CeCe
Broome, Australia occidentale Gennaio 2008
Simbolo aborigeno di un luogo di riunione
19
Mi asciugai le lacrime e mi misi a sedere, tentando di calmarmi.
Ripensai al dolore che avevo provato alla morte di Pa' e cercai di immaginarmelo moltiplicato per tre, il numero di persone che Kitty aveva perso nel naufragio di quella nave. Tutta quella gente…
Mi tolsi le cuffie e mi massaggiai le orecchie intorpidite, poi andai ad aprire la finestra per far entrare un po' d'aria fresca. Cercai di immaginare gli abitanti di questa città radunati sulla collina di Dampier Terrace, una strada che avevo già percorso, ormai preparati a ricevere cattive notizie.
Richiusi la finestra per tenere fuori i rumori notturni della natura, ma anche con l'aria condizionata al massimo ero sudata. Non riuscivo neppure a immaginare come fosse riuscita Kitty a resistere con il corsetto, i mutandoni e Dio solo sa quanti strati di gonne. Per non parlare poi del fatto che aveva partorito con quel clima.
Prima di arrivare a Broome non avevo idea di chi fosse Kitty Mercer, ma ora mi sarebbe piaciuto essere sua parente. Non solo per il coraggio che aveva dimostrato decidendo di andare in Australia, ma anche per il modo in cui aveva affrontato le difficoltà. Le sue esperienze facevano sembrare i miei problemi un capriccio da bambini. Per fare quello che aveva fatto lei nella Broome di cento anni fa ci volevano coraggio e determinazione. E poi aveva seguito il suo cuore. Almeno, era intenzionata a farlo, a prescindere dalle conseguenze.
Guardai la foto di Kitty sulla copertina del CD e non riuscii a credere che potesse essere una mia parente, anche se l'avvocato mi aveva detto che l'eredità era arrivata da lei. In realtà, era più probabile che la mia antenata fosse la domestica, Camira, visto che sua figlia Alkina aveva gli occhi del padre, un giapponese. E io li immaginavo simili ai miei.
Camira e sua figlia erano nate qui, un tempo avevano calpestato la strada che avevo davanti adesso. L'indomani avrei provato a scoprire qualcosa di più. Mi sdraiai sul letto e pensai che questa cittadina ai confini del mondo aveva acceso il mio interesse grazie alla storia di Kitty. Ai suoi tempi, in tanti ci vivevano. Ora volevo vedere le cose che aveva visto lei, anche se non avevo idea di cosa fosse rimasto da allora.
Il mattino successivo fui svegliata dal telefono. Chiamavano dalla portineria.
"Signorina D'Aplièse? C'è un uomo che la aspetta nella hall. Dice di essere dell'Australian."
"Okay… grazie. Gli dica che scendo tra cinque minuti."
Riattaccai con mano tremante. Dunque la stampa ce l'aveva fatta a rintracciarmi. Non c'era un istante da perdere. Scesi dal letto, mi vestii in fretta e infilai le mie cose nello zaino. Lasciai il denaro per la stanza sul comodino, insieme alle chiavi, e uscii di corsa nel corridoio fino all'uscita di emergenza che avevo notato la sera prima, perché un tizio stava fumando sulla scala antincendio. Spinsi il maniglione antipanico che, con mio grande sollievo, si aprì senza far scattare allarmi di sorta. Una rampa di scale di ferro conduceva in un vicolo sul retro dell'albergo. Scesi cercando di fare il minor rumore possibile con i miei anfibi pesanti. Il muretto del cortile era basso, perciò gettai lo zaino dall'altra parte e scavalcai. Dopo aver attraversato alcuni giardini, mi ritrovai sulla strada.
Bene, e ora?
Chiamai Chrissie che rispose al primo squillo.
"Dove sei?" chiesi ansimante.
"Alla mia scrivania all'aeroporto. Che succede?"
"È facile prenotare un volo per andarsene da qui?"
"Lo è se lavori al punto informazioni di fronte alla biglietteria. Dove vuoi andare?"
"Alice Springs. Qual è il modo migliore per arrivarci?"
"Devi prendere un volo per Darwin, e lì cambiare per Alice."
"Puoi prenotarmi quei voli oggi stesso?"
"So che tra un paio d'ore parte il volo per Darwin. Vado a chiedere se c'è posto."
"Se c'è prenotalo. Arrivo appena trovo un taxi."
"Te ne mando uno. Vai alle statue di bronzo in fondo alla strada, sarà lì tra dieci minuti."
"Grazie, Chrissie."
"Figurati."
All'aeroporto Chrissie mi aspettava all'entrata.
"Mi dirai che succede una volta confermata la prenotazione" disse accompagnandomi di gran carriera al banco della Qantas. "Lei è la mia amica, Zab" disse a un tizio. "La prenotazione è pronta, devi solo pagare."
Tirai fuori la carta di credito e la appoggiai sul bancone. Zab la prese e mi porse le carte d'imbarco.
"Grazie mille, Chrissie."
"Vengo con te al gate" disse. "Poi ci prendiamo qualcosa al bar e mi racconti cos'è successo in Thailandia."
Accidenti! Lo sapeva anche Chrissie. Per forza, lavorava davanti a un'edicola! Probabilmente restava seduta tutto il giorno senza fare nulla e aveva davanti agli occhi il mio viso stampato su tutti i quotidiani. Ma non aveva mai detto una parola.
Superammo insieme i controlli e ci sedemmo in un piccolo bar. Chrissie ordinò due bottiglie d'acqua e un panino a testa. Mi ero seduta accanto alla parete d'angolo, per maggiore sicurezza.
"Allora, perché devi andartene così in fretta?"
"Stamani in albergo si è presentato un giornalista dell'Australian. E probabilmente sai perché voleva intervistarmi" dissi.
"Sì, lo so. Ti ho riconosciuta appena ti sei fermata al punto informazioni. E…?"
"Ho conosciuto quel tizio su una spiaggia in Thailandia e sono uscita con lui per un po'. È venuto fuori che è ricercato per una frode bancaria."
"Anand Changrok?"
"O “Ace”, come ha detto di chiamarsi." Poi raccontai a Chrissie le circostanze del nostro incontro.
"Com'era?" chiese alla fine.
"Fantastico. Mi ha aiutata nel momento del bisogno."
"Stavate insieme?"
"Sì, mi piaceva parecchio, e anche se non mi fosse piaciuto non sarei stata così infame. Non l'avrei mai tradito, neanche se avessi saputo chi era."
"Lo so, CeCe." Gli occhi di Chrissie erano pieni di compassione. "Quindi crede che sia stata tu a rivelarlo ai giornali."
"Mi ha mandato un messaggio in cui mi diceva che aveva creduto di potersi fidare di me. Mi sono sentita così indegna, e ancora provo questa sensazione. Non mi crederebbe mai, neanche se potessi spiegargli come stanno le cose. Penso sia stato quel tizio, Jay, a corrompere la guardia di sicurezza per ottenere una fotografia. E io gli ho dato l'opportunità perfetta."
"Potresti sempre scrivergli mentre è in cella."
"Non riuscirei a dirgli quello che dovrei." Le feci un sorriso triste. "Sono dislessica, ricordi?"
"Non posso scrivere io per te?"
"Magari. Grazie."
"Credi che sia colpevole?"
"E come faccio a saperlo? Però nessuno ha dubbi, a quanto pare. Non lo so, Chrissie, c'è qualcosa che non quadra. Alcune piccole cose che mi ha detto… È solo una sensazione, ma credo che ci sia sotto più di quanto mi abbia detto."
"Forse dovresti provare a scoprirlo."
"E come? Non sono una detective e non ne so nulla di banche."
"Sei intelligente, troverai un modo" disse con un sorriso.
