Il Mai Mai
Dintorni di Alice Springs Giugno 1929
26
La notte era immobile; si udiva solo l'ululato di un dingo lontano. Le stelle brillanti e la luna, in quel cielo senza nuvole, erano l'unica fonte di luce mentre il cavallo procedeva sul suolo sassoso del deserto tra i cespugli che crescevano bassi in quella distesa sconfinata. Gli occhi del mandriano si erano abituati alla penombra e l'uomo riusciva a distinguere i tratti del terreno e le venature bluastre delle rocce. L'aria notturna era carica dei profumi della terra che si riprendeva dopo il caldo della giornata; si percepiva il ronzio degli insetti.
L'uomo legò il cavallo a una sporgenza rocciosa che spuntava dalla terra come una stalagmite rossa. Sperava di riuscire ad arrivare a Alice prima del calar del buio, ma c'era stata una schermaglia tra gli Aborigeni locali e gli altri mandriani, perciò era rimasto ad attendere che finisse. Prese una delle borracce di pelle di cammello e riempì una ciotola, che poi appoggiò a terra per far bere l'esausto animale. Buttò giù ciò che restava dell'alcol nella fiaschetta e frugò nella bisaccia alla ricerca del poco cibo rimasto, poi stese una coperta e si sedette a mangiare. Al tramonto dell'indomani sarebbe arrivato a Alice Springs. Avrebbe fatto provviste e sarebbe andato a est, occupandosi del bestiame fino a dicembre. E poi…
Sospirò. A che serviva pianificare un futuro che non esisteva? Anche se faceva del suo meglio per vivere alla giornata, la sua mente insisteva sempre per puntare verso qualcosa. Ed era del tutto inutile.
Il mandriano si sistemò per dormire. Sentì il sibilo di un serpente nelle vicinanze e scagliò una pietra per spaventarlo. Era sporco, perfino per i suoi bassi standard; sentiva lui stesso la puzza di sudore che emanava. I pozzi che usava di solito per lavarsi erano asciutti; era stata una stagione insolitamente secca, perfino per il Mai Mai.
Pensò a lei, come faceva ogni notte, poi chiuse gli occhi per dormire.
Fu svegliato da un grido lontano. Dopo tanti anni nell'Outback capì che si trattava di un urlo umano, non animale. Faticò a dare un nome a quel suono pur familiare, poi però si rese conto che erano i vagiti di un neonato. Un'altra anima approdata in questo mondo malato, pensò prima di rimettersi a dormire.
Si risvegliò all'alba, ansioso di raggiungere Alice Springs, prendere una stanza in città e farsi un bagno decente, il primo da quando aveva lasciato Darwin. Montò a cavallo, e vide una carovana di cammelli all'orizzonte. Illuminata dal sole nascente, sembrava quasi una scena biblica. Li raggiunse in meno di un'ora, perché si erano fermati a mangiare e riposare. Conosceva uno dei cammellieri afghani, che gli diede una gran pacca sulla schiena e gli offrì un posto sul suo tappeto e un piatto con della focaccia. Addentò il pane voracemente, senza badare alla muffa che vide in un angolo. Di tutti gli esseri umani che incontrava nel suo percorso attraverso il Mai Mai, erano i cammellieri quelli con cui trascorreva più volentieri il proprio tempo. Pionieri segreti dell'Outback, erano eroi sconosciuti, portavano rifornimenti attraverso le pianure rosse fino ai ranch sparpagliati nell'entroterra. Spesso erano acculturati e parlavano un buon inglese. Mentre beveva avidamente la sua acqua l'uomo gli raccontò le ultime notizie. Disse che il loro lavoro era in pericolo, perché presto avrebbero inaugurato una nuova ferrovia tra Port Augusta e Alice Springs. Secondo il progetto avrebbe dovuto arrivare addirittura fino a Darwin.
"Siamo tra gli ultimi rimasti. Tutti gli altri sono tornati a casa, oltre il mare" disse Mustafa.
"Sono sicuro che ci sarà sempre un posto per te, Mustafa. Il treno non può raggiungere tutti i villaggi."
"Il treno no, ma le automobili sì."
Il mandriano stava per salutare i cammellieri quando il bizzarro strillo che aveva udito quella notte ricominciò. Veniva da una cesta legata alla gobba di un cammello.
"È un bambino?" chiese.
"Sì. È nato cinque giorni fa. La madre è morta ieri. L'abbiamo seppellita per non farla sbranare dai dingo" disse Mustafa.
"Un bambino nero?"
"Sembra un mezzosangue, o magari un mulatto con un quarto di sangue nero. La ragazza ha chiesto un passaggio due settimane fa. Ha detto di essere diretta alla missione di Hermannsburg" raccontò Mustafa. "Gli altri non la volevano perché era incinta, ma era disperata e l'ho accolta. Ora abbiamo un bambino senza madre che piange giorno e notte, chiede del latte che non abbiamo. Temo che morirà prima che si arrivi a Alice. È molto piccolo."
"Posso vederlo?"
"Se vuoi."
Mustafa si alzò e lo condusse alla cesta. La aprì e la porse all'amico.
Dentro, il mandriano non vide altro che stoffa. Appoggiò la cesta a terra e tolse i panni sporchi che coprivano il neonato. La puzza di feci e urina lo colpì come un pugno nello stomaco appena vide quel corpicino malmesso. Aveva la pelle liscia color caramello.
Il piccolo scalciava e strillava, percuotendo l'aria con i minuscoli pugni. Anche se ne aveva viste tante, nell'Outback, questo orfanello mezzo morto di fame suscitò nel mandriano un'emozione che non provava da anni. Sentì una lacrima affacciarsi. Avvolse la stoffa intorno al piccolo, per non toccarlo, e lo tirò fuori dal cesto. Nel farlo sentì qualcosa ricadere sulla stoffa.
"È un maschio" disse Mustafa, che se ne stava alla larga per non sentire la puzza. "Anche se sopravvivesse, in che vita può sperare?"
Al tocco del mandriano il piccolo aveva smesso di dimenarsi. Si mise un pugno in bocca, aprì gli occhi e lo guardò incuriosito. Drummond sobbalzò nel vedere quegli occhi. Erano azzurri, con tracce di ambra, ma non fu quel colore insolito ad attirare la sua attenzione, quanto piuttosto la forma. Li aveva già visti prima, quegli occhi, ma non riusciva a ricordare dove.
"Sua madre gli ha dato un nome, prima di morire?" chiese a Mustafa.
"No, non ha detto quasi nulla."
"Sai dove potrebbe essere il padre?"
"No, e forse non voleva dirlo. Sai come vanno queste cose." Mustafa si strinse nelle spalle.
Drummond guardò il bambino che si succhiava il pugno, e qualcosa dentro di lui scattò.
"Potrei portarlo io a Alice Springs, e poi a Hermannsburg."
"Potresti, amico mio, ma temo che sia spacciato. E forse è meglio così."
"O forse sono la sua unica speranza." Drummond parlò istintivamente. "Lo prendo io. Se lo lascio qui con te, morirà come sua madre."
"Vero, vero" rispose solennemente il cammelliere, che non tentò neppure di nascondere il sollievo.
"Hai almeno un po' d'acqua da sprecare per pulirlo?"
"Vado a cercarla" disse lui.
Il bambino aveva chiuso gli occhi, ormai troppo stanco per ricominciare a piangere. Respirava a fatica, e mentre lo stringeva al petto, Drummond sapeva di avere pochissimo tempo a disposizione.
"Ecco." Mustafa gli porse una fiasca. "Stai facendo una buona azione, amico mio, e benedico te e l'infante. Kha safer walare." Appoggiò una mano nodosa sulla fronte sudata del neonato.
Drummond tornò al cavallo con la cesta tra le braccia. Fabbricò una specie di imbracatura con la coperta su cui dormiva di notte e ci infilò il bambino, legandoselo al petto. Fu in quel momento che scorse un piccolo barattolo sporco nella cesta. Non ci pensò due volte, se lo infilò nella bisaccia. Versò un altro po' d'acqua sulle labbra del bambino e, con suo grande sollievo, vide che la succhiava. Legò la cesta vuota alla sella, salì a cavallo e partì al galoppo attraverso la pianura.
Mentre correva sotto il sole inclemente, si chiese che accidenti gli fosse preso per spingerlo a fare una cosa simile. Probabilmente sarebbe arrivato a Alice Springs con un bambino morto legato al petto. Eppure qualcosa, qualsiasi cosa fosse, l'aveva spinto a prenderlo con sé, consapevole che se fosse rimasto un'altra notte nel deserto, il suo cuoricino avrebbe smesso di battere.
Alle sei di quella sera il suo impareggiabile cavallo arrivò barcollando di fronte alla locanda in cui alloggiava solitamente. Ancora in sella, Drummond posò con cautela una mano sul petto del bambino e sentì il cuore che batteva ancora, seppur debolmente. Smontò, riempì un secchio d'acqua dalla pompa per la bestia assetata, poi rimise il piccolo nella sua cesta, coprendolo con la stoffa.
"Torno più tardi per portarti del cibo decente" promise al cavallo, poi entrò e fu accolto con gioia dalla signora Randall, la padrona.
"Mi fa piacere rivederti da queste parti. Solita stanza?"
"Se è libera, sì, grazie. Come ti va la vita?"
"Come sempre. Le cose andranno molto meglio quando comincerà a passare il treno. Posso portarti qualcosa, D? Il solito?" Le fece l'occhiolino. "Abbiamo un paio di ragazze nuove in città."
"Non stanotte, ho fatto un lungo viaggio. Mi chiedevo, per caso hai del latte?"
"Latte?" La signora Randall sembrava sorpresa. "Certamente. Come se mancasse il bestiame da queste parti" disse ridacchiando. "Non ordini latte, di solito, D."
"Hai ragione, magari aggiungi un paio di bicchierini di scotch."
"Potrei averne una bottiglia proprio per te. E da mangiare?"
"Quello che hai, signora R." Le sorrise. "Sono disidratato, perciò portami anche la saliera."
"Certo!" La donna gli porse una chiave. "Ti porto tutto su tra un minuto."
"Grazie, signora R."
Drummond prese la cesta e la bisaccia e salì le scale di legno grezzo. Entrò nella stanza e si chiuse la porta alle spalle. Appoggiò il cesto sul letto e tolse la stoffa dal viso del bambino. Ora, anche se avvicinava l'orecchio al suo piccolo naso, non riusciva più a sentire il respiro.
