Pietro Salis sbatte giù la cornetta con tanta furia che a momenti scardina il telefono e manda affanculo Gesuino, Mario, i malloreddus, le seadas, i porceddu, i coltelli di Pattada, i nuraghi, i mamuthones, il filu 'e ferru e, insomma, tutto quello che ha a che vedere con quella stracazzo di Sardegna. E sì che lui ne sa qualcosa visto che la sua famiglia viene da Olbia e lui stesso ha attraversato il mare coi genitori quando aveva tre anni. Da Olbia a Ostia. Due consonanti, un altro mondo.
Gesuino è rimasto nel suo. Mario, invece, chissà dov'è finito.
Pietro si corrobora con un bel pippotto robusto, intinge le dita nei residui di cocaina rimasti sullo specchio, le succhia come un gelato assaporando il gusto amarognolo della roba, accende l'inderogabile sigaretta che segue (meglio che dopo il caffè) e cerca di fare il punto della situazione.
Mario è desaparecido. E qualcosa gli dice che non è una fuga d'amore o roba simile. Quel sesto senso che accomuna i malavitosi di stazza e di razza ai poliziotti o ai carabinieri. L'intuizione extrasensoriale che è successo qualcosa di grave, di inderogabile. Qualcosa che potrebbe cambiare tutto.
Pietro non è un samaritano. Degli altri se ne frega alla grande e di certo non si darebbe il minimo pensiero per uno dei suoi che scomparisse nel nulla, se non per rimpiazzarlo immediatamente, ma con Mario è diverso. Mario è suo amico, uno dei pochissimi che ha. Uno di cui si fida ciecamente e con cui ha condiviso un'infanzia di strada, il riformatorio, i primi furti, la scalata verso il vertice della mala, la galera, qualche donna, parecchie sbronze, un numero imprecisato di risse, scazzottate, questioni, fino a quando er Cattivo ha fatto il salto di qualità ed è diventato intoccabile. Mario sempre un passo indietro, sempre vicino, sempre fedele, affidabile, granitico nella sua devozione.
E adesso non si trova più.
Pietro decide che è il momento di darsi una mossa e fa cinque telefonate di fila. Uno dopo l'altro, con una comunicazione di poche parole e senza aspettare la risposta, i responsabili dello spaccio dei quartieri satelliti del suo piccolo impero si ritrovano inderogabilmente convocati per il giorno dopo in sala giochi. A nessuno può neanche venire in mente di rifiutare. Er Cattivo ha parlato, tremate e obbedite.
«Pietro, come stai?»
«Cià, Omare, alla grande, tu?»
«Non mi lamento... senti, pensavo che ci potremmo vedere per quella cosa...».
«Ahó, ma che c'hai er raffreddore co' 'sto caldo che fa?»
«No, mi sono fatto male alla bocca...». Omar porta una mano al labbro tumefatto, spaccato da uno dei pochissimi pugni di Pitbull andati a segno e che gli fa ancora un male boia. Lì per lì, durante la lotta, neanche se n'era accorto. Adesso che ruolo e prestigio sono ristabiliti, vuole stringere il più possibile i tempi del colpo a Marbella anche perché De Signori sta progettando una nuova azione, estremamente eclatante: un attacco diretto e spettacolare a Radio Bandiera Rossa, una delle voci ufficiali delle zecche comuniste. Omar, ovviamente, sarà la guida del commando e non può tirarsi indietro ma, prima di tutto, vorrebbe definire nei dettagli il piano del colpo con Salis.
Solo che Salis fa melina.
Ha annullato un appuntamento, ha promesso di farsi vivo e se n'è ben guardato e anche il tono, al telefono, è quello di uno che vuol tagliare corto. Dannati barabba.
«Ah sì... Me ce vò un po' de tempo, ancora».
«Facciamo la settimana prossima?»
«Sì, no... Cioè, senti, a Omare, mo' sto incasinato co' 'n'artra storia... Damme ancora quarche giorno e poi se organizzamo».
«Stammi a sentire, Pietro, parliamoci chiaro... Vuoi annullare tutto? Non si fa più? Perché se è così è meglio che me lo dici subito chiaro e tondo e ognuno per la sua strada, senza prendermi per il culo, chiaro? Non lo permetto a nessuno, neanche a te».
Pietro sente la minaccia implicita, considera l'idea di incazzarsi e fare una scenata ma ci rinuncia perché, in fondo, Omar ha ragione. Il problema è che lui ha la testa da un'altra parte e la questione Mario Porcu viene prima di tutto quindi...
«Per carità, Omar, la cosa se fa e come... Tranquillo, manzo, ce vo' soltanto qualche giorno de più ma me sto già a organizzà co' le cose che sai. Me devi da scusà ma m'è capitato un imprevisto. Tempo dieci giorni ar massimo risorvo tutto e pensamo alle cose nostre, te sta bene?»
«Capisco. Allora chiamo io tra dieci giorni esatti e fissiamo un appuntamento operativo».
«Me sta bene, scusa ancora, ciao».
«Ciao».
E meno male che questo, almeno, saluta. Gesuino Porcu si fa un dovere di non rispondere mai e di mostrarsi più stronzo e maleducato possibile, come se il fatto che il figlio sia scomparso non lo riguardi minimamente o, peggio, che la colpa sia proprio sua.
Pietro sente una fitta alla bocca dello stomaco. Qualcosa gli dice che presto scorrerà il sangue.
«Me dovete da rivortà tutta Roma. Vojo sapè che cazzo j'è successo e lo vojo sapè subito, chiaro? Nun me ne frega un cazzo de come fate: sentite i papponi, le mignotte, le guardie a busta paga, l'infami, i picchettari, 'sto cazzo che ve s'encula... Nun ve fate vedè si nun c'avete quarche notizia».
Cinque paia di occhi attentissimi. Cinque facce chiuse, comprese, determinate. Cinque barabba di rispetto che se ne stanno compunti e remissivi in attesa degli ordini del capo. Il quintetto di malavitosi più tosti del gruppo Salis pronti a scatenare l'Armageddon sulle tracce del Porcu sparito.
Eccoli.
Er Girello, famoso per i testacoda con la jeep, reggente di Nuova Ostia.
Giacchettone di Acilia, tremendo con la pistola e la lama.
Er Bojaccia, nome che è tutto un programma, signore di Vitinia.
Er Canetto, secco, giallastro, segaligno, torvo, boss dell'Infernetto.
Barilotto, paffuto come un oste di Perugia, occhi addormentati, assassino per vocazione, un morto e tre feriti alle spalle, responsabile della zona residenziale di Casal Palocco.
Ognuno di loro è un gradino sotto a er Cattivo ma neanche si sogna di prenderne il posto. Sanno tutti che morirebbero soltanto per averci pensato.
E adesso, visto che l'udienza è chiusa e le consegne chiarissime, s'affrettano ad alzarsi, salutare, uscire e mettersi al lavoro. La rete d'informatori, soffioni, complicità, amicizie, rapporti d'affari e di convenienza, alleanze più o meno stabili e contatti insospettabili della mala del litorale, sta per essere passata al setaccio da cima a fondo. Qualcosa salterà fuori di sicuro.
Pietro Salis resta solo e fa quello che sta facendo sempre più spesso, troppo spesso da quando Mario Porcu è svanito nel nulla: s'apparecchia un altro paio di piste.
Via Vaiano, quartiere Magliana, esterno giorno. Il bar ha l'aspetto dimesso e un po' sordido di tutti i locali pubblici della borgata, quartiere popolare nato dalle speculazioni dei palazzinari con una foresta di pelo sullo stomaco. Palazzi costruiti sotto il livello del Tevere che s'allagano a ogni temporale. Marrane che emanano effluvi pestilenziali, ratti grossi come conigli che pascolano tra i rifiuti. Gente arrivata negli anni Sessanta da ogni parte d'Italia, babele di dialetti imbastarditi dal romanesco. Panni stesi ad asciugare ai balconi. Eroina. Tossici che escono ogni giorno di casa con la scimmia che comincia a mordere e si mettono a caccia di uno stereo da rubare, di una borsetta da scippare, di una collanina d'oro da rapinare prima che la rota li riduca a zombi farfuglianti e sbavanti. Traffico congestionato. Smog. Violenza che si respira nell'aria come un miasma velenoso. Una fetta di Roma estenuata, esasperata, abbandonata. Nata male, cresciuta peggio, senza futuro né prospettive di riabilitazione.
Er Cattivo parcheggia accanto a una Porsche Carrera lasciata lì con le chiavi nel cruscotto. Nessuno, neanche il più temerario o disperato eroinomane in astinenza si avvicinerebbe mai alla macchina. Provare a rubarla è morte sicura.
Pietro Salis scende dall'Alfetta e si chiede perché cazzo, con tanti bei posti che ci sono a Roma, i Testaccini abbiano stabilito proprio lì il loro quartier generale. Tra l'altro nessuno ci abita, alla Magliana. Le tre fazioni della Banda sono sparpagliate tra Testaccio, Trastevere, Garbatella e Ostia, eppure il punto di ritrovo è questo e non si sgarra. Lì dentro si sente sempre un estraneo e forse, chissà, il motivo della scelta di quel bar sfigatissimo è proprio quello.
«Pietro, piacere di vederti, qual buon vento?».
Er Cattivo si volta verso l'uomo piccolo e magro che gli è comparso alle spalle all'improvviso, con la sua famosa e sconcertante capacità di muoversi in silenzio come un gatto.
«Ciao, Brillantì, tutto bene?»
«Ringraziando Dio sì, Pietro, tutto a posto. Siediti. Che prendi? Caffè, cappuccino, birra?»
«'Na biretta perché no?».
Ettore Caviglia fa un cenno al cameriere indicando una bottiglia di Nastro Azzurro su un tavolo come se non volesse sprecare le parole e siede composto davanti a er Cattivo come un prete in confessionale. E un po' pretesco lo è sul serio, con quell'italiano pulito, senza una sbavatura, la giacca di fresco lana grigia su pantaloni in tinta, camicia bianca, cravatta sobria, pochette nel taschino e il grosso diamante che gli brilla al mignolo sinistro e che gli ha dato uno dei due soprannomi con cui lo chiamano tutti. L'altro, chissà per quali sviste anagrafiche, è Robertino.
Un piccolo uomo elegante e distinto, dai modi curiali, gran frequentatore di cardinali, monsignori, chiese, novene e opere di bene. Il criminale più agganciato e più potente sulla piazza romana. A prima vista non gli daresti una lira ma se lo guardi negli occhi cambia tutto.
Un tipo robusto con una faccia larga e prognata, da zingaro, e la barba a fil di pelle che sembra limatura di ferro si avvicina con discrezione e resta in attesa. Pietro capisce l'antifona, si alza, allarga le braccia con gli occhi al cielo. Il tizio lo perquisisce rapidamente, con gesti esperti, professionali, da guardia carceraria, fa un cenno d'assenso e scantona. Er Cattivo torna a sedersi. È la regola. Sarebbe lo stesso nel caso, molto improbabile, che Brillantino andasse a trovarlo a Ostia. Ma è pura teoria. Brillantino non si muove: sono gli altri che vanno da lui.
Er Cattivo si schiarisce la voce, a disagio come al solito davanti a Ettore Caviglia. Qualcosa, in quello sguardo glaciale, da lucertola, che contrasta con i modi manierati, in quell'abbigliamento incongruo rispetto all'ambiente, in quel modo di inclinare la testa mentre ascolta come se stesse valutando se dici la verità o spari cazzate, gli ha sempre messo i brividi. Lui e Brillantino, almeno teoricamente, sono alla pari. Alleati, per un progetto folle e grandioso che nessun barabba romano ha mai neanche osato concepire. Pijamose Roma. Eppure...
Come tutte le alleanze tra forze diverse, anche questa può sgretolarsi da un giorno all'altro. E se il progetto cade l'alternativa è una sola: guerra.
Er Cattivo tracanna birra, rutta, si pulisce la bocca col dorso della mano e, visto che c'è, potrebbe mollare anche una scoreggia ma non gli scappa. Davanti a Robertino esagera sempre, fa il coatto, esaspera la totale mancanza di educazione. Un modo come un altro per marcare il territorio e sottolineare la differenza.
Brillantino non fa una piega. Non la farebbe nemmeno se Pietro gli cacasse sul tavolo. Magari tirerebbe fuori il ferro e gli farebbe scoppiare la testa lì per lì ma senza neanche inarcare un sopracciglio.
«Allora, Pietro, che succede? Qualche problema?»
«Be', sì... Mario è sparito».
«Mario il sardo? L'amico tuo?»
«Già. È sortito dar gabbio dieci giorni fa, so' ito io a pijallo a Rebibbia e l'ho portato a casa. Se dovevamo sentì da lì a poco e invece gnente. Puff». Pietro apre il pugno nell'aria in un gesto eloquente.
«Non si è più visto?»
«Già».
«Né sentito...».
«No».
«E non hai idea di dove sia finito?»
«Appunto».
Robertino corruga la fronte come se stesse considerando una complicata questione teologica tipo la transustanziazione o il mistero trinitario.
«Hai chiesto in giro, suppongo».
«Ho mannato i miei a buttà all'aria tutta la zona. Finora nun hanno battuto chiodo», depreca er Cattivo, immusonito.
«Mmm... Mario aveva qualche questione in sospeso?»
«Nun ce lo so, nun credo. Era appena uscito, t'ho detto. Prima che se lo bevessero stava in pace co' tutti».
«Non è che ha una donna segreta? Magari è una fuga d'amore...».
«Tra noi nun ce so' segreti, Robertì. Semo amici fin da pischelli, me l'averebbe detto».
Brillantino fa un'altra pausa a effetto, poi incrocia le mani in grembo e sospira. Molto santimonioso. Ci manca solo che si metta a recitare i misteri dolorosi.
«Be', se è così sembra una faccenda seria. Il papà che dice?»
«Quello? Gesuino? Ce lo sai com'è fatto, no? È de coccio. Tocca tiraje fori le parole co' le tenaje e comunque nun m'ha detto un cazzo».
Er Cattivo è talmente infervorato che gli sfugge un dettaglio fondamentale: come fa Brillantino a sapere del padre di Mario? L'avrà visto tre volte in tutto e di certo non hanno parlato di famiglie. Ma Pietro Salis non è un detective esperto nella tecnica di interrogatorio e, tra l'altro, in questi giorni è perennemente sballato, fuso, strafatto come una zucchina. Fuori di testa più del solito. Robertino fa un gesto di commiato, misurato come al solito.
«Be', Pietro, grazie per la fiducia. Cercherò di aiutarti, se posso. Metto in giro un po' di gente, sento se esce qualcosa e ti faccio sapere. Stai sereno, se gli è successo qualcosa lo scoprirò».
«Grazie, a Robertì, sei 'n amico vero».
«Figurati, per così poco. Prendi qualche altra cosa?»
«Come se avessi accettato, Robertì. Devo scappà».
«Allora buona giornata a te. Ti chiamo in sala giochi appena ho qualcosa da dirti».
«Ancora grazie, se vedemo».
Pietro Salis si accommiata ed esce dal locale con la spiacevolissima sensazione di essere stato preso per il culo. Lo sguardo attento della vedetta appostata all'angolo della strada non lo molla fino a quando l'Alfetta non viene inghiottita dal traffico.
«Potrebbero reagire».
«Non ne avranno il tempo. Sarà un'azione rapida. Ho calcolato venti minuti in tutto, compresa la fuga».
«Hanno sicuramente qualche sentinella in strada».
Massimo De Signori fa un cenno a Giorgio, che è stato incaricato di fare i sopralluoghi.
«In strada ce ne sono sempre due. Non credo armati. Ci sono passato davanti cinque volte: si distraggono, chiacchierano tra loro, gironzolano. Dilettanti. Neutralizzarli sarà uno scherzo. La porta è sempre aperta, quindi nessun problema per entrare».
Omar fa una smorfia, a metà tra apprezzamento e disappunto. Il piano sembra facile. Troppo facile.
E De Signori lo ha elaborato senza di lui, pessimo segno.
Riunione operativa, sette camerati e l'Ideologo in una stanza piena di fumo e di tensione. Manca Pitbull e anche se ci fosse di sicuro non potrebbe intervenire visto che ha la mascella fratturata e bloccata con filo di titanio. I denti e la bocca non saranno mai più gli stessi. Omar è tornato il comandante militare incontrastato ma capisce di dover ancora riguadagnare parecchio terreno, quindi decide che limiterà al massimo le obiezioni.
«Rivediamo lo schema d'azione?».
De Signori si avvicina alla lavagna, molto professorale.
«Un gruppo di fuoco e uno di copertura: cinque salgono, due restano in strada. Dopo aver immobilizzato le sentinelle avremo dai diciassette ai diciotto minuti. Omar, Giorgio, Andrea e Marco entrano. Francesco resta in macchina pronto per la fuga. Niente armi lunghe, le pistole bastano e avanzano. Giovanni e Dalila, invece, avranno l'M16 e la Uzi e resteranno pronti a respingere le guardie o i carubba se riescono ad arrivare sul posto in tempo, ma non ce ne sarà bisogno. Prima che venga lanciato l'allarme ce ne saremo già andati».
Omar rimugina su quel "saremo" come se De Signori avesse intenzione di partecipare al blitz, mentre se ne starà al sicuro, a casa, in attesa di sentire la notizia alla radio o alla TV, ma del resto è così che funziona da sempre: i generali decidono e i soldati combattono e muoiono. La vecchia storia dell'"armiamoci e partite", copyright Olindo Guerrini nel 1897, per chi non lo sapesse.
«Una volta dentro, bloccate tutti e li immobilizzate. Niente corde o bavagli, basteranno le armi. Le zecche si cacheranno sotto, come al solito, e di sicuro non avranno il coraggio di reagire. Omar, tu leggerai il comunicato che ho preparato. Mi raccomando: parla con calma e scandisci bene le parole. Ho calcolato che ci metterai due minuti e mezzo al massimo. Poi buttiamo tutto all'aria, lasciamo il nostro simbolo sul muro, lanciamo i fumogeni e ce ne andiamo. Le vie di fuga sono due: una sulla Tiburtina, verso il raccordo, l'altra verso Porta Maggiore e la Casilina. Francesco ha già procurato i mezzi, una A112 Abarth e una 124».
«Le ho controllate, nessun problema al motore, sono nuove tutte e due». Francesco in passato ha corso nelle gare di regolarità ed è il meccanico e l'autista del gruppo. Un carburatore al posto del cuore.
«Non sarebbe meglio una moto, almeno per i due d'appoggio? Devono attraversare San Lorenzo e il quartiere è sempre un casino, c'è il rischio di restare imbottigliati». Omar si rende conto di sembrare un cacadubbi ma, visto che sarà lui al comando sul campo, non vuole correre rischi inutili.
Massimo De Signori lancia un'occhiata interrogativa a Francesco che annuisce.
«Va bene. C'è una Kawa 900 che ho adocchiato da un po'. La lasciano sempre parcheggiata in via Denza, legata a un palo con una catena. Con le tronchesi ci metto trenta secondi a tagliarla. Posso prelevarla anche stanotte».
«E moto sia. Prendila e tienila in un posto sicuro fino a giovedì mattina. Ci sarà uno di quegli stronzissimi dibattiti che piacciono tanto ai pelosi. Entreremo in azione alle 13:15 e per le 13:35 al massimo sarà tutto finito. Niente spari se non è indispensabile, questa è un'azione di propaganda, non un attacco a fuoco. Dobbiamo far capire alle zecche che possiamo colpirli dovunque, in qualunque momento e anche a casa loro».
«Non sappiamo se hanno armi, però».
«È quasi impossibile. La polizia e i carabinieri tengono d'occhio quella radio di merda e la perquisiscono almeno due volte al mese. L'unico imprevisto potrebbe essere qualche brigatista o qualche nappista in incognito. A volte ci passano, alla radio, per fare proselitismo. Quelli di solito girano armati e potrebbero opporsi».
«Nel qual caso?»
«Li uccidiamo. Una o due zecche in meno, se succede amen. Se la saranno voluta».
«Se scoppia una sparatoria sarà un casino». Omar ormai è entrato nel ruolo di bastian contrario ma quell'azione lo convince poco. Che senso ha entrare in un'emittente "rivoluzionaria" che non ascolta nessuno e rischiare un conflitto a fuoco solo per leggere un comunicato che potrebbe essere diffuso in mille altri modi? Lui, Omar Gentile, è un tradizionalista: bombe davanti alle caserme, ai giornali, ai partiti di sinistra, piombo ad alzo zero sui servi del sistema in divisa, rappresaglie di sangue se qualche camerata viene ferito o ucciso. La propaganda, ormai, lo lascia indifferente, vince chi spara prima. Ma è Massimo De Signori che decide la linea e non spetta a lui criticarlo.