Arrossii, perché nessuno mi aveva mai detto di considerarmi intelligente. "Comunque, ora voglio concentrarmi sulla questione della mia famiglia."
"Ehi, se a Alice ti serve una compagna detective che ti aiuti, conta su di me" disse all'improvviso Chrissie. "Ho delle ferie arretrate e non c'è molto movimento, qui, perciò che ne dici se ci vediamo lì?"
"Davvero? Non voglio approfittare della tua gentilezza, ma se ce la facessi sarebbe bellissimo" disse, davvero entusiasta all'idea. "Hai visto quanto sono ignorante sull'Australia."
"Ma no, amica mia, ti serve solo qualcuno che ti mostri quello che serve. Sono carica, ho sempre voluto andare a Alice Springs." Chrissie guardò il tabellone delle partenze. "È ora di andare."
"Detesto gli aerei" dissi mentre mi avvicinavo al mio gate.
"Ah sì? Io invece ho sempre voluto vedere il mondo. Ti scrivo quando sarò sicura di poter venire." Mi abbracciò. "Fai buon viaggio."
"Grazie di tutto."
Mentre salivo sull'aereo, all'improvviso mi sentii persa, perché Chrissie era diventata un'amica vera. Dovevo solo assicurarmi di non mandare tutto all'aria come avevo fatto con Ace.
Quando iniziammo la discesa verso Alice Springs notai un netto cambiamento nel paesaggio sottostante. Dal cielo sembrava un'oasi di verde in pieno deserto, ma con i colori molto più accesi. Vidi una catena montuosa che brillava di tinte viola nella foschia, le creste irregolari che sembravano una fila di giganteschi denti che spuntavano dal terreno. L'aereo atterrò fermandosi con qualche difficoltà sulla pista, poi fummo accompagnati al terminal a piedi.
"Wow!" esclamai appena scesa dall'aereo. Fui investita da un'aria talmente calda da accendere un fiammifero. Mi bruciava le narici quando respiravo e fui davvero felice di entrare nel terminal con l'aria condizionata.
L'aeroporto non era troppo più grande di quello di Broome, ma era pieno di turisti. Comprai una bottiglia d'acqua e presi qualche dépliant degli alberghi, poi mi sedetti su una sedia di plastica per consultarli e decidere dove alloggiare. Capii che erano tutti qui per andare a vedere l'Ayers Rock, o Uluru, come la chiamavano gli Aborigeni. Secondo un dépliant era uno dei loro siti più sacri e si trovava ad appena sei ore di macchina.
Poi lessi di Alice Springs, o “the Alice”, come la chiamavano affettuosamente gli australiani. A quanto pareva l'arte indigena era tenuta in gran considerazione: c'erano diverse gallerie in città – dal Many Hands Centre, gestito da artisti Aborigeni, fino all'Araluen Arts Centre, talmente moderno da sembrare una navicella spaziale precipitata nel deserto.
Fui scossa da un brivido di emozione, perché qualcosa mi diceva che in questo posto avrei trovato le risposte che cercavo.
"La mia “kantri”" mormorai, ricordandomi la parola che aveva detto la nonna di Chrissie. Aprii un opuscolo sulla missione di Hermannsburg, dove ora sorgeva un museo, a un paio d'ore di macchina dalla città. C'era scritto anche che Albert Namatjira era nato lì. Non avevo mai sentito parlare di lui, fino al giorno prima, ma dagli opuscoli era chiaro che fosse una leggenda, visto che avevano dato il suo nome a musei, strade ed edifici. Cercai di leggere ancora, ma erano quasi tutti nomi aborigeni e le parole iniziarono a ballare sulla pagina.
Poi mi ricordai di accendere il cellulare, che fu invaso all'istante da una scarica di messaggi, tutti di Chrissie:
CIAO! TI HO TROVATO UN ALBERGO, CHIEDI A KEITH DEL PUNTO INFORMAZIONI DELL'AEROPORTO, TI DARÀ I DETTAGLI! C.
PARLATO CON QUELLI DELLA QANTAS. MI FANNO VOLARE GRATIS COME PREMIO PER TUTTI I BIGLIETTI CHE HO FATTO COMPRARE AI TURISTI, CHE FORTUNA! ARRIVO DOMANI. CI VEDIAMOOOOO!!
Ero sbalordita. La conoscevo a malapena e lei si faceva centinaia di chilometri per stare con me. Anche se non avessi mai scoperto nulla sulla mia famiglia, potevo dire che era valsa la pena venire in Australia, perché avevo conosciuto lei.
Attraversai l'aeroporto fino al punto informazioni, dove un tizio alto e lentigginoso con i capelli biondi lunghi fino alle spalle stava seduto davanti a un computer.
"Ciao, sei Keith?" chiesi.
"Chi vuole saperlo?"
"La mia amica Chrissie, di Broome, dovrebbe aver parlato con te, poco fa. Ha detto che hai una prenotazione a mio nome."
"Ah, l'amica di Chrissie, CeCe! Ti ho riservato un'offerta speciale. Ecco qua." Mi porse la prenotazione. "Fatti portare in taxi a Leichhardt Terrace, vicino al fiume Todd."
"Grazie dell'aiuto."
"Le amiche di Chrissie sono mie amiche" disse con un sorriso. "Buon soggiorno!"
Sul taxi pensai con meraviglia alla facilità con cui Chrissie riusciva a farsi amare da tutti. Era a proprio agio con se stessa, con quello che era…
Per grazia di Dio, sono quello che sono…
Per la prima volta la citazione sulla sfera armillare di Pa' Salt iniziava ad assumere un senso.
Mezz'ora più tardi mi accompagnarono in una stanza “deluxe”, che proprio lussuosa non era ma dove almeno c'erano una doccia decente e un bollitore. Guardai fuori dalla finestra aspettandomi di vedere un fiume, come aveva detto Keith, ma vidi solo un rigagnolo sabbioso con qualche albero contorto che cresceva lungo le sponde. Fu in quel momento che mi ricordai di essere in pieno deserto.
Mi avventurai fuori solo al calar del sole e notai che l'aria aveva un profumo diverso. Era secca e fragrante, non c'era l'umidità appiccicosa di Broome. Attraversai un ponte sul Todd e mangiai una pizza da sola, in un ristorante pieno di famiglie che chiacchieravano e ridevano. Mi mancava la compagnia di Chrissie ed ero felice che l'indomani mi raggiungesse.
Tornai in albergo e vidi un giornale sul tavolino della reception. Era un Times inglese del giorno prima. Chissà se c'erano sviluppi sul caso di Ace. La storia era ridotta a un titoletto in prima pagina:
CHANGROK SI DICHIARA COLPEVOLE DI FRODE.
C'era una fotografia di Ace, o almeno della nuca e delle spalle, mentre entrava in tribunale circondato da una folla urlante. C'era scritto che il resto della storia era a pagina 7, perciò mi portai il giornale in camera e tentai di decifrare l'articolo.
Anand Changrok è comparso oggi nel tribunale di Woolwich Crown per rispondere dell'accusa di frode. Smagrito e trasandato, si è dichiarato colpevole. Il magistrato non ha concesso la libertà su cauzione e il signor Changrok resterà in prigione fino alla data del processo, che dovrebbe svolgersi a maggio. Davanti al tribunale è stato preso di mira da dozzine di uova lanciate dai clienti della banca Berners, che sventolavano cartelli in cui chiedevano un indennizzo per i risparmi perduti.
Il direttore esecutivo della Berners, il dottor David Rutter, è intervenuto per placare la folla: “Siamo consapevoli della difficile situazione in cui si trovano al momento i nostri correntisti. Continueremo a fare il possibile per indennizzare tutti”, ha dichiarato. Quando un collega gli ha chiesto come avesse fatto il signor Changrok a non farsi scoprire per tutto questo tempo, il dottor Rutter non ha rilasciato alcun commento.