Prese la fiasca di Mustafa e gli versò le ultime gocce d'acqua sulle labbra, ma il neonato non reagì.
"Maledizione! Non lasciarmi ora, giovanotto! Mi arresteranno per omicidio" implorò. Posò la cesta accanto al letto e prese a camminare avanti e indietro, aspettando che arrivasse la signora Randall con il latte. Alla fine, frustrato, e anche per il cattivo odore che aveva invaso la stanza, scese di sotto.
"È pronto?" le chiese.
"Stavo giusto per portartelo" disse la donna appoggiando il vassoio sul banco della portineria.
Drummond la guardò e vide che mancava l'unica cosa che davvero gli serviva. "E la saliera, signora R?"
"Scusa, vado a prenderla." La donna tornò in un attimo. "È d'argento, me l'hanno regalata per il matrimonio. Vedi di riportarmela, perché ripagarmela ti costerebbe un bel po'."
"Stai tranquilla." Prese il vassoio e si avviò di sopra. "Scendo dopo a farmi un bagno."
Rientrò nella stanza, si tolse la camicia, svitò il tappo della saliera e ne rovesciò il contenuto sulla stoffa. Poi prese il bicchiere di latte, preparò un imbuto con una pagina strappata dalla Bibbia sul comodino e riempì la saliera vuota. Afferrò il bambino e, respirando dalla bocca per evitare di sentire troppo la sua puzza, infilò con delicatezza la punta della saliera tra quelle labbra rosate.
All'inizio non ci fu risposta; il suo cuore batteva all'impazzata. Tolse la pseudo-tettarella d'argento e si fece gocciolare un po' di latte sul dito. Agendo per puro istinto, lo passò sulle labbra del piccolo. Dopo qualche secondo di agonizzante attesa, le labbra si mossero. Quando rimise la punta della saliera nella bocca del neonato, si ritrovò a pregare per la prima volta dopo diciassette anni. Pochi secondi dopo sentì tirare dal biberon improvvisato e infine, dopo una pausa, il bambino iniziò a succhiare.
Il mandriano alzò gli occhi verso il soffitto. "Grazie."
Quando il bambino ebbe finito il latte, Drummond riempì il lavabo, si sbarazzò della stoffa puzzolente e sporca e fece del suo meglio per lavare il corpo del neonato. Creò un pannolino di fortuna legando insieme due fazzoletti, pregando che il bambino non facesse subito i suoi bisogni, dopodiché li assicurò intorno alla vita del piccolo meglio che poté. Avvolse la stoffa sporca in un lenzuolo e infilò il pacchetto maleodorante in un cassetto. Quando vestì il bambino con l'altro lenzuolo si accorse che aveva la pancia gonfia e le gambe emaciate; più che un essere umano sembrava una rana. Si era intanto addormentato, perciò Drummond mangiò lo stufato di manzo ormai freddo e lo buttò giù con qualche sorso di scotch. Poi uscì dalla stanza per andare a sistemare il cavallo e ripulirsi un po' nella tinozza in cortile.
Una volta rinfrescato tornò di sopra e vide che il bambino non si era mosso. Avvicinò l'orecchio al petto, sentì il battito del cuore e il rumore del respiro. Si sdraiò a sua volta, quando all'improvviso si ricordò del barattolo che aveva infilato nella bisaccia della sella.
Era incrostato di ruggine e di terra rossa, come se fosse rimasto seppellito per anni. Lo aprì e vi trovò dentro una scatolina di pelle. Aprì il coperchio e rimase senza fiato.
La Perla Rosata… quella che aveva messo fine alla vita di suo fratello e salvato la sua.
"Ma com'è possibile…?" mormorò. Era attratto dalla bellezza quasi ipnotica di quella perla, così come gli era successo tanti anni addietro. Quante cose avrebbe potuto fare con tutto quel denaro… Ne conosceva il valore, l'aveva comprata lui stesso per ventimila sterline.
Bandito da Broome e impossibilitato a tornare a Kilgarra, il suo amato ranch, Drummond aveva viaggiato per tutto il Mai Mai, accettando i lavori che gli capitavano. Si teneva sempre sulle sue, senza mai fidarsi di nessuno. Ora era una persona diversa, un guscio vuoto con il cuore di ghiaccio. E la colpa era soltanto sua – e forse anche della perla. Eppure, da quando aveva posato gli occhi su quel neonato, dentro di lui qualcosa era scattato.
Chiuse la scatola con il coperchio e la rimise nel barattolo prima che rimanesse di nuovo ipnotizzato.
Cosa c'entrava quel bambino con la Perla Rosata? L'ultima volta che l'aveva vista era chiusa al sicuro nel cassetto dello scrittoio di Kitty. Camira l'aveva implorato di non regalarla alla sua padrona e…
"Santo cielo!"
Ora sapeva dove aveva già visto gli occhi di quel bambino. Alkina…
Si alzò e andò a guardare il neonato addormentato. E per la prima volta dopo molti anni, si rese conto che il destino esisteva davvero. Aveva capito istintivamente che quel bambino, con la perla maledetta nascosta nella cesta, era legato a lui in qualche modo.
"Buonanotte, piccolino. Domani ti porterò a Hermannsburg." Gli accarezzò la guancia soffice, poi si sdraiò di nuovo sul letto. "E dopo tornerò a Broome per scoprire chi sei."
Il pastore Albrecht alzò lo sguardo dalla Bibbia quando udì uno scalpiccio di zoccoli sul pavimento di pietra della missione. Dalla finestra vide un uomo fermare il cavallo, smontare e guardarsi intorno, incerto su dove andare. Il pastore si alzò e uscì ad accoglierlo sotto il sole cocente.
"Guten Tag, o dovrei dire “buongiorno”?"
"Parlo entrambe le lingue" rispose l'uomo. In cortile gli abitanti della missione, tutti vestiti di bianco, si fermarono a guardare quello straniero. Ogni volta che alla missione arrivava qualche sconosciuto era sempre una gradita novità.
"Tornate al lavoro" ordinò.
"C'è un posto in cui possiamo parlare, padre?"
"Venite nel mio studio." Il pastore fece cenno verso la stanza alle sue spalle. Dall'imbracatura intorno al petto dell'uomo sentì provenire un debole vagito. "Vi prego, sedetevi" disse. Chiuse la porta a chiave e, per buona misura, accostò anche gli scuri per evitare che qualcuno sbirciasse all'interno.
"Lo farò dopo che vi avrò dato questo."
L'uomo si sciolse l'imbracatura dal petto e appoggiò il contenuto sul tavolo. Tra lembi di stoffa dall'odore nauseante c'era un bambino appena nato, che gridava con quanto fiato aveva in gola affinché lo nutrissero.
"Che cos'abbiamo qui?"
"Sua madre è morta a poche ore da Alice Springs. I cammellieri mi hanno detto che voleva venire qui a Hermannsburg. Mi sono offerto di portarcelo io. Ieri sera gli ho dato un po' di latte usando una saliera come biberon."
"Che inventiva, mi compiaccio."
"Forse sono state utili anche le tracce di sale rimaste nella saliera, perché oggi mi sembra più in forma."
"È minuscolo." Il pastore Albrecht esaminò il bambino, saggiandone gli arti e la presa. "Ed è debole per la malnutrizione."
"Almeno è sopravvissuto."
"E per questo Dio vi benedica, signore. Non sono molti i mandriani di queste parti che avrebbero fatto lo stesso. Presumo che la madre fosse aborigena…"
"Non saprei, dato che l'hanno sepolta prima che arrivassi. Anche se, per puro caso, credo di conoscere la famiglia a cui probabilmente era legata."
Il pastore lo guardò con sospetto. "Siete voi il padre del piccolo, signore?"
"No, affatto, ma insieme a questo bambino c'era qualcosa che mi è familiare." Tirò fuori il barattolo dalla tasca. "Ho intenzione di andare a Broome per trovare conferma dei miei sospetti."
"Capisco." Il pastore Albrecht prese il barattolo e se lo rigirò tra le dita. "Poi fatemi sapere che cosa scoprite, ma per adesso, se sopravvive, il bambino troverà una famiglia qui a Hermannsburg."
"Vi prego di tenere al sicuro quel barattolo fino al mio ritorno. E, per il vostro bene, non apritelo."
"Per chi mi avete preso, signore?" esclamò il pastore. "Io sono un uomo di Dio, una persona affidabile."
"Naturalmente."
Drummond si frugò in tasca e ne estrasse alcune banconote. "Questa è una donazione per la missione, vi servirà per provvedere al mantenimento del bambino."
"Vi ringrazio."
"Farò ritorno il prima possibile."
"Un'ultima domanda, signore. Sua madre gli ha dato un nome?"
"No."
"Allora lo chiamerò “Francis”, da Francesco d'Assisi, santo patrono degli animali. A quanto mi avete detto è stato un cammelliere a salvargli la vita, praticamente." Il pastore gli rivolse un sorriso stanco.
"Sì, e trovo che il nome sia perfetto."
"E il vostro nome, signore?" chiese il pastore Albrecht.
"Da queste parti mi chiamano tutti D. Arrivederci, padre."
L'uomo uscì chiudendosi la porta alle spalle. Il pastore andò ad aprire gli scuri per osservare il mandriano che montava a cavallo e se ne andava. Anche se quell'uomo era ovviamente in forze e in buona salute, in lui c'era qualcosa di stranamente vulnerabile.
"Un'altra anima perduta" mormorò guardando il bimbo sul tavolo. Il piccolo lo fissava curioso, sbattendo piano le palpebre. "Sei sopravvissuto a un lungo viaggio, piccolino" disse il pastore, che prese una penna, aprì il registro e scrisse il nome “Francis” su una pagina bianca, e accanto la data del suo arrivo. E, dopo un attimo di esitazione, aggiunse “Signor D, mandriano, Alice Springs”.