«Ricapitoliamo: due uomini... Pardon, un uomo e una donna in strada con le armi automatiche... Ci siamo su questo punto?».
Dalila sbuffa il fumo della MS e annuisce. Piccola, minuta come uno scricciolo, capelli a caschetto, una bellezza inconsueta e fuori da ogni canone estetico, ha scelto la lotta armata quando il suo uomo è rimasto ucciso in uno scontro coi carabinieri sulla Flaminia. Fanatica fino alla follia, si è conquistata immediatamente un ruolo operativo di rilievo nel gruppo anche grazie alla sua esperienza di tiratrice sportiva al poligono. Con le armi da fuoco è seconda solo a Omar Gentile.
«Dalila e Giovanni, allora, saranno in moto e arriveranno sul posto dieci minuti prima. Gli altri aspetteranno a piazza del Verano sulla 124. Se ci sono volanti o gazzelle in strada l'azione è rimandata: prendete la Kawa e andate ad avvisarli. Se non c'è sorveglianza, invece, il gruppo di fuoco arriverà a via dei Volsci alle 13:10 in punto. Neutralizziamo le sentinelle, entriamo, leggiamo il comunicato, facciamo un po' di casino e via, fuori. Il giorno dopo i politici strilleranno come aquile e la gente comincerà a capire che nessuno può fermarci. L'impatto mediatico sarà fortissimo. Tutto chiaro?».
Uno dopo l'altro i sei uomini e la donna scelti per l'azione annuiscono, con vari gradi di entusiasmo. Omar si tiene parecchi dubbi e fa sì con la testa anche lui. Tutta quella faccenda gli sembra inutile, rischiosa e infantile: chissenefrega di Radio Bandiera Rossa, emittente di zecche perse che campicchia di sottoscrizioni, chiude un paio di volte al mese e non conta un accidente. Dietro al piano c'è il rancore di Massimo De Signori, uno dei bersagli preferiti della Radio, che lo definisce regolarmente «Porco fascista» e «Ducetto da cortile». Agli insulti De Signori c'è abituato, ma quando un conduttore ha letto una sua bellissima poesia esistenziale storpiandola e deridendola senza pietà («melenso ciarpame fascista scopiazzato chissà dove, senza capo né coda: un Ezra Pound dei poveri») ha deciso che quegli idioti illetterati meritavano una lezione. Raid, comunicato, redazione devastata, fumogeni e il rischio di farsi ammazzare.
Tutto per una questione personale. I camerati credono, obbediscono e combattono. Lui, stavolta, tentenna. Sono giorni e giorni che ha solo il colpo di Marbella in testa e, tra De Signori e Pietro Salis, tutti sembrano coalizzati per rimandarlo sine die.
«Rudy. Rudy, cazzo... Vieni qui. QUI».
Il pastore belga non dà segno di aver sentito il comando e continua ad agitarsi, scodinzolando, attorno a qualcosa che viene sballottato dalle onde sulla battigia, qualcosa di indistinto, mezzo dentro e mezzo fuori dall'acqua, sotto il cielo grigiastro dell'alba.
Antonello Marchi smadonna e affretta il passo sulla sabbia umida. A che cazzo è servito spendere una fortuna per addestrare 'sto maledetto botolo se poi manco obbedisce quando lo chiami? Chissenefotte del seduto, a terra, qua la zampa, resta, riporto e le altre cazzate da agility: lui vuole un cane che lo segua durante le sue lunghe passeggiate antelucane, che si tenga a un metro di distanza come un soldatino e non se ne vada in giro per cazzi suoi. E invece...
«Rudy. QUI, HO DETTO, QUI».
Antonello sferza l'aria con il guinzaglio di cuoio, pronto a usarlo come uno staffile. Affanculo il metodo Montessori e tutte quelle stronzate sulla gratificazione e l'apprendimento stimolo-risposta. Antonello è un insegnante in pensione, mica uno strizzacervelli behaviorista e sa quando c'è bisogno di una buona passata di bastonate. Ai tempi delle elementari, i maestri ci andavano giù pesanti con le bacchettate sulle mani e funzionava. Funzionerà anche con Rudy, e quel cane di merda sta per accorgersene.
Fa gli ultimi cinquanta metri di corsa, ansimando un po' per le sigarette e un po' per i settantaquattro anni che si fanno sentire, si ferma accanto a Rudy, tira indietro il braccio per sferrare il primo colpo, guarda la cosa semisommersa, emette un rantolo e crolla sulle ginocchia prima di vomitare la colazione.
Il cadavere non ha più la faccia. Le dita sono state tagliate via. All'altezza dell'inguine c'è una specie di buco rossastro, segno di un'altra, raccapricciante mutilazione.
Rudy continua ad abbaiare mentre il professor Antonello Marchi si accascia riverso, con qualcosa di inarrestabile, di crudele e di spaventosamente doloroso che gli trapassa il torace, poi sbava e crolla di schiena, la lingua che fuoriesce dalla bocca, gli occhi spalancati, le mani contratte come artigli, ucciso da un infarto fulminante.
Capitolo VII
Cambiamo argomento: la duplice tragedia di stamattina a Ostia dove un anziano è deceduto per infarto che lo ha colpito subito dopo aver scoperto il cadavere di un uomo non ancora identificato, ucciso e ferocemente seviziato, affiorato sulla battigia. La nostra inviata Antonella Armentano è sul posto, quali sono le ultime novità, Antonella?
Pietro Salis s'accomoda sul divano con un bicchiere di whisky on the rocks in mano e si prepara a godersi una bella storia di morti ammazzati prima di cena. Il Tg3 regionale delle 19:30 è una delle sue fisse: quando può non se ne perde uno. Va matto per la cronaca nera e lo sport; la politica, ovviamente, lo fa vomitare.
Gvazie, Ilavia, siamo davanti allo stabilimento Village Beach, dove, all'alba, è affiovato il covpo di un uomo cui i cavabinievi della compagnia di Ostia stanno tentando di dave un nome e un volto attvavevso le denunce vecenti di scompavsa. Qui, vevso le sei di oggi, è deceduto il pvofessove in pensione Antonello Mavchi, settantaquattvo anni, che ha pvobabilmente vinvenuto il cadaveve mentve passeggiava con il suo pastove belga. L'anziano è stato stvoncato da un malove alla tevvibile vista del covpo ovvendamente stvaziato dagli assassini. I soccovvitovi, pev avvicinavsi ai due cadavevi stesi sulla battigia, hanno dovuto aspettave l'avvivo del sevvizio cinofilo del Comune pevché il cane, Vudy, non lasciava accostave nessuno. L'animale è stato tvaspovtato al canile municipale...
«Anvedi che robba, uno se trova davanti a 'n addobbato e schiatta de crepacore, 'n ce se crede», commenta giubilante er Cattivo dopo una corroborante gollata di liquore. «E ammazza che forza er cane... Voleva morde i carubba, bravo...».
Si sa qualcosa sull'identità della vittima, Antonella?
No, Ilavia, come ti dicevo è ancova sconosciuto. Stando ai pvimi vilievi della Scientifica, si tvatta di un uomo sui tventa-tventacinque anni, alto civca un metvo e settanta, bianco, di covpovatuva media... La vittima, secondo un esame estevno del medico legale, è stata assassinata a pugnalate e tovtuvata a lungo: gli assassini hanno amputato le mani, i piedi e i genitali dell'uomo. L'ipotesi pvincipale degli investigatovi è quella di un vegolamento di conti nel givo della mala stanziale, pvobabilmente pev una lite su una vicenda di spaccio di dvoga. Vicovdiamo che in passato, nella zona del litovale, c'evano stati numevosi fevimenti a colpi di pistola tva spacciatovi della zona, segno di una veva e pvopvia guevva pev il pvedominio... Ma ecco il capitano Antonello Messina, il nuovo comandante della compagnia di Ostia, pvoviamo a chiedeve a lui se ci sono elementi nuovi nell'inchiesta.
«Sto pezzo de merda». Er Cattivo saluta così la comparsa del cappello con la fiamma e delle mostrine con le tre stelle dell'ufficiale, approdato da soli due mesi in zona e preceduto da una sinistra fama di carabiniere tosto e incorruttibile, insomma, uno che probabilmente gli darà parecchio filo da torcere.
Sullo schermo, una piccola folla di cronisti, fotografi e telecamere che circondano Messina, alto e lugubre nella divisa scura.
Capitano, la vittima è stata identificata?
Avete già una pista?
Pensate che il pvofessove conoscesse l'uomo assassinato?
Il capitano ha la faccia di uno che, in questo momento, vorrebbe trovarsi a mille chilometri di distanza, ma, stoicamente, non si sottrae all'arrembaggio, probabilmente indottrinato dall'ufficio stampa sulla necessità di mantenere buoni rapporti con i media locali.
In questa fase stiamo raccogliendo tutti gli elementi utili e indaghiamo a trecentosessanta gradi ma...
È vevo che si tvatta di un tvansessuale?
Assolutamente no. Si tratta di una notizia falsa circolata nelle prime ore dopo il rinvenimento e chissà da dove è uscita. La vittima è un uomo che è stato crudelmente seviziato da una o più persone. Adesso dovete scusarmi ma io...
Capitano, capitano, aspetti... Avete elementi utili pev l'identificazione?
Il militare esita, il vaffanculo a tutti che gli aleggia sulla testa come la nuvoletta del pensiero dei fumetti, poi capitola, visto che ha già avuto l'ok del comando provinciale.
Pochissimi. Gli assassini hanno amputato le mani della vittima, probabilmente per ritardare l'identificazione attraverso le impronte digitali, il che ci fa dedurre che potrebbe trattarsi di un pregiudicato. L'uomo era seminudo e non aveva portafoglio né oggetti personali che potrebbero aiutarci. L'unico elemento è un tatuaggio sull'avambraccio sinistro, praticato in modo artigianale, presumibilmente in carcere diversi anni fa, che raffigura un serpente attorcigliato attorno a una spada con sotto due lettere molto sbiadite e illeggibili. La foto verrà diffusa domani dall'ufficio stampa sperando possa rivelarsi utile per un successivo riconosci...
Il televisore 42 pollici esplode sotto l'urto del bicchiere di cristallo massiccio lanciato alla velocità di un pallone da rugby.
Pietro Salis balza in piedi con un ruggito, si scaraventa sulla TV andata in pezzi, la prende a calci e la calpesta urlando di rabbia e di dolore fino a ridurlo a un ammasso informe di plastica, fili elettrici, frammenti di schermo. Poi prende a pugni il divano, scaraventa un cuscino sulla pacchianissima scultura in marmo di un Mercurio alato, sferra un pugno a una finestra, si ferisce la mano, sanguina, bestemmia, lancia urla strozzate e, alla fine, si affloscia su una sedia senza riuscire a trattenere i singhiozzi che rischiano di soffocarlo.
Ostia, diciassette anni prima. Lui e Mario, ragazzini.
«Hai portato l'aghi e la china?»
«Sì, a Mario, ma guarda che nun l'ho mai fatto prima...».
«E sticazzi, fallo adesso».
«Vabbè, ma nun vorei combinà 'n casino».
«'E prove l'amo fatte, no? Er disegno è venuto bello preciso, che casino voi che sortisca?»
«Eccheccazzo ne so? Magari me sbaio e te faccio un cazzo sur braccio, anziché 'na spada co' 'na serpe».
«È perché sei frocio e sempre ar cazzo stai a pensà».
«Ah io so' frocio? Porteme tu' sorella...».
«Che famo a incularella».
«Co' 'sta cappella».
E giù risate.
Er Cattivo ricorda e piange in silenzio. Non ha bisogno di vedere la foto in TV. Quel tatuaggio lo ha fatto lui stesso: un lavoro penoso, da dilettante, con i tre aghi legati insieme da un filo, ormai quasi sbiadito, il nero dell'inchiostro che ha ceduto il passo a un azzurro pallido, le linee sfumate fatte di piccoli puntini irregolari. Crescendo, Mario avrebbe potuto andare in uno studio di tatuaggi e farlo almeno ritoccare ma non lo ha mai fatto.
Pietro si asciuga le lacrime, scuote la testa come un cane che esce dall'acqua, si ricorda di essere un capo e un capo non piange, anche se si sente morire dentro. Poi fa quello che fanno i malavitosi in casi del genere.
Trasforma il dolore in rabbia. La rabbia in furia omicida.
Chi ha ucciso Mario deve morire. E dovrà soffrire mille volte di più del suo amico assassinato. Pietro Salis lo giura a se stesso, si soffia il naso e s'attacca al telefono, il sangue che esce dalla ferita alla mano e gocciola sulla moquette chiara senza che lui se ne accorga.
Dalila accende una MS e lancia uno sguardo da lince, il bel viso scarno impassibile, gli occhi freddi e inespressivi che scrutano ogni movimento, ogni faccia, ogni particolare, la mano sull'impugnatura della Uzi calibro 7,62 nascosta sotto l'ampio giubbotto di pelle. Una predatrice in agguato, immobile come una pietra, vigile come una sentinella, tutti i nervi tesi allo spasimo e pronti per l'azione. Giovanni, nervosissimo, la guarda con un'espressione a metà tra ammirazione e paura. Quella donna è un iceberg.
«Li hai visti?», domanda come se ce ne fosse bisogno.
«Certo. Eccoli lì, sono due... Non ti girare, non fissarli che ci svagano. Quello grasso con la barba e quello piccolo, con l'eskimo e la borsa Tolfa. Non mi sembra che siano un problema».
«E se sono armati?»
«Non credo proprio. E comunque se le ficcano in culo, le pistole, se ce le hanno. Li becchiamo al volo».
«Se lo dici tu...».
Gli occhi di ghiaccio bucano come un punteruolo.
«Hai strizza?»
«Io? Figurati... È solo che mi sembra una cosa un po' squinternata».
«Potevi dirlo a Massimo».
«No, è che... cioè, l'azione ci sta tutta... Occupare la radio delle zecche mi va benissimo. Il fatto è che qui... insomma, è pieno di rossi, mi sembra di stare in territorio nemico».
Verissimo.
San Lorenzo, quartiere latino di Roma, è da sempre una roccaforte dell'estrema sinistra. La vocazione politica della zona si capisce al volo, dal grande palazzo diroccato dai bombardamenti alleati e mai ricostruito che torreggia sulla Tiburtina con la grande scritta in nero EREDITÀ DEL FASCISMO, dai ragazzi in uniforme da "pelosi", con barbe e capelli incolti, giacche di lana da boscaiolo a quadroni rossi e neri, maglioni peruviani e borse di cuoio grezzo, dai localini "alternativi" che cominciano a spuntare come funghi, dalla sezione del PCI in grado di mobilitare, nel giro di pochi minuti, un servizio d'ordine paramilitare armato di "Stalin", manici di piccone e chiavi inglesi da 32, dai volantinaggi, i comizi improvvisati, i cortei spontanei che si succedono quasi ogni giorno, dal commissariato perennemente sotto assedio con le finestre protette da grate metalliche per non farle fracassare a sassate una notte sì e l'altra pure. Un fascista, da queste parti, ha due alternative: fuggire o finire al Policlinico con qualche osso rotto. Massimo De Signori ne ha appena inventata una terza.
«Sbirri non ce ne sono...». Giovanni lancia l'ennesima occhiata all'orologio. Lancetta piccola sulle tredici, quella grande su quattordici minuti.
«Perché cazzo non arrivano?», sbuffa. «Dovrebbero essere qui già da quattro minuti».
«Datti una calmata... magari sono bloccati nel traffico».
«Non mi piace affatto... Metti che il dibattito finisca e ce li ritroviamo in strada?»
«Ma sei paranoico? Hanno cominciato un quarto d'ora fa, quelli vanno avanti a blaterare per ore...».
«E se li hanno fermati? Andiamo a vedere?».
Dalila alza gli occhi al cielo, fa per mandarlo affanculo ma ci ripensa. In effetti, la scansione dei tempi di un'azione è fondamentale e un ritardo, anche minimo, può compromettere tutto.
«Vai tu con la moto. Io resto a controllare qui fuori».
«Ma Massimo ha detto che...».
«Massimo non è qui. In azione decidiamo noi... Vai».
Giovanni fa per replicare, rinuncia, accende la Kawasaki e parte a razzo, contento di poter fare qualcosa, qualunque cosa che lo aiuti a dominare la tensione. È appena scomparso tra le macchine quando, davanti al portone, si ferma la 124 del gruppo di fuoco. Omar è il primo a scendere, vede che non c'è la moto e lancia un'occhiata interrogativa a Dalila che risponde allargando le braccia in un gesto di impotenza. Il piano prevede che non si parlino e non si avvicinino. Dalila e Giovanni devono restare di copertura.
Omar si stiracchia tranquillamente, fa qualche passo verso l'androne mentre, dalla macchina, escono altri tre camerati. Il quarto, Francesco, resta alla guida, motore imballato, pronto alla fuga.
Dalila muove impercettibilmente il mento in direzione delle sentinelle, ma è inutile. Omar le ha già individuate. In un balzo si avventa sul più robusto e gli punta la canna del revolver alla testa. Il ciccione sbianca, strabuzza gli occhi, farfuglia qualcosa ma Omar lo sta già spingendo dentro. Gli altri tre neutralizzano Eskimo, gli strappano la borsa, controllano, velocemente, che non ci siano pistole o coltelli dentro e lo costringono a entrare a sua volta nel palazzo, quasi sollevandolo da terra.
Trenta secondi netti. Prima fase, perfetta.
Dalila respira a fondo, accarezza con voluttà il calcio zigrinato della Uzi e si prepara ad aspettare per venti minuti, sperando che quell'imbecille di Giovanni, non vedendo la 124, si decida a tornare sul posto.
Amelia la Zozzona segue docilmente Giacchettone nella villa di Pietro Salis domandandosi tre cose.
Se può guadagnarci qualche soldo.
Come accidenti ha fatto a cacciarsi in quel casino.
Quante possibilità ha di uscirne viva.
Er Cattivo l'aspetta sul divano con un'espressione che non promette niente di buono. Giacchettone, invece, sembra Gongolo, il più stronzo dei sette nani. O un micio che si è pappato un sorcione da tre chili, fate voi.
«Ecchetela qui, a Cattivo. L'ho beccata du' ore fa e te l'ho portata subito. Me so' fatto tutte le mignotte della Pineta ma alla fine l'ho trovata», esulta.
«Te le sei scopate tutte?». Pietro alle battutacce da tamarro proprio non riesce a rinunciare.
«Me fanno schifo, Piè, tutte impestate... Ma ce lo sapevo che prima o poi quarche cosa sortiva fori. Senti 'sta trucidona».
Amelia fa per ribattere che trucidona potrebbe dirlo a quella puttana di sua madre ma capisce che a volte è meglio tapparsi la bocca e tace.
Er Cattivo la guarda truce come un carnefice e le fa cenno di parlare.
«Allora?»
«Be', nun è che c'ho molto da dì...».
«Ripetije quello che hai detto a me, 'namo, a zoccola», la incalza Giacchettone che già pregusta una ricompensa o, quantomeno, una lode del capo. È il primo che ha portato qualche cosa di utile e sa che Pietro sa essere generoso, coi suoi uomini.
«Allora, a Cattivo, stavo a lavorà in Pineta quando è arrivata una machina... Dentro c'erano due persone, uno che non ho mai visto e l'altro era l'amico tuo».
«Mario? Sei sicura?»
«Sulla Madonna Benedetta, lo giuro. Vedi, co' er Sardo c'ero già stata due vorte prima che se lo bevessero. Un buon cliente, educato, pulito, mica uno dei soliti zozzoni. Io manco ce lo sapevo come se chiamava ma quando questo qui...», fa un gesto vago verso Giacchettone che se ne sta tutto tronfio a godersi la scena, «m'ha fatto vede la fotografia l'ho riconosciuto subito. Tra l'altro, dieci giorni fa era tornato. M'aveva detto che s'era fatto quasi tre anni a buiosa e infatti era ingrifato come un toro, manco je l'ho preso in bocca...».
«Vabbè, vabbè, nun me frega un cazzo dei tuoi pompini. Che è successo?»