Mi infilai nel letto e alla fine mi addormentai, con in testa l'immagine di Ace raggomitolato su un sottile materassino da carcerato.
Mi svegliai di soprassalto allo squillo del telefono.
"Pronto?"
"Cee!"
"Chrissie?"
"Sì, sono qui. Dài, dormigliona, sono già le tre del pomeriggio! Salgo tra un secondo."
Riagganciò e mi alzai dal letto per vestirmi. Feci giusto in tempo, perché sentii lo scatto della serratura e la porta si aprì.
"Ti va bene se dormiamo insieme, vero? Keith ha detto che non c'erano altre camere libere."
"Figurati. Per una vita ho dormito con mia sorella."
"Che fortuna. Io invece ho dormito sempre con i miei due fratelli." Chrissie rise e poi arricciò il naso. "C'era sempre “odore” di ragazzo, sai?"
"Ho cinque sorelle, ricordi? Le nostre stanze emanavano profumo."
"Quasi peggio" disse con un sorriso. "Tieni, ti ho portato uno spuntino."
Mi porse una scatola di plastica. Dentro c'erano delle fette di torta coperte di cioccolato e scaglie di cocco. Avevano un profumo paradisiaco.
"Sono Lamington, le ho fatte io. Mangia, poi usciamo a esplorare."
Con la bocca piena di quella torta deliziosa seguii Chrissie in strada, dove il sole del pomeriggio era inesorabile e mi mandava a fuoco la testa. Dalla mappa sembrava che Alice Springs fosse facile da girare: era minuscola. Percorremmo Todd Street, ai cui lati sorgevano gallerie d'arte, studi di estetisti e bar con le sedie disposte sotto le palme. Ci fermammo a mangiare qualcosa in un caffè e notai un enorme dipinto appeso nella vetrina della galleria di fronte.
"Ehi, Chrissie, guarda! Sono le Sette Sorelle!"
"Vanno alla grande, qui" disse con un ghigno. "Meglio non dire che ti chiami come una di loro, altrimenti gli abitanti cominceranno a venerarti come una dea."
Su consiglio di Chrissie provai il mio primo piatto a base di carne di canguro. Tiggy non mi avrebbe mai perdonato se l'avesse saputo; adorava il cangurino delle storie di Winnie the Pooh che Pa' Salt ci leggeva da piccole, ed era stato proprio in quel periodo che aveva deciso di diventare vegetariana.
"Che ne pensi?" mi chiese Chrissie.
"È buono, ricorda il cervo. È una specie in pericolo di estinzione?"
"Cielo, no, ce ne sono a migliaia in Australia."
"Io non ne ho mai visto uno."
"Perché non vivono qui. Se ne stanno nell'Outback. Hai scoperto altro su Albert Namatjira?" Chrissie mi guardava con trepidazione.
"No, sono arrivata soltanto ieri, e non so proprio da dove cominciare."
"Be', magari facendo un salto alla missione di Hermannsburg. È qualche miglio fuori città, perciò ci servirà l'auto."
"Io non guido" replicai.
"Io sì, basta che l'auto abbia il cambio automatico. Se hai i soldi per noleggiare una macchina, ti farò da autista. Ci stai?"
"Ci sto. Grazie, Chrissie" le risposi con gratitudine.
"Sai, se dovessi scoprire che sei veramente parente di Namatjira ti faranno davvero un altare, da queste parti, e io darei loro una mano! Non vedo l'ora di vedere le tue opere, Cee. Comprati tele e colori, già che sei qui, e dipingi un po' di paesaggi, come faceva Namatjira."
"Forse, ma sono mesi che dipingo solo cose brutte."
"Dacci un taglio, CeCe. Nessuno entra in uno dei migliori college di arte di Londra dipingendo cose brutte" ribatté Chrissie mangiando l'ultimo pezzo di carne.
"Be', i quadri che ho fatto al college erano veramente orribili. I professori mi hanno confusa, non so più che cosa dipingere" confessai.
"Ho capito." Chrissie mi prese la mano. "Forse devi scoprire chi sei, prima di scoprire cosa vuoi dipingere."
Dopo pranzo Chrissie mi agitò sotto il naso un opuscolo turistico.
"Che ne dici di andare ad Anzac Hill?" propose. "È vicino, e pare che sia il punto migliore da cui vedere il tramonto a Alice Springs."
La sua energia era contagiosa e non riuscii a dirle che in questo viaggio ne avevo già avuto abbastanza di tramonti. La seguii allegramente fino alla collina, che scalammo senza fatica.
Sulla vetta c'erano già diversi fotografi che montavano i loro cavalletti, pronti a “catturare” il tramonto. Trovammo un posticino tranquillo dove sederci. Guardai Chrissie mentre osservava il cielo con un'espressione felice sul viso, tinto da riflessi oro e viola. Sotto di noi Alice Springs si illuminò per la notte, e il sole tramontò proprio in quel momento, lasciando soltanto una striscia rossa nel cielo color indaco.
Dopo una sosta per una Coca-Cola, tornammo in albergo e Chrissie lasciò che facessi la doccia per prima. Mentre l'acqua fresca mi scorreva sulla pelle sudata, sollevai il viso verso il getto e sorrisi. Era bello avere Chrissie accanto, perché era entusiasta di ogni cosa. Mi avvolsi un asciugamano intorno al corpo e tornai in camera. Appena alzai lo sguardo, però, sussultai. Nei dieci minuti in cui ero stata sotto la doccia, la gamba destra di Chrissie era scomparsa per metà. Le sporgeva soltanto un pezzetto appena sotto il ginocchio. Il resto era a terra, staccato.
"Già, ho una gamba finta" disse con noncuranza accorgendosi del mio sguardo.
"Come? Quando?"
"Da quando ho quindici anni. Una notte avevo la febbre altissima, ma mia madre non si fidava del dottore bianco, perciò mi ha dato del paracetamolo per abbassarla. La mattina dopo mi ha trovata a letto priva di sensi. Non ricordo nulla, ma mi hanno portata in elicottero a Darwin, dove hanno diagnosticato la meningite. Troppo tardi per salvarmi la gamba, perché era già in setticemia, ma almeno sono viva. Uno scambio accettabile, no?"
"Io… sì, se la metti così…" dissi scioccata.
"Che senso ha metterla in altri modi? E ormai mi ci sono abituata, tu non l'avevi notato, vero?"
"No, solo mi chiedevo perché portassi sempre i jeans quando io sono in un bagno di sudore anche con gli shorts."
"L'unico vero peccato è che un tempo ero la nuotatrice migliore di tutta l'Australia occidentale. Ho vinto i campionati juniores un paio di volte e ho fatto i provini per la squadra olimpica nel 2000. Io e Cathy Freeman avremmo mostrato al mondo cosa sappiamo fare noi Aborigeni." Chrissie fece un sorriso tirato. "Comunque, ormai è andata." Si alzò senza vacillare minimamente, come se il peso del suo corpo fosse bilanciato su entrambi i piedi. "Tocca a me fare la doccia." Usò le braccia per aggrapparsi ai mobili e con un paio di rapidi balzi fu in bagno.
Mi sedetti sul letto con le gambe di gelatina. Cervello e cuore correvano a mille mentre ero preda di una serie di emozioni fortissime: senso di colpa per essermi compatita, io, che non solo ero straordinariamente privilegiata, ma ero anche sana; rabbia, che questa ragazza non avesse ricevuto subito le cure di cui aveva bisogno. E, soprattutto, rispetto per Chrissie, per come aveva accettato il suo destino, per il coraggio nel prendere la vita di petto quando avrebbe potuto trascorrere l'esistenza a commiserarsi. Come avevo fatto io ultimamente…
Dopo un po' si aprì la porta del bagno e Chrissie, avvolta in un asciugamano, si diresse senza sforzo verso il letto e frugò nella borsa alla ricerca di un paio di pantaloni e una maglietta per dormire.