Un mese più tardi Drummond legò il cavallo in uno spiazzo a un miglio dalla casa e percorse il resto della strada a piedi. Era una notte buia, le stelle erano nascoste dalle nubi; la cosa gli faceva piacere. Arrivò all'ingresso, si tolse gli stivali e li nascose in una siepe. La casa era immersa nelle tenebre, e solo dalle stalle proveniva di tanto in tanto qualche fruscio. Sospirò al ricordo dei momenti trascorsi sotto quel tetto – i migliori e i peggiori della sua vita. Fred dormiva al solito posto davanti alla porta della stalla, e dovette aggirarlo per avvicinarsi con cautela alla capanna. Provò la maniglia e si accorse con sollievo che la porta era aperta. Entrò e se la richiuse alle spalle, poi aspettò che i suoi occhi si abituassero all'oscurità. Lei era lì, dormiva con una mano dietro la testa. Le si avvicinò, consapevole che spaventandola avrebbe rischiato di svegliare gli occupanti della casa lì vicino.
Si inginocchiò accanto al letto e accese una candela sul comodino, in modo da farsi riconoscere subito.
La scosse piano e lei si svegliò.
"Camira, sono io, il signor Drum. Sono tornato per vederti. Sono qui davvero, ma devi rimanere in silenzio." Le mise una mano sulla bocca e lei lo fissò, ormai completamente sveglia. "Ti prego, non gridare."
Il terrore nei suoi occhi cominciò a svanire e fece per togliersi dalla bocca la mano di Drummond.
"Me lo giuri?"
Lei annuì e Drummond tirò via la mano, portandosi un dito alle labbra. "Non vogliamo svegliare nessun altro, vero?"
Camira scosse la testa in silenzio, poi si mise seduta.
"Che ci fate qui, signor Drum? Siete morto da anni!" sibilò.
"Sappiamo tutti e due che non è vero, no?"
"E quindi perché siete tornato adesso?"
"Perché devo dirti una cosa."
"Che mia figlia è morta?" Gli occhi di Camira si riempirono di lacrime. "Lo so già. Me l'hanno detto gli Antenati."
"Purtroppo hanno ragione. Mi dispiace molto, Camira. Era… era incinta?"
"Sissignore. Non ditelo a nessuno. È morto anche il bambino."
A quelle parole Drummond si rese conto che quello che aveva immaginato era vero.
"Be', c'è una cosa che non sai" sussurrò.
"Cioè?"
Le mise una mano sul braccio. "Il figlio di Cat è sopravvissuto. Hai un nipote."
Poi le raccontò la storia di come aveva trovato il bambino e gli occhi di Camira si riempirono di meraviglia e stupore.
"Gli Antenati hanno ordito un piano furbo. Dov'è ora?" Camira si guardò intorno come se il piccolo fosse nascosto da qualche parte.
"Era troppo debole per arrivare fin qui. L'ho lasciato in buone mani alla missione di Hermannsburg. E devo dirti anche che nel suo cesto c'era la perla cattiva. Alkina doveva averla trovata e…"
"No! La perla cattiva è maledetta! Non la voglio vicino a mio nipote!" Camira alzò la voce e Drummond le fece segno di tacere.
"Giuro che è in un posto sicuro, lontana dal piccolo. Sarai tu a decidere cosa farne, della perla e del bambino. Ho pensato che forse vorrai portarlo qui, quando si sarà ripreso."
"Non verrà qui" affermò con veemenza Camira.
"Perché no? Magari potrebbe esserti di conforto."
Camira raccontò cos'era successo.
"Quindi il piccolo è figlio di mio nipote? Perciò io e lui siamo imparentati?" Drummond era incredulo.
"Sissignore. Ha il nostro sangue dentro, appartiene a tutti e due" disse solennemente Camira.
"Ma soprattutto a mio nipote Charlie; ora la madre del piccolo è con gli Antenati."
"No! È meglio se il signor Charlie lo crede morto."
"Perché accidenti dovrebbe essere meglio? Proprio tu dici una cosa del genere?"
"Mancate da molto tempo, signor Drum. Non capite. La signora Kitty ha lavorato sodo, ha fatto tutto per suo figlio dopo che ve ne siete andato."
Drummond inarcò un sopracciglio.
"Si è ammalata, molto" proseguì Camira. "Ed era triste."
"Sta bene, ora? È qui?" Si voltò verso la casa.
"È in Europa per le vacanze. Ha lasciato il signor Charlie al comando. Anche lui è triste, per mia figlia, ma è giovane e si riprenderà. Forse sposerà la bella segretaria. Meglio per lui se non sa niente, non credete?"
"E Kitty? È nonna come te, Camira. Di certo lei e Charlie hanno il diritto di sapere del bambino, no? E non pensi a lui? Non posso abbandonare il mio pronipote in una missione."
Camira si alzò dal letto. "Vengo con voi. Portatemi alla missione. Poi mi occuperò io del piccolo."
"Lasceresti tutto quello che hai qui? E Kitty? Lo sai quanto dipende da te."
Camira stava già riempiendo un sacco di iuta, che dall'odore di cavolo doveva essere stato usato un tempo per portare le verdure. "Io mi occupo della mia famiglia, lei della sua. È meglio così."
"Credo che tu stia sottovalutando la tua padrona. Dopotutto ti ha accolta in casa sua contro il volere di mio fratello. Ha un buon cuore e sono certo che vorrebbe essere inclusa in questa decisione. E accogliere suo nipote in famiglia."
"Sissignore, ma ora si sta riposando e ha bisogno di pace. Non voglio portare vergogna sul suo nome o su quello di Charlie, capite? Meglio se ci vado io, da mio nipote. E mantengo il segreto."
Drummond si rese conto che Camira avrebbe fatto di tutto per proteggere la donna che l'aveva salvata e suo figlio. Anche se questo significava doverli abbandonare. Era una decisione che spettava a lei, e lui non poteva farci nulla.
"E Fred? A lui lo dirai?"
"Non sa tenere i segreti, signor Drum. Forse un giorno." Camira lo guardò con trepidazione. Aveva messo nel sacco di iuta tutto ciò che possedeva. "Ora portatemi da mio nipote."
Drummond annuì, rassegnato, e aprì la porta della capanna.
CeCe
Hermannsburg, Territorio del Nord
Gennaio 2008
Simbolo aborigeno per indicare una stella o il sole
27
Il sole stava ormai calando all'orizzonte; mi girai a guardare mio nonno, Francis, che era stato salvato dal deserto da un uomo che non sapeva neanche di essere suo parente.
"Come può essere?" mormorai. Scacciai una mosca che mi ronzava intorno al viso e mi ritrovai la mano bagnata di lacrime.
"Sono la prova vivente che i simili ritrovano i simili, e che i miracoli esistono." Mi rivolse un debole sorriso e vidi che quel racconto l'aveva scosso e stancato molto. "Non possiamo chiedere quali siano le ragioni delle cose straordinarie che ci succedono. Loro, lassù, gli Antenati o Dio, sono gli unici a conoscere le risposte. E non ce le diranno finché anche noi non saliremo da loro."
"Cos'è successo a Kitty e a Drummond?"
"Ah, Celaeno, bella domanda. Se solo lui avesse avuto la pazienza e la forza d'animo di aspettare, avrebbero potuto vivere insieme felici dopo la morte di Andrew. Ma Drummond era un impulsivo, uno che viveva alla giornata. In me c'è qualcosa di lui, lo confesso" ammise.
"Anche in me" dissi. Mi chiesi se avrei fatto lo stesso anch'io, se avrei mandato via l'uomo – o la donna, pensai con l'immagine di Chrissie in mente – che amavo.
"L'hai mai conosciuto?"
"È la seconda parte della storia, ma te la racconterò un'altra volta. In questo momento mi sento addosso tutti gli anni che ho. Hai fame?"
"Non mi dispiacerebbe mangiare qualcosa." Il mio stomaco si faceva sentire, ma non è che potessimo uscire di casa e andare a farci un hamburger dall'altra parte della strada. Eravamo in mezzo al nulla.
Ci fu un attimo di silenzio mentre mio nonno guardava un punto all'orizzonte. "Allora perché non andiamo a casa mia? C'è da mangiare, e non è lontano."
"Ehm…" Il cielo cominciava ad assumere delicate tonalità di rosa e pesca. Stava calando la notte. "Pensavo di tornare a dormire a Alice Springs."
"Sei libera di farlo. Ma se vieni con me potremo parlare ancora. E se ti va, c'è un letto per te."
"Okay, d'accordo" risposi. Dopotutto quell'uomo era mio nonno. Si era fidato di me tanto da condividere il segreto della sua – della mia – famiglia, e io dovevo fare altrettanto.
Ci alzammo e uscimmo in cortile sull'altro lato della casa, dove trovammo Phil appoggiato a un muro.
"Andiamo, Celaeno?"
Lo misi al corrente del cambiamento di programma e lui mi strinse la mano. "È stato un piacere conoscerti. Fatti viva, d'accordo?"
"Può prendere il mio posto nel comitato quando andrò in pensione" scherzò mio nonno.
"Il furgone non è chiuso a chiave" ci disse Phil quando ci allontanammo.
Aprii la portiera posteriore e stavo per prendere lo zaino quando le forti mani brune di mio nonno mi anticiparono. Sollevarono il mio bagaglio come se non pesasse niente.
"Da questa parte." Mi fece cenno di seguirlo e si incamminò.
Forse ha parcheggiato altrove qui vicino, pensai. Man mano che ci allontanavamo dalla missione, mi accorsi però che l'unico veicolo in vista era un carretto tirato da un cavallo, fermo su una chiazza d'erba.
"Sali a bordo" disse buttando lo zaino nel cassone di legno. "Sai cavalcare?" mi chiese facendo schioccare le redini.
"Ho preso qualche lezione da piccola, ma a mia sorella Star non piaceva, perciò abbiamo smesso."
"A te piaceva?"
"Tantissimo."
Mio nonno ignorò la strada e portò il carretto sulla terra nuda, con il pony che cominciò a dirigersi su per una lieve pendenza.
"Posso insegnarti, se vuoi. Come ti ho detto, il tuo prozio Drummond ha trascorso praticamente tutta la vita a cavallo."
"E sui cammelli" aggiunsi. Il pony procedeva autonomamente, e mio nonno teneva le redini con lo sguardo puntato su di me.
"Se tua madre e tua nonna ci vedessero ora. Insieme, qui." Scosse la testa e mi accarezzò una guancia. Sentii la sua mano ruvida come carta vetrata, ma piena di amore.
C'era una domanda che mi tormentava da un po'.
"Posso chiederti cos'è il Tempo del Sogno? Ho sentito alcune storie al riguardo, e anche sugli Antenati, ma che cos'è realmente?"