«'Sti due, cioè sarebbe a dì Mario e quell'altro, so' scesi e hanno cominciato a questionà. Io me so' infrattata subito perché ho capito che buttava male. All'improvviso l'altro tizio ha messo 'na mano in tasca, ha cacciato un saccagno e j'ha dato 'na puncicata dritta in pancia, zac». Infervorata nel racconto, la Zozzona mima il gesto di una coltellata nelle trippe, senza notare l'occhiata da lanciafiamme di Pietro.
«E poi?»
«Poi... Boh. Insomma, m'ero buttata giù pe' nun famme vede ma me pare che quello che ha accorato Mario lo ha ributtato in machina ed è partito... Du' minuti dopo nun c'era più nessuno».
«E tu che hai fatto?»
«Gnente, che dovevo da fà? Ho retto la cica, me so' spostata de zona e ho ripijato a lavorà».
Pietro stringe i denti pensando all'amico pugnalato a tradimento. Ora deve scoprire chi è stato.
«L'hai visto?»
«Chi?»
«Stocazzo. Quello che l'ha puncicato, no?»
«No, a Cattivo, me devi scusà. Me pare che fosse uno normale ma c'avevo troppa strizza pe' cioccà bene».
«E porcaputtana... La machina, armeno? Quella l'hai vista bene, no?»
«Sicuro. Era 'na Lancia HF. La conosco perché ce l'ha avuta pure l'omo mio ma questa era più fica, co' 'na bella striscia rossa sur tettuccio che pareva 'na machina da rally».
«Quarche artra cosa che te ricordi? Pensece bene».
«Be', me so' segnata la targa, se te pò servì...».
Pietro fa un gesto da stadio, i pugni agitati in aria.
«Evvai... Pure la targa, brava...».
«Lo famo sempre, quanno c'è quarche machina che puzza... Serve pe' dacce la voce tra di noi che stamo in strada». Poi Amelia fruga nella borsetta, rovista tra profilattici, colluttorio, coltello a serramanico, mazzetta di banconote e rossetto, pesca un foglietto tutto spiegazzato e lo porge a Pietro come un suddito che consegna un dono al sovrano.
Pietro annuisce e la guarda in modo diverso. Belle zinne, bel culo. Un po' passatella ma...
«Quanto prendi a botta?»
«Venti de bocca, cinquanta completo, ma pe' te è gratise, a Cattivo».
Pietro si alza con una mezza erezione nelle mutande e le fa cenno di seguirlo in camera da letto.
Giacchettone resta vicino alla porta come uno stoccafisso.
«Ce metto un minuto, a Giacchettò... Poi la riporti in Pineta. Bravo, ce stanno du' meloni col nome tuo in cassaforte. Domani passa a pijalli».
«Dovere, Pietro. Grazie».
Pietro non lo ascolta neanche. Trascina Amelia in camera, la fa inginocchiare, si sbottona, glielo caccia tutto in bocca e le spinge la testa avanti e indietro fino a quando si sente venire, si scosta e le inonda la faccia di sperma. Mentre la Zozzona tossisce, sputacchia e cerca di darsi una pulita riflette sul fatto che, se non altro, Mario Porcu si è tolto l'ultima soddisfazione con quella baldracca, dieci giorni prima di farsi ammazzare.
Il campanello della porta è una sega che gli strazia il cervello. Pietro si alza con il cuore che suona la batteria e cerca di ricordarsi cos'aveva sognato. Spezzoni confusi che emergono da nebbie di sonno, whisky e cocaina.
Una puttana col coltello.
Mario Porcu che ride come un folle, la gola squarciata.
Una cascata di sangue e Mario continua a ridere.
Pietro che tenta di aiutarlo, di soccorrerlo, il sangue lo inzuppa, Mario lo respinge sghignazzando.
Sirene.
Sirene.
Sirene.
Pietro ansa come un labrador. Il sogno non lo vuole lasciare, le sirene continuano a urlare come Erinni vendicatrici. Er Cattivo lancia un'occhiata al Rolex: le 4:15. Capisce faticosamente che il suono viene da fuori e capisce al volo chi può essere.
Solo sbirri e carubba si presentano all'ora canonica delle perquisizioni e degli arresti. O qualcuno che ti vuole ammazzare. Pietro resiste alla tentazione di tirar fuori la Beretta nascosta nella cassaforte invisibile, sotto un listello del parquet, a mezzo metro di profondità, si infila la tuta della Roma e va alla porta. Un'occhiata dallo spioncino gli conferma quello che già sapeva.
Sono in tre: un maresciallo, un brigadiere, un giovane carabiniere che ha l'aria di aver fatto la cresima pochi mesi prima.
Quelli vestiti uguali. Nella mala li chiamano così.
«Cazzo volete? Sto a dormì», sbraita tanto per restare fedele al suo personaggio.
«Apri, Salis, o buttiamo giù 'sta porta», lo rintuzza il maresciallo. Pietro lo conosce bene: Renato Pettisi, siciliano, tozzo e squadrato come un trumeau, ringhioso, incazzoso, incorruttibile. Uno dei peggiori, di quelli che ancora ci credono: usi obbedir tacendo e tutto il resto. E naturalmente hanno spedito proprio lui a rompergli i coglioni.
La porta è blindata e per sfondarla ci vorrebbe il fabbro e almeno mezz'ora di lavoro. Pietro sa che, comunque, è meglio aprirla spontaneamente ma, prima, va a buttare nel cesso i residui di coca rimasti sullo specchio, nel soggiorno. Il sacchetto coi dieci grammi che tiene per sé è al sicuro, nel secondo nascondiglio a prova di fiuto di cane e di qualsiasi ispezione, occultato nella sala hobby al piano interrato. E, comunque, i carubba non sono qui per la roba, Pietro è abbastanza scafato da intuire il motivo della visita. La stava aspettando.
«Era ora... quanta cocaina hai buttato al cesso?». Il maresciallo Pettisi entra di spallata, spingendolo di lato e gli sporca di proposito la moquette con le scarpe infangate, senza degnare di uno sguardo lo zerbino con la scritta WELCOME all'ingresso. Piccoli e grandi sgarbi che significano potere.
«S'accomodi, marescia', e pure voialtri, nun fate complimenti, magari ve faccio un caffè...», ironizza Pietro tanto per stuzzicarli un po'. I carubba neanche rispondono, lo spingono sulla poltrona a manate e cominciano a buttare tutto all'aria. Pietro sospira e abbozza. Conosce la procedura.
La scusa è la solita: cercare armi. Pietro lo sa, come sa bene che è tutta una manfrina per rompergli le palle, dato che nessuno può pensare che sia così idiota da tenere un ferro in un posto dove chiunque possa trovarlo, quindi si rassegna, fuma e aspetta.
Tre quarti d'ora dopo lo portano in caserma. La casa sembra bombardata. L'unica cosa che hanno trovato è un tagliacarte a forma di scimitarra, ricordo di Toledo, con la lama di alluminio senza filo che, comunque, si portano via tanto per farlo rosicare ancora di più, come se ce ne fosse bisogno.
L'ufficio è come tutti gli uffici di polizia e carabinieri: squallido, sporco, disadorno, polveroso, l'immancabile fila di calendari dell'arma che penzolano in un angolo come bandiere stanche.
Pietro guarda dritto negli occhi il capitano Antonello Messina e capisce al volo che è un osso duro, perfino peggio del suo maresciallo, con quella faccia da teschio, la mascella contratta, il fisico così angoloso, tutto ossa e spigoli, che sembra voler bucare la stoffa scura della divisa.
Corrente d'odio, cordialmente ricambiata.
«Lei è Salis Pietro, nato a Olbia il 2 settembre del 1941, residente a Roma, via...».
«No, so' quella zoccola de tu' sorella».
Lo schiaffo gli arriva addosso come un treno così veloce e violento da girargli la faccia dall'altra parte, così inaspettato e improvviso che Pietro non ha neanche il tempo di incazzarsi.
«Non si azzardi a usare questo tono con me o se ne pentirà». La voce del capitano è di ghiaccio mentre si massaggia la mano con un anello d'oro chevalier al mignolo. Pietro si asciuga il sangue che gli cola dal labbro, sente gli occhi che si inumidiscono di rabbia e di umiliazione, tace e giura a se stesso che quel pezzo di merda può considerarsi, ufficialmente, defunto.
«Ricominciamo da capo e vediamo se riusciamo a intenderci. È lei Salis Pietro, nato a Olbia...».
«Sì».
«Sa perché si trova in questo ufficio?»
«No».
«Conosceva Porcu Mario, rinvenuto cadavere ieri sulla spiaggia di Ostia, assassinato e mutilato da mano ignota?»
«Era un fratello per me».
«Lo aveva incontrato di recente?»
«Ero ito a pijallo quann'è sortito da buiosa. Ce lo sapete già».
«Le aveva confidato di aver avuto diverbi o motivi di contrasto con altre persone?»
«No. E si sapevo qualcosa cor cazzo che la venivo a raccontà a voi».
Pietro aspetta un altro ceffone ma si becca solo uno sguardo al vetriolo. Il labbro si sta gonfiando e fa un male cane.
«Lei, personalmente, nutriva qualche rancore nei confronti del defunto Porcu Mario?».
Pietro fa per avventarsi ma riesce a darsi una calmata. Respira a fondo con le mascelle così strette che sente i denti scricchiolare.
Non ora. Non qui. Non così.
«Capità, nun scherzamo sulle cose serie. J'ho già detto che Mario era un fratello. Ce conoscevamo da ragazzini. Si sapessi chi l'ha addobbato ce penserei da solo a fà giustizia, ma quella vera, mica la vostra».
E forse lo farò tra poche ore, appena avrete finito di cacarmi il cazzo.
Antonello Messina non molla l'osso. Interroga, insinua, insiste. Lo tormenta per due ore e mezzo, lo costringe a ripetere le stesse cose per cinque, sette, dieci volte. E soprattutto lo passa al tritacarne senza mostrare un briciolo di rispetto come se fosse uno qualunque, uno scippatorello beccato dopo uno strappo, un "cavallo" arrestato con tre bustine in tasca, un sòla da strada acciuffato mentre tirava il bidone a un pensionato. Un uomo da niente.
Pietro ribolle di furia come un vulcano attivo.
«Per adesso può andare. Si tenga a disposizione. Se ha qualcosa a che vedere con l'omicidio di Porcu Mario lo scopriremo e lei finirà in carcere, può starne certo».
Il capitano si alza, segno che per lui è chiusa qui, almeno per ora, ma Pietro non la vede allo stesso modo.
«Non finisce qui», ringhia mentre lo spingono verso la porta.
«Che vuoi dire?»
«Che non finisce qui... Te la faccio pagare, merda».
«Ah sì? E come?». Antonello Messina butta al cesso, in un istante, tutta la sua compostezza da ufficiale e gentiluomo e si fa avanti, spinge il mento contro il viso di Pietro, pallido di rabbia. Un ragazzino secco, tutto gomiti e ginocchia, che fa a cazzotti con incoscienza da shaid coi bulli e i futuri boss della Vucciria.
Pietro perde le staffe e il controllo. Alza il pugno a martello e colpisce. Due mani lo bloccano in tempo.
Il capitano si dibatte ruggendo tra le braccia del maresciallo e del brigadiere che cercano di immobilizzarlo e, al tempo stesso, di fargli mantenere un minimo di dignità. «Si calmi, signor capitano, non faccia così, signor capitano, non ne vale la pena, signor capitano...».
A Pietro tocca un trattamento peggiore, braccio torto dietro la schiena, tirate di capelli, ginocchiate sulle gambe, nocchini, cazzotti a tradimento nelle reni e parecchia altra roba sporca. Close quarters combat versione Benemerita.
Alla fine, con la tuta strappata e sporca di sangue e la pressione a trecento, er Cattivo si ritrova in strada, con un motivo in più per uccidere. Anche una persona in più da ammazzare o far ammazzare, se è per questo.
«È stato Gufetto».
Giacchettone pronuncia la sentenza con la grave solennità di un magistrato inglese, quelli in toga rossa e parrucca che scandiscono «Sarete sospeso per la gola finché morte non sopraggiunga» eccetera eccetera.
Pietro Salis strabuzza gli occhi e, d'istinto, si passa la mano sul labbro gonfio che, dopo due giorni dalla scenata in caserma, non smette di tormentarlo.
«Gufetto della Garbatella?»
«Proprio lui, Edo Fiorentino. All'anagrafe se chiama Empedocle, pure er nome da infame, j'hanno messo».
Poi sta zitto di fronte alla faccia di Pietro. Una maschera di furia assassina.
«Ma nun è della batteria de Brillantino?».
Giacchettone si stringe nelle spalle. Il suo dovere l'ha fatto. E se quello che ha scoperto dovrà scatenare la guerra nucleare... amen. A volte non essere quello che decide ha i suoi vantaggi.
«Magari è stata un'idea sua... Io so sortanto che la targa è quella e la machina pure. L'ho fatta controllà da un amico che sta in questura, nun ce so' dubbi. Nun te posso dì se ce stava lui, nella Lancia o magari quarchedun altro. La zoccola nun l'ha visto bene in faccia ma...». Giacchettone lascia la frase in sospeso pregustando il resto.
«Ma che?»
«Ho preso informazioni, Cattivo», gongola il luogotenente. «Il giorno che l'hanno addobbato, Mario stava pe' uscì proprio co' Gufetto. Dovevano annà ar Cristal, quer bar dove bazzichino sempre i piloti Alitalia. Pare che c'avessero un movimento co' du' hostess che se voleveno scopà».
«Chi te l'ha detto?».
Giacchettone alza le spalle visto che non può avvalersi della facoltà di non rispondere. Con un PM può funzionare, con Pietro non esiste proprio.
«Mi' cugino, a Cattivo. Ma lui nun c'entra un cazzo, ce metto la mano sur foco. Si nun me credi famme secco adesso. Rocco, mi' cugino, aveva incontrato Mario tre giorni dopo che era tornato a casa, erano amici, ogni tanto annavano in bisca insieme...».
«E perché cazzo nun l'ha detto subito, 'sto Rocco?»
«Perché nessuno je l'ha chiesto, Pietro. È uno regolare, c'ha 'na pizzeria al taglio e nun s'immischia, manco pippa. S'era puro dimenticato de 'sta storia ma io avrò sentito cinquanta persone tra cui puro lui e alla fine me l'ha raccontata».
«Ar Cristal ce sei stato?»
«Sì. Conosco un paio de camerieri che quer giorno lavoravano. Nessuno ha visto Mario, Gufetto e manco du' hostess con loro. Quindi era 'na trappola... Ah, nun basta... C'è ancora 'na cosa».
Pietro tende le orecchie come un cane e ammette tra sé che Giacchettone ci sa proprio fare. Troppo forse.
«E dimmela», lo incalza.
«Sai che ar commissariato ce sta Arfio, er poliziotto a busta paga, no?»
«'Mbè?»
«Allora, quattro giorni fa, proprio quando ce sarebbe stato 'sto movimento al Cristal, Mario j'avrebbe mannato uno a fà la firma al posto suo... Ereno le sei de sera e ce stava lui de servizio. Questo vor dì che a quell'ora er Sardo era già bello che morto mentre agli sbirri risulta la firma e quindi penseno che fosse ancora vivo, chiaro? Quello che ha firmato ar posto de Mario era un amico de Gufetto».
La firma di presenza dei vigilati speciali, come quella del Daspo durante le partite di calcio, a volte si fa per delega. Basta avere un poliziotto o un carabiniere disposto a intascare una mazzetta.
«Ammazza, Giacchettò, e chi sei, l'ispettore Derrick?», approva Pietro.
«C'ho avuto culo, a Cattivo. Quello che nun so' riuscito a capì è se sula machina de Gufetto ce stava proprio lui o quarchedun altro che ha fatto il lavoro».
«E chi cazzo voi che ce fosse, a Giacchettò?», esplode er Cattivo che, in qualche modo, deve sfogarsi altrimenti gli viene un infarto secco. «Tu ce lo vedi Gufetto o chiunque altro a prestà la machina a quarcheduno pe' ammazzà Mario? 'O faresti tu? Si te serve la machina la rubi, no? Ma porcaputtana, tutti gli scemi proprio a me devono capità?».
Giacchettone abbozza. Se non conoscesse Pietro si sentirebbe umiliato: gli svela il nome dell'assassino dell'amico in meno di una settimana di indagini e, al posto di lodi e ricompense, ecco cosa gli capita, ma sa che er Cattivo è fatto così. Tra poche ore dimenticherà tutto e lo porterà di nuovo in palmo di mano: il migliore, il più fedele, il più sagace dei suoi luogotenenti.
«Ma perché? Che cazzo j'avrà fatto? Manco sapevo che se bazzicavano, Mario e Gufetto...», s'interroga Pietro Salis, cogitabondo.
«Magari sarà stata 'na questione de fica...», azzarda Giacchettone. La fica c'entra sempre no? Pietro agita la mano come se scacciasse un moscone.
«Mario era sortito de galera da poco. Nun stava con nessuna. Me l'avrebbe detto. Me diceva sempre tutto...». E a questo punto deve fermarsi perché gli occhi lo tradiscono, si velano, si inumidiscono e mettersi a piangere davanti a uno dei suoi è fuori questione.
«Se famo 'na botta?», propone mentre tira fuori il set completo, scatolina d'argento piena di polvere translucida e la cannuccia d'oro che porta al collo. Giacchettone approva festoso, un po' per il gesto di implicita riconciliazione, il massimo che possa aspettarsi in quel momento, e un po' perché la colombiana pura al novanta percento, riservata al consumo personale del Cattivo, senza una briciola di anfetazza, è una prelibatezza che, quando l'assaggi, non la dimentichi più. Lui l'ha sniffata solo due volte e non vede l'ora di farsi la terza.
Pietro pippa per primo, sente la frustata della roba che parte dal naso e si propaga velocemente in tutto il corpo, lecca i rimasugli, accende una sigaretta e si rilassa mentre Giacchettone si avventa sulle piste come un cane sugli avanzi di un banchetto di nozze.
«L'ammazzo io, Pietro. Lo sventro come ha fatto quell'infame co' Mario, te lo giuro...».
Pietro Salis non ascolta neanche. Si sente lucidissimo, adesso, e riflette.
Riflette.
Gufetto. Sui quaranta, piccoletto, smilzo, legnoso. Tipo insignificante, almeno all'apparenza. Forse troppo. Uno dei tanti che gravitano nell'orbita di Ettore Caviglia, alias Robertino, alias Brillantino. Capozona di una fetta imprecisata del litorale ma sempre in ombra, sempre dietro le quinte. Silenzioso, riservato, morigerato quasi quanto il suo capo. Uno che si fa notare il meno possibile, con l'unica eccezione di quella macchina da sborone che è diventata la sua condanna a morte.
Gufetto e Mario. Che razza di legame poteva esserci?
Pietro si scervella, aziona il replay mentale, passa alla moviola l'ultima conversazione che ha avuto con l'amico, prima che si facesse squartare come un capretto nella pineta e la soluzione gli arriva addosso all'improvviso come un treno.
Una soluzione con tanto di nome, cognome e soprannome: Emanuele Ruotolo detto il Papa.
Tutti quei discorsi sulla camorra. Sul ragionare in grande, allargarsi, stringere alleanze, espandersi verso sud, verso la Campania. Forse Mario ha parlato troppo, è andato in giro a millantare la sua amicizia col Papa, a magnificare i progetti futuri e le chiacchiere sono arrivate alle orecchie sbagliate.
E a questo punto i casi sono due.
Gufetto ha un ruolo molto più importante di quello che sembra, magari è un piccolo boss, e, alla prospettiva di veder approdare da sud paranze di guaglioni decisi a papparsi mezzo litorale è corso ai ripari nel modo più spiccio. Niente più Mario, niente più alleanze coi napoletani. Tutto come prima.
Alternativa: Gufetto è solo un esecutore, un boia. L'ordine viene da più in alto ed è facile intuire da dove. Brillantino. Lui, di sicuro, non accetterebbe mai le ingerenze della camorra e spazzerebbe via qualsiasi ostacolo al suo predominio senza pensarci un istante. Ma se è andata veramente così, l'unica soluzione è una guerra che lascerà sul terreno morti, feriti e devastazioni varie. Pietro non è ancora pronto per una cosa simile, non sulla base di una semplice supposizione. Se scoprirà che Brillantino è il mandante non avrà esitazioni né pietà, ma per quello c'è tempo. La cosa più urgente è fare il lavoro a Gufetto e vendicare Mario, poi si vedrà.
Il pugno di Pietro sul tavolo fa alzare una nuvoletta di cocaina.