"Che c'è?" Si voltò e vide che la guardavo. "Perché mi guardi in quel modo?"
"Volevo solo dirti che sei incredibile. Il modo in cui affronti… quello." Indicai il suo arto mancante.
"È che non voglio che mi si etichetti in nessun modo. Non voglio che ciò che mi manca definisca chi sono. E poi mi ha dato anche dei vantaggi" disse ridendo e infilandosi a letto.
"Del tipo?"
"Quando ho fatto domanda per l'università, mi sono arrivate tantissime offerte."
"Probabilmente te le meritavi."
"Sia come sia, ho potuto scegliere. Un'aborigena, e in più disabile? Pensa, ho potuto spuntare ben due caselle sui moduli governativi per le agevolazioni. Le università hanno fatto carte false per avermi."
"Come sei cinica" dissi raggiungendola nel letto.
"Forse sì, ma ho avuto la possibilità di ricevere un'educazione di prim'ordine e l'ho sfruttata al massimo. Perciò chi è che ha vinto, alla fine?" chiese spegnendo la luce.
"Tu" risposi.
Tu… con la tua positività e il tuo amore per la vita.
Rimasi sdraiata al buio, percependo a poca distanza da me un'energia estranea ma allo stesso tempo familiare.
"'Notte, Cee" disse Chrissie. "Sono felice di essere venuta."
"Anch'io."
20
"Vuoi svegliarti o no?"
Sentii il fiato di qualcuno sulla guancia mentre lottavo per aprire gli occhi.
"Dài, Cee, abbiamo già sprecato metà mattinata."
"Scusa." Aprii gli occhi e vidi Chrissie seduta sul letto accanto a me con un'espressione contrariata. "Dormo sempre fino a tardi."
"Be', in queste tre ore ho fatto colazione, un giro in città e noleggiato la macchina. Devi solo pagarla alla reception. Dobbiamo partire per Hermannsburg tipo… adesso!"
"Okay, scusa ancora." Mi tolsi di dosso le coperte e mi alzai barcollando. Mentre mi vestivo vidi Chrissie che mi guardava con aria interrogativa.
"Che c'è?"
"Hai spesso degli incubi?" chiese.
"Sì, ogni tanto. Me lo diceva anche mia sorella" confermai con noncuranza. "Scusa se ti ho dato fastidio."
"Non te li ricordi mai?"
"A volte. E ora" dissi infilandomi in tasca il portafogli "andiamo a Hermannsburg."
Ci ritrovammo a guidare lungo un'ampia strada tutta dritta, circondata da terra rossa a perdita d'occhio con il sole che martellava il tetto della nostra micro-macchina. Ero stupita che non fosse ancora esploso, con tutto quel caldo.
"La catena delle MacDonnell" mi indicò Chrissie mentre guidava. "Namatjira le ha dipinte molte volte."
"Sembrano viola."
"Infatti le dipingeva di quel colore."
"È vero." Mi chiesi se io sarei mai riuscita a eseguire una rappresentazione realistica di quello che vedevo. "Come fa la gente a sopravvivere in questo posto?" chiesi guardando il paesaggio circostante. "Non c'è niente per miglia e miglia."
"Si adattano, semplice. Hai mai letto Darwin?"
"“Letto”? Pensavo fosse una città."
"È anche una città, stupidina, ma c'era uno scienziato di nome Darwin che scriveva libri, il più famoso dei quali è L'origine delle specie. Dà una spiegazione di come le piante, i fiori, gli animali e l'uomo si sono adattati al loro ambiente nel corso dei millenni."
Mi girai a guardarla. "Sei una secchiona, vero?"
"Ma dài." Chrissie scosse la testa. "Mi interessa solo da cosa discendiamo, tutto qui. A te no?"
"Sì, è per questo che sono venuta in Australia."
"Non parlo delle nostre famiglie. Intendo da molto tempo prima. E perché."
"Sembri mia sorella Tiggy. Lei parla sempre di un'entità superiore."
"Mi piacerebbe conoscerla, sembra un bel tipo. Che cosa fa?"
"Lavora in Scozia in un'area protetta per i cervi."
"Be', una professione molto utile."
"Lo pensa anche lei."
"Fa bene all'anima essere responsabili di qualcuno o qualcosa. Quando i ragazzi aborigeni sono sottoposti al rito della iniziazione, vengono circoncisi e viene loro consegnata la tjurunga, una pietra su cui c'è un simbolo speciale che dice loro cosa devono cercare nel Bush, la prateria australiana. Potrebbe essere un pozzo o una caverna sacra, una pianta o un animale. Qualunque cosa sia, è loro dovere proteggerla e averne cura. Un tempo, in tutto l'Outback c'era una catena umana che aveva la responsabilità di provvedere alle necessità. Il sistema manteneva in vita le nostre tribù mentre attraversavano il deserto."
"Mi pare incredibile" mormorai. "Come le tradizioni abbiano davvero una loro ragion d'essere. Senti, ma solo i ragazzi ricevono quelle tju…"
"Tjurunga, sì. Solo gli uomini; le donne e i bambini non possono toccarle."
"Non è giusto."
"Sì," fece lei stringendosi nelle spalle "ma noi donne abbiamo le nostre tradizioni sacre, che agli uomini non è permesso seguire. Mia nonna mi ha portato nel Bush quando avevo tredici anni, e non sto scherzando, me la facevo sotto dalla paura, ma è stato fortissimo. Ho imparato tante cose utili, tipo come usare la bacchetta per trovare l'acqua o gli insetti, quali piante sono commestibili e come usarle. E poi, quando sono tornata, riuscivo a sentire uno starnuto da molto lontano, e sapevo dirti con precisione chi era stato. Nell'Outback teniamo le orecchie tese, fiutiamo un pericolo che si avvicina, captiamo il rumore dell'acqua o le voci in lontananza che ci riportano dalla nostra famiglia."
"Ma è bellissimo. Mi sono sempre piaciute queste cose."
"Guarda!" esclamò Chrissie all'improvviso. "Un branco di canguri!"
Accostò sul ciglio polveroso della strada e frenò di colpo, facendoci sobbalzare.
"Scusa, non volevo perdermeli. Hai la macchina fotografica?"
"Sì."
I canguri erano molto più grandi di quanto mi aspettassi e Chrissie mi convinse a posare davanti a loro come una scema. Tornammo alla nostra auto scacciando le innumerevoli mosche, e non potei fare a meno di ricordare cos'era successo l'ultima volta che avevo usato la macchina fotografica. Ora, però, nel bel mezzo del nulla, con Chrissie e un branco di canguri, la Thailandia sembrava lontana anni luce.
"Quanto manca ancora?" chiesi quando ripartimmo.
"Una quarantina di minuti."
In effetti, dopo oltre mezz'ora svoltammo in una stradina sterrata, in fondo alla quale sorgeva un gruppo di edifici bianchi. C'era un cartello di legno dipinto a mano che annunciava la nostra meta, la missione di Hermannsburg.
Scendemmo dall'auto notando che noi, insieme agli occupanti di un pick-up parcheggiato vicino all'entrata, eravamo gli unici esseri umani arrivati in automobile. Non ne fui sorpresa, quelle casette erano circondate da miglia e miglia di niente; sembrava di essere su Marte. Era tutto immerso nel silenzio, si avvertiva soltanto il ronzio di un insetto di tanto in tanto. Perfino io, che adoravo la pace e gli spazi aperti, mi sentivo isolata.