Lui ridacchiò. "Ah, Celaeno, per noi il Tempo del Sogno è tutto. È il modo in cui è stato creato il mondo, in cui ogni cosa ha avuto origine."
"Ma come?"
"Te lo spiegherò come me l'ha spiegato mia nonna Camira quando ero più piccolo. Nel Mondo del Sogno la terra all'inizio era vuota: un deserto infinito immerso nel buio. Niente rumori, niente vita. Nulla di nulla. Poi arrivarono gli Antenati, che esplorarono quella terra di cui poi si innamorarono. Crearono tutto ciò che esiste – le formiche, i canguri, i wallaby, i serpenti…"
"I ragni…" interruppi.
"Certo, anche loro, Celaeno. Tutto è connesso e tutto è importante, indipendentemente da quanto sia brutto o spaventoso. Gli Antenati crearono anche la luna, il sole, gli esseri umani e le nostre tribù."
"Sono ancora qui?"
"Be', dopo aver creato tutto, se ne andarono. Salirono in cielo, si mescolarono alla terra, alle nuvole, alla pioggia… e a tutte le creature cui diedero vita. Affidarono a noi umani il compito di proteggere tutto quanto."
"Tutte le tribù aborigene hanno il Tempo del Sogno?"
"Sì, anche se le singole storie variano da tribù a tribù. Ricordo quanto si arrabbiava nonna Camira quando una delle nostre storie arrernte era differente da quella con cui era cresciuta. Lei era una Yawuru."
"Quindi parli anche yawuru?" chiesi, pensando a Chrissie.
"Un po', ma a Hermannsburg ho imparato tre lingue: il tedesco, l'arrernte e l'inglese, e sono già abbastanza per una sola testa."
Mezz'ora più tardi arrivammo davanti a qualcosa di simile a un orto, coltivato su palafitte di cemento infilate nella terra rossa. Dietro c'era una piccola stalla, verso cui mio nonno diresse il pony. Vidi che, proprio come a casa della nonna di Chrissie, anche lì i mobili erano fuori, in una piccola veranda riparata da una tettoia. Presi lo zaino, salii le scale e mi voltai ad ammirare il panorama.
"Guarda là" disse mio nonno. Appoggiò una mano sulla mia spalla e osservammo il paesaggio che ci circondava. Il sole morente gettava i suoi ultimi raggi sulle rocce all'orizzonte, e un torrente serpeggiava luccicante. In lontananza vedevo le capanne bianche di Hermannsburg, illuminate sul retro da un bagliore arancione.
"A nord-ovest c'è Haasts Bluff, vicino a Papunya" disse indicando alle nostre spalle. "E a nord-est c'è la catena dei monti MacDonnell. L'Heavitree Gap è sempre stato il posto che preferisco per dipingere."
"La foto di te e Namatjira è stata scattata lì?"
"Sì. Hai studiato, vedo" disse con aria di approvazione.
"Me l'ha detto Phil. È stato lui a riconoscere il posto."
"In effetti c'è stato molte volte."
"La vista è spettacolare." Iniziavo a sentire le mani smaniose. Volevo dipingere subito quel paesaggio.
"Andiamo dentro."
La capanna odorava di vernice e trementina. La stanza era piccola, con un vecchio divano piazzato davanti a un caminetto. Il resto dello spazio era occupato da un tavolo da disegno macchiato di vernice e sepolto da barattoli e pennelli. Appoggiate al muro, si potevano contare numerose tele.
"Vediamo un po' cosa abbiamo per cena."
Lo seguii nella stanza accanto in cui c'erano un vecchio frigo rumoroso, una stufa a gas e un lavandino senza rubinetti.
"Ho della bistecca, se ti va. Posso prepararla con un contorno di verdure."
"Benissimo."
"I piatti e le posate sono in quella credenza. C'è anche una padella e un pentolino."
Frugai nella credenza e appoggiai il necessario sul tavolino di legno al centro della stanza. Nel frattempo mio nonno prese carote, cipolle e patate dal frigo e cominciò a pelarle e affettarle. Mi sedetti a guardarlo, cercando di ripercorrere tutte le linee genetiche che ci legavano. Avrei dovuto disegnare il mio albero genealogico, prima o poi.
"Sai cucinare, Celaeno?" mi chiese.
"No" ammisi. "Quella brava è mia sorella Star."
"Vivete insieme?"
"Fino a due mesi fa, sì."
"Cosa è successo? Avete litigato?"
"No… è una lunga storia."
"Be'" disse accendendo la fiamma sul fornello. Aveva messo in padella le verdure insieme ad alcune erbe che non avevo mai visto. "Dopo cena potrai parlarmi un po' di te."
Ci sedemmo in veranda a mangiare la miglior bistecca che avessi mai assaggiato – ma forse mi sembrò tale solo perché ero affamatissima. Realizzai che si trattava del primo pasto insieme a un mio parente di sangue, e mi meravigliai che la maggior parte delle persone lo facesse ogni giorno senza rendersi conto di quanto l'occasione fosse speciale.
Dopo mangiato mio nonno mi mostrò il barile di acqua piovana sul retro della capanna. Ne versai un po' nel lavello e lavai i piatti mentre lui preparava il caffè. Accese una lampada a olio in veranda e ci accomodammo sulle sedie di legno a sorseggiarlo.
"Se hai ancora dei dubbi su di me, voglio mostrarti questa."
Era un'altra fotografia in bianco e nero, che ritraeva due donne accanto a un uomo. Una delle due, anche se aveva la carnagione più scura, avrebbe potuto essere benissimo la mia gemella. Aveva i miei stessi occhi a mandorla.
"Vedi la somiglianza?"
"Sì, certo. Anche i tuoi occhi sono così. Era tua madre?"
"Sì, quella è Alkina, o Cat, il nomignolo con cui la chiamavano tutti. Come ti ho detto, non l'ho mai conosciuta."
"E quello chi è?" Indicai il bell'uomo biondo che torreggiava sulle due figure femminili. Le abbracciava entrambe.
"Lui è Charlie Mercer. Il tuo bisnonno, mio padre."
"E l'altra donna?"
"Camira, mia nonna. A parte la mia Sarah, era la persona più meravigliosa, gentile e coraggiosa che abbia mai conosciuto…"
Guardò l'orizzonte e vidi che aveva gli occhi colmi di tristezza.
"Quindi è venuta a Hermannsburg a occuparsi di te?"
"Oh, sì, è venuta. Sono cresciuto convinto che fosse mia madre, e avrebbe potuto benissimo esserlo. Quando sono nato aveva poco più di quarant'anni."
"Charlie Mercer ha mai saputo di te? Cioè, l'hai mai conosciuto?
"Celaeno," disse sospirando "per un momento lasciamo stare il passato. Voglio sapere di te. Com'è stata la tua vita?"
"Bella domanda."
"Allora lascia che ti aiuti. Quando ho iniziato a cercare mia figlia e ho trovato te, mi è stato detto che eri stata adottata da un ricco svizzero. Hai vissuto lì da piccola?"
"Sì, a Ginevra."
"Hai fratelli o sorelle?"
"Solo sorelle. Siamo tutte e sei adottate."
"Come si chiamano? Quanti anni hanno?"
"Probabilmente lo troverai strano, ma ci chiamiamo come le Sette Sorelle delle Pleiadi."
Spalancò gli occhi e pensai che se non altro potevo evitare di spiegargli il mito delle Sorelle. Quell'uomo lo conosceva sin da bambino. Erano anche i suoi Antenati.
"Hai detto che siete sei?"
"Mm-mmm."
"Come nella leggenda" esclamammo all'unisono, poi ci mettemmo a ridere.
"C'è anche Merope, sebbene talvolta si nasconda. Forse un giorno si farà trovare."
"Be', ora è troppo tardi, almeno per Pa'. È morto lo scorso giugno."
"Mi dispiace, Celaeno. Era un brav'uomo?"
"Sì, molto, anche se a volte avevo la sensazione che volesse più bene alle altre. Sono tutte così belle e piene di talento."
"Come te. E ricordati che nulla accade per caso. È tutto già scritto, prima ancora che ognuno di noi faccia il primo respiro su questa terra."
"Ci credi veramente?"
"Devo, vista la storia della mia vita. Sono stato trovato in fasce da un mio consanguineo, che poi ha portato mia nonna da me. Non conosco le tue credenze religiose, ma di certo nessuno può negare l'esistenza di qualcosa che è più grande di noi. Io mi affido all'universo, anche se a volte ho la sensazione che mi deluda, come quando ho perso mia figlia. Ma quella era la sua strada, ha dovuto seguirla e io devo accettare il dolore."
Pensai quanto fosse saggio e solenne quell'uomo, e anche quanto mi ricordasse Pa' Salt.
"Ci siamo di nuovo distratti. Parlami delle tue sorelle, per favore."
E gliene parlai, facendogli un riassunto della vita di ciascuna, come avevo fatto tante volte in passato.
"Capisco. Ma hai lasciato fuori una sorella."
Feci il conto mentalmente. "No, ti ho parlato un po' di tutte."
"Non mi hai ancora parlato di te."
"Ah, certo. Be'," dissi schiarendomi la voce "non c'è molto da dire, in realtà. Vivo a Londra con Star, anche se ora probabilmente lei si è trasferita definitivamente altrove. A scuola andavo male perché sono dislessica."
"So cos'è la dislessia, perché ce l'ho anch'io. E anche tua madre."
La parola “madre” mi provocò uno strano brivido. Probabilmente era morta, stando a quanto aveva detto finora, tuttavia poteva sempre raccontarmi qualcosa di più su di lei. "Deve essere una cosa genetica, allora. Il problema è che Star, o Asterope, è sempre stata quella a cui ero più legata perché avevamo la stessa età, pochi mesi di differenza. È molto intelligente e la cosa peggiore è che le mie scarse capacità intellettive le hanno impedito di raggiungere i risultati che avrebbe voluto. Ha vinto una borsa di studio a Cambridge ma non ci è andata per venire all'università del Sussex con me. So di averle fatto pressione, di averla spinta verso quella scelta. E mi sento in colpa."
"Forse neppure lei voleva stare senza di te, Celaeno."
"Sì, ma a volte nella vita si dovrebbe provare a essere adulti, no? Avrei dovuto convincerla ad andare, dirle di non preoccuparsi per me se davvero le volevo bene. E gliene voglio."