«Lo ammazzo io, a Giacchettò. Co' le mani mie, qui, a Ostia, davanti a tutti».
Giacchettone resta basito. Era sicuro che l'esecuzione sarebbe toccata a lui. Sono anni e anni che er Cattivo non scende in campo di persona.
«Ma... a Pietro, co' tutto er rispetto... Nun so' che dì», farfuglia.
«E nun dì un cazzo, che è meglio. Hai già fatto parecchio e te so' grato ma adesso c'ho 'n'artra cosa da chiedette».
«Quello che voi, Cattivo, sempre...».
«Domani me devi da portà quell'infame davanti alla panetteria. Trova 'na scusa qualsiasi, di' che je vojo parlà, quello che te pare».
«E se svaga quarcosa? Starà in campana».
«Allora ammazzalo. Ma vedrai che ce verrà. Nun pò immaginà che l'avemo sgamato. Me gioco le palle che nun farà storie».
«Va bene, Pietro, te lo porto».
Er Cattivo gli strizza l'occhio con simpatia e pensa che sarà veramente un peccato dovergli sparare.
Capitolo VIII
«Compagni, sta succedendo qualcosa... C'è un'irruzione nella sede della nostra ra...».
Omar strappa il microfono al ragazzo barbuto, capelluto e terrorizzato e lo scaraventa a terra con un tremendo manrovescio. Poi impugna il revolver a due mani e si mette al centro della stanza mentre gli altri camerati si piazzano ai quattro angoli con le armi pronte.
Sette paia di occhi li guardano con una paura folle. Sei uomini tra i venti e i trentacinque anni in classico abbigliamento da pelosi e una ragazza grassa e brutta, sulla trentina, l'unica che, se non altro, ha la dignità di azzardare uno sguardo di sfida.
«Abbassa gli occhi, troia», sbraita Giorgio agitando la semiautomatica.
«Vaffanculo, fascista di merda».
Giorgio fa un mezzo sorrisetto, poi scatta come un cobra e le affonda un pugno dritto nelle trippe. La ragazza si piega in due, ansa e lascia partire uno schizzo di vomito che imbratta il pavimento. Tutti, perfino i camerati, restano allibiti dalla violenza e dalla rapidità della scena.
«Se eri appena decente ti fottevo qui, davanti ai tuoi amici, tanto per fargli vedere come scopa un uomo vero, ma fai schifo. Se ti azzardi a darmi solo un'occhiata, brutta puttana lardosa, giuro che ti spezzo un braccio», rincara la dose Giorgio che sembra veramente perso in un trip da Arancia meccanica. Omar depreca in silenzio: un buon soldato sa mantenere i nervi saldi ed evita ogni eccesso inutile di crudeltà, ma ormai è andata. Per i rimbrotti ci sarà tempo e hanno esattamente quattordici minuti e ventisei secondi prima di abbandonare il campo.
«Siete prigionieri di un gruppo di fuoco della Rivoluzione Nazionale», annuncia con la sua miglior voce da piazza d'armi. «Per il momento non abbiamo intenzione di eliminarvi, quindi restate fermi e zitti e non vi succederà nulla. Quando ce ne andremo, faremo in modo che questa emittente sovversiva non possa più diffondere calunnie e bugie. Ricordate tutti che la vostra esecuzione è solo rimandata. Se siete vivi lo dovete alla nostra pietà. Chiunque di voi continui la sua attività di militanza tra le file della canea bolscevica verrà inesorabilmente passato per le armi. Camerata Andrea, puoi procedere».
Andrea tira fuori una piccola Nikon e inizia a fotografare a uno a uno gli ostaggi che si fanno piccoli piccoli e cercano ostentatamente di non guardarlo in faccia. Tutta scena ma è possibile che, vigliacchi come sono, i rossi si prendano una strizza tale da non farsi più vedere in giro. E comunque quella delle foto è stata un'idea di Massimo De Signori. Giorgio aveva proposto di rasare tutti a zero in segno di sfregio o magari di imbrattarli di vernice ma l'Ideologo ha respinto l'idea: ricordava troppo le rappresaglie partigiane sui collaborazionisti.
Omar guarda l'orologio al quarzo, i secondi che scorrono inesorabilmente: il tempo sembra dilatato e, al tempo stesso, velocissimo. Il display lo avvisa che sono passati altri tre minuti e mezzo. Afferra il microfono, si schiarisce la voce e tira fuori il testo del proclama scritto da De Signori. Mentre si appresta a leggere si rende conto che tutta quella sceneggiata gli sembra ridicola e inutile. Infantile.
«Un gruppo di fuoco della Rivoluzione Nazionale ha fatto irruzione nella sede di Radio Bandiera Rossa, covo di bolscevichi, omosessuali e sovversivi di ogni risma che, fino a stamattina, diffondeva menzogne e falsità di ogni genere contro i veri patrioti e chiunque abbia a cuore il futuro e la prosperità della nostra amata Patria», attacca stando bene attento a scandire le parole e ignorando il trillo dei telefoni che iniziano immediatamente a squillare. «Abbiamo preso sette prigionieri che verranno trattati umanamente secondo le regole di guerra... A chi ci sta ascoltando con cuore sincero vogliamo dire: aprite gli occhi! Non fatevi più ingannare dalla propaganda comunista! Il pericolo rosso è alle porte ma può ancora essere respinto! Uniamoci per il riscatto nazionale e il trionfo della razza bianca».
Giorgio si immagina le facce degli ascoltatori (sicuramente tutte zecche della peggior risma) nel sentire quelle parole impreviste. Poi le decine di telefonate alla polizia e il gruppo di pelosi che, di sicuro, sta accorrendo a San Lorenzo da tutta Roma per dare l'assalto alla radio e si domanda se De Signori doveva proprio farla così lunga, quella tiritera. Tanto di sicuro nessuno la sta seguendo.
«Onore ai camerati caduti combattendo. Onore alla Rivoluzione Nazionale. Morte al comunismo. Viva l'Italia».
Omar conclude con gli slogan di rito, poi strappa i fili del microfono. È il segnale d'inizio della seconda fase: la devastazione. I camerati cominciano, sistematicamente, a sfasciare tutto a partire dalle consolle e dalle apparecchiature per continuare con finestre, vetri, tavoli scrivanie mentre Andrea, il writer del commando, inizia a tracciare sui muri il simbolo di Rivoluzione Nazionale: un fascio littorio stilizzato al centro di una bandiera tricolore con sotto le lettere R.N.
«Camerati, in riga». I quattro si mettono sull'attenti dietro a Omar che alza il braccio nel saluto romano.
«Camerati, a chi la vittoria?»
«A noi».
«A chi l'onore?»
«A noi».
«Morte ai rossi».
«Morte».
Poi sfilano a passo di marcia fuori dalla porta lasciandosi alle spalle paura e devastazione. Timing perfetto: 19 minuti e 42 secondi. La ragazza grassa piange in silenzio con le mani sulla pancia e il viso affondato nel suo vomito.
Alessio Gioberti addenta il primo morso di pizza rossa con un mugolio di soddisfazione. Non ha avuto il tempo di mangiare il solito tramezzino delle undici e aveva i crampi dalla fame ma, per mettere qualcosa sotto i denti, ha dovuto aspettare la chiusura della banca per la pausa pranzo. Ora, finalmente, può godersi l'impasto, morbido e croccante al tempo stesso, il condimento di pomodoro e olio con quel pizzico di rosmarino e prezzemolo che danno una piccola nota amarognola all'insieme e la Nastro Azzurro fresca e spumeggiante, che va giù come acqua. Il pranzo, di solito, se lo porta da casa per risparmiare ma ogni tanto una piccola botta di vita ci vuole, anche perché il suo lavoro di guardia particolare giurata non gli concede molte soddisfazioni. Sveglia alle 5:15, colazione in fretta e furia, un'ora e un quarto di autobus se va bene per arrivare in sede e poi undici ore a fare lo stoccafisso davanti a una banca dove non potrebbe mai entrare per aprire un conto corrente visto che non ha una lira. Con lo stipendio che gli danno è già tanto se riesce ad arrivare a fine mese senza troppi buffi, considerato che una moglie casalinga e una figlia di tre mesi si portano via quasi tutto. Per l'ennesima volta, considera il fatto che forse, tra poco, Teresa potrà tornare a fare le pulizie e lasciare la bambina ai nonni. Guadagnerà almeno seicentomila lire al mese, quanto basta per l'affitto: le cose, almeno un po', finiranno per aggiustarsi.
Se l'avessero preso nei carabinieri, nella polizia o nella penitenziaria sarebbe stato diverso: posto fisso, statale, stipendio sicuro, aumenti programmati... Ma è andata così. Uno che viene da Macerata senza uno straccio di raccomandazione e, tra l'altro, con un girovita che ricorda quello di Gino Bramieri, è già tanto se ha potuto indossare la divisa dell'Italpol.
Alessio finisce la pizza con un mugolio di rimpianto, si lecca le dita per evitare di pulirsele sui pantaloni (sai Teresa, che strilli), scola quello che resta della birra e fa per entrare nel primo bar a prendere un caffè, quando vede i quattro che escono uno dopo l'altro dal portone del palazzo di fronte e capisce che c'è qualcosa di sospetto. Quello che cammina davanti a tutti ha qualcosa in pugno che sembra decisamente una pistola.
Una 124 esce da un parcheggio col motore imballato. I quattro si affrettano a salire mentre una ragazza piccola e magra si piazza in mezzo alla strada come un vigile urbano.
Alessio guarda bene e vede la mitraglietta che stringe in pugno. D'istinto si abbassa dietro una macchina, col cuore in gola, deciso ad aspettare che se la filino tutti e lo lascino in pace.
Poi qualcosa lo spinge a sfilare la grossa Smith & Wesson calibro .38 special che porta alla fondina. Nessuno può vederlo, è perfettamente al riparo. Forse è veramente la volta buona. Mentre prende la mira cerca di ricordare quello che gli hanno insegnato al poligono durante il brevissimo corso di formazione: mano forte rilassata, mano debole che stringe e spinge in direzione opposta, punta dell'indice sul grilletto, pressione costante, continua, impercettibile: non sei tu che decidi di sparare, il colpo ti deve sorprendere...
Bum.
Dalila sente un colpo tremendo al centro del petto e pensa che le sia venuto un infarto. Poi si guarda, sbalordita, e vede il sangue che zampilla sul giubbotto, cerca di alzare il mitra, ma ha le braccia molli, prova una irresistibile sensazione di tranquillità, le gambe le si afflosciano da sole e, d'improvviso, si ritrova a terra, faccia in su a guardare il cielo, capisce che sta morendo, percepisce, con un vago rammarico, il flusso del sangue che continua ad abbandonarla mentre, tutto attorno, esplode una salva di colpi di arma da fuoco. Poi sorride, felice e abbraccia il buio.
Giovanni, impazzito di rabbia e di paura, sgrana colpi di mitraglietta a casaccio, poi sale sulla Kawa, parte di pinna, scivola, finisce a terra, impugna nuovamente l'M12, fa partire un'altra raffica, risale sulla moto zoppicante, riesce ad avviarla al quinto tentativo e scappa.
La 124 è già lontana, con Omar e Andrea che fanno fuoco dai finestrini, sparando in aria per coprirsi la fuga.
Alessio è appiattito a terra come un topo, con la divisa imbrattata di piscio visto che se l'è fatta addosso ai primi spari. Ci resta per tre minuti buoni, poi, piano piano, si mette in ginocchio, inizia a toccarsi dappertutto, si rende conto di non essere ferito, vede il cadavere della ragazza a terra, in una grande pozza rosso scura e, per la prima volta in vita sua, si sente un eroe.
«È stato lui, signor Capitano. Che ne pensa? A me sembra evidente».
«No. Escluso».
Antonello Messina accende una MS con rabbia. Aveva smesso da tre mesi ma dopo la scenata con Pietro Salis si è ritrovato a fumare senza neanche rendersene conto e il pacchetto mezzo vuoto alle undici del mattino fa presagire che la ricaduta sarà peggiore delle precedenti. Una relazione altalenante con la nicotina che dura da almeno venti anni, come un amore tormentato fatto di litigi, rotture e rappacificazioni. Alla fine ci torna sempre.
Compagnia carabinieri di Ostia, interno giorno. È giugno avanzato, ma la luce che filtra dalle finestre è grigia e lattiginosa come in inverno. Giornata di scirocco, vento da sud umido, caldo e appiccicoso che porta pioggia e malumori. Come se ce ne fosse bisogno.
Renato Pettisi mette su la faccia da bulldog. Per lui er Cattivo è il sospettato ideale. E se non è stato lui ad accoppare Porcu Mario chissenefrega, vorrà dire che pagherà per le tante altre cose che ha fatto e nessuno è riuscito a scoprire. Puro, cristallino, odio di sbirro.
«Se ci pensa bene, però, signor capitano... tutto tornerebbe», insiste. «Salis Pietro è ormai una figura quasi egemone della mala di questo posto di merda... Non è collegato alle tre famiglie Frisciotti, Daga e Triolli, che gestiscono gran parte dello spaccio e degli altri traffici di zona ma è abbastanza potente da aver conquistato un ruolo indipendente. Nessuno si azzarda a toccarlo e, secondo informazioni del nucleo operativo, avrebbe stretto un patto di alleanza con altri due gruppi malavitosi di Testaccio e Magliana. Gente decisa, ex rapinatori pronti a tutto per fare il salto di qualità... I nostri investigatori li tengono d'occhio da un bel pezzo ma ancora non hanno niente per incastrarli. Come se non bastasse, signor capitano, il Salis ha simpatie per la destra eversiva ed è sospettato di contatti operativi con alcuni elementi del terrorismo nero per cui...».
«Queste cose le so benissimo, Pettisi. Anche se sono arrivato da poco non vuol dire che non mi sia informato, non prendermi per un fesso...», sbotta Messina che sa distinguere tra un cacacazzo e un ottimo elemento. Pettisi, per sua sfortuna, li è entrambi, e se non fosse per l'esperienza, l'intuito e la tenacia il capitano l'avrebbe spedito volentieri all'ufficio denunce fino alla pensione visto che, con quel grugno da mastino e quell'aria da signor Sotutto gli sta cordialmente antipatico. Il suo modo di chiamarlo "signor capitano" a ogni piè sospinto significa esattamente "piccolo idiota presuntuoso".
«Non mi permetterei mai, signor capitano, stavo solo elencando una serie di circostanze a carico del Salis», grugnisce il maresciallo, impermalosito.
«Circostanze che non c'entrano un accidente con l'omicidio di Porcu Mario, Pettisi... È di questo che stiamo parlando. Il resto lasciamolo ai colleghi del nucleo».
«Ma è proprio a Porcu che volevo arrivare... Mi consenta di continuare. Come sappiamo, il Salis è un boss in ascesa. Il suo ex sodale e amico Mario Porcu esce di galera dove, presumibilmente, ha fatto comunella con alcuni personaggi di rango. Anzi, signor capitano, c'è un rapporto della polizia penitenziaria che parla di una frequentazione assidua con il noto camorrista Emanuele Ruotolo inteso il Papa...».
«E perché me lo dici solo ora?»
«È arrivato due ore fa, signor capitano, eccolo, prego...».
Antonello Messina dà una rapida scorsa alla nota informativa, scritta in un burocratese perfino più incomprensibile e astruso dei rapporti dei carabinieri. I secondini, come scrittori, fanno veramente pietà ma il concetto è chiarissimo.
«Interessante ma anche questo non ci aiuta», conclude Messina reprimendo, a stento, l'istinto di accartocciare il foglio e buttarlo nel cestino tanto per far incazzare Pettisi.
«Ma porc... Ma, scusi, signor capitano, a me invece sembra chiarissimo: Porcu ha fatto comunella con Ruotolo, il che significa Famiglia Confederata che, come lei mi insegna, è attualmente una delle fazioni più pericolose e aggressive nella guerra di cosche in Campania... Ovviamente Salis non può permettere che i camorristi di Ruotolo vengano a rompergli le uova nel paniere e fa ammazzare Porcu prima che l'invasione cominci...».
«Con lo stesso criterio potrebbero essere stati i Triolli, che hanno legami con altre famiglie camorriste, no? O i Frisciotti agganciati alla 'ndrangheta... E perché non quegli zingari scatenati dei Daga che spingono da dietro e cercano il loro bravo posto al sole?»
«Perché Salis è quello che ha più da perdere e perché i suoi contatti sono tutti a Roma, quindi non ha protezione contro i napoletani, ecco perché», sbotta Pettisi che, per un istante, rischia di mollare un cazzottone sul tavolo e beccarsi una nota disciplinare o, quantomeno, un cazziatone da Guinness dato che, in quanto a etichetta, nell'Arma, non si scherza.
«Senti, Pettisi, il tuo ragionamento può anche filare ma Salis non c'entra. Lo so e basta», taglia corto Messina.
La faccia del maresciallo è un punto interrogativo che chiede risposte.
Il capitano si massaggia le tempie e si domanda che cazzo di spiegazione logica può dare al sottufficiale che, stronzaggine a parte, sta facendo solo il suo lavoro e lo sta facendo bene come al solito.
Il fatto è che Pietro Salis, con l'omicidio, non c'entra e Messina lo ha capito fin dall'inizio.
Non sarà il massimo esperto mondiale della mala di Ostia ma sa riconoscere il dolore, quando lo vede. Nella sua carriera, lo ha incontrato, riconosciuto, rispettato in mille occasioni e quello di Pietro era un dolore vero, impossibile da simulare, lo strazio inconfondibile di chi ha perso un amico carissimo ed è pronto a tutto per vendicarlo. Lo stesso strazio che ha visto tante volte sulle facce di terroristi, malavitosi, barabba, parenti di vittime, colpevoli e innocenti che fossero. Lo strazio che ha provato lui stesso, Antonello Messina, quando un suo compagno di corso è stato assassinato in Sardegna da un gruppo di sequestratori durante l'irruzione per liberare un ostaggio. Gli occhi dardeggianti e lucidi di Pietro Salis non potevano mentire.
E adesso vallo a spiegare a questa specie di molossoide.
Messina sospira e si ricorda che è lui a comandare, quindi le spiegazioni Pettisi può ficcarsele nel culo. E tanto per cambiare argomento s'aggrappa all'ultimo ricordo che gli è venuto in mente, a proposito di Sardegna...
«Avete interrogato il padre dell'ucciso, immagino...».
«Naturalmente, signor capitano, lo abbiamo tenuto qui per sei ore di fila».
«E cosa ha detto?»
«Assolutamente niente, signor capitano. Si è semplicemente rifiutato di aprire bocca. Nome, cognome e numero di matricola come in guerra se ce l'avesse, una matricola. Gli abbiamo spiegato che stavamo cercando di beccare chi gli ha ucciso il figlio, abbiamo tentato di farlo ragionare, abbiamo minacciato di denunciarlo per favoreggiamento se continuava a star zitto... Niente. Neanche una parola. Quella gente è fatta così. Alla fine l'abbiamo lasciato andare. Sa come sono i sardi, no?».
Messina annuisce quasi divertito. Lo sa benissimo visto che lui, a differenza del maresciallo, in Sardegna c'è stato, a farsi venire le vesciche ai piedi a forza di scarpinare sul Supramonte e a rovinarsi il fegato davanti alle facce di pietra dei balentes che si fanno squartare piuttosto che parlare di qualsiasi cosa, perfino del tempo, con la "zustissia".
«Va bene, Pettisi, ricominciamo da capo. Cosa sappiamo degli ultimi movimenti del Porcu?»
«Molto poco, signor capitano. Purtroppo non saremo in Sardegna o in Sicilia, ma anche qui l'omertà va forte. Amici e parenti, sodali, gente di malaffare che lo conosceva dicono di non averlo quasi visto da quando era tornato a casa. L'unico elemento certo è che alle 18:30 era ancora vivo... A quell'ora, infatti, ha firmato il registro dei vigilati speciali presso il commissariato di pubblica sicurezza. Mi permetta di aggiungere che, per quella fascia oraria, il Salis Pietro non ha un alibi dato che ha riferito di essere rimasto solo a casa senza nessuno che possa confermarlo...».
«E daje con Salis, Pettisi. Ti ho detto di lasciarlo perdere, almeno per un po'. Se salterà fuori qualche indizio torneremo a occuparci di lui ma per ora vediamo qualche altra ipotesi... Delitto passionale?»
