spiegato?».

Topo Gigio sospira e dice addio ai sogni di ricchezza. Del resto li aveva già abbandonati da quando i sinti l'hanno inquadrato nel mirino.

«Ma come facciamo? Voglio dire... se i Daga scoprono che sono stato io a consegnarli mi fanno la pelle lo stesso, anche se non ho più niente, lei non li conosce quelli».

«Li conosco meglio di te e non mi fanno paura. Non ti preoccupare, a loro ci penso io. E, visto che sei venuto da me spontaneamente, ti voglio aiutare. Farò un verbale fasullo, parlerò di un ritrovamento nella pineta dopo la soffiata di una fonte confidenziale. Con un botto del genere ci crederanno o faranno finta di crederci e io mi beccherò come minimo un encomio».

«Va bene, ma i Daga...».

«Ancora? Ma allora sei di coccio, Matopi. Per i Daga preparerò una favoletta che verrà divulgata in una conferenza stampa. Diremo ai giornalisti che il bottino è saltato fuori a casa di un ricettatore, tanto quelli si bevono ogni stronzata, durante una serie di perquisizioni mirate al contrasto della criminalità organizzata sul litorale dopo i recenti fatti di sangue. Queste cose si fanno di continuo: cosa credi, che noi poliziotti diciamo la verità alla stampa? Servirà ad allontanare i sospetti da te e, comunque, organizzerò un servizio di vigilanza qui alla tua villa e ai locali che gestisci. Sei tranquillo, adesso?»

«Se lo dice lei, dottore».

«Lo dico io e quindi ci devi credere. L'alternativa è che ti arresto, sequestro tutto e ti porto al commissariato in manette. Scegli».

Topo Gigio risponde con una stanca scrollata di spalle come a dire: bella alternativa. Il Roscio sembra molto diverso da come l'aveva descritto il Cattivo. Forse, dopo tanti intrallazzi, ha deciso di rigare dritto. E comunque l'unica cosa che importa è scampare ai sinti.

«Siamo d'accordo?». Assisi gli tende una mano e Topo Gigio la stringe con molto più entusiasmo di quello che prova. Sotto sotto si sente di tradire Pietro Salis e i suoi... Ma perché il Cattivo s'è fatto ammazzare, lui che sembrava invulnerabile?

«Be', non restare lì impalato, aiutami a caricare 'sta roba in macchina».

Dieci minuti dopo Antonio Assisi riparte nel buio di Mostacciano con una fortuna nel bagagliaio della sua vecchia Uno.

«Mi raccomando, dev'essere un cinematografo. Lo vai a prendere in ufficio, lo porti al fotosegnalamento, poi a casa sua, per la perquisizione. Niente sconti, lo devono vedere tutti. Farò trapelare la notizia in modo che un paio di cronisti fidati la sappiano... Lo dobbiamo sputtanare come si deve, ha chiuso».

Nicola Cavallini allunga trionfalmente l'informazione di garanzia a un Ambrogio Satta più immusonito e taciturno del solito, una versione poliziesca della buonanima di Scrocchiazeppi.

«Va bene». Per gli standard odierni del capo della mobile è un lungo discorso. Cavallini sospira.

«Senti, lo so che è un collega e non fa piacere neanche a me ma se l'è cercata... In questo modo ce lo togliamo dalle palle per sempre. E comunque non sarà mai condannato e non andrà in galera, lo sbatteranno in qualche buco fino alla pensione. Alla fine se la caverà con poco».

Satta emette un grugnito d'assenso e, prevedibilmente, tace. La settimana di indagine, come tutti immaginavano, s'è conclusa con un buco nell'acqua. Antonio Assisi non s'è tradito, non ha detto nulla di compromettente, non s'è fatto beccare a intascare mazzette o a intrallazzare con qualche barabba di Ostia. Fosse stato uno qualsiasi, la cosa sarebbe semplicemente finita lì ma, a forza di insistere, Cavallini ha convinto il procuratore a firmare il provvedimento che prevede anche le perquisizioni a casa e in ufficio e, di conseguenza, la fine della sua carriera di poliziotto arrembante. A Cavallini sta benissimo così, a Satta, evidentemente, molto meno ma è per questo che esistono le gerarchie nel mondo. Uno comanda, l'altro esegue e stop.

«Io coi giornalisti non ci parlo». Il capo della mobile è riuscito a tirar fuori ben sei parole, un record.

«Certo che no, ci mancherebbe... Con loro me la sbrigo io. Dài, sono le dieci, a quest'ora sarà sicuramente in ufficio».