"L'amore è il sentimento più altruistico ed egoistico di tutti, Celaeno; altruismo ed egoismo sono facce della stessa medaglia e non si possono separare. Il bisogno di amore combatte sempre con il desiderio che la persona amata sia felice. Perciò, purtroppo, l'amore non si può razionalizzare e nessun essere umano sfugge alla sua morsa, credimi. Cos'hai studiato all'università?"
"Storia dell'arte. È stato un disastro e ho mollato dopo un paio di semestri. Non riuscivo a superare gli esami per colpa della dislessia."
"Capisco. Ma la materia ti interessava?"
"Oddio, sì. L'arte è l'unica cosa in cui sono brava."
"Sei un'artista?"
"Non proprio. Sono entrata al Royal College di Londra, il che è bellissimo, ma…" Fui sopraffatta dalla vergogna per il mio fallimento. Quell'uomo si era dannato l'anima per trovarmi e voleva sentirmi parlare dei successi che avevo ottenuto, ma in concreto non avevo combinato assolutamente nulla in ventisette anni. "Non ha funzionato neanche lì. Ho mollato dopo tre mesi e sono venuta qui. Scusa" aggiunsi.
"Non c'è alcun bisogno di scusarsi, né con me né con te stessa" disse mio nonno. "Ti rivelo un segreto: molti anni fa ottenni una borsa di studio alla Melbourne School of Art. Mi fu proposta da un uomo di nome Rex Battarbee, la persona che ha insegnato a Namatjira. Il tutto durò meno di quattro giorni, poi scappai e tornai alla mia casa di Hermannsburg."
"Davvero?"
"Già. E fu terribile dover affrontare mia nonna Camira, una volta tornato a casa dopo un mese di viaggio. Era così orgogliosa quando aveva saputo della borsa. Pensavo mi avrebbe picchiato, ma fu felice di vedere che stavo bene e che ero tornato da lei. L'unica punizione che mi inflisse fu chiudermi nella stalla con una tinozza d'acqua, finché non mi fossi lavato ben bene da capo a piedi con un pezzo di sapone."
"E sei diventato comunque un artista famoso?"
"Sono diventato un artista, sì, ma l'ho fatto a modo mio, proprio come te. Hai ricominciato a dipingere?"
"Faccio molta fatica, a essere sincera. Ho perso fiducia quando ho lasciato l'università a novembre."
"Certo, è normale, ma la fiducia tornerà, e ci sarà un momento in cui qualcosa – un paesaggio, un'idea – ti colpirà. E sentirai dentro di te un bisogno viscerale di dipingere e…"
"Conosco la sensazione!" esclamai con entusiasmo. "Mi è successo proprio questo appena siamo arrivati qui!"
Dopo tutte le cose che mio nonno mi aveva raccontato, fu in quel momento che capii per la prima volta che avevamo lo stesso sangue. "E poi," aggiunsi "ho provato questa sensazione anche un paio di giorni fa, mentre tornavo da Hermannsburg con la mia amica Chrissie; avevamo visto il tramonto dietro la catena dei monti MacDonnell. Il giorno dopo mi sono procurata degli acquerelli, mi sono seduta sotto un albero della gomma e… ho dipinto! E lei ha detto, cioè la mia amica Chrissie," mi stavo ingarbugliando "ha detto che era bellissimo e ha portato il quadro in una galleria di Alice Springs senza dirmelo; l'hanno incorniciato e l'hanno messo in vendita per seicento dollari!"
"Magnifico!" Mio nonno si diede una gran pacca sulle ginocchia. "Se bevessi ancora brinderei a te. Non vedo l'ora di vedere quel dipinto."
"Oh, credo che non sia niente di speciale, ho lavorato con acquerelli da bambini…"
"… ma almeno è stato un inizio" concluse lui al mio posto, con gli occhi pieni di felicità. "Sono sicuro che sia molto meglio di quanto tu creda."
"In un libro ho visto il tuo Ruota di fuoco. È straordinario."
"Grazie. È curioso, perché non è il mio preferito, ma spesso le preferenze di un artista non corrispondono a quelle del pubblico."
"Da piccola ho dipinto un murale delle Sette Sorelle pieno di puntini" gli dissi. "Non sapevo neanche perché lo stessi facendo."
"Gli Antenati ti stavano guidando al tuo Paese natale" rispose Francis.
"Ho sempre fatto fatica a trovare il mio stile…"
"Come tutti i bravi pittori."
"Stamani, quando ho visto come tu e Clifford Possum avete mischiato due stili per creare qualcosa di nuovo, mi sono domandata se non fossi in grado anch'io di fare una cosa del genere."
Non mi chiese nulla, si limitò a guardarmi con quei suoi occhi straordinari. "Allora provaci. E presto. Non lasciare che l'ispirazione passi."
"Sì."
"E non cadere mai, mai nell'errore di paragonarti ad altri artisti. Che siano più bravi o meno bravi, il paragone porta solo sconforto…"
Aspettai. Sapevo che non aveva finito.
"Sono caduto in questa trappola quando i dipinti di Cliff hanno iniziato a diventare conosciuti a livello nazionale. Era un vero genio, e ancora mi manca, eravamo grandi amici. Ma l'invidia mi divorava dentro, lo vedevo acquistare una fama sempre più grande e ricevere quell'adulazione che io, ero convinto, non avrei mai ricevuto. Infatti il pioniere di una nuova scuola pittorica è soltanto uno, gli altri lo seguono. E se era lui il pioniere, non potevo esserlo io."
"Hai perso sicurezza?" chiesi.
"Peggio. Non solo ho smesso di dipingere, ma ho iniziato a bere. Ho lasciato la mia povera moglie e me ne sono andato in giro per più di tre mesi. Non riesco a dirti quanta gelosia ho provato, né quanto considerassi inutile la mia arte. Mi ci è voluto tutto quel tempo da solo per comprendere che, per un vero artista, la fama e il successo sono un miraggio. La vera gioia sta nel processo creativo. L'artista è sempre schiavo di quel processo, che poi ti controlla come un amante. Ma a differenza dell'amante, il processo creativo non ti lascia mai" disse con solennità. "Rimane dentro di te per sempre."
"Quando hai accettato la cosa hai ricominciato a dipingere?" chiesi.
"Sono tornato a casa, ubriaco e distrutto; mia moglie mi ha messo a letto e si è presa cura di me finché non mi sono ripreso. Il recupero mentale era già iniziato nel Bush, ma mi ci è voluto molto tempo per raccogliere il coraggio necessario a sedermi di nuovo davanti a una tela e riprendere in mano il pennello. Non dimenticherò mai quanto mi tremava la mano quando lo feci. E poi, alla fine, la consapevolezza che non stavo dipingendo per altri ma solo per me stesso, che non avrei raggiunto il mio obiettivo iniziale di dominare il mondo, mi ha dato un senso di pace e libertà che non riesco a descriverti. Da allora, per una trentina d'anni più o meno, la mia arte è migliorata, e in effetti ora i quadri si vendono a cifre esorbitanti, ma solo perché dipingo esclusivamente quando le dita mi costringono. Ecco, tutto qui."
Rimanemmo un po' in silenzio, ma non per imbarazzo. Cominciavo a capire che mio nonno parlava solo quando aveva qualcosa da dire. Sentivo anche di aver ricevuto un sovraccarico di informazioni negli ultimi giorni, e volevo depositarle nella mente una per una, con grande attenzione, un po' come quando da piccoli si scarta dalla scatola un cioccolatino alla volta.
"Guarda!"
Sobbalzai a quel grido, con una reazione immediata di panico perché pensavo che volesse indicarmi un ragno o un serpente.
"Lassù." Indicò col dito e vidi il familiare ammasso lattiginoso delle Pleiadi che sembrava fluttuare basso nel cielo, più vicino di quanto non fosse mai stato. "Eccoti lì" disse mettendomi un braccio sulle spalle. "Quella è tua madre, Pleione, e quello tuo padre, Atlante. Guarda, stasera si fa vedere anche la tua sorellina."
"Oh mio Dio, è lì! La vedo!"
E la vedevo davvero. Merope brillava come le altre, che qui in Australia sembravano vivide più che in qualsiasi altro luogo.
"Sta arrivando da voi, Celaeno. Finalmente ha raggiunto le sue sorelle…"
Lasciò cadere pesantemente le braccia lungo i fianchi. Poi si voltò a guardarmi e mi strinse forte a sé. Con esitazione gli cinsi la vita muscolosa, poi udii uno strano suono gutturale e capii che stava piangendo. Ci trovavamo proprio sotto alle mie sorelle e a Pa' in quel luogo incredibile, perciò decisi che non c'era nulla di male a unirmi a lui nel pianto.
Alla fine si staccò e mi prese il viso tra le mani. "Ti rendi conto? Tu e io, due sopravvissuti di una potente famiglia, qui, insieme, sotto le stelle."
"Non posso crederci" dissi asciugandomi il naso.
"No. Io me ne sono accorto ora, e guarda che cos'è successo." Sorrise. "Meglio non rifarlo. Bene, ti va di passare la notte qui? C'è un bel letto, io dormo fuori sul divano."
"Sì" dissi, e mi stupii della mia risposta immediata. Ma in effetti non mi ero mai sentita tanto protetta. "Ehm, dov'è il bagno?"
"Sul retro. Vengo a controllare che non ci siano visitatori, se capisci cosa intendo."
Nel soggiorno vidi una porta spalancata.
"Sto cambiando le lenzuola, Sarah si arrabbierebbe se non usassimo lenzuola pulite per ospitare nostra nipote" disse mio nonno posando sul letto un paio di cuscini immacolati.
"Sarah era tua moglie?"
"Sì."
"Di dove era?"
"Di Londra. Ecco." Tirò fuori un altro lenzuolo da un baule e lo mise sul letto. "Ti lascio anche una coperta nel caso faccia freddo, stanotte; se fa troppo caldo c'è il ventilatore. Sulla sedia ho messo un asciugamano, se vuoi farti una doccia. Ma forse è meglio rimandare a domani mattina."
"Grazie, ma sei sicuro? Sono abituata ad accamparmi dove capita."
"Non c'è problema. Io dormo spesso fuori."
Volevo dirgli che lo facevo anch'io, ma temevo di risultare un po' troppo sdolcinata.
"Buonanotte." E mi diede un bacio sulla guancia.
"A proposito, come dovrei chiamarti?"