«Non risulta che la vittima avesse una relazione, signor capitano. Si era separato dalla sua compagna un mese prima dell'arresto ma erano in buoni rapporti, tanto che lei gli ha scritto qualche lettera affettuosa quando era dentro. L'abbiamo ascoltata, tanto per provarle tutte ma si è trasferita ad Albano Laziale e Porcu non è andato nemmeno a trovarla».
«Avete accertato se Porcu si drogava, beveva, giocava d'azzardo?»
«Nessuna delle tre, signor capitano... Era un tipo quasi monastico, se posso permettermi l'espressione parlando di un delinquente».
«E allora qui c'è sotto qualcosa che ancora non sappiamo», conclude Messina allungando la mano verso il pacchetto di MS. «Qualche equilibrio che sta cambiando, qualcuno che ha deciso di fare la scalata e ha cominciato da Porcu. E noi dobbiamo scoprire chi è prima che lo scopra Salis».
«Salis, signor capitano?»
«Certo, Pettisi, Salis. L'hai sentito no? Se lo trovo ci penso io a fare giustizia ma quella vera, mica la vostra... Ha detto proprio così. E non stava parlando a vanvera».
«Se lo dice lei, signor capitano».
«Lo dico io. E adesso vado a farmi una passeggiata in riva al mare per schiarirmi le idee... Fammi chiamare se c'è qualche novità, resto nei paraggi».
Antonello Messina lascia un maresciallo Pettisi tra il perplesso e l'ingrugnato, si mette la giacca maledicendo il ritardo nell'autorizzazione a indossare la divisa estiva e scende velocemente i gradini dell'ingresso. Lo scirocco si è rafforzato, qualche goccia di pioggia, stanca come lacrime, comincia a cadere, gli stabilimenti sono deserti e la sabbia scura sembra melma. Messina guarda le onde che si rompono sulla barriera frangiflutti, gli ombrelloni chiusi che assomigliano a cipressi desolati, le insegne dei bar e dei ristoranti, e si chiede come si fa a chiamare questo posto un quartiere di Roma. Tra faide di mala, tentacoli di camorra, 'ndrangheta e mafia che si allungano da sud, regolamenti di conti e omertà sembra di essere in un altro mondo. Forse perché questo è, effettivamente, un altro mondo.
Messina cammina e riflette, riflette e cammina, fuma, si ferma, cammina ancora, il suo personale modo di riordinare le idee.
Unico elemento certo: alle 18:30 ha firmato al commissariato.
Un commissariato di cento poliziotti di frontiera. Abbandonato a se stesso. Circondato dai nemici. Sbirri di zona che vivono fianco a fianco coi cattivi da sempre, frequentano gli stessi bar, si rilassano alle stesse sale giochi, mangiano negli stessi ristoranti.
Antonello Messina fa un dietrofront che neanche durante la sfilata del 2 giugno e marcia dritto verso la caserma, ben deciso a farsi una chiacchierata col vicequestore del commissariato. In fondo il ministro lo dice sempre che le forze dell'ordine devono collaborare, no?
«Ma che me deve da dì?».
Gufetto gira intorno lo sguardo preoccupato che gli ha dato il soprannome, assieme ai grossi occhiali con la montatura di celluloide che lo fanno assomigliare, effettivamente, a un gufo o a una civetta.
Giacchettone risponde con un'alzata di spalle e affretta il passo, il cuore che comincia a ballare la rumba. Mancano poche centinaia di metri alla panetteria dove er Cattivo sta aspettando con la pistola carica in tasca e comincia a domandarsi che razza di idea folle abbia avuto Pietro: addobbare l'infame in pieno giorno, in piena luce, in pieno centro, davanti a chissà quanta gente, senza neanche coprirsi la faccia. Una sbrasata da Chicago anni Trenta, che può costare galera o morte: basta una volante o una gazzella di passaggio ed è una sparatoria sicura.
«De che me deve parlà er Cattivo?», insiste, un po' querulo, Gufetto che, evidentemente, comincia a sentire odore di trappola. Ci manca solo che mangi la foglia e se la squagli; Giacchettone trema ancora di più perché sa chi sarebbe il parafulmine dell'ira tremenda di Pietro Salis. Quindi passa un braccio attorno al gomito di Gufetto, in un gesto d'amicizia, pronto a trattenerlo e, al limite, a trascinarlo di peso per l'ultimo tratto, se ce ne sarà bisogno.
«E che cazzo ne so io? M'ha detto portemelo e io te ce sto a portà», taglia corto. «Magari te vo' chiede de fà un lavoro... a me nun me dice gnente: vai, fai e io vado e faccio».
«Boh... basta che se sbrigamo che devo annà a magnà da mi' madre».
Tu' madre la vedrai all'inferno, pensa ferocemente Giacchettone mentre vede, con un misto di sollievo e di apprensione, la grossa figura del Cattivo che si stacca dal muro e si piazza al centro del marciapiede. Ci siamo.
Er Cattivo estrae il revolver Ruger a canna corta, alza il cane e lo nasconde dietro la schiena mentre i due uomini si avvicinano, la sagoma alta e massiccia di Giacchettone che sovrasta quella piccola e smilza di Gufetto e quasi la spinge in avanti.
Empedocle Fiorentino, alias Edo, alias Gufetto, percorre esitante gli ultimi duecento metri da dead man walking, mentre la stretta sul braccio si fa più forte e, all'improvviso, s'allenta. Giacchettone, finalmente, lo ha mollato e si è defilato andando a mettersi al riparo vicino a un cartellone che reclamizza il Cornetto Algida.
Gufetto vede Pietro che avanza in pieno stile Mezzogiorno di fuoco e capisce che è finita.
«A Pietro, che stai a fà? Che succede, a Piè? Perché m'hai fatto venì?», balbetta confuso mentre cerca disperatamente una via di fuga e si rende conto, in un attimo, che non ce ne sono. Può soltanto morire.
Pietro alza il revolver tenendolo a due mani e glielo punta addosso da due metri di distanza. Gufetto crolla in ginocchio.
«Te scongiuro, no, a Cattivo. Nun ho fatto gnente, te stai a sbajà, nun so' stato io», singhiozza senza ritegno. Pietro lo sovrasta come un angelo vendicatore. Sguardi impietriti dalla strada, dai negozi, dai marciapiedi. Una massaia grassa si domanda se stanno girando un film, intuisce che non ci sono macchine da presa o registi in giro e quasi si fa venire un infarto.
Pietro scaracchia sulla testa di Gufetto che ormai frigna come un bambino.
«Piagni, pezzo di merda, infame... Piagni come hai fatto piagne me...».
«Pietro, nun m'ammazzà, te prego... c'ho 'n fio de sei anni», supplica Gufetto con un filo di moccio che gli esce dal naso.
«Ah sì... Allora sappi che dopo de te ammazzo pure lui», ringhia er Cattivo mentre preme il grilletto. Il proiettile blindato Black Mamba calibro .38 special penetra nel torace di Gufetto alla velocità di quattrocento metri al secondo, spacca una costola, squarcia il polmone sinistro e fuoriesce dalla schiena lasciandosi dietro vene tranciate, tessuti lacerati, una devastante emorragia interna e un foro d'uscita largo come una medaglia olimpica.
Il cuore di Gufetto pompa disperatamente gli ultimi battiti a secco, poi rallenta e infine si ferma. Pietro Salis gli appoggia la canna da due pollici sulla testa e, con una smorfia di puro odio, gli scoperchia il cranio. Mezzo cervello si sparge sull'asfalto insieme a una schiuma rossastra che sembra bollire.
Er Cattivo si erge in tutta la sua statura, con la pistola in mano, in mezzo alla strada sovrastando il cadavere. «Ecco come finiscono l'infami de merda», declama quasi urlando. «Mo' vojo vede si quarcheduno s'azzarda a dì che so' stato io».
Il silenzio di ghiaccio che accoglie queste parole è più eloquente di qualsiasi rassicurazione. Nessuno avrà il coraggio di sporgere denuncia.
Giacchettone esce dall'angolo dove si era rintanato, con circospezione da gatto randagio e fa per avvicinarsi. Er Cattivo non gli ha spiegato cosa doveva fare dopo. Le istruzioni finivano davanti alla panetteria.
Pietro lo saluta con un sorriso sghembo, punta ancora la pistola e fa fuoco.
Giacchettone sente la gamba sinistra che cede e va giù. A terra, guarda con sorpresa il pezzo di tibia bianco e acuminato come uno stiletto che gli sporge dal polpaccio.
Pietro gli si accosta e si china su di lui. Giacchettone chiude gli occhi e cerca di ricordarsi il Padre Nostro.
Le voce del Cattivo gli arriva distante, ovattata dallo shock e dal dolore. Pietro gli sta parlando all'orecchio come un confessore, come un amante.
«Così nessuno penserà che erimo d'accordo, Giacchettò. Me dispiace, l'ho dovuto fà. All'ospedale racconta che stavate a camminà in strada e v'hanno sparato da una moto, intesi? Bravo, te vengo a portà i cioccolatini in corsia».
Poi Pietro Salis gira sui tacchi e se ne va maestosamente, senza affrettarsi, mentre Giacchettone piange in silenzio di sollievo e di felicità, senza smettere di aggrapparsi alla gamba spezzata che, forse, non lo sosterrà mai più come prima. Frattura da scoppio. Almeno tre operazioni per rimettere insieme l'osso sbriciolato con una placca di titanio e minimo quattro mesi di riabilitazione prima di rimettersi in piedi. Invalidità permanente. Condanna a zoppicare per sempre.
Giacchettone ride isterico di pura gioia. Chissenefrega. È vivo.
Capitolo IX
«Camerata Dalila...».
«PRESENTE».
«Camerata Dalila...».
«PRESENTE».
«Camerata Dalila...».
«ONORE. ONORE. ONORE».
I Neri alzano tre volte il braccio nel saluto romano, scattano sull'attenti, battono i tacchi. Massimo De Signori, che per l'occasione veste in orbace con tanto di pugnale degli Arditi al fianco, ordina il riposo e il gruppo di camerati si rilassa dopo la commemorazione, un rito tra il celtico e il militaresco, inventato lì per lì, tra canti, slogan, proclami, qualche discorso gonfio di retorica, musica di Wagner e continui appelli alla lotta e alla vendetta. Su un tavolo, circondata da fiori, candele votive, una pistola e una daga littoria incrociate, campeggia una grande foto di Dalila sorridente in una cornice d'argento massiccio.
Occhi rossi di pianto, fumo e alcol, senso di sconfitta e desolazione, rabbia e voglia di vendetta che aleggiano nell'aria.
Giovanni sgattaiola via, si chiude al gabinetto, si prende il viso tra le mani e singhiozza senza ritegno. Il suo è un dolore diverso da quello degli altri, misto al senso di colpa e alla vergogna per non aver fatto qualcosa, qualsiasi cosa per impedire che Dalila venisse uccisa. Adesso che è morta, si è reso conto di quanto ne fosse disperatamente innamorato: un amore folle e impossibile, intriso di ammirazione e soggezione per quella donna irraggiungibile e glaciale, minuta come un uccellino e dura come una lama d'acciaio, sempre decisa, motivata, incrollabile. L'anima stessa del piccolo gruppo di Rivoluzione Nazionale, una che, in anni di clandestinità, fughe, attentati, non aveva mai manifestato il minimo dubbio, la più piccola esitazione, il più impercettibile tentennamento. Una che ci credeva fino in fondo, con tutta se stessa. Gli eroi muoiono giovani.
Giovanni si soffia il naso, si lava la faccia, cerca di ricomporsi e torna nel salotto della solita villa dove Massimo De Signori ha appena iniziato un nuovo discorso. Una quindicina di camerati, alcuni dei quali arrivati apposta da altre città d'Italia, lo ascoltano compunti e attenti come scolaretti.
«La camerata Dalila è morta combattendo, ha dato la vita per la vittoria finale e il suo esempio rimarrà nei nostri cuori per sempre», attacca l'Ideologo che, oggi, ha deciso di dar fondo senza risparmio a tutti i luoghi comuni sulla retorica dell'estremo sacrificio. «Dopo la Rivoluzione, quando saremo al potere, m'impegno fin da oggi a proclamare il giorno della sua morte festività nazionale e a far intitolare a suo nome una strada di Roma».
Piccolo applauso, qualche voce che grida «Giusto» e «Onore». Omar reprime a stento un sorrisetto amaro. Parole inutili, proclami assurdi, promesse impossibili. La prospettiva di rovesciare la giudoplutocrazia e instaurare un governo di ricostruzione nazionale, tante volte favoleggiata negli opuscoli, nelle rivendicazioni, nei pamphlet di propaganda, ormai, se l'è dimenticata da un pezzo. Combatte, spara, uccide, scappa senza più chiedersi perché. È un soldato in guerra e in guerra non ci si fanno domande: in guerra si ammazza e ci si fa ammazzare. Come Dalila. Da quando è morta, il colonnello Omar Gentile continua a chiedersi sempre più spesso chi sarà il prossimo.
«Camerati, anche grazie al sacrificio di Dalila l'azione contro Radio Bandiera Rossa è stata un pieno successo. La canea comunista ha dovuto ascoltare le nostre idee dalla sua stessa emittente e quella voce bugiarda e vile è stata soffocata...».
Omar scuote la testa pensando che la radio ha ripreso le trasmissioni due giorni dopo il blitz e le zecche hanno ricevuto la solidarietà di tutte le forze politiche, compresi i traditori dell'MSI. A volte ha l'impressione di essere finito in una di quelle sette dove si predica una fine del mondo imminente e catastrofica a cui solo un piccolo gruppo di eletti potrà scampare. Sempre più spesso, di notte, rivive alla moviola la scena del Villaggio Olimpico.
I due poliziotti aggrediti a tradimento, disarmati, trascinati di peso, costretti a inginocchiarsi.
Le lacrime e le suppliche del più giovane.
Il viso chiuso e duro dell'ispettore che non ha mostrato la minima paura ed è morto da eroe, come Dalila.
I proiettili a bruciapelo.
Le due teste che esplodevano.
I cadaveri a terra, uno a fianco all'altro.
Da quel giorno Omar è cambiato. È diventato più duro, più chiuso, più determinato. E al tempo stesso ha cominciato a chiedersi se tutto quel sangue, tutti quei lutti, tutti quei funerali di Stato con la prima fila di politici in gramaglie e la gente che applaude fuori dalla chiesa abbiano veramente un senso. Lo Stato non crolla. Lo Stato reagisce, colpo su colpo. La gente sta a guardare, terrorizzata, abbassa la testa, aspetta che quella grandinata di piombo e di lutti finisca. Altro che Rivoluzione. Omar Gentile si sorprende spesso a domandarsi se per gli odiati nemici è lo stesso. Brigate Rosse, Prima Linea, Nuclei Armati Proletari, Nuclei Armati Rivoluzionari, Nuclei comunisti combattenti e tutti gli altri pensano veramente di poter vincere? Mantengono la fede e l'ideale? Sono ancora convinti? A volte Omar s'immagina vecchio e deluso, a colloquio con Renato Curcio, Prospero Gallinari o Michele Viscardi: soldati in disarmo che hanno combattuto sui fronti opposti e rievocano le vecchie battaglie con disillusione e nostalgia da terza età.
«La guerra è bella anche se fa male...», canta Francesco De Gregori. Omar comincia a domandarsi se è veramente bella o fa solo male. Il nemico non è vinto, sconfitto, battuto. Non ci sono infermiere con cui fare l'amore. Solo una ragazza di ventotto anni ammazzata da una pallottola al torace.
Omar china la testa, stringe i denti e cerca di concentrarsi sul discorso di De Signori.
«Camerati, la morte di Dalila chiama sangue, esige una reazione immediata. Lo dobbiamo a lei, a noi e all'Idea. Salvo, a rapporto: che cosa hai saputo dell'assassino?»
«Si chiama Alessio Gioberti. I giornali non hanno pubblicato il nome, come sappiamo, ma non è stato difficile scoprirlo. Presta servizio all'Italpol, uno degli istituti di vigilanza più quotati d'Italia, da quattro anni. Ho preso qualche informazione su di lui: nessuno lo considera un eroe, probabilmente si è trovato in mezzo alla sparatoria per caso e ha scelto il momento propizio per sparare a Dalila. Sposato, una figlia piccola. Abita a Centocelle».
«Possiamo colpirlo?»
«Purtroppo mi sembra praticamente impossibile. È sospeso dal servizio, ufficialmente in convalescenza per lo shock e messo sotto scorta. Anche l'abitazione è vigilata. L'unico metodo sarebbe attaccare l'appartamento con artiglieria pesante a distanza, come un bazooka o un lanciagranate, ma siamo sprovvisti di un armamentario simile. Un assalto diretto alla scorta finirebbe in un bagno di sangue e senza alcuna reale prospettiva di successo... E rischiamo di uccidere moglie e bambina, cosa che ci attirerebbe la riprovazione generale».
De Signori tace e mastica amaro. Solo le Brigate Rosse hanno avuto la forza e le risorse per portare l'attacco al cuore dello Stato. Loro, i Neri, finora, si sono limitati a insidiarne le periferie.
«Bene, progetto scartato allora. Del resto non è importante la singola persona ma quello che rappresenta. La rappresaglia dev'essere immediata e spietata. Propongo quindi di giustiziare altri due servi del potere in divisa. Stavolta punterei sui cani da guardia più ringhiosi del potere giudaico-comunista, i carabinieri».
Mormorii di approvazione, molti sguardi che si voltano su Omar visto che il comandante militare è lui ed è ovvio che assumerà il comando dell'azione.
«Camerata Gentile, mi offro volontario». Giovanni scatta sull'attenti come un misirizzi.
«Anch'io». Salvo.
«Anch'io, anch'io». Giorgio e Andrea, quasi a una voce.
«Molto bene. Omar, di quanto tempo hai bisogno per organizzare l'azione?». Massimo De Signori gli spiana addosso uno sguardo da grande inquisitore e Omar si domanda se sia dotato di facoltà telepatiche.
«Dopo l'attacco alla radio tutte le misure di vigilanza e sicurezza sono state rafforzate, soprattutto a Roma dove dovremo colpire per ovvi motivi simbolici», tergiversa. «Polizia e carabinieri fanno servizio col colpo in canna e il dito sul grilletto, e i cosiddetti obiettivi sensibili sono strettamente sorvegliati. La priorità assoluta è di non lasciare altri camerati caduti sul campo di battaglia, quindi propongo di aspettare una ventina di giorni prima di agire. Li colpiremo quando meno se lo aspettano. L'obiettivo potrebbe essere una pattuglia in servizio davanti a una sede diplomatica. Sono incarichi che vengono assegnati spesso ai militari meno esperti e non dovremmo avere sorprese ma, ripeto, non adesso».
Parli come un vigliacco. Giovanni lo pensa soltanto ma si guarda bene dall'aprire bocca visto che ricorda benissimo la faccia sfracellata di Pitbull.
Massimo De Signori annuisce, pensoso. Da qualche tempo ha l'impressione che il suo braccio destro sia meno convinto, demotivato, più esitante rispetto al solito ma non può permettersi dissidi interni né, tantomeno, l'eventualità catastrofica di una scissione. Omar resta sempre il migliore e se se ne va lui il gruppo rischia di sfaldarsi.
«Va bene, camerata. Mi fido delle tue intuizioni, come sempre... Ma la cosa va fatta entro un mese. Tienimi informato sugli sviluppi. E adesso banchettiamo in onore della nostra camerata che sarà sempre tra le nostre fila».
Tutto il gruppo s'avvia verso la sala hobby della villa dove è stata allestita una cena luculliana che si concluderà con un profluvio di libagioni e brindisi in onore di Dalila, dell'Idea e della Vittoria, canti di guerra e di lutto e una solenne ubriacatura collettiva. Antiche tradizioni germaniche ripristinate o reinventate per l'occasione.
Omar si ripromette di mantenersi sobrio perché ha un mese di tempo e una faccenda da concludere che gli sembra molto più importante.
«A viso scoperto?»
«Sì. È l'unica cosa che siamo riusciti a sapere».
«E nessuno lo sa descrivere?»
«Proprio così. Amnesia collettiva. Io stavo guardando da un'altra parte, io mi sono buttato a terra e non ho visto niente, io ho pensato che fossero i mortaretti e ho continuato a farmi gli affari miei, manco mi sono girato... I mortaretti a giugno, cazzo. Qui è peggio di Palermo».
Antonello Messina fa un gesto scoraggiato. In Sicilia non ha mai fatto servizio ma la Sardegna, a quanto ricorda, era molto peggio di qui. Peggio?