Ci avvicinammo all'ingresso ed entrammo nell'edificio dal tetto di lamiera. Impiegammo un po' ad abituarci alla penombra dopo ore di sole accecante.
"Buongiorno" disse Chrissie a un uomo dietro il bancone.
"Buongiorno. Siete in due?"
"Sì."
"Sono nove dollari a testa."
"È tranquillo, oggi" commentò Chrissie mentre pagavo.
"In questo periodo dell'anno non vengono molti turisti."
"Lo credo. Lei è la mia amica Celaeno. Ha una foto che vorrebbe mostrarle." Chrissie mi diede una gomitata e io porsi all'uomo la busta. Lui guardò la foto, poi posò gli occhi su di me.
"Namatjira. Come ha avuto questa foto?"
"Me l'hanno mandata."
"Chi?"
"Un avvocato di Adelaide. Il suo ufficio sta tentando di rintracciare il mittente originario. Vede, sto cercando di trovare la mia famiglia d'origine."
"Capisco. Che cosa vuole sapere?"
"Non sono sicura…" dissi. Mi sentivo un'imbrogliona. Forse questo tizio si trovava davanti ogni giorno possibili “parenti” di Namatjira.
"È stata adottata da piccolissima" disse Chrissie.
"Mmm."
"Mio padre è morto qualche mese fa e mi ha lasciato scritto che avrei ricevuto dei soldi" spiegai. "Il suo avvocato, in Svizzera, mi ha consegnato una busta con dentro la fotografia. Ho deciso di venire in Australia per scoprire chi me l'ha mandata. Ho parlato con l'avvocato di Adelaide, ma non sapevo chi fosse Namatjira, non ne avevo mai sentito parlare e…" stavo sproloquiando, e fu Chrissie a proseguire per me.
"CeCe è qui perché ho riconosciuto Namatjira in quella foto, e crede che sia un indizio che potrebbe metterla sulle tracce dei suoi veri genitori."
L'uomo guardò di nuovo la fotografia.
"È sicuramente Namatjira, e direi che la foto è stata scattata a Heavitree Gap, verso la metà degli anni Quaranta, quando Albert comprò questo pick-up. Il ragazzo che è con lui, invece, non so chi sia."
"Be', io e CeCe diamo un'occhiata in giro" propose Chrissie. "Magari lei può pensarci un po'. Avete degli archivi, qui?"
"Nei libri mastri abbiamo il nome di ogni bambino nato qui o portato da fuori. E una montagna di fotografie in bianco e nero come quella" disse l'uomo indicando la mia. "Mi ci vorrebbero giorni per guardarle tutte."
"Stia tranquillo. Diamo solo un'occhiata in giro." Chrissie mi guidò oltre un espositore di cartoline e un frigo pieno di bibite fino all'ingresso del museo. Percorremmo un altro corridoio polveroso e ci ritrovammo in un ampio cortile, circondato da capanne bianche.
"Dài, iniziamo dalla cappella" fece Chrissie indicando l'edificio.
Ci incamminammo sulla terra rossa ed entrammo nella cappella, piccola e con grezze panche di legno che fungevano da inginocchiatoi. C'era una grande immagine di Cristo in croce appesa sul pulpito.
"Allora, la missione fu fondata da un certo Carl Strehlow per cercare di convertire gli Aborigeni al Cristianesimo" spiegò Chrissie leggendo uno dei cartelli esplicativi. "Arrivò con la famiglia dalla Germania nel 1894. All'inizio era una normale missione cristiana, ma in seguito lui e il pastore che gli succedette rimasero affascinati dalla cultura e dalle tradizioni degli Arrernte" proseguì Chrissie, mentre io fissavo i volti scuri delle foto, tutte persone vestite di bianco.
"Chi sono gli Arrernte?"
"La tribù aborigena locale."
"Vivono ancora qui?" chiesi.
"Sì. Infatti qui dice che nel 1982 è stata loro ufficialmente restituita la terra, perciò ora Hermannsburg appartiene ai proprietari originari."
"È una cosa buona, no?"
"Sì, fantastica. Forza, vediamo cos'altro c'è."
Un lungo edificio con il tetto di lamiera si rivelò essere una scuola; sulla lavagna c'erano ancora delle parole e dei disegni fatti col gesso. "C'è scritto anche che il Protettorato non ha mai portato qui con la forza Aborigeni mezzosangue. Sono venuti tutti di loro spontanea volontà."
"Ma sono diventati davvero cristiani?"
"Non lo dice, pare che dovessero andare alle funzioni religiose e leggere la Bibbia, ma a quanto pare i pastori chiudevano un occhio se gli Aborigeni volevano celebrare i loro riti."
"Quindi credevano, o fingevano di credere, in due religioni?"
"Già. Un po' come me" disse Chrissie con un sorriso. "E tutti noi. Forza, andiamo a ficcare il naso nella casa di Namatjira."
Era composta da poche stanze. Riconobbi il viso dell'artista in una fotografia appoggiata sulla mensola del caminetto. Era un omone con tratti forti e decisi; nella foto sorrideva sotto il sole accanto a una donna dall'aria mite che portava un fazzoletto in testa.
"Albert e Rosie" lessi. "Chi era Rosie?"
"Sua moglie. In realtà si chiamava Rubina. Ebbero nove figli, ma quattro morirono prima di Albert."
"Assurdo che avessero bisogno di accendere il fuoco, con questo caldo" considerai indicando il caminetto.
"Fidati, nel Mai Mai di notte fa molto freddo."
Adocchiai un dipinto appeso al muro e andai a studiarlo.
"L'ha dipinto Namatjira?" chiesi a Chrissie.
"A quanto pare…"
Lo guardai affascinata. Non sembrava un tipico dipinto degli Aborigeni; in realtà era un bellissimo acquerello con un albero della gomma bianco da un lato. Colori straordinariamente morbidi raffiguravano un paesaggio incoronato dalle montagne MacDonnell. Mi ricordava un quadro impressionista e mi chiesi come avesse fatto quell'uomo, aborigeno e cresciuto in mezzo al nulla, a dipingere in quello stile particolare.
"Non te l'aspettavi?" mi chiese Chrissie.
"No, perché l'arte aborigena che abbiamo visto in città era diversa: tutti dipinti tradizionali, realizzati con la tecnica puntinata."
"Namatjira fu allievo di un pittore bianco, di nome Rex Battarbee, influenzato dagli impressionisti e venuto sin qui per dipingere paesaggi. Albert ha imparato da lui a usare gli acquerelli."
"Wow, quante cose sai. Hai studiato, eh?"
"Solo perché mi interessa. Te l'ho detto, l'arte e Namatjira sono la mia passione."
La seguii fuori dalla capanna pensando che l'arte era anche la mia, di passione, ma che di recente era andata un po' smarrita. La rivolevo, di questo ne ero certa.
"Devo andare in bagno" dissi.
"È laggiù" mi indicò Chrissie. Attraversai il cortile e mi trovai davanti un cartello illustrato appeso alla porta:
ATTENZIONE! AI SERPENTI PIACE L'ACQUA! TENERE IL COPERCHIO CHIUSO!
Feci la pipì più veloce della mia vita e sfrecciai fuori dal bagno più sudata di quando ero entrata.
"Dovremmo muoverci" disse Chrissie. "Andiamo a prendere un po' d'acqua per il viaggio di ritorno."
Nell'edificio della biglietteria, che comprendeva anche il negozio dei souvenir, Chrissie e io andammo a pagare.