Satta si alza con l'entusiasmo di un condannato alla fucilazione, fa un saluto stanco, esce, prende con sé quattro ceffi dell'antirapina coi fratini blu della polizia sopra i vestiti da ultrà e le Beretta infilate direttamente nella cintura, alla messicana, sale su un'autocivetta e fila verso Ostia con l'intenzione di sbrigare il lavoro sporco più in fretta possibile e tornare in ufficio a occuparsi di cose serie, tipo omicidi, rapine, sequestri di persona, violenze sessuali e tutto il pacchetto che Roma non manca mai di offrire alla squadra investigativa.

Tre quarti d'ora dopo si trova davanti a un ufficio vuoto.

«Sono due giorni che non si vede... Ho provato a contattarlo ma...». L'ispettore Basilici ha sgamato al volo e ha capito che la pacchia è finita. Presto dovrà cercarsi un altro protettore e, nel frattempo, i colleghi di sicuro gli faranno scontare tutti i privilegi che aveva conquistato all'ombra del dirigente. Sic transit gloria mundi.

«Due giorni, ispettore? E lei non ha detto niente?». La voce di Satta è un rasoio. «Guardi che se è come penso la pagherà cara».

«Io... Pensavo che... Vuole che lo chiami a casa, dottore?», si offre tanto per mostrare un po' di buona volontà.

«Assolutamente no. Ci andiamo direttamente e... ispettore?»

«Sì?»

«Niente telefonate d'avvertimento, siamo intesi?».

Vermilinguo fa una faccia da martire e annuisce e del resto non ci pensa nemmeno. Quando la nave affonda i topi scappano e quella del vicequestore Antonio Assisi è già colata a picco. Nella Fossa delle Marianne.

L'appartamento da single fresco di separazione, dove Assisi s'è rintanato da due mesi, dopo aver finalmente sbattuto la porta in faccia a quella scassacazzi della moglie e deciso che è meglio pagare gli alimenti che farsi ammorbare per il resto della vita, è a cinque chilometri di distanza dal commissariato: un quarto d'ora in sirena, facendo più casino possibile tra sgommate, derapate, semafori bruciati, manco stessero inseguendo Matteo Messina Denaro. Quando la squadra balza a terra il portiere del palazzo rischia un colpo apoplettico.

«Polizia, squadra mobile. Il dottor Assisi è in casa?»

«No... Non credo... Non l'ho visto... La sua macchina non è in garage».

«Lei ha le chiavi?»

«Sì, quelle di riserva, mi ha chiesto lui di tenerle».

«Ci faccia entrare».

Quando Satta apre la porta, lo scenario è quello che immaginava. Un appartamento deserto, qualche vestito lasciato negli armadi, piatti sporchi nel lavello, odore di sigarette, persiane abbassate. Del vicequestore Antonio Assisi non c'è più traccia.

Ambrogio Satta se ne torna in questura due ore dopo, scornatissimo, visto che nessuno è stato in grado di dargli un minimo indizio di dove sia finito Assisi e ha la bruttissima sensazione d'aver toppato alla grande anche se, in realtà, lui in questa storia c'entra poco e soprattutto non gli è mai piaciuta. Qualcuno che potrebbe aiutare la squadra mobile, in realtà, c'è: ben quattro persone.

Helga Hermann, hostess della Lufthansa, che ricorda benissimo quel passeggero dai capelli color ruggine praticamente abbracciato a un borsone king-size che non voleva neanche depositare nella cappelliera e che non si capisce perché non abbia spedito come bagaglio in stiva. Il tizio s'è scolato cinque mignon di champagne durante il volo in prima classe per Francoforte e sembrava parecchio su di giri.

Gervasio Panaccioni, vigile urbano del comune di Fiumicino in servizio all'aeroporto Leonardo da Vinci, che ha fatto la multa a una vecchia Uno in sosta vietata e ha chiamato il carro attrezzi.

Karl Koffman, barista dello scalo di Francoforte, che ha trasecolato quando un passeggero in transito ha lasciato una mancia da sceicco per un semplice caffè.

Prasad Aggarwal, commesso poliglotta del negozio di orologeria dello stesso scalo che ha dovuto ricorrere a tutto il self control imparato al liceo britannico dove ha studiato, quando un italiano vestito come un commesso viaggiatore ha comprato un Rolex Daytona in tre minuti netti, manco fosse una patacca da bancarella, ha pagato in contante coi marchi appena cambiati, se l'è messo al polso, ha buttato scatola e garanzia nel cestino e se n'è andato a contemplare il tabellone delle partenze.