«Dunque, ricapitoliamo. La dinamica?»
«I due sono arrivati assieme davanti alla panetteria. Camminavano fianco a fianco, senza discutere, almeno stando al pochissimo che abbiamo potuto ricostruire. A un certo punto un tizio senza passamontagna né travisamenti li ha affrontati in mezzo alla strada e ha sparato». Renato Pettisi lancia un'occhiata distratta agli scarabocchi incomprensibili che ha tracciato sul calepino, tanto per riordinare le idee. «Ha fatto fuoco su Fiorentino Empedocle, inteso Gufetto, e lo ha centrato al torace. Poi si è avvicinato e lo ha finito con un colpo alla testa a bruciapelo. Classica esecuzione. Subito dopo ha rivolto l'arma contro De Rossi Raffaele, detto Giacchettone, e lo ha ferito a una gamba. L'arma dovrebbe essere un revolver calibro .38 special, sul posto non abbiamo rinvenuto bossoli. De Rossi ha riportato una ferita scomposta da scoppio a tibia e perone ed è attualmente ricoverato al Giovan Battista Grassi. Sono andato di persona ad ascoltarlo prima che entrasse in sala operatoria».
«Hai fatto benissimo, Pettisi. Che dice?».
Il maresciallo allarga le braccia sconsolato. «Niente di utile, un sacco di cazz... di frottole, signor capitano, mi scusi».
«Non ti scusare, non siamo in collegio. Allora?»
«De Rossi sostiene che a far fuoco è stato uno sconosciuto sceso da una motocicletta e, ovviamente, giura di non avere idea del motivo dell'aggressione. Ci stavamo facendo una passeggiata, andavamo al bar e a un certo punto ci hanno sparato... bla bla bla. Mi sono permesso di disporre immediatamente il fermo di PG e De Rossi è attualmente piantonato ma dubito che possa servire a qualcosa. L'accusa di favoreggiamento, ammesso che il PM la confermi, cadrà quasi sicuramente davanti al giudice istruttore e, comunque, questo Giacchettone non può andare da nessuna parte, con la gamba in trazione come starà dopo l'intervento. Quaranta giorni di prognosi iniziale. La sua ricostruzione è smentita da tutte le testimonianze, le pochissime che abbiamo raccolto, intendo, e nessuno parla di un veicolo in fuga. La mia supposizione è che l'assassino si sia allontanato tranquillamente a piedi, tra la folla, signor capitano. Nessuno ha anche solo pensato di fermarlo».
«Telecamere?»
«Ce ne sono due, una davanti alla banca che si trova a cento metri di distanza e una all'ingresso di una gioielleria. Entrambe sono fuori uso. Non posso escludere che siano state manomesse artatamente nelle ore precedenti all'agguato».
Il maresciallo finisce il breve rapporto, incrocia le mani come un parroco in confessionale e lancia a Messina un'occhiata che significa: e adesso parla tu, che facciamo?
Antonello Messina tace a lungo. Il saggio arrotola la lingua sette volte prima di parlare, antico proverbio cinese. Poi sta zitto. Ma stavolta non è possibile.
«È chiaramente una sfida, Pettisi. Una dimostrazione di forza a uso e consumo nostro ma anche di tutta Ostia. L'assassino ha lanciato un messaggio chiarissimo: qui comando io, faccio quello che mi pare, ammazzo chiunque davanti a tutti, in pieno giorno, e so che nessuno avrà il coraggio di denunciarmi. Questo mi sembra lampante, altrimenti ci sarebbero stati cento modi meno rischiosi di assassinare Fiorentino Empedocle. Sei d'accordo?»
«Naturalmente, signor capitano, proprio così».
Messina punta gli occhi in faccia al sottufficiale cercando di cogliere qualche traccia di ironia ma non ne vede. La tensione iniziale tra il comandante e il subordinato si sta stemperando a mano a mano che si prendono le misure a vicenda e si riconoscono per quello che sono: due segugi che non mollano mai e cercano la verità a tutti i costi, ognuno coi suoi metodi, la sua strategia e la sua esperienza. L'irruenza del maresciallo contrasta con la calma almeno apparente del capitano anche se, sotto sotto, Antonello Messina è una molla pronta a scattare come ha dimostrato la scenata in caserma con Pietro Salis.
«Allora, Pettisi, tu sei qui da una vita e conosci perfino i sassi di questo posto di merda. Che idea ti sei fatto? Parla fuori dai denti, per favore».
«Be', visto che me lo chiede, signor capitano, le rispondo che a mio parere, anche questa volta, c'è di mezzo quel gran porco di Salis Pietro».
«Ne ero sicuro: non è che ti sei fissato?»
«Ho risposto a una sua domanda, signor capitano, ma, se crede, mi taccio». Messina non riesce a trattenere un sorriso bonario davanti al cipiglio del maresciallo. Permaloso come una scimmia.
«Dài, non t'incazzare. Scherzavo. Vai avanti. Perché Salis?»
«Il fascicolo informativo su Fiorentino Empedocle lo indica come affiliato a un gruppo malavitoso diverso da quello del Salis, un gruppo che farebbe capo a tale Caviglia Ettore, personaggio pericolosissimo ancorché incensurato che, da diverso tempo, starebbe tessendo un'alleanza tra diverse organizzazioni romane per monopolizzare lo spaccio in tutta la città, comprese le zone periferiche. Una cosa che a Roma non si è mai vista. La malavita capitolina è indisciplinata e non sopporta le gerarchie, signor capitano».
«Lo so, lo so, Pettisi. Ho fatto i compiti prima che mi spedissero qui al mare, che ti credi? Resta da capire che c'entra il Cattivo con tutto questo».
«Mi sembra lampante. Il gruppo di Caviglia Ettore, di cui fa parte anche la vittima, comincia ad allungare le mani verso sud e capisce che la piazza di Ostia è una delle fette più grosse della torta, quindi manda Empedocle Fiorentino in avanscoperta. Er Gufetto prende contatti, cerca agganci, si muove, si fa notare e Salis Pietro reagisce alla sua maniera, visto che non può tollerare ingerenze nella sua zona. Ammazza l'intruso e lo fa nel modo più plateale possibile, proprio per lanciare un messaggio chiaro e forte».
«E non potrebbero essere stati quelli della Trimurti Frisciotti, Triolli o Daga? Anche loro potrebbero sentirsi minacciati».
«Non è il loro stile, signor capitano. Vede, questi tre clan sono radicati sul territorio da decenni. Hanno i loro agganci con mafia e camorra e si dividono gli affari abbastanza equamente. Sanno che, fino a quando tengono un profilo basso, almeno in apparenza, possono stare abbastanza tranquilli e di conseguenza rifuggono l'omicidio, se non quando è assolutamente necessario. Un delitto porta un sacco di grane, signor capitano, come lei mi insegna. Del resto, non hanno bisogno di uccidere: bastano le solite intimidazioni, i pestaggi, gli attentati ai negozi, le bombe carta, le macchine bruciate. Se proprio devono eliminare qualcuno, come sospettiamo abbiano fatto in passato, lo fanno con discrezione, magari il personaggio scompare nel nulla per sempre o riaffiora in mare qualche tempo dopo...».
«Come Porcu Mario?»
«Esattamente, ma sono convinto che con quella storia i tre clan non c'entrino affatto».
«Naturale, per te è sempre colpa di Salis...».
«E qualcuno deve ancora dimostrarmi il contrario, con tutto il rispetto. Comunque, la sparatoria davanti alla panetteria, a mio vedere, porta il marchio del Cattivo. La classica esecuzione da gangster e lui si ritiene tale, signor capitano. Basta guardare come si veste, come si atteggia...».
Antonello Messina stringe le labbra in una linea sottile, che sembra tagliata col coltello e annuisce. La ricostruzione del maresciallo è più che plausibile ma non serve assolutamente a niente. Neanche uno straccio di prova, nemmeno un indizio certo, per quanto labile: solo supposizioni. Quelle informative tutta fuffa che qualsiasi magistrato, dopo avergli dato appena una scorsa, appallottola e butta direttamente nel cestino.
Pettisi e Messina tirano fuori le sigarette in simultanea e le accendono come se qualcuno avesse dato un segnale: adesso si fuma. Pausa.
«C'è qualcosa che non mi torna, però. Non avevi detto che De Rossi, Giacchettone, era un uomo di Salis?»
«Così ci risulta, in effetti, signor capitano. E del resto il fatto che sia rimasto solo ferito ha un significato abbastanza chiaro. Salis voleva punirlo, non ucciderlo».
«Punirlo? Perché secondo te?»
«Forse per via di qualche abboccamento con la fazione avversa. O forse solo perché lo ha visto in compagnia di Gufetto e gli ha fatto capire che doveva tenersi alla larga da certe frequentazioni. Di sicuro, se avesse voluto assassinare anche lui, Salis Pietro l'avrebbe fatto».
«Ammesso che sia stato lui».
«Ammesso, sì...». Il maresciallo Pettisi non riesce a trattenere uno sguardo scettico al suo superiore che continua a cavillare su un'evidenza così chiara. Quello sguardo di finta indifferenza che tutti i militari imparano fin dai primi giorni di servizio e che dice: avrai pure le stellette, mi toccherà mettermi sull'attenti e rispondere signorsì, ma tu sei proprio un gran coglione.
«Non sono un coglione, Pettisi».
«Non mi permetterei mai neanche di pensarlo, signor capitano».
«E invece è esattamente quello che stai pensando e, da una parte, ti capisco. Ti sei fatto uno schema logico, consequenziale e, devo dirlo, abbastanza concreto, e arriva questo idiota a romperti le uova nel paniere... no, sta' zitto, ti ho detto che ti capisco. Il fatto è che con quello che abbiamo non andiamo da nessuna parte, lo sai tu e lo so io. Quindi, se hai ragione su Pietro Salis, dobbiamo trovare qualche elemento a suo carico».
«È una parola, signor capitano. L'abbiamo già intercettato e attenzionato in passato. Non dice una parola al telefono, ha una sorta di ufficio impenetrabile nella sala giochi di tale Giacinti Romeo, soprannominato Palle d'Oro...».
«Come hai detto?»
«Palle d'Oro, signor capitano, con rispetto parlando».
«Io vorrei proprio sapere chi cazzo se li inventa, i soprannomi da queste parti».
«Suppongo sia dovuto al fatto che fa buoni affari».
«Geniale. Palle d'Oro. Vabbè, torniamo a bomba: se Salis non parla al telefono e non c'è modo di beccarlo neanche con le cimici in macchina o in ufficio c'è un solo modo per incastrarlo».
«Quale, signor capitano?». Il sorrisetto mefistofelico di Renato Pettisi rende l'idea di cos'avrebbe in mente lui: un bel chilo di cocaina nascosto nel bagagliaio, un controllo "casuale" ed er Cattivo finisce dietro le sbarre per spaccio. Poi il lavoro sporco tocca ai soliti infami da galera: compagni di carcere arruolati nella nutrita schiera dei soffioni cui spetta il compito di scucirgli qualche confidenza. Ha funzionato spesso, funziona ancora e funzionerà in futuro: i detenuti hanno una gran voglia di chiacchierare e di vantarsi.
«Togliti quella smorfia dalla faccia e quell'idea dalla testa, Pettisi».
«Che smorfia? Che idea?»
«Lo sai benissimo».
«Mi legge nel pensiero, signor capitano?»
«Certo. Lo insegnano al corso di formazione per ufficiali, non lo sapevi? Dài, non scherziamo. Abbiamo un sistema più efficace e perfettamente legale per mettere il sale sulla coda al Cattivo».
«Quale?»
«Lo pediniamo. Da domani organizziamo una squadretta investigativa, gli stiamo alle costole, non lo molliamo un istante e vediamo cosa esce».
«Ciao».
«Ahó, anvedi chi se sente... Come butta?».
Omar pensa che peggio di così difficilmente potrebbe andare, ma che accidenti ne può capire un barabba come er Cattivo?
«Al solito. Immagino che tu abbia letto i giornali... Ti chiamo per la nostra faccenda».
«Ah, sicuro, ce sto a lavorà».
«Bene. Penso che dovremmo stringere un po' i tempi».
«Per me non c'è problema, a Om... a coso. Me so' già messo d'accordo co' gli amici per quel lavoro alle condutture de casa mia».
Mai far nomi o parlare apertis verbis al telefono anche se quella della sala giochi dovrebbe essere una linea sicura. Omar resta perplesso per un paio di nanosecondi, segno che in questo periodo è deconcentrato come non mai, poi afferra il sottinteso e cerca di rispondere per le rime.
«Ecco... Giusto, sì, proprio di quello ti volevo parlare. Gli operai sono pronti?»
«E che sto a pettinà le bambole?»
«Ottimo. Allora direi che dovremmo organizzare tutto al più presto».
«Tu nun te preoccupà. Questo è un problema mio. Mica ciurlo nel manico, che te credi?»
«Mai detto questo... È che mi sembra arrivato il momento di quagliare».
«E io quajo... Tu statte manzo».
«Sì, vabbè, messaggio ricevuto. Allora, quando ci vediamo?»
«Ammazza che prescia che c'hai, a coso... Famo così: tu me richiami tra sette... No, dieci giorni, se organizzamo, fissamo n'appuntamento e partimo. Te sta bene?».
Omar pensa che dieci giorni sono un sacco di tempo. Che ciurlare nel manico è proprio l'espressione adatta per il modo in cui si sta comportando Pietro. Che, tra giri di parole e modi di dire dialettali, ha l'impressione che er Cattivo lo stia prendendo per il naso e portando in giro. Che fosse per lui partirebbe domani anche perché intravede nuvole nere all'orizzonte. Che tra poco il terreno comincerà a scottare sotto i piedi suoi e degli altri camerati perché sa bene cosa succede dopo uno scontro a fuoco con una terrorista rimasta a terra. Che non ne può più di trattare con questi malavitosi del cazzo sfuggenti, inconcludenti, tritticanti, che credono di risolvere tutto sparando cazzate e facendo gli sbrasoni. Che...
Ma ovviamente non può dire quello che gli frulla in testa, altrimenti rischia di far saltare accordo e piano. Ha capito da un pezzo che con la gente come Salis non si parla mai direttamente, che è tutto un ammiccare, alludere, insinuare, sottintendere, peggio che alla corte imperiale del Celeste impero. Quindi si rifugia nella risposta standard.
«Andata. Chiamo io tra dieci giorni esatti, stessa ora, ti saluto».
«Cià».
Pietro sbatte giù il telefono infastidito. Ma che gli è preso a quell'esaltato, le fregole? Odia quando qualcuno tenta di mettergli il pepe al culo e tra l'altro, negli ultimi tempi, ha avuto altro a cui pensare. Il Maghetto è già stato arruolato e spetterà a lui dare istruzioni al resto della squadra. Solo dopo che avranno formato la paranza al completo potranno organizzare il viaggio e tutto il resto, e non riesce proprio a capire che fretta ci sia, visto che hanno tempo fino a settembre, quando il mare rischia di mettersi al brutto.
Alla fine decide di fregarsene, la sua classica strategia. È er Cattivo e fa come gli pare, per quanto lo riguarda Omar può andare a farsi fottere con tutti i fascistoni d'Italia. E dato che gli è venuto in mente Giacchettone, stabilisce su due piedi che è venuto il momento di andarlo a trovare e di portargli quella famosa scatola di cioccolatini.
«Prego?»
«De Signori Massimo, favorisca di seguirci in questura».
«Sareste?»
«Ispettore Bonomi e sovrintendente Calcedoni, Digos».
«Avete un mandato?»
«Lei ci segua in ufficio e le verrà notificato tutto quello di cui c'è bisogno».
«Se rifiutassi?»
«Le mettiamo le manette e la portiamo di peso. Non le piacerebbe, mi creda. Si dia una mossa».
Massimo De Signori si esibisce nel suo miglior sorriso di scherno ma prende la giacca e si prepara a obbedire, visto che l'espressione dei poliziotti dimostra che non stanno affatto bluffando. Sono i classici sbirri targati Digos, con quell'aria un po' fichetta, le giacche dozzinali sui jeans, i tagli di capelli ben curati, i modi da sgherri mitigati da una patina di urbanità, molto diversi dai loro colleghi della mobile, che vestono, parlano e si comportano esattamente come i malavitosi a cui danno la caccia. Questa è l'élite investigativa della polizia, la prima linea contro il terrorismo, la crema della questura romana. C'è da scommettere che hanno entrambi il colpo in canna nelle Beretta 92 d'ordinanza che portano all'ascella e sono pronti a usarla. Tutti gli sbirri e i carabinieri, in questo periodo, vivono coi nervi scoperti e il dito sul grilletto.
De Signori esce dalla villa e sale sull'Alfetta che sta aspettando fuori dal cancello, con un altro poliziotto alle spalle. Gli sbirri lo fanno sedere dietro, chiudono le portiere con la sicura e, prima di partire, l'autista tira fuori la moffola lampeggiante, la attacca al tettuccio con l'adesivo di gomma e aziona la sirena. La macchina parte in velocità schizzando ghiaietto e terriccio.
«Che bisogno c'è della sirena?».
Nessuna risposta. I pulotti si limitano a guardarlo con le loro migliori grinte da killer. De Signori, per un momento, perde il suo aplomb anche perché l'autista sembra deciso a schiantarsi da qualche parte assieme ai passeggeri in una sorta di folle gimcana suicida: l'Alfetta tocca i centoquaranta in rettilineo, fa un paio di sorpassi da infarto, brucia un semaforo, sobbalza su un dosso, sfiora una cunetta, lambisce un camion... De Signori chiude gli occhi e dice mentalmente addio al mondo crudele e all'Idea. Poi si ritrova all'improvviso nel cortile di San Vitale dove gli sgherri riescono a fare di peggio: lo agguantano per le ascelle e lo spingono rudemente su una scala che porta al primo piano.
Massimo De Signori fa per protestare, capisce che sarebbe inutile e decide che l'unico modo di conservare un minimo di dignità è chiudersi in uno sdegnoso silenzio.
I poliziotti, comunque, lo trattano come un rubagalline. Lo sbattono su una sedia e lo lasciano lì a fare la muffa per un'ora buona. Nessuno gli rivolge la parola, nessuno lo fila.
Aspettano.
De Signori, che ha passato la sessantina da un pezzo e ha la prostata come un melone, sente che deve andare al bagno ma si farebbe uccidere piuttosto che chiederlo, quindi trattiene tutto e cerca di mostrarsi stoico. Dopo un'ora e mezzo non ce la fa proprio più, decide che pisciarsi addosso non è il massimo per dimostrare la sua imperturbabile fermezza e chiede del WC. Come estremo oltraggio, uno sbirro lascia la porta socchiusa, come se avesse paura che si suicidi o scappi lanciandosi nel water e tirando lo sciacquone.
Dopo due ore e mezzo, finalmente, lo mettono in piedi e lo fanno entrare in un ufficio abbastanza spazioso, forse quello del dirigente, arredato con la solita paccottiglia poliziesca e, alle pareti, l'immancabile carrellata di diplomi, encomi, attestati di benemerenza e partecipazione ai corsi di specializzazione.
Dietro la scrivania lo aspetta un tizio segaligno con la faccia da malato di fegato, che indossa un assurdo completo principe di Galles e lo guarda come se avesse il potere di farlo squartare lì per lì.
«Buongiorno, sono il PM Franco Giovannetti».
«E io sono il professor Massimo De Signori. Vorrei proprio sapere per quale motivo sono stato sequestrato dai suoi sgherri e portato qui come un criminale».
«Moderi i termini se non vuole che iniziamo con una denuncia per oltraggio e si ricordi che le domande le faccio io».
«E invece ne ho un'altra e la prego di rispondermi: devo chiamare un avvocato? Nessuno mi ha letto i miei diritti».
«Non siamo in un film americano, De Signori...».
«Professor De Signori, se non le dispiace».
«Qui le qualifiche non contano. Lei si trova in questo ufficio in veste di persona informata sui fatti. Di conseguenza non ha diritto all'assistenza di un legale. Se, nel corso del colloquio, emergeranno elementi a suo carico che giustifichino una sua incriminazione ne sarà tempestivamente informato e, da quel momento, potrà richiedere la presenza di un avvocato e avvalersi della facoltà di non rispondere. Per adesso è tenuto a rendere testimonianza esauriente. Le ricordo anche che mentire o tacere a questo magistrato è un reato».
«Allora mi dica cosa vuole da me e facciamola finita».