"A proposito di quella foto, signorina" disse l'uomo che ci aveva accolte, "potrei mostrarla a uno degli anziani. Domani sera saranno tutti qui per il nostro incontro mensile e potrebbero riconoscere il ragazzo accanto a Namatjira. Il più vecchio ha novantasei anni ed è vispo come un dingo. Nato e cresciuto qui."
"Ehm…" Guardai Chrissie con aria confusa. "Dobbiamo tornare domani sera, quindi?"
"Sabato verrò a Alice, perciò posso riportarvi io la foto se mi date il vostro numero di telefono e indirizzo."
"Okay" risposi, vedendo che Chrissie annuiva in segno di incoraggiamento. Gli porsi la fotografia e scrissi su un foglio quello che mi aveva chiesto.
"Tranquilla, piccola, con me è al sicuro" mi disse l'uomo con un sorriso.
"Grazie."
"Fate buon viaggio."
"Allora, hai sentito qualcosa?" chiese Chrissie mentre ripercorrevamo la strada deserta in direzione della civiltà.
"Che vuoi dire?"
"L'istinto ti ha detto che potresti venire da lì, da Hermannsburg?"
"Non sono sicura di avercelo l'istinto, Chrissie."
"Certo che ce l'hai, Cee. Ce l'abbiamo tutti. Solo, devi fidarti un po' di più."
Avvistammo Alice Springs all'orizzonte mentre il sole si inchinava con una perfetta riverenza dietro la catena delle MacDonnell, proiettando lame di luce sul deserto rosso sottostante.
"Ferma qui!" ordinai all'improvviso.
Chrissie inchiodò e accostò.
"Scusa, ma dovevo fare assolutamente una foto."
"Tranquilla."
Presi la macchina fotografica, aprii la portiera e attraversai la strada.
"Oh mio Dio, è bellissimo" dissi scattando una fotografia dietro l'altra. Improvvisamente cominciarono a prudermi le dita: era il segnale che mi dava sempre il corpo quando dovevo assolutamente dipingere. Qualcosa che non provavo da tanto tempo.
"Sembri felice" commentò Chrissie quando risalii in macchina.
"Già" dissi. "Lo sono."
Ed era vero.
L'indomani mi svegliai al rumore dei passi di Chrissie per la stanza. Normalmente mi sarei rimessa a dormire, ma quel giorno provavo una strana trepidazione che mi spinse ad alzarmi.
"Scusa se ti ho svegliata, stavo andando a fare colazione."
"Nessun problema, anzi, vengo con te."
Davanti a una tazza di caffè forte, uova con pancetta e con un po' di frutta a parte per non sentirmi troppo in colpa, parlammo di cosa fare quel giorno. Chrissie voleva andare a vedere la mostra permanente delle opere di Namatjira all'Araluen Arts Centre, ma io avevo altro in mente: avevo capito perché mi ero svegliata così presto.
"Il fatto è che… Be', ieri ho avuto un'ispirazione. Mi chiedevo se volessi riportarmi dove ho scattato la foto del tramonto. Mi piacerebbe provare a dipingere."
Chrissie si illuminò tutta. "Ma è fantastico. Certo che ti ci accompagno."
"Grazie, anche se prima devo trovare carta e colori."
"Sei fortunata" disse Chrissie indicando fuori dalla finestra verso le numerose gallerie d'arte. "Basta entrare in una qualsiasi e chiedere dove si procurano il materiale."
Dopo colazione uscimmo in strada ed entrammo in una galleria lì vicino. Chrissie chiese alla donna al bancone dove potevamo trovare colori e carta, spiegandole che ero una studentessa del Royal College of Art di Londra.
"Vuoi restare qui a dipingere?" La donna indicò un ampio salone su un lato della galleria, dove sui tavoli o sul pavimento erano già al lavoro diversi artisti aborigeni. Dalle grandi finestre entrava molta luce e c'era una piccola cucina dove qualcuno stava preparando il caffè. Era molto più accogliente dei laboratori dell'università.
"No, vuole andare nel Bush, vero, Cee?" disse Chrissie facendomi l'occhiolino. "Si chiama Celaeno" aggiunse poi.
"Bel nome" commentò la donna con un sorriso. "Ho dei colori e qualche tela, o forse dipinge con gli acquerelli?" chiese a Chrissie come se fossi una bambina di quattro anni.
"Entrambi" intervenni. "Ma oggi vorrei provare con gli acquerelli."
"Okay, vediamo cosa riesco a trovare."
La donna uscì da dietro il bancone e vidi un bel pancione sotto il caftano giallo. Mentre non c'era mi guardai intorno, osservando le opere tradizionali aborigene.
Alle pareti c'erano svariate rappresentazioni delle Sette Sorelle. Punti, striature, forme bizzarre che gli artisti avevano utilizzato per raffigurare le ragazze e il “vecchio”, Orione, che le inseguiva nel cielo. Mi aveva sempre imbarazzata portare un nome legato a uno strano mito greco, e a un gruppo di stelle distanti milioni di anni luce, ma quel giorno mi sentivo speciale e orgogliosa del mio nome. Era come se fossi parte della leggenda, e lì a Alice avevo la sensazione di essere in un tempio dedicato alle Sette Sorelle.
Mi piaceva anche trovarmi in mezzo agli artisti, che secondo me non avevano mai frequentato una scuola d'arte. Eppure eccoli lì, intenti a dipingere quello che sentivano dentro. E non se la cavavano neppure male, a giudicare dal numero di turisti che osservava il loro lavoro.
"Ecco a te, Celaeno." La donna mi porse delle tempere, del nastro adesivo, una pila di fogli e tele con il retro di legno. "Sei brava?" mi chiese mentre tiravo fuori il portafogli.
"È bravissima" cinguettò Chrissie prima che potessi parlare, come se fosse la mia agente. "Dovresti vedere i suoi quadri."
Arrossii fino alla punta dei capelli. "Quanto le devo?" chiesi.
"Che ne dici di uno scambio? Portami un dipinto e, se è bello, lo appenderò in galleria, poi ci dividiamo i profitti. Mi chiamo Mirrin, e gestisco questo posto per il mio capo."
"Davvero? È molto gentile da parte sua ma…"
"Accettiamo, Mirrin" mi interruppe Chrissie. "Ce la farai, vero, Cee?"
"Ehm, sì. Grazie."
Sotto il sole accecante, appena uscimmo, la aggredii: "Santo cielo, Chrissie, non hai mai visto nulla di quello che faccio! Ho sempre fatto schifo con gli acquerelli, volevo fare solo un esperimento, per divertirmi, e…"
"Per favore, Cee. Io so che sei brava." Si diede dei colpetti sul cuore col dito. "Devi solo recuperare la tua sicurezza."
"Ma quella donna" dissi ansimando per l'agitazione "si aspetta che le porti qualcosa e…"
"Ascolta, se caso mai dovesse fare schifo, le restituiremo i colori e pagheremo la carta, d'accordo? Ma non sarà così, lo so già."
Appena lasciata la città, Chrissie decise di spiegarmi come Namatjira si fosse avvicinato alla pittura.
"Ieri ti sei sorpresa del fatto che lui dipingesse paesaggi, perché quasi tutti gli artisti aborigeni utilizzano i simboli per rappresentare le storie del Tempo del Sogno."
"Sì, è vero."
"Be', guarda meglio, perché lo fa anche Namatjira, solo in modo diverso. Devo mostrartelo per fartelo capire bene: se guardi i suoi alberi della gomma, ti accorgi che non sono mai semplici alberi. Racchiudono ogni sorta di simbologia. Lui racconta le storie del Tempo del Sogno nei suoi quadri. Capito?"
"Credo di sì."
"Fonde le forme umane con quelle naturali, perciò, se guardi attentamente, nei nodi di un tronco d'albero ci sono degli occhi, e in uno dei suoi quadri addirittura la composizione del paesaggio sembra cambiare e modificarsi, e all'improvviso ti ritrovi a guardare una figura di donna sdraiata a terra."