"Credo che “Francis” vada bene, no? 'Notte" e si chiuse la porta alle spalle.
Aveva messo il mio zaino sul pavimento accanto al letto. Mi spogliai e mi infilai sotto le lenzuola, sdraiandomi su uno di quei vecchi materassi di crine in cui i corpi precedenti lasciano una buca. Era tutto bellissimo. Guardai bene il soffitto e le pareti alla ricerca di creature con tante zampe, ma alla luce tenue della lampada sul comodino non ne vidi nessuna. Mi sentivo al sicuro come non mai, come se prima di questo giorno fossi stata una falena che seguiva ogni luce, incerta su dove andare. E ora ero arrivata.
Forse mi sarei bruciata, se mi fossi avvicinata troppo, ma mi addormentai prima di iniziare a preoccuparmene.
28
Il mattino successivo mi svegliai e vidi il sole che faceva capolino dietro il monte Hermannsburg come un bimbo timido tra le gambe della madre. Guardai l'orologio: non erano neanche le sei, ma mi sentivo piena di entusiasmo per la giornata che mi attendeva.
Aprii la porta della stanza e subito percepii un aroma di pane appena sfornato. Di sicuro mio nonno aveva apparecchiato fuori… pane e marmellata e magari una bella tazza di caffè.
"Buongiorno, Celaeno. Dormito bene?"
"Veramente bene, grazie. Tu?"
"Io sono un animale notturno. Mi vengono le idee migliori dopo la mezzanotte."
"Anche a me" dissi sedendomi. "Wow, quel pane ha un aspetto fantastico. Non sapevo ci fosse un forno nelle vicinanze."
"L'ho fatto io. Fu mia moglie a comprare la macchina del pane dieci anni fa. Spesso restavo fuori a lungo, e voleva essere sicura che avessi qualcosa da mangiare nel caso non fossi stato in grado di cacciare un canguro."
"L'hai mai fatto?"
"Molte volte, ma tanto tempo fa. Ora preferisco andare al supermercato, è più facile."
Mi appoggiò sul piatto una fetta di pane caldo. Ci spalmai sopra burro e marmellata e li guardai sciogliersi sulla mollica soffice.
"È delizioso" dissi, divorando tutto con la voracità di un lupo. Me ne tagliò un'altra fetta. "Quindi vivevi davvero nel Bush? Senza una casa in cui tornare?"
"Sì" rispose. "Ci sono andato per la prima volta al raggiungimento dell'età adulta, a quattordici anni, come fanno tutti gli Aborigeni maschi."
"Pensavo che ti avessero allevato come cristiano."
"Sì, ma il pastore rispettava le nostre tradizioni e non faceva nulla per impedirci di seguirle. A Hermannsburg eravamo molto fortunati, più di tanti altri. Il pastore Albrecht aveva anche imparato l'arrernte e aveva fatto tradurre una Bibbia nella nostra lingua, in modo che potesse leggerla chi di noi non parlava inglese o tedesco. Era un brav'uomo, e si stava bene con lui. Andavamo e venivamo come ci pareva, e tornavamo quasi sempre. Anche io sono tornato, dopo vent'anni passati a Papunya. È casa mia. Allora, cosa pensi di fare oggi?"
"Sono venuta a cercare la mia famiglia, e ho trovato te" dissi con un sorriso. "Non ho ancora pensato a cosa fare adesso."
"Bene. Cioè, mi chiedevo se ti andasse di restare qui per un po'. Per conoscerci meglio, tu e io. E dipingere, ovviamente. Pensavo che forse potrei farti da… guida, per aiutarti magari a scoprire qual è il tuo stile. Ho insegnato molti anni a Papunya."
"Ehm…"
Doveva aver visto la paura dipinta sul mio viso, perché disse: "Tranquilla, non badarci. Era soltanto un'idea".
"No! È un'idea fantastica! Voglio dire, certo, sì! È solo che, be', sei molto famoso e tutto il resto, e ho solo timore che tu mi consideri un'incapace."
"Non lo farei mai, Celaeno. Per cominciare, sei mia nipote! E forse, dato che fino a questo momento non ho dato alcun contributo alla tua vita, potrei farlo adesso aiutandoti a trovare la tua strada."
"Forse dovresti vedere i miei lavori, prima."
"Se ti fa sentire meglio, allora d'accordo. Tanto, se dobbiamo rimanere qui qualche giorno, dovremo andare a Alice Springs a fare rifornimento. E con l'occasione fare un salto alla galleria dove hanno esposto il tuo dipinto."
"Okay" dissi "anche se sicuramente ti farà schi…"
"Basta, Celaeno." Francis si portò un dito alle labbra. "I pensieri negativi innescano azioni negative."
Finimmo voracemente la colazione e ripulimmo con cura il tavolo. Mio nonno mi disse che anche la più piccola traccia di briciole avrebbe attirato un esercito di formiche in un batter d'occhio. Poi andammo sul retro, dietro la stalla, dove all'ombra di un'acacia era parcheggiato un vecchio pick-up.
Tre ore dopo arrivammo in città; ci fermammo in un supermercato a fare la spesa. Fu un processo lento, perché di tanto in tanto qualcuno arrivava a dargli una pacca sulla schiena e ad augurargli il buongiorno. Una donna chiese perfino se poteva farsi una foto con lui, così io rimasi lì, imbarazzata davanti al banco frigo. La cosa andò avanti così anche in giro per la città; mio nonno, anche se non era Clifford Possum, era comunque una celebrità. Ne ebbi conferma quando lo seguii nella galleria; gli artisti che lavoravano si immobilizzarono all'istante e lo fissarono a bocca aperta. Si strinsero intorno a lui parlando in una lingua che non capivo, e Francis rispose a tutti con pazienza. Dopo qualche foto e alcuni autografi, chiese a Mirrin della reception dove fosse il dipinto di sua nipote.
"Sua nipote?" Mirrin mi guardò sbalordita, poi scosse la testa. "Spiacente, non ce l'abbiamo più."
"Dov'è?" chiesi in preda al panico.
"Dopo un'ora che era appeso è entrata una coppia e l'ha comprato."
Fissai quella donna a bocca aperta, sicura che si fosse inventata tutto soltanto perché non l'aveva ancora esposto.
"Perciò adesso ti devo trecentocinquanta dollari!"
"Be', non posso vedere il tuo lavoro, ma direi che c'è un motivo più che valido" disse il nonno con orgoglio.
"Celaeno ha talento, signor Abraham. Comprerò tutto quello che dipingerai, d'accordo?"
Pochi minuti dopo, con in tasca i primi soldi che avessi mai guadagnato con la mia arte, uscimmo dalla galleria. Mentre percorrevo le strade accanto a Francis Abraham, rinomato artista e mio nonno, mi sentivo felice.
"Okay, ci siamo" disse il nonno scaricando dall'auto il cavalletto che avevo comprato con i soldi della vendita. "Hai tutto quello che ti serve?"
"Sì, e anche di più." Inarcai un sopracciglio. Sul tavolo accanto a me c'era una montagna di tempere, colori a olio e pastello, insieme a una vasta scelta di pennelli.
"Saprai tu quali usare" disse mettendomi una mano sulla spalla. "Ricorda, il panico non fa che accecarti."
Accese una spirale antizanzara, poi si allontanò e rimasi a fissare la tela bianca davanti a me. Non avevo mai sentito così tanta pressione addosso. Aprii un tubetto di arancione e uno di marrone e li mischiai insieme sulla tavolozza. "Forza" mormorai. Presi un pennello nuovo e iniziai a dipingere.
Quarantacinque minuti dopo strappai quell'orribile tela dal cavalletto e la scaraventai a terra. Provai con tempera su carta, usando come soggetto il monte Hermannsburg e cercando di riprodurre il dipinto che avevo fatto qualche giorno prima, ma il risultato fu addirittura peggiore, perciò scartai anche quello.
"Si mangia!" esclamò Francis dalla capanna.
"Non ho fame" esclamai, nascondendo sotto la sedia la prima tela, sperando che non la notasse.
"È solo un panino con prosciutto e formaggio" disse uscendo in veranda e posandomi un piatto in grembo. "Tua nonna diceva sempre che un artista ha bisogno di cibo per il cervello. Non preoccuparti, non ho intenzione di guardare niente fino alla fine della settimana. Hai tempo."
Le sue parole, e l'ottimo panino, mi calmarono per un po', ma alla fine della giornata ero pronta a fare i bagagli e tornare a Alice Springs per affogare le mie sofferenze nella birra. Quando rientrai per rinfrescarmi, davanti al ventilatore trovai mio nonno seduto di fronte a un'enorme tela. Lo osservai mescolare i colori sulla tavolozza e aggiungere al dipinto un'altra zona di puntini intricati. Da qualche parte, in quel bellissimo miscuglio tra rosa delicati, viola e verdi, vidi la forma di una colomba, a malapena visibile, composta solo da una serie di sfumature bianche. Fu la goccia che fece traboccare il vaso. Mi sentivo inutile.
Lui è un maledetto genio, e a me non riesce neanche imbiancare una parete, pensai avvicinandomi al ventilatore. I capelli si infilarono tra le pale rischiando di essere strappati via.
"Dipingi da dio. Che bello… ahia!" dissi, mentre Francis tentava di liberarmi i capelli.
"Grazie, Celaeno. Non lavoravo da settimane, non sapevo dove sarebbe andato a finire questo quadro, ma vederti seduta lì fuori mi ha dato un'idea."
"Intendi la colomba?"
"L'hai vista." Anche se non potevo guardarlo perché ero ancora incastrata, capii che era compiaciuto che l'avessi notata. "Temo che dovrò tagliare via qualcosa."
"Okay, fallo" lo incoraggiai, perché ora sentivo dolore al collo.
"Va bene." Tornò brandendo un grosso paio di forbici. "Sai cos'è che impedisce agli esseri umani di raggiungere il loro pieno potenziale?"
"No. Che cosa?" Sentii le sue mani tirarmi piano i capelli e le forbici passare a pochi millimetri dall'orecchio destro. Mi venne in mente van Gogh, ma scacciai subito quel pensiero.
"La paura. Devi tagliarla fuori."
Con un colpo netto, chiuse le forbici sui miei capelli.
All'alba del giorno dopo mi svegliai più calma, forse grazie a qualche strano rito voodoo che mi aveva fatto Francis.