Il colorito del PM si fa ancora più giallognolo ma Giovannetti decide di ignorare lo sgarbo e va dritto al sodo.
«Lei è ispiratore e fondatore di un gruppo eversivo di estrema destra denominato Rivoluzione Nazionale?»
«Io sono un docente e uno studioso e insegno storia moderna e contemporanea».
«Non ha risposto alla domanda. La riformulo: lei è il capo della formazione terroristica Rivoluzione Nazionale?»
«No. Non ho alcun legame coi militanti di quel gruppo».
«Eppure durante una serie di perquisizioni nei covi della formazione e nelle abitazioni di alcuni fermati sono saltati fuori numerosi suoi scritti in cui teorizza...». Il PM inforca un paio di occhiali da lettura e si schiarisce la voce prima di leggere. «L'urgenza per tutti i patrioti di battersi con ogni mezzo per sostituire l'attuale sistema plutocratico alleato della canea rossa e giudaica e instaurare un governo tecnico-militare per contrastare l'avanzata del comunismo, dell'ateismo e della dissoluzione del nostro patrimonio nazionale e della razza bianca. Sono parole sue, può negarlo?»
«Al contrario, le rivendico con orgoglio... È ora che gli italiani capiscano che non è più il tempo dell'attesa ma dell'azione».
«Lei non è qui per lanciare proclami ma per rispondere in modo preciso ed esauriente... Quindi ammette di essere l'ispiratore ideologico della formazione di cui sopra?»
«Neanche per sogno. Le mie sono idee e ho il diritto di esprimerle e diffonderle. Se poi qualcuno le interpreta a modo suo non mi riguarda. Le ricordo che siamo in una democrazia».
«Quella democrazia che lei e gente come lei trama per abbattere con la violenza».
«Questa è una sua supposizione, la pensi come vuole».
«Lei conosce Gentile Omar?»
«Non di persona, ne ho letto sui giornali, perché?». De Signori si sforza di mostrarsi indifferente ma il suo cuore salta un battito: se hanno preso Omar è finita.
«Nella sua abitazione è stato ritrovato un appunto: incontro con MS».
«Forse si riferiva alle sigarette. Lo chieda a lui, l'avete preso?»
«Non è nella condizione di fare lo spiritoso, mi creda. E comunque lo prenderemo presto, come gli altri».
Dura sei ore. Il PM lo torchia senza pietà ma De Signori, con la classica capacità dialettica di un professore universitario, regge botta fino a quando il magistrato si spazientisce, capisce che è inutile e dispone il fermo immediato per ispirazione, organizzazione e partecipazione a banda armata e ad associazione sovversiva. Mentre lo fanno salire su una volante diretta al carcere, Massimo De Signori vede Andrea scaraventato giù da un'auto civetta e, dalla faccia gonfia e tumefatta, capisce che gli è andata molto peggio che a lui.
Capitolo X
Er Cattivo scende dalla macchina, molla Scrocchiazeppi ad aspettarlo e s'infila nell'ingresso dell'ospedale Giovan Battista Grassi, con in mano l'enorme scatola di cioccolatini assortiti, grande quasi come un tavolo da ping pong, che si è fatto regalare dal bar sotto casa. Il cortile punteggiato di palme e di aiuole disordinate brulica di gente: camici bianchi, pigiami, abiti dozzinali di parenti alla ricerca di un ricoverato, qualche divisa di guardie private o poliziotti, un gruppetto di zingarelli che, probabilmente, cerca l'occasione buona per sfilare un portafoglio, qualche tossico pencolante a caccia di psicofarmaci o di uno stereo da trafugare. Le macchine lasciate nel parcheggio sono ad altissimo rischio di furti e vandalismi ed er Cattivo s'è fatto accompagnare da Scrocchiazeppi proprio per questo: se trova qualcuno che gli riga la carrozzeria o rompe il deflettore gli spara di sicuro e ha già sparato abbastanza, negli ultimi tempi. Un morto e un ferito da fuoco amico bastano e avanzano.
Pietro Salis entra nell'edificio, un enorme rettangolo di colore sbiadito che sembra fatto coi Lego e si dà una grattatina scaramantica alle palle: odia medici e ospedali e ne ha un terrore folle, esattamente come gli zingari che tanto detesta. Le sue medicine sono alcol e cocaina e guai se qualche stronzetto di dottore provasse anche soltanto a togliergliele. La sola idea di finire in un letto come Giacchettone, bloccato e impotente, auscultato, punzecchiato, radiografato e tenuto sotto osservazione per giorni e giorni senza potersi neanche alzare per farsi una pisciata gli mette un terrore folle. Se mai verrà il suo momento spera che sia una cosa rapida e definitiva: un colpo in testa o al cuore e addio Cattivo.
Al banco delle informazioni gli spiegano come raggiungere il reparto di medicina generale e Salis s'affanna sulle scale promettendo a se stesso di fare in fretta: saluto, regalino, auguri e ci vediamo quando esci. Andare a trovare Giacchettone è una questione di rispetto ma anche un avvertimento: io ci sono e ti tengo d'occhio, se tieni chiuso il becco saremo più amici di prima ma se solo ti viene in mente di cantare, allora sappi che non ci metto niente a tornare e tappartelo per sempre. La sorveglianza notturna, negli ospedali, è quasi inesistente e i reparti, le corsie e le stanze, quando si spengono le luci, pullulano di predatori. Ladruncoli, spostati, clochard, malati di mente, tossici, infermieri disonesti s'aggirano tra i letti e i comodini in cerca di soldi, oggetti di valore, orologi, gioielli, radio portatili o, magari, di qualche bella paziente sotto sedativi da smanacciare o violentare. Succede spesso e pochissimi sporgono denuncia, tanto funziona così e le possibilità di beccare i colpevoli sono praticamente inesistenti.
Salis sbaglia percorso un paio di volte, smadonna, s'incavola e alla fine trova la porta giusta.
Il giovane carabiniere annoiatissimo che sfoglia la «Settimana Enigmistica» su una sedia è una sorpresa che proprio non si aspettava.
«Dica?»
«So' venuto a trovà un amico... Se chiama Giacchettone... De Rossi Raffaele, m'hanno detto che sta qua».
«In effetti è ricoverato qui ma non può vederlo».
«E perché?»
«È in stato di fermo, piantonato. Quando uscirà verrà trasferito direttamente in carcere».
«Ma che ha fatto? Nun j'hanno sparato? E che è colpa sua?»
«Favoreggiamento personale. Lei è un parente, scusi?»
«No, je l'ho detto, so' un amico... Senta, a carabignè, me facci 'sto favore. Ce so' venuto fino a qui apposta, me lo facci armeno salutà». Salis si domanda se è il caso di ficcargli in mano cinquanta sacchi ma capisce che il caramba è troppo giovane per aver capito come va il mondo.
«Mi spiace ma è come se fosse detenuto... Nessun contatto con l'esterno». Infatti.
«Ennamo, che je costa? 'N attimo soltanto: j'ho pure portato i cioccolatini», insiste Pietro che, quando vuole, sa perfino mostrarsi rispettoso e umile. Attore da Oscar.
Il giovane militare sospira, fa per rifiutare ma capisce che gli toccherebbe imbarcarsi in una discussione interminabile e ha fretta di scoprire se la parola di cinque lettere che gli è venuta in mente e che stava per scrivere prima dell'arrivo di questo rompiscatole è quella giusta. "La fanno i bambini nel letto". Il primo pensiero è stato "cacca" ma poi ha realizzato che la soluzione è "nanna", anche perché s'incrocia con la targa automobilistica di Napoli, due lettere in verticale, quindi annuisce svogliatamente e fa cenno a Pietro che può entrare.
«Un minuto solo. E io resto a guardare, chiaro?», puntualizza per dovere d'ufficio.
«Grazie, a carabignè».
Pietro se lo guarda bene e decide che, tra qualche anno, uno così potrebbe servirgli, quando sarà più scafato e disposto ad accettare qualche extra per un paio di favori di poco conto. Buono a sapersi.
Giacchettone, invece, è uno spettacolo che spaventa. Grigio, smagrito, afflitto, la gamba ingessata da cui fuoriescono orrendi chiodi di titanio, imprigionata e tenuta sollevata da un telaio di bende e di metallo che sembra uno strumento di tortura medievale, giace tra le lenzuola stropicciate e sporche con la pelle del viso così tesa che sembra voler bucare gli zigomi, e trema di febbre.
«Ammazza, a Giacchettò, ma che t'hanno fatto? Pari già morto, l'animaccia tua», sbotta Pietro con la consueta diplomazia. Giacchettone apre gli occhi e lo guarda per qualche istante come se faticasse a metterlo a fuoco o non si ricordasse più chi è.
«Anvedi Pietro», farfuglia alla fine. «E che m'hanno fatto? M'hanno sparato, li mortacci loro».
«E chi è stato?»
«E che cazzo ne so? Du' stronzi co' la moto. Ho detto tutto agli sbir... insomma, ai carabigneri ma nun me vonno crede». Giacchettone punta un braccio scheletrico contro il militare in un gesto d'accusa. Il carabiniere si stringe nelle spalle, sbuffa e mostra ostentatamente l'orologio a Salis: time's over.
«Vabbè, mica so' tutti uguali. 'Sto regazzo, per esempio, me pare uno giusto. Tiè, magnate du' cioccolatini che te devi da ripijà e magari je ne offri puro uno a lui, che è stato tanto gentile. Te saluto, a Giacchettò. Come te fanno uscì viemme a trovà».
Pietro Salis poggia la mano sull'avambraccio di Giacchettone che sembra uno stecco, fa un goffo saluto al carabiniere, lascia la scatola sul letto e se la fila alla svelta, tutto contento di non essersi dovuto trattenere a lungo. Tanto quello che doveva sapere l'ha saputo: Giacchettone è uno fidato, regge la cica e s'è fatto perfino blindare. Nessun pericolo d'infamità. Mentre risale in macchina comincia a calcolare la gratifica che gli darà quando tornerà a lavorare per lui e decide che cinque pippi li può sganciare. No, 'fanculo, dieci, e crepi l'avarizia... Non esageriamo, sette possono bastare.
Sulla strada del ritorno, chissà perché, prova una sensazione di allarme. Sarà stato quell'ospedale del cazzo, l'odore di disinfettante, medicine, sudore e detergenti che aleggia dappertutto oppure...
Pietro si guarda attorno, si gira, sbircia nello specchietto e capisce cosa c'è che non va.
La Alfa Arna color vomito con un'ammaccatura sul parafango anteriore. La stessa che aveva notato all'andata e che ora li segue a distanza, dietro una 500 Giannini rosso fiamma. Pietro Salis non è un patito di macchine ma la Arna è troppo orrenda per non farci caso. Er Cattivo si era domandato a chi può venire in mente di spendere soldi per comprarsi quella specie di scatola informe, tutta spigoli e linee oblique, con quell'aria di miseria, da vorrei ma non posso, magari soltanto per potersi considerare un alfista. Un disgraziato che se la tira, un pane e pezzette che magari, quando si mette al volante di quel catorcio, si crede perfino un gran fico visto che ostenta il marchio col biscione. Comunque sia, rieccola qui e Pietro, senza farsi notare, da una bella occhiata ai tre uomini a bordo. Facce sconosciute ma col marchio inconfondibile della strada. Barabba o sbirri. E i barabba di Ostia Pietro Salis li conosce uno per uno, quindi...
«A Scrocchiazeppi, l'hai vista la machina?»
«Quale, a Cattivo?», mugugna l'autista, più taciturno e lugubre che mai.
«Quella dietro. La Arna col bozzo sul paraurti».
Scrocchiazeppi orienta lo specchietto per vedere meglio.
«Sì, ecchela, perché?»
«L'ho vista pure prima. Marca guardie».
Scrocchiazeppi scrolla le spalle ossute con noncuranza.
«Ecché vor dì a Pietro? Magara so' iti a trovà quarcheduno in ospedale, proprio come te, e mo' se ne torneno a casa».
«Nun me convince, Scrocchiazè... Prova a pistà un po' de più, vedemo che fanno».
«E come cazzo pisto in mezzo a 'sto casino?», sbuffa Scrocchiazeppi. L'ultimo tratto della Colombo, a duecento metri dalla rotonda, è un solo groppo di traffico, tutto tra prima, seconda, frizione e freno.
«Fatte un paio de giri attorno alla piazzola, quanno ce arivamo».
Scrocchiazeppi pensa che Salis sta diventando paranoico ma tace, visto che ha parlato abbastanza per tutta la prossima settimana, e obbedisce come sempre. La Arna si ferma a distanza e non segue l'Alfetta, segno che gli sbirri ci sanno fare.
Prima regola operativa di un pedinamento: non abboccare alle manovre diversive.
Seconda regola: darsi la staffetta di continuo per non essere individuati.
Terza regola: se si capisce che il soggetto sospetta di essere seguito, abbandonare immediatamente l'operazione.
L'auto di Salis imbocca il lungomare ma, a un certo punto, er Cattivo batte sulla spalla di Scrocchiazeppi.
«Ferma qui... Me vojo fà 'na passeggiata».
«Che faccio, t'aspetto?»
«No, vattene a casa, se vedemo lì».
Pietro scende dall'Alfetta, ne approfitta per lanciare una lunga occhiata alle spalle e s'incammina svagato, con una perfetta aria da bighellone senza un cavolo da fare che si gode l'aria di mare e la bella giornata.
Nessuna traccia delle guardie, chiunque siano. Ma forse non ha avuto il tempo di guardarle bene in faccia e non le riconosce. O magari hanno cambiato equipaggio. Salis, come la maggior parte dei malavitosi, sa benissimo come funzionano certe cose. A ogni modo prende qualche precauzione da terrorista, cambia marciapiede all'improvviso, si ferma ad accendersi una sigaretta, sosta davanti alla vetrina di una macelleria e, visto che ci si trova, entra a comprarsi una bella bistecca per la cena, allunga il passo, rallenta, si china ad allacciarsi una scarpa e quando, finalmente, arriva a casa, si domanda se s'è fatto un film tutto da solo.
Il Vespone con due tipi col casco aspetta che entri, poi si allontana lentamente.
«Ora. Bisogna farlo ora. Basta aspettare».
Giorgio ringhia come un bull terrier e sferra un pugno sul tavolo così violento da far cadere a terra la bottiglia di minerale. Un brontolio cupo accoglie la sparata. Omar aggrotta la fronte e resta in silenzio: come ogni leader che si rispetti sa che quando la tensione rischia di esplodere puoi solo aspettare che sbollisca da sola, a meno che tu non riesca a gestirla. Ma stavolta c'è poco da gestire.
Sconfitti, furenti, decimati. Il gruppo dei neri conta le perdite, fa l'appello dei presenti e prepara la controffensiva.
Massimo De Signori: arrestato.
Dalila De Lucis: morta.
Andrea Aliveri: arrestato.
Francesco Laiano, alias Pitbull: scomparso.
Marcello De Laghi, camerata Freccia: scomparso.
«Li hanno portati da qualche parte, in una prigione segreta e sicuramente li stanno torturando per farli parlare», incalza Giorgio, con gli occhi fuori dalle orbite per la rabbia. L'arresto di Andrea lo ha sconvolto: quei due sono stati sempre legatissimi, così amici che, più di una volta, Omar ha sospettato che tra di loro ci fosse qualcosa di più, qualcosa di inconfessabile e a cui, tra camerati, non si può neanche alludere se non per battersi immediatamente all'ultimo sangue.
«L'hanno beccato per strada, la Digos ci stava seguendo da un pezzo. Ha cercato di reagire ma sono stati troppo veloci: c'era uno sbirro che faceva finta di leggere il giornale e, all'improvviso, gli è saltato addosso e l'ha immobilizzato. Andrea ha provato a prendere il ferro ma è spuntata fuori una coppia, una puttana coi capelli rossi e un altro poliziotto, che l'ha ammanettato e disarmato. Lo hanno trascinato in macchina a forza di calci e pugni. Guardie di merda», ruggisce Giorgio, con la classica furia di chi l'ha scampata per un soffio.
«E tu che hai fatto?». Omar parla in tono più neutrale possibile perché la situazione può sfuggirgli di mano da un momento all'altro e tecnicamente, con De Signori in galera, il capo è lui.
«Cazzo dovevo fare? Ero a duecento metri di distanza. Tornavo dal bar coi cornetti e il cappuccino mentre lui era andato a prendere le sigarette... Ancora mi domando perché non hanno preso anche me... Cazzo, avevo lasciato la pistola nell'appartamento...».
Prima regola di ogni latitante: mai girare disarmati. Omar sospira e tace. Meglio così, Andrea poteva solo farsi ammazzare.
«Notizie di Freccia e Pitbull?»
«Nessuna. Ho provato a chiamare a casa loro da una cabina. Da Freccia squillava a vuoto. Da Pitbull ha risposto la madre ma ho messo giù, magari è intercettata... Quella comunque è fuori di testa e non sa mai dove sta il figlio».
«Forse sono scappati...».
«Non credo, si sarebbero fatti vivi... Cazzo, Omar, ma non capisci che ci vogliono distruggere? Sanno tutto di noi: quanti siamo, dove ci nascondiamo, tutto. Hanno beccato anche Freccia e Pitbull che non erano ricercati e di sicuro tra poco, se non facciamo qualcosa, prenderanno anche noi. Pitbull sa dove sono i rifugi... Era uscito da poco dall'ospedale, il tempo di rimettersi e l'hanno blindato».
«Non parlerà, è tosto». Omar reprime un ghigno per l'assurdità di quello che ha appena detto: così tosto che lui gli ha dovuto frantumare la mascella per rimetterlo al suo posto. E adesso, se Pitbull crolla, l'intera organizzazione è in pericolo.
«Tu non sai cosa fanno quelli». Giorgio, ormai, si è calato nella parte dell'angelo che annuncia l'Apocalisse. «C'è una squadra speciale guidata da uno sbirro che chiamano il professor De Tormentis. Sono in grado di far parlare chiunque. Hanno un metodo di tortura che chiamano "la cassetta": ti legano su un tavolaccio e ti fanno ingoiare acqua e sale con un imbuto... Nessuno riesce a resistere».
La cupa leggenda del professor De Tormentis, il funzionario dell'Ucigos specializzato nel far confessare i terroristi con la tecnica del waterboarding e della sua squadra di aguzzini chiamati I cinque dell'Ave Maria aleggia come un incubo su tutti i terroristi, rossi e neri. Tra una trentina d'anni si scoprirà che non era affatto una leggenda.
Più che gli arresti, il vero problema sono i due camerati scomparsi.
«Magari hanno capito che buttava male e se la sono filata», ipotizza debolmente Salvo, lo spilungone servizievole che aveva accompagnato Pitbull in ospedale e che sembra uno dei pochi a mantenere un minimo di lucidità. Omar lo guarda con benevolenza e lo arruola immediatamente come potenziale alleato. Giorgio nemmeno lo ascolta.
«Basta con le cazzate. Se non ci muoviamo è la fine. Io dico che adesso usciamo da qui e ammazziamo il primo sbirro o carabiniere che ci capita a tiro. Sangue per sangue. Facciamogli vedere che cosa succede a chi attacca Rivoluzione Nazionale».
Dal gruppo si leva qualche voce che dice «giusto», «facciamoli fuori tutti». Ancora qualche minuto e la parola passa alle armi.
Omar alza una mano per imporre il silenzio e si sente un po' sollevato quando tutti tacciono. Ora spetta a lui.
«Ascoltate bene, camerati, la situazione è gravissima, inutile negarlo, ma proprio in queste occasioni bisogna mantenere la lucidità. Massimo è in carcere ma resta il nostro capo e sono sicuro che uscirà presto. Contro di lui non hanno niente, solo accuse generiche basate sui suoi scritti. Gli avvocati ci metteranno pochissimo a smontarle. Nel frattempo dobbiamo stare attenti a non fare stronzate, niente mosse avventate».
Giorgio lo fissa a lungo con disprezzo, poi sbotta.
«Cazzo, Omar, sembra che hai paura».
Omar scatta in piedi, lo raggiunge e lo fronteggia in silenzio, pallido di rabbia.
«Che cosa hai detto?».
Giorgio ingoia la risposta rabbiosa e la sfida. La faccia sfracellata di Pitbull è un ricordo troppo recente.
«Ho detto "sembra", Omar... Lo sappiamo tutti che sei il più coraggioso, qui, ma proprio per questo...».
«E sono io che comando, cerca di non dimenticartelo».
Giorgio abbassa gli occhi, sconfitto.