"Wow!" Cercai di immaginarmelo. "Mai pensato di farci qualcosa, con queste tue conoscenze artistiche?"
"Tipo partecipare a un telequiz sugli artisti australiani del ventesimo secolo?" disse ridacchiando.
"No, intendevo a livello professionale."
"Scherzi? Chi lavora nel mondo dell'arte ha studiato anni prima di diventare agente o curatore di museo. Chi mi prenderebbe mai?"
"Io" dissi. "Oggi hai fatto un ottimo lavoro; avrei comprato tutti i quadri che hai descritto. E poi quella donna alla galleria non dava l'idea di essere una con tante lauree. Eppure gestisce quel posto."
"È vero. Ecco, ci siamo. Dove vuoi metterti?"
Chrissie mi aiutò a stendere la coperta e i cuscini che avevamo “preso” in albergo. Ci sedemmo all'ombra di un albero bianco della gomma e bevemmo un po' d'acqua.
"Io faccio un giro, okay? Ti lascio sola."
"Sì, grazie." A differenza degli artisti della galleria non ero assolutamente in grado di dipingere sotto gli sguardi altrui. Mi sedetti a gambe incrociate con un foglio assicurato alla tela dal fondo di legno. Fui presa subito dal panico, come mi succedeva da mesi ogni volta che provavo a prendere in mano un pennello.
Chiusi gli occhi e respirai forte quell'aria torrida, in cui si percepiva un vago sentore di menta proveniente dall'albero della gomma alle mie spalle. Pensai a chi ero. La figlia di Pa' Salt, una delle Sette Sorelle, volata sulla terra dal cielo e uscita dalla caverna in questo magnifico paesaggio assolato…
Aprii gli occhi, intinsi il pennello nell'acqua, poi nel colore e iniziai a dipingere.
"Come procede?"
Sobbalzai, rischiando di rovesciare sul foglio la bottiglia d'acqua sporca di colore.
"Scusa, Cee. Eri persa nel tuo mondo, vero?" Chrissie si chinò a raccogliere la bottiglia. "Hai fame? Dipingi da almeno due ore."
"Ah sì?" Mi sentivo intorpidita, come se mi fossi svegliata da poco.
"Sì. Sono andata a sedermi in macchina con l'aria condizionata al massimo e ci sono rimasta quaranta minuti. Fa davvero caldo qui fuori. Ti ho portato una bottiglia d'acqua fresca." Chrissie me la porse e bevvi avidamente, disorientata. "Allora?" chiese guardandomi con aria interrogativa.
"Allora cosa?"
"Come procede."
"Ehm…"
Non risposi perché non sapevo cosa dire. Guardai il foglio che avevo appoggiato sulle ginocchia e constatai, non senza un certo stupore, che qualcosa avevo fatto.
"Cee…" Chrissie sbirciò da dietro la mia spalla prima che potessi fermarla. "Wow! Oddio!" Giunse le mani, incantata. "Lo sapevo! È bellissimo, cavolo! Considerato anche che hai lavorato con quei colori di pessima qualità."
"Non esagerare" dissi studiando il foglio. "Ho sbagliato la prospettiva delle montagne, e il cielo è blu sporco; mi sa che a un certo punto anche l'acqua era troppo sporca."
Ma guardandolo mi resi conto che era di gran lunga il miglior acquerello che avessi mai dipinto.
"È una caverna, quella?" Chrissie mi si era accucciata accanto. "All'entrata c'è una specie di figura…"
Guardai meglio e vidi che aveva ragione. C'era una macchia bianca sfocata, come uno sbuffo di fumo. "Sì" dissi, anche se non ricordavo proprio di avercela messa.
"E quei segni di morsi sulla corteccia dell'albero della gomma… sembrano occhi che spiano qualcuno. Cee! Sei stata bravissima!" Chrissie mi buttò le braccia al collo e mi strinse forte.
"Davvero? Non so proprio come ho fatto."
"Non ha importanza. Quello che conta è che ci sei riuscita."
"Be', ha importanza eccome, se voglio sperare di rifarlo. E poi, non è perfetto." Come sempre, quando qualcuno mi faceva dei complimenti, il mio occhio critico si concentrava per trovare una marea di difetti. "Guarda, i rami mancano di equilibrio, e le foglie sono imprecise e del verde sbagliato. E poi…"
"Zitta!" mi ordinò Chrissie strappandomi di mano il foglio e tenendomelo lontano, come se pensasse che volessi farlo a pezzettini. "So che un artista è sempre il peggior critico di se stesso, ma sta al pubblico stabilire se l'opera è valida o meno. E dato che il pubblico sono io, oltre a essere una che si intende di arte e di acquerelli, ti dico che hai appena fatto un bel dipinto. Voglio fotografarlo, hai la macchina?"
"Sì, in auto."
Scattammo qualche fotografia, mettemmo via tutto e tornammo in città. Per tutto il tragitto Chrissie parlò dell'acquerello. Non si limitò a descriverlo, ma lo analizzò nei minimi particolari.
"La cosa più entusiasmante è che hai osservato lo stile di Namatjira e l'hai fatto tuo. Quello sbuffo bianco che esce dalla caverna, gli occhi nascosti nell'albero che lo guardano, le sei nuvole che si allontanano nel cielo…"
"Prima di iniziare a dipingere ho pensato a tua nonna, alla storia che mi ha raccontato sulle Sette Sorelle" ammisi.
"Lo sapevo! Ma non volevo dirlo prima che lo dicessi tu. In qualche modo, come faceva Namatjira, sei riuscita ad aggiungere un altro livello al paesaggio. Ma l'hai fatto a modo tuo. Lui usava i simboli, tu invece la storia. È fantastico, sono sbalordita!"
Io me ne stavo seduta lì, da un lato godendomi quegli elogi, e dall'altro ansiosa che la smettesse. Capivo che tentava di sostenermi, ma il mio lato cinico mi suggeriva che, per quanto Chrissie fosse esperta di Namatjira, be', non era certo una critica d'arte. E in ogni caso, anche se il mio dipinto fosse piaciuto, sarei mai riuscita a farne un altro?
Parcheggiò sulla strada principale e tornammo nel locale dove avevamo mangiato la carne di canguro. Ordinai due hamburger mentre Chrissie blaterava senza sosta.
"Dovrai imparare a guidare, perché avrai bisogno dell'automobile. E io domattina devo tornare a Broome." Il suo sguardo si intristì. "Però non vorrei andarmene, adoro Alice. Me ne avevano parlato male, dicevano che c'erano problemi tra gli Aborigeni e i bianchi, e di sicuro ce ne sono, ma qui l'arte è favolosa, e non abbiamo neanche iniziato a parlare della Papunya."
"Sarebbe?"
"Un'altra “scuola” nata dopo Namatjira. Ha ispirato quasi tutte le pitture puntinate che hai visto nella galleria stamani."
Tentai di soffocare un poderoso sbadiglio, ma non ci riuscii. Chissà perché mi sentivo così stanca.
"Perché non vai a farti un sonnellino?" propose Chrissie.
"Sì, penso proprio di sì" dissi. "Vieni con me?"
"No, io faccio un giro, vado a vedere i quadri di Namatjira all'Araluen Arts Centre."
"Okay." Le lasciai i soldi per pagare il pranzo e mi alzai. "Ci vediamo più tardi."
Mi risvegliai di soprassalto un paio d'ore dopo.
Dov'è il quadro? pensai subito, ancora insonnolita. Cercai di ripercorrere gli eventi di quella giornata, e mi ricordai che l'avevamo lasciato nel bagagliaio della macchina.