"Vado a Jay Creek" mi disse mentre ripulivamo il tavolo dai resti della colazione. "Tornerò tardi. Se c'è qualche problema, ti ho lasciato il mio numero di cellulare sul caminetto, okay?"
"C'è segnale, qui?"
"No" disse con un sorriso. "Ma al torrente a volte prende. Ci vediamo dopo."
Lo guardai allontanarsi a bordo del pick-up finché divenne un puntino all'orizzonte. D'accordo, Cee, mi dissi posando sul cavalletto la tela più grande che avevo. Magari verrà fuori un disastro, ma devi essere coraggiosa e provarci. Poi spostai il cavalletto e decisi di non guardare il monte Hermannsburg mentre dipingevo. Avrei lavorato a memoria…
Molto più tardi alzai lo sguardo e vidi che il sole era vicino al tramonto. Il pick-up stava tornando verso casa. Guardai quello che avevo combinato fino a quel momento – avevo dipinto soltanto i contorni e un angolo della tela, ma l'istinto mi diceva che ero sulla strada giusta. Mentre il pick-up si avvicinava, tolsi il quadro dal cavalletto e corsi nella mia stanza, perché ancora non volevo che mio nonno lo vedesse. Chiusi la porta alle mie spalle e andai a mettere il bollitore sul fuoco.
"Com'è andata?" mi chiese quando arrivò sulla veranda.
"Oh, non c'è male" risposi versandogli una tazza di caffè.
"Bene." Annuì, ma non disse altro.
Il mattino seguente mi alzai all'alba perché non vedevo l'ora di cominciare. E andò avanti così per qualche giorno. Francis si assentava spesso, ma tornava al tramonto con qualcosa di buono da mangiare. Dopo cena scomparivo nella mia stanza a studiare il dipinto e a immaginare cosa avrei potuto aggiungere l'indomani. Persi la cognizione del tempo man mano che i giorni passavano, aiutata anche dal mio telefono che non prendeva.
Per un attimo pensai che Chrissie avrebbe potuto chiedersi dove fossi finita, magari poteva credere che fossi stata mangiata da un dingo o cose del genere; oppure, più probabilmente non voleva saperlo, dopo quello che era successo tra noi. Anche Star avrebbe potuto essere preoccupata. Quindi decisi di andare al torrente alla ricerca del segnale. Quando comparvero un paio di tacche mandai un messaggio a entrambe: SONO A DIPINGERE NELL'OUTBACK. TUTTO A POSTO.
Valutai se aggiungere anche “sono qui con mio nonno”, ma decisi di non farlo e scrissi, invece: TI KIAMO QUANDO TORNO. NON CE SEGNALE. X
Poi mi affrettai a tornare al mio dipinto, lasciando fuori il mondo reale.
Appoggiai il pennello per l'ultima volta e mi stiracchiai. Il braccio destro pulsava per il troppo lavoro. Guardai quello che avevo davanti, tentata di aggiungere qualcosa qua e là, ma sapevo di essere entrata nel pericoloso territorio in cui si rischia di esagerare, di rovinare qualcosa che più perfetto di così non può essere. Mi costrinsi ad allontanarmi dal dipinto e mi diressi verso la cucina per prepararmi un bel caffè forte, poi mi sdraiai sul letto accanto al ventilatore, esausta.
"Celaeno, mi senti?"
"Sì" gracchiai.
"Sono le undici e mezza, dormi da ieri sera. Sono tornato e ti ho trovata addormentata…"
Il sole splendeva e mi chiesi perché mai non fosse tramontato, ma mi sbagliavo, non erano le undici e mezza di notte.
"Hai dormito quasi quindici ore." Mio nonno sorrise. "Tieni, ti ho portato del caffè."
"Accidenti! Il dipinto! È ancora fuori?" Balzai in piedi rischiando di fargli cadere di mano la tazza.
"L'ho portato dentro io. E ho fatto bene, perché stanotte ha piovuto. Non preoccuparti, l'ho coperto con un lenzuolo e non l'ho guardato." Mi posò una mano sulla spalla. "Il dottor Abraham ti diagnostica un esaurimento post-pittura. Ce l'ho sempre anch'io dopo una sessione particolarmente intensa."
"Sì, be', non so cosa ho prodotto, se è bello o brutto o…"
"Qualunque cosa sia, è una settimana della tua vita che di certo non è andata sprecata. Se vuoi, dopo che avrai mangiato qualcosa possiamo guardarlo insieme. Adesso lavati e vestiti."
"Possiamo guardarlo ora? Non sopporto questo stress" gli dissi seguendolo nell'altra stanza.
"Certo." Indicò il cavalletto coperto da un lenzuolo bianco. "Non preoccuparti, prima ho controllato che fosse asciutto. Dài, scoprilo."
"Ti sembrerà orribile, e poi non so se è bello, e…"
"Celaeno, fammelo vedere e basta!"
"D'accordo." Mi avvicinai e, con un bel respiro, tirai via il lenzuolo. Mio nonno fece qualche passo indietro – era una tela bella grossa – e incrociò le braccia sul petto. Mi misi accanto a lui e feci lo stesso. Poi si avvicinò e lo seguii, come un'ombra.
"Be'?" Si voltò a guardarmi con espressione imperscrutabile. "Che ne pensi?"
"Pensavo che dovessi essere tu a dirmelo."
"Prima voglio sapere cosa ne pensi tu."
Le sue parole mi riportarono subito alle lezioni di arte, quando l'insegnante ci faceva fare autocritica prima di stracciare in mille pezzi i nostri lavori.
"Mi… mi piace. Per essere un primo tentativo non è male."
"È un buon inizio. Vai avanti. Spiegamelo."
"Be', avevo quest'idea di riprodurre il paesaggio che ho dipinto qualche settimana fa, ma invece di usare gli acquerelli volevo usare i colori a olio e la tecnica puntinata."
"Bene." Mio nonno si avvicinò e indicò la corteccia piena di nodi dell'albero bianco della gomma. "A me questi sembrano due occhi, e lassù, nella caverna, c'è un po' di bianco, come se uno spirito stesse entrando."
"Sì." Ero felice che l'avesse notato. "Ho pensato a Merope, la settima sorella. Quando il Vecchio la guarda mentre entra nella caverna."
"Immaginavo fosse una cosa del genere."
"Bene." Non ce la facevo più. "Che ne pensi?"
"Penso, Celaeno, che tu abbia creato qualcosa di unico. È bellissimo e anche molto ben eseguito, per essere la tua prima volta con la tecnica del puntinato. Specialmente l'albero della gomma, che anche se è fatto di puntini con i colori a olio, ha una bella luminosità. Brilla nel dipinto, così come lo sbuffo bianco."
"Ti piace?"
"Non solo mi piace, Celaeno, mi entusiasma. Sì, a livello tecnico puoi migliorare nelle zone in cui i puntini sfumano da un colore all'altro, ma è una cosa che posso insegnarti io. E davvero, sono sicuro di non aver mai visto niente di simile. Ed è il primo tentativo; non riesco a immaginare cosa potrai fare in futuro. Ti rendi conto che hai passato sei giorni interi a dipingere?"
"A dire il vero ho perso la cognizione del tempo…"
"“In sei giorni il Signore creò il cielo e la terra, ma il settimo giorno riposò.” Celaeno, hai trovato il tuo mondo in questa settimana, e sono molto fiero di te. Ora vieni, fatti abbracciare."
Versai la lacrimuccia di rito, dopodiché Francis scomparve sul retro e tornò con due birre. Me ne porse una. "Ne conservo qualcuna in fondo al barile dell'acqua, per le occasioni davvero speciali. E questa lo è. Salute."
"Salute! Cielo! Sto bevendo prima di colazione!"
"Dimentichi che è quasi ora di pranzo."
"E sono affamata" dissi lanciando un'altra occhiata orgogliosa al dipinto.
A pranzo parlammo nel dettaglio del mio lavoro, e dopo mangiato ci sedemmo davanti a una tela bianca. Francis mi mostrò la sua tecnica di puntinato per fare in modo che da lontano non si vedano affatto i puntini.
"Ognuno dipinge a modo suo, con le proprie tecniche" disse mentre provavo. "E sono certo che svilupperai le tue. È solo una questione di tentativi ed errori: ne farai tanti durante il percorso. Fa parte del processo di miglioramento." Poi si girò a guardarmi. "La domanda più importante è se lo stile di pittura, tralasciando per un attimo il risultato, ti è sembrato quello giusto."
"Oh, sì, decisamente. Mi ha dato soddisfazione."
"Allora hai trovato la tua strada. Per ora, almeno, perché la vita di un artista sta tutta nel cercare nuovi modi di esprimersi."
"Vuoi dire che potrei avere una fase strana alla Picasso, prima o poi?" scherzai.
"Le fasi le attraversano tutti, me compreso, poi però si torna sempre allo stile con cui ci si sente più a proprio agio."
"In passato ne ho avuti diversi di momenti del genere" osservai, e gli parlai della mia assurda installazione dell'anno prima.
"Ma non capisci? Hai voluto utilizzare oggetti reali per studiare le forme e le dimensioni delle cose. Imparavi a posizionare le varie parti su una tela. Ogni sperimentazione insegna sempre qualcosa."
"Non ci avevo mai pensato, ma hai ragione."
"Sei un'artista nata, Celaeno, e ora hai compiuto i passi più importanti per trovare il tuo stile. Il tuo talento non ha limiti. Però ho notato che ancora non hai firmato il dipinto."
"Non lo faccio mai, perché non voglio che si sappia che l'ho fatto io."
"Vuoi cominciare da questo?"
"Sì."
"Allora farai meglio a far pratica con la firma perché, fidati, sarà solo la prima di molte."
Più tardi, quella sera, presi un pennellino e del colore a olio nero e mi misi davanti al dipinto, pronta a firmarlo.
Celaeno D'Aplièse?
CeCe D'Aplièse?
C. D'Aplièse?
Poi mi venne un'ispirazione e andai dal nonno, che sedeva in veranda e intagliava un pezzo di legno.
"Che stai facendo?"
"Ho una fase alla Picasso" mi rispose con un sorriso. "Osservo quali forme riesco a creare. Non sta andando bene. Tu hai firmato?"
"No, perché “Celaeno D'Aplièse” è troppo pomposo e mi dà sempre fastidio quando sbagliano a pronunciarlo."