«Certo, Omar, comandi tu. E allora dicci che dobbiamo fare».
«Niente. Se usciamo allo scoperto adesso siamo spacciati. Camerati, la vostra rabbia è anche la mia. I servi della giudoplutocrazia pagheranno caro per tutto questo ma bisogna saper scegliere il momento giusto. Ora come ora siamo troppo deboli. Il nostro primo dovere è tenere in vita l'organizzazione e lavorare per la Rivoluzione, ricordatevi quello che dice sempre Massimo. Le esigenze dei singoli non contano, solo il bene comune».
«Massimo è in galera e sta in isolamento», ricorda Maurizio detto Chen per la sua abilità nel kung fu Shaolin, una specie di mezzo monaco mistico con una svastica tatuata sulla nuca.
«Non ci resterà a lungo. Sono sicuro che, grazie ai miei agganci, riuscirò a contattarlo presto».
«Quali agganci, i delinquenti con cui fai comunella?».
La frecciata arriva proprio da Salvo. Il cucciolo mostra i denti.
«Anche loro, sì... Sentite, camerati, aspettiamo ancora qualche giorno e vediamo cosa ne dice Massimo. Nel frattempo, ci dividiamo e cerchiamo di nasconderci il meglio possibile. Chi può dovrebbe lasciare Roma al più presto. Ci rivediamo qui tra quindici giorni esatti. A quel punto dovremmo avere già qualche notizia da De Signori. Sarà lui a stabilire cosa dobbiamo fare».
Molti Neri scuotono la testa, contrariati. Aspettare, nascondersi, attendere ordini. Non è quello che vuoi sentire quando la rabbia ti acceca, l'adrenalina pompa a mille e ti senti già un martire votato all'estremo sacrificio. Dulce et decorum est pro patria mori e tutto il resto. A vent'anni e con una vita già bruciata, ci credi ancora.
Ma Omar è un capo, sa come farsi obbedire e sfrutta il momento di indecisione.
«Allora, camerati, siamo d'accordo. Fermi e tranquilli fino a nuovo ordine. E non lo sto mettendo ai voti, io ci piscio sulla democrazia. Se qualcuno ha qualcosa in contrario lo dica subito e se la vede con me».
Nessuno fiata e non solo per paura, stavolta. Senza Omar e le sue capacità militari, con De Signori e Andrea in galera, Dalila uccisa e due camerati svaniti nel nulla, Rivoluzione Nazionale non esiste più.
«Camerati, a chi la vittoria?»
«A NOI», la risposta rituale è fiacca ma, almeno, corale.
«A chi l'onore?»
«A NOI».
«Bene, allora fuori di qui. Uscite uno alla volta e guardatevi bene attorno. Massima cautela. Ci rivediamo tra due settimane esatte».
L'appartamento sulla Cassia si svuota lentamente. Omar è l'ultimo ad andarsene. Rimasto solo accende una sigaretta, si versa due dita di cognac e riflette. Poi sospira, s'infila il revolver in tasca, esce, controlla bene la strada e va a telefonare.
«Allora, Maghè, come butta? Hai parlato coi Gemelli?»
«Sì».
«J'hai spiegato tutto?»
«Sì».
«E che dicheno?». Pietro Salis sbuffa, contrariato. È vero che un allarmista meno parla e meglio è, ma a questo bisogna tirargli fuori le parole con le pinze, se la batte con quel pezzo di marmo di Gesuino.
«Fanno gli stronzi, a Cattivo». Maghetto si fa piccolo piccolo. «Vonno sapè er perché, er percome... Insomma, nun se sa ancora si ce stanno».
«Ma je l'hai detto quanti sordi se vanno a pijà?»
«È che nun so' convinti, Pietro. Me devi da crede, c'ho provato ma 'n ce sta gnente da fà... Me sa tanto che dovemo trovà artri due scavatori... Oh, per Tortellino, mi' cognato, invece nun ce so' problemi, è pronto a partì pure domani».
Pietro bestemmia selvaggiamente mentre Maghetto sembra impegnato a cercare un buco nel pavimento dove infilarsi come un topo.
Altri due scavatori... Non se ne parla. Anche perché ormai Sandro ed Ermete sanno quasi tutto e i casi sono due: o partecipano al colpo o gli toccherà ammazzarli.
«J'hai parlato de me?»
«Ma certo che no, a Cattivo, per chi m'hai preso?»
«Ma 'sti due che cazzo vonno?»
«E che ne so, a Pietro? Ciurlano, traccheggiano... Dicheno che nun ce stanno garanzie, che je pare tutta 'na stronzata, che ce so' troppe spese...».
«De quello nun se devono preoccupà... Pago tutto io».
«Vabbè, Pietro, ma mica je lo potevo dì, si nun posso fa er nome tuo, no?».
Pietro Salis abbozza e si rende conto che è a una svolta. Ha sempre pensato di tenersi dietro le quinte: solo er Maghetto doveva sapere chi è che ha organizzato il colpo ma ormai, se vuole i Gemelli, deve scendere in campo di persona e metterci la faccia e la fama. A lui in persona non potranno dire di no.
«Ok, a Maghè, nun sta a rosicà troppo. Vorrà dire che je parlerò io».
«Tu? Ma...».
«Nun te preoccupà, magari è mejo così. Domani li vai a pijà e me li porti in sala giochi».
«Come te pare, a Pietro... Cià».
«Cià».
Er Maghetto se ne va alla svelta e Pietro si domanda se ha fatto bene a cacciarsi in tutto quel casino ma ormai, con Omar che gli dà il tormento e mezza squadra già pronta a imbarcarsi sull'aereo, tirarsi indietro è fuori questione. I Gemelli, volenti o nolenti, andranno dove devono andare: a Marbella o agli alberi pizzuti.
Poi apre la finestra e guarda la strada. In lontananza gli sembra di vedere la Arna color vomito ma, un attimo dopo, è scomparsa dietro a un furgone.
«Ciao».
«Ahó, ancora tu... Ma che te sei innamorato? Guarda che me stai tanto simpatico ma io preferisco la sorca».
Omar resta in silenzio per cinque secondi. Calma, calma, calma.
«Ahó, ma che te sei offeso? Stavo a scherzà, eccheccazzo».
«Ci vuole altro per offendermi. A che punto siamo?»
«Ce semo quasi... la paranza è pronta a partire per quella battuta de pesca».
«Ottimo. Quando?»
«Ammazza che prescia che c'hai... Presto».
«Presto quando?».
Stavolta tocca al Cattivo darsi una calmata. Il tono del fascistone gli piace sempre meno e tra l'altro sta bluffando visto che ancora non ha incontrato i Gemelli.
«Stamme a sentì, a coso... T'ho detto che ce semo e vor dì che ce semo. Ricevuto? Mo' famme aggiustà le ultime cose e te dico tutto: data, volo, orario... Tutto. Te sta bene così?».
E se non ti sta bene vattene affanculo. Pietro lo pensa soltanto perché ha capito che quando Omar si incavola c'è poco da scherzare. La scena dei Mercati Generali gli è rimasta impressa nella memoria e si domanda ancora chi dei due abbia fatto la figura del cacasotto... quello che è certo è che non ha la minima intenzione di fare il bis. Prima si chiude 'sta faccenda e meglio è.
Er Cattivo esce, vede che il cielo è grigio e plumbeo, minaccia un temporale di inizio estate e decide di andare in macchina, anche se la sala giochi è a dieci minuti di passeggiata da casa sua. Sale sull'Alfetta, guarda nel retrovisore e sente un groppo acido che gli risale dall'esofago.
Ancora la Arna color vomito col bozzo sul paraurti. Stavolta non ci sono dubbi.
Le guardie? O qualcosa di molto peggiore?
Pietro respira a fondo, fa per scendere, rientrare in casa, chiamare Scrocchiazeppi ed er Fanfara e farsi scortare, ma si lascia il tempo per riflettere.
Se qualcuno ha deciso di fargli il cappotto di legno, magari per vendicare la morte di Gufetto, non lo seguirebbe così a lungo. I pedinamenti della mala sono diversi da quelli degli sbirri: ti seguono per un po', magari una mezza giornata, aspettano che arrivi in un luogo appartato ed entrano in azione: bum bum.
Questi, invece, gli stanno appresso da chissà quanto tempo. E di sicuro non sono i soli: ce ne saranno altri che Pietro non ha ancora individuato.
Guardie di sicuro. O magari caramba. Anzi, a pensarci bene devono essere proprio loro, perché quel capitano secco e incazzoso gliel'ha giurata. E di certo, se continuano a stargli alle costole, non hanno niente in mano contro di lui altrimenti er Cattivo si ritroverebbe già a buiosa o in caserma con le manette ai polsi a incassare sventole e calcioni.
«Volete giocà? E giocamo, li mortacci vostra». Pietro parla ad alta voce e si domanda se i carubba sono riusciti a piazzargli una cimice in macchina. Possibile. E chissenefrega, conclude, visto che comunque non dice mai niente di compromettente. A ogni modo si ripromette di far controllare l'interno dell'auto da un tizio che conosce e che lavora in un'agenzia investigativa: hanno un congegno che individua i microfoni nascosti e un disturbatore di frequenza che ostacola le intercettazioni. Soldi ben spesi.
Per adesso, er Cattivo decide di portarsi a spasso gli angeli custodi, tanto per prenderli un po' per il sedere. Parte di scatto, rallenta, cambia direzione, fa un paio di giri viziosi, torna sul lungomare, aspetta un semaforo giallo e, appena scatta il rosso, lo brucia di sgommata, gira improvvisamente a destra, a sinistra, ancora a destra...
La Arna sempre dietro, sempre a distanza di un paio di macchine. Pietro non può non riconoscere che i caramba sanno il fatto loro. Si tengono defilati, cercano di rendersi meno visibili possibile e ogni tanto er Cattivo ha l'impressione di averli seminati anche se, dopo un po', se li ritrova sempre alle calcagna.
Pietro Salis sa benissimo che tra un po' non li vedrà più e si daranno il cambio con un'altra pattuglia. Sa anche che la compagnia di Ostia, come il commissariato del resto, dispone di mezzi limitati ed è per questo che, per un pedinamento, utilizza una macchina così inconfondibile come quel cesso di Arna. Se gli fosse toccato il nucleo operativo sarebbe stato ben diverso: probabilmente non si sarebbe mai accorto di essere pedinato.
Sgherri di zona, senza prove, che cercano di incastrarlo. Tanto vale divertirsi un po'.
Er Cattivo smette di guidare come uno schizofrenico e imbocca la Colombo a settanta all'ora. La Arna scompare ma, quando Salis ferma e guarda bene nel retrovisore, la vede a circa cinquecento metri di distanza. Prima, frizione e via verso casa della Signora.
Quando ci arriva, la Arna sembra dissolta nel nulla. Forse gli sgherri sono nascosti da qualche parte o magari hanno avuto il cambio. Sta di fatto che, visto che ormai è arrivato, tanto vale fare una capatina dall'amante.
«Ammazza che bella improvvisata... Me potevi avvertì però, me mettevo un po' mejo per te». La Signora resta di sale nel vedersi comparire Pietro Salis sulla porta e tenta di darsi un'aggiustata come può: in effetti coi bigodini e la tuta di propilene che porta a casa sembra più una massaia che guarda le soap opera in TV mentre tira la sfoglia che la bomba del sesso che vuole apparire. Non manca neanche l'odore del sugo che bolle.
Pietro fa un mugugno, l'abbranca da dietro come un orso e comincia ad abbassarle i calzoni della tuta con la consueta galanteria.
«Aspè... e daje adesso, no. Famme apparecchià un po' mejo... Me vergogno», squittisce la Signora che, tra l'altro, non si è neanche fatta la doccia e, piuttosto che ricevere l'amante in quello stato, preferirebbe farsi tagliare un dito, ma è troppo tardi, Pietro la sta già penetrando. La sbatte contro un tavolo, la prende selvaggiamente artigliandole le spalle mentre lei, ormai rassegnata, spinge, geme e sospira sperando di farla durare il meno possibile. Con un'occhiata di sbieco dietro le spalle si rende conto che la porta è rimasta semiaperta e ci manca solo che qualche vicino veda la scena, magari le due zitelle chiesastiche del piano di sopra che a malapena la salutano. Chiudere la porta è fuori questione visto che, tra grugniti e ansiti da gorilla, er Cattivo sta già arrivando al capolinea.
Pietro sgorga dentro di lei, totalizzando il record di due minuti e quindici secondi, e la Signora non ha neanche il tempo di simulare un orgasmo come fa di solito.
«Ammazza che maschio che sei... M'hai sfondata, amo'», cerca di adularlo mentre si tira su i calzoni e si dà una rassettata alla meglio, ma Pietro manco l'ascolta, si è abbottonato la patta e si sta avviando verso la porta.
«Già sorti? Nun te voi fermà a magnà qui? Ho fatto er ragù».
«Gnente ragù, bella... c'ho da fà. Me trovavo qua sotto e ho pensato de fatte un salutino, mo' me ne vado».
«Vabbè, t'aspetto alla prossima». La Signora fa per aggiungere che magari, la prossima volta, la faccenda potrebbe essere un tantinello più duratura ed elaborata ma si trattiene perché conosce Pietro e qualsiasi commento sulla sua virilità, anche il più innocente, le costerebbe qualche livido e il licenziamento in tronco, quindi si sforza di sorridere lasciva.
«M'hai fatto sentì come una troia, amore».
«E quello sei, 'na troia».
«Solo per te, amo', solo per te».
Pietro le fa una scafetta ed è subito sulle scale. In strada sta piovigginando. Er Cattivo si accende una sigaretta, si dà una bella palpata al pacco, assume un'aria soddisfatta e barrisce qualche parola a uso e consumo dei carubba che magari lo stanno ascoltando.
«Ammazza che bella fregata che me so' fatto... Ma inculasse un carabignere è sempre mejo».
Pitbull cerca di sedersi ma una mano crudele lo tira su e lo rimette in ginocchio. Il dolore gli attraversa il corpo come una lancia, dalle rotule in fiamme fino alla sommità della testa. Uno strazio che non avrebbe mai immaginato di provare e che viene dal suo stesso corpo, dal peso che lo inchioda e si concentra tutto sulle ginocchia che sembrano frantumarsi.
Pitbull singhiozza a secco ma stringe i denti così forte da farli scricchiolare.
Da qualche parte ha letto che ci si può uccidere semplicemente ingoiando la propria lingua ma non ne ha la forza e, forse, nemmeno il coraggio. La lingua è gonfia, inaridita dalla sete, un grosso pezzo di carne che gli ostruisce la bocca. La mascella, rimarginata da poco, fa un male atroce.
«Pezzo di merda, ti decidi? Guarda che ci resti fino a domattina, così, poi ti buttiamo giù dalla finestra», ringhia la voce cattiva.
«Ma chi te lo fa fare? Ma lo vedi come sei ridotto? E sono solo tre ore... Ancora una e non potrai più camminare», interviene la voce buona.
Pitbull vede lampi gialli e rossi davanti alle palpebre abbassate. Il dolore è qualcosa di indistinto, adesso, qualcosa che aleggia dentro e fuori da lui, che arriva ovunque, lo penetra, lo squassa, lo distrugge lentamente, gradualmente, inesorabilmente.
«Ma pensaci, Laiano... cerca di riflettere. Credi che i tuoi camerati, come li chiami tu, farebbero lo stesso per te? Si farebbero trattare così? Guarda che sappiamo già tutto: chi sono, dove si nascondono, dove tengono le armi... Il tuo amico Freccia non ha fatto il duro come te». La voce buona ha un tono cantilenante, carezzevole, adesso, quasi una ninnananna. «Devi soltanto dirci dove sta Omar Gentile. Poi ti rimettiamo seduto, diciamo al giudice che hai collaborato e tra poco sei fuori. Continua a ostinarti e ti becchi l'ergastolo».
Pitbull sente la testa che gira e crolla di lato. Le mani crudeli lo rimettono subito in ginocchio. Lame di dolore.
Primo piano della questura, interno notte. Le tapparelle della stanza sono abbassate, il fumo è così denso che taglia il respiro.
Nell'ufficio accanto, un uomo sulla cinquantina, capelli brizzolati e baffetti sottili da mafioso, carnagione grigiastra, aria da burocrate ministeriale, stringe la mano con sussiego a Nicola Nardi, il capo della Digos.
«Buonasera, dottor Calzari, lieto di conoscerla».
«Più che sera è notte, piacere mio, dottor Nardi. Come procede?».
Nardi si sbottona il colletto della camicia, si allenta la cravatta e sospira mentre il professor De Tormentis si accende una sigaretta bianca lunga e sottile che manda un nauseante odore di mentolo.
«Niente da fare... Non parla. Sono quasi quattro ore che lo teniamo in ginocchio. Di solito funziona ma questo è proprio tosto».
«Qualche informazione sul soggetto?».
Nardi accenna al fascicolo color arancione sulla scrivania.
«Laiano Francesco, di anni ventitré, inteso Pitbull. Denunce per aggressione, violenza, manifestazione sediziosa ma nessun arresto. Tecnicamente incensurato. Da mesi attenzionato quale militante di Rivoluzione Nazionale. Secondo fonti confidenziali, molto vicino al capo militare dell'organizzazione, Gentile Omar anche se, di recente, avrebbero avuto un violento diverbio. È stato ricoverato in ospedale dopo un brutale pestaggio che gli ha provocato la frattura della mascella e sospettiamo sia stato proprio il Gentile a ridurlo in quello stato...».
«Quindi avrebbe ottimi motivi per vendicarsi...», lo interrompe Calzari quasi parlando a se stesso.
«Sì, in effetti contavamo su questo ma tiene duro. I neofascisti possono essere più fanatici dei rossi, come lei sa meglio di me... L'abbiamo arrestato in segreto, prima che potesse entrare in clandestinità. Contro di lui niente di rilevante. I miei uomini hanno sequestrato i soliti testi nazisti, il Mein Kampf che non manca mai e la paccottiglia che troviamo sempre: foto e busto del duce, un manganello con la scritta ME NE FREGO e una daga littoria comprata chissà dove, ma nessuna arma da fuoco o documenti importanti. Il classico pesce piccolo che dovrebbe essere l'anello debole della catena ma invece...».
«Mi dia qualche altro dettaglio, per favore. È fidanzato?»
«Non ci risulta. Vive con la madre, completamente estranea alla militanza del figlio. I suoi sono separati. Ah... frequenta regolarmente una palestra, è esperto di arti marziali e pugilato e tifa per la Roma, non so se questo può servirle ma...».
«Tutto può servire. Un fanatico che conta sulla forma fisica e sulla violenza. Ne ho visti tanti così. L'inginocchiatoio non basta. Funziona coi malavitosi ma difficilmente coi terroristi, lo so per esperienza».
«Per questo motivo ci siamo rivolti a lei e ai suoi... specialisti, dottor Calzari». Nardi nasconde a stento la repulsione che quell'ometto untuoso e sussiegoso gli ispira. I domenicani della Santa Inquisizione dovevano essere molto simili. Burocrati della tortura.
«Bene, dottor Nardi, se lei permette da questo momento procediamo noi. Faccia uscire i suoi dalla stanza, grazie».
Pitbull sente passi attorno a sé, voci smorzate, saluti sussurrati, un subitaneo cambiamento d'atmosfera. Cerca di approfittarne per lasciarsi cadere su un fianco, aspettandosi che la mano crudele lo rimetta in ginocchio ma, sorprendentemente, lo lasciano fare. Le ginocchia sono così anchilosate che non riesce a distendere le gambe e pensa che forse rimarrà veramente storpio per tutta la vita. Un'ondata di compassione per se stesso rischia di travolgerlo, ma si riscuote subito e s'aggrappa al mantra che ha recitato, mentalmente, fin da quando è cominciato il supplizio.
L'Idea non morirà mai. Non tradisco.
«Laiano Francesco, sono il vicequestore Antonio Calzari della Direzione centrale polizia di prevenzione». La voce metallica, impersonale, quasi annoiata lo fa sobbalzare. Apre gli occhi e si trova davanti un paio di baffetti sottili e una bocca repellente dai denti ingialliti di nicotina.
L'Idea non morirà mai. Non tradisco.
«So che ti credi un duro ma qui non sei niente», la voce impersonale continua, implacabile. «Mi hanno chiamato per farti parlare e parlerai. Sta a te decidere quando ma ti assicuro che prima o poi ci dirai tutto quello che vogliamo sapere da te... Procedete, ragazzi».
L'Idea non morirà mai. Non tradisco.