Dei quattro possibili testimoni soltanto il pizzardone verrà rintracciato e interrogato ma, col solito atteggiamento di indolente sufficienza, a metà tra lo sbirro e l'impiegato comunale, tipico dei vigili di Roma e hinterland, si limiterà a dire che il conducente della macchina non lo ha nemmeno visto, sennò l'avrebbe fatto spostare e si sarebbe risparmiata la fatica di stendere il verbale e chiamare il carro attrezzi, eccheccazzo, l'ha pure dovuto aspettare un'ora e gli è toccato fare lo straordinario.

Fine della caccia, almeno per ora. Almeno per la polizia.

Omar sente una puntura alla base del collo, si strappa il piccolo dardo conficcato nella carne fino all'impennaggio e, per due secondi, pensa che sia uno scherzo. Uno scherzo idiota, infantile, una specie di burla tra vecchi amici che si incontrano dopo tanti anni.

Apre la bocca per dire qualcosa e comincia a sentirsi strano. Il cuore gli batte all'impazzata, la gola gli si stringe, un formicolio improvviso gli invade tutto il corpo, la pelle del viso sembra raggrinzirsi velocemente e la sagoma di Pitbull sulla sedia a rotelle inizia ad apparirgli distante, sfocata, indistinta, come avvolta in una nebbiolina sottile.

Veleno.

Questo pezzo di merda mi ha avvelenato.

Mi ha ucciso.

Si alza dalla sedia con uno sforzo immane mentre Pitbull si tira indietro con un movimento delle ruote che gli sembra fulmineo, capisce che le forze non gli basteranno mai per gettarglisi addosso e strangolarlo a mani nude, barcolla fino al cassetto con movimenti da zombi mentre Pitbull, alle sue spalle, armeggia con la cerbottana e inserisce un altro dardo. Omar non respira quasi più, fatica per non crollare a terra, le gambe di gelatina, apre il cassetto, cerca la Kimber a tastoni perché non riesce a mettere a fuoco la vista, impugna la pistola e si gira nell'istante preciso in cui la seconda freccia intrisa di aconito gli si pianta nella nuca.

Omar cade in ginocchio, fa una mezza giravolta, allunga il braccio all'indietro, preme il grilletto alla cieca. Il proiettile si conficca nel muro alle spalle di Pitbull che si è abbassato su se stesso appena in tempo. Omar cerca disperatamente di prendere la mira per far fuoco di nuovo ma il corpo non gli obbedisce più, la semiautomatica gli sfugge di mano e si rovescia di schiena, a braccia allargate come un Cristo in croce col cuore impazzito, la bocca spalancata che cerca disperatamente di far passare un po' d'aria, un filo di bava che gli cola sul mento.

Pitbull lo guarda morire con uno strano misto di trionfo e rimpianto, poi spinge sulle ruote per avvicinarsi al corpo, osserva gli ultimi spasimi delle gambe, fa per raccogliere la Kimber e, in quello stesso istante, sente la porta che si apre e Amparo che entra allegramente con la bottiglia di champagne in mano.

«Amore sono già tor...».

Amparo vede Omar a terra e Pitbull che si china sulla pistola e agisce senza pensare, come un maestro di kendo.

Mushin.

Impugna la bottiglia come una mazza e la abbatte sulla testa di Pitbull che riesce a schivare con un goffo movimento del torso. La bottiglia gli sfiora il viso e gli si abbatte sulla spalla, fracassandogli un osso della clavicola. Pitbull allunga la mano verso la Kimber ma Amparo, con un calcio, lo spinge di lato e fa ribaltare la carrozzina. Pitbull tenta di puntellarsi sui gomiti ignorando il dolore atroce alla spalla, trascina le gambe inerti sul pavimento mentre Amparo raccoglie la pistola, la punta a due mani e gli spara in faccia. La pallottola calibro .45 ACP lo centra alla bocca, gli fa saltare l'arcata dentaria superiore e gli spappola il cervelletto. Morte istantanea.

Amparo si avvicina con la pistola in pugno, gliela appoggia al torace, preme il grilletto altre tre volte e gli fa scoppiare il cuore già fermo. Overkilling.

Amparo volta le spalle al corpo e alla pozza di sangue che si allarga sul parquet, si lancia su Omar, gli alza la testa, lo bacia, tenta di rianimarlo ma sa già che non c'è niente da fare. Lo abbraccia, singhiozzando, e resta a lungo sul cadavere con la testa vuota e la sensazione che anche lei sta per morire, qui e adesso, anche se è perfettamente illesa.

Dopo venti minuti apre gli occhi e si rende conto di aver perso i sensi. Bacia dolcemente le labbra ancora tiepide di Omar, si asciuga le lacrime ed entra in modalità fuga.