"Mi stai chiedendo se è il caso di assumere un nome d'arte, quindi?"
"Sì, ma non saprei quale."
"A me non dispiacerebbe se tu usassi il mio cognome, anche se pure quello è inventato."
"Grazie, ma sarebbe come sfruttare il fatto che sei famoso e che sono tua nipote…"
"E tu vuoi farcela solo grazie al tuo talento. Lo capisco."
"Perciò pensavo che, se tuo padre avesse sposato tua madre come voleva, il tuo cognome sarebbe stato Mercer, giusto?"
"Sì, esatto."
"E anche quello di mia madre, almeno fino al matrimonio."
"Corretto."
"Quindi che ne dici di “Celaeno Mercer”?"
Mio nonno fissò un punto in lontananza, come se ripercorresse col pensiero le svariate generazioni nel nostro albero genealogico. Poi mi guardò negli occhi.
"Celaeno, credo che sia perfetto."
Quando mi svegliai il mattino dopo mi sentivo strana. Era come se il mio tempo lì fosse momentaneamente finito. Forse dovevo fare qualcos'altro, ma non capivo cosa. Se avevo quel pensiero significava che era giunta l'ora di tornare di nuovo alla realtà, e decidere che cosa fare della mia vita da quel momento in avanti. Peccato che non sapessi neppure che giorno fosse. Andai a chiederlo a Francis in preda all'imbarazzo più totale.
"Non preoccuparti, se hai perso la cognizione del tempo significa solo che ti sei impegnata appieno in quello che hai fatto finora. Oggi è il 25 gennaio."
"Però!" Era passato meno di un mese da quando ero partita dalla Thailandia, e non avevo idea di come avesse fatto il tempo a volare tanto in fretta.
Francis mi guardò con aria interrogativa. "Non sai che fare, adesso, vero?"
"Sì, è così."
"Non c'è bisogno che ti dica quanto mi piacerebbe che tu restassi per un po'. Non in questa capanna, ovviamente, ho una casa con tutti i comfort a Alice Springs, con abbastanza spazio per entrambi. Ma forse hai altri posti dove andare, altre persone da incontrare…"
"Il fatto è…" strofinai le mani sui pantaloni, agitata. "Non sono sicura. Devo risolvere un paio di situazioni un po'… confuse."
"Nella vita è sempre così. Vuoi parlarne?"
Pensai a Star, e poi a Ace e Chrissie, e scossi la testa. "Non adesso."
"D'accordo. Be', pensavo di tornare in città oggi pomeriggio, a meno che tu non voglia restare ancora. Perfino io ho voglia di un bel bagno."
"Sì, non sarebbe male" concordai con un sorriso forzato.
"E poi vorrei mostrarti degli album di fotografie."
"Mi piacerebbe" dissi.
"E ora, perché non ti fai una passeggiata? Io lo faccio sempre quando devo prendere una decisione."
"D'accordo, perché no?"
Uscii di casa e, mentre camminavo, immaginai di tornare a Londra e, con il mio nuovo stile, dipingere ogni giorno, sola nel mio bell'appartamento. Star sarebbe stata a poche ore di treno da me, e non dall'altra parte del mondo, ma sapevo che non sarebbe mai tornata per più di una notte. Anche Ace era a Londra, rinchiuso in un carcere sudicio in mezzo ad assassini e pervertiti. Come minimo gli dovevo una spiegazione, e tutto il mio sostegno. Che mi credesse o no non aveva importanza, era la cosa giusta da fare.
E poi c'era “casa-casa”, Atlantis, e Ma' che non vedevo da quasi sette mesi. Eppure non riuscivo a immaginarmi un futuro lì. Anche se un giorno, ne ero sicura, avrei dipinto il lago di Ginevra con le montagne alle spalle.
Quella era l'Europa. E l'Australia, il Paese in cui mi ero sempre rifiutata di venire? Le ultime settimane erano state tra le più fantastiche di tutta la mia vita. Era banale anche solo pensarlo, ma avevo davvero la sensazione di essere rinata. Era come se tutte quelle parti di me che in Europa si sentivano fuori posto fossero state risistemate in modo da rendermi un “tutt'uno” nuovo, una donna diversa. Un po' come la mia installazione, o meglio come avrebbe dovuto essere se fossi riuscita a renderla perfetta. Certo, nemmeno io ero perfetta, ma se non altro sapevo di essere diventata una persona migliore. E questo mi bastava.
Mio nonno, Chrissie… qui c'erano loro. Finora non avevo dovuto guadagnarmi il loro amore, perché mi era stato offerto senza condizioni. Eppure sapevo che in futuro avrei voluto conquistarmelo.
Circondata da un deserto infinito con il sole che mi picchiava forte sulla testa, mi resi conto che non dovevo prendere alcuna decisione.
Girai sui tacchi e rientrai nella capanna.
"Il mio posto è qui" dissi a mio nonno qualche ora più tardi in un ristorante di Alice Springs. Stavo mangiando il mio nuovo piatto preferito, filetto di canguro. "Punto e basta."
"Ne sono lieto" apprezzò lui, e dalla gioia che gli vidi negli occhi capii che lo era davvero.
"Però devo tornare in Inghilterra per sistemare alcune cose, sai com'è."
"Lo so, lo so. Devi chiudere certe questioni. Forse è il nostro sangue tedesco che ci spinge a mettere in ordine la casa prima di traslocare" osservò sorridendo.
"A proposito di casa in ordine, in realtà ho intenzione di vendere la mia. Non so se ti ho detto di aver comprato un appartamento sul Tamigi con la mia eredità. È stato un vero disastro."
"Tutti commettono errori, fa parte della curva di apprendimento degli esseri umani, purché si impari da essi. Se vuoi tornare, la mia casa è tua finché vorrai."
"Grazie." Ancora non avevo visto la sua casa di Alice Springs. Al nostro arrivo eravamo andati dritti a mangiare. "Oltre a mettere in vendita l'appartamento dovrò anche vedere mia sorella per aggiustare le cose."
"Questa sì che è una ragione valida per tornare" disse. "Le persone sono più importanti dei beni terreni, lo dico sempre."
Finimmo di mangiare e salimmo sul pick-up per andare alla casa, che sorgeva al limitare della città, in una fila di chalet, tutti bianchi, con grandi verande ombreggiate.
"Non badare al giardino. Curare le piante è una cosa che proprio non mi interessa" commentò sulla porta.
"Star potrebbe sistemartelo in un paio di giorni" dissi. Francis infilò la chiave e aprì.
Dentro ebbi subito l'impressione che chi aveva progettato quella casa avesse voluto riprodurre un pezzo di Inghilterra nell'Outback. Era un ambiente decisamente femminile, con tende floreali alle finestre, cuscini ricamati a mano su un vecchio divano e una serie di fotografie sui due scaffali accanto al caminetto. Anche l'illuminazione era delicata: le lampade a piantana d'ottone emanavano un bagliore dorato e soffuso.
Nonostante l'inevitabile odore di chiuso, mi sentii subito a mio agio.
"L'ultima volta ho messo il timer allo scaldabagno, perciò dovrebbe esserci l'acqua calda. Ti preparo la vasca" disse il nonno.
"Benissimo, grazie." Pensai all'ultima volta in cui ero entrata in una vasca, coperta di petali di rosa e con due braccia maschili intorno alla vita. Quanta strada avevo fatto da allora…
Dopo un bagno lungo e piacevolissimo, uscii e vidi che l'acqua era marrone, cosparsa di piccoli insetti che, chissà come, mi erano rimasti attaccati addosso quando abitavo nella capanna. Era bello sentirsi puliti, peccato però che avessi soltanto abiti sporchi da mettermi. Tornai in soggiorno avvolta nell'accappatoio.
"Hai una vecchia maglietta da prestarmi? La mia roba è tutta da lavare."
"Posso fare di più. Tua nonna aveva all'incirca la tua corporatura, e nella nostra stanza c'è un armadio pieno di vestiti."
"Sei sicuro che non sia un problema?" gli chiesi seguendolo lungo il corridoio. Accese la luce in camera da letto e aprì un vecchio armadio di legno di cedro.
"Certo che sono sicuro, non mi viene in mente un utilizzo migliore per questi indumenti. Tanto li avrei dati in beneficenza. Scegli pure."
Mi sentivo un po' a disagio a razziare il guardaroba di mia nonna, ma non potevo fare altrimenti. Aveva quasi tutti abitini di cotone a motivi floreali, gonne tirolesi e camicette con colletto di pizzo, ma c'erano anche un paio di camicie a maniche lunghe di lino. Me ne misi una e tornai in soggiorno. C'era di nuovo il segnale per il cellulare, e avevo ricevuto un messaggio da Talitha Myers, l'avvocato di Adelaide. Diceva di aver trovato il nome “Francis Abraham” sui registri, e provai un moto di orgoglio nel rendermi conto di esserci arrivata prima di lei.
Francis era ancora a lavarsi, perciò mi divertii a guardare le fotografie nelle loro cornici d'argento. Gran parte ritraevano lui e una donna, che presumevo fosse mia nonna. Era minuta, con la carnagione chiara e i capelli scuri legati in una crocchia in cima alla testa.
In un'altra c'era una bambina di circa tre anni, che sorrideva alla macchina fotografica, e poi ce n'era un'altra con la stessa bambina, forse a undici, dodici anni seduta tra i miei nonni. Mia madre. Rimasi senza respiro. Non c'erano altre foto di lei dopo quell'età, e mi stavo chiedendo perché. In quel momento Francis ricomparve in soggiorno.
"Hai visto le foto di tua mamma?"
"Sì. Come si chiamava?"
"Elizabeth. Una bambina adorabile, rideva sempre. Era tutta sua madre."
"Ho visto. E da grande?" azzardai.
Francis sospirò. "È una lunga storia, Celaeno."
"Scusa, è che ci sono ancora troppe cose che non so."
"Sì, be', che ne dici se vado a preparare un caffè, così poi ne parliamo?"
"D'accordo."
Tornò dopo qualche minuto e bevemmo il caffè in silenzio. Sentivo che stava raccogliendo le forze per proseguire il racconto.
"Forse è meglio ricominciare da dove abbiamo interrotto" disse alla fine.
"Come credi meglio. Mi piacerebbe sapere cos'è successo a Kitty, Charlie e Drummond."
"Certo. È stato proprio grazie a Kitty che ho conosciuto mia moglie Sarah…"