E dovevamo restituirla alle sei di quella sera.
"Cavolo!" Guardai l'orologio e mi accorsi che erano quasi le sette e mezza. E se Chrissie se ne fosse dimenticata? Mi misi gli stivali e corsi di sotto. Vidi Chrissie seduta su un divano nella hall che leggeva un libro su Namatjira. Le andai incontro in preda al panico. Non c'era traccia del mio dipinto.
"Buongiorno, bella addormentata." Mi sorrise, ma tornò subito seria quando vide la mia faccia. "Che c'è?"
"Il dipinto" ansimai. "Dov'è? Era nel bagagliaio, ti ricordi? Dovevamo restituire la macchina alle sei e sono le sette e mezza e…"
"Calmati, Cee! Credi che avrei potuto dimenticarmene?"
"No, ma dov'è?" Mi resi conto solo in quel momento quanto contasse per me quel quadro. Che fosse bellissimo o spazzatura non aveva importanza. Era un inizio, solo quello contava.
"Non preoccuparti, è al sicuro."
"Dove?"
"Ho detto “al sicuro”." Si alzò lanciandomi un'occhiataccia. "Hai qualche problema con la fiducia, vero? Vado a fare un giro."
"Okay, scusa, ma dimmi solo dov'è."
Lei fece spallucce e uscì dalla hall. Decisi di andarle dietro e uscii in strada; ma quando mi guardai intorno era sparita.
Tornai di sopra e mi sdraiai sul letto, con il cuore che batteva forte. Alla fine mi calmai e mi dissi che avevo esagerato, ma che era sacrosanto aspettarmi che mi rispondesse chiaramente. Dopotutto il dipinto era mio, ed era la prova che qualcosa che credevo perso per sempre era tornato. Un qualcosa che mi apparteneva, e che nessuno aveva il diritto di portarmi via.
Ora però dovevo riaverlo. Non poteva essere “al sicuro” se non nelle mie mani. Come faceva a non capirlo? Feci una lunga doccia per affogare tutti i brutti pensieri, poi tornai a letto ad aspettare il ritorno di Chrissie.
"Ciao" disse quando rientrò, due ore dopo.
"Ciao."
Si sedette e si tolse gli stivali, poi si sfilò i pantaloni e iniziò a togliersi la protesi. Non mi parlava, mi infliggeva la punizione del silenzio cui era solita ricorrere Star quando avevo fatto qualcosa di sbagliato. Chiusi gli occhi.
"Hai sentito cosa ho detto quando me ne sono andata, prima?" mi chiese dopo un po'.
"Sì. Sarò anche stupida e dislessica, ma non sono sorda" risposi senza aprire gli occhi.
"Cristo!" Chrissie sospirò frustrata. La sentii andare in bagno e sbattere la porta alle spalle. Poi udii lo scroscio dell'acqua nella doccia.
Odiavo momenti come quello, in cui tutti tranne me sembravano sapere cos'avevo fatto di male. Come se fossi una specie di alieno caduto sulla Terra e non capissi come si stava al mondo. Era davvero insopportabile, e dopo l'euforia che avevo provato oggi mi aveva rovinato la giornata.
Alla fine Chrissie uscì dal bagno e venne a sedersi sul letto.
"Spengo la luce o ti serve per toglierti i vestiti?" mi chiese con freddezza.
"Fa' come ti pare, io sono a posto."
"Okay, buonanotte." E spense la luce.
Riuscii a resistere all'incirca cinque minuti, forse meno, prima di parlare.
"Che problema hai? Ti ho solo chiesto dove fosse il mio dipinto."
Silenzio. Resistetti il più possibile, poi aggiunsi: "Perché ti interessa tanto?".
Si accese la luce e vidi Chrissie che mi guardava, seduta sul letto.
"D'accordo, allora, te lo dico dove cavolo è quel maledetto dipinto! In questo momento, probabilmente si trova nel magazzino della galleria dove verrà incorniciato. Mirrin ha promesso che domani o dopodomani lo appenderà, e lo metterà in vendita per seicento dollari. Un prezzo che ho negoziato io. Contenta?"
Spense di nuovo la luce, e io, insieme alla mia agitazione, e in più anche un pizzico di stupore, ripiombai nell'oscurità.
"L'hai portato alla galleria?" chiesi piano.
"Già. Era questo il patto, no? Sapevo che non avresti mai dato peso alla mia umile opinione sul tuo lavoro, perciò ho chiesto quella di una professionista. E giusto perché tu lo sappia" disse tra i denti "Mirrin se n'è innamorata e me l'ha quasi strappato di mano. Vuole sapere quando ne farai altri."
In quelle parole c'erano troppi significati nascosti che il mio cervello non riusciva ad afferrare, perciò non dissi nulla. Mi limitai a respirare.
"Ha comprato l'acquerello?" chiesi alla fine.
"Non direi. Non ci ha dato i soldi, ma se qualcuno lo compra, avrai trecentocinquanta dollari, e la galleria duecentocinquanta. Voleva fare a metà, ma ho spuntato quella cifra promettendole di portarle altre opere di Celaeno D'Aplièse."
Celaeno D'Aplièse… quante volte avevo sognato che il mio nome diventasse famoso nel mondo dell'arte?
"Ah. Grazie."
"Di nulla."
"Cioè" aggiunsi, ora che cominciavo a capire. "Davvero, grazie."
"Ho detto “di nulla”" fu la risposta che arrivò dal buio.
Chiusi gli occhi e provai a dormire, ma non ci riuscivo. Mi misi a sedere. Stavolta toccava a me allontanarmi un po'. Cercai a tastoni i pantaloncini ma, goffa com'ero, inciampai sulla protesi di Chrissie, posata come una trappola tra i due letti.
"Scusa" dissi mentre cercavo di rimettermi in piedi.
Si riaccese la luce.
"Grazie" ripetei cercando le scarpe.
"Stai scappando?" chiese.
"No, è che non ho sonno. Ho dormito troppo oggi pomeriggio."
"Sì, mentre io ero a concludere accordi per te." Chrissie mi guardò reggendosi su un gomito. "Senti, Cee, è la mia ultima notte e non voglio litigare. Solo che mi ha veramente disturbato che non ti sia fidata di me dopo tutto quello che ho detto e fatto. E poi oggi ho visto che incredibile artista potresti diventare, ed ero veramente entusiasta. Ma non te ne sei neanche accorta, ti sei presentata nella hall chiedendomi dove fosse il dipinto. Mi ha… scossa. Pensavo che iniziassi a fidarti di me. Quando a Mirrin è piaciuto non vedevo l'ora di dirtelo, di uscire a festeggiare. Ma ti sei arrabbiata a tal punto che non ne ho avuto più voglia."
"Mi dispiace davvero, Chrissie, non volevo farti arrabbiare."
"Ma non capisci? Sono venuta fin qui perché volevo stare insieme a te, mi sei mancata quando te ne sei andata da Broome."
"Davvero?"
"Sì, parecchio" aggiunse timidamente.
"E io sono felice che tu sia venuta" dissi. Mi chiesi se la mia mente stesse processando correttamente ciò che stavo udendo. E, soprattutto, le implicazioni di quelle parole. "Mi dispiace davvero, te lo ripeto. A volte mi comporto da idiota."
"Mi hai raccontato del rapporto che avevi con Star, che poi ti ha delusa."
"Non è del tutto vero, aveva solo bisogno di voltare pagina" dissi.
"Comunque, so che per te è difficile fidarti di qualcuno, specialmente in amore…" La sentii sospirare forte. "Devo dirtelo, prima di andarmene. Be', il fatto è che credo di amarti, Cee. Non chiedermi come o perché, è così e basta. So che in Thailandia avevi un ragazzo e…" Le vennero le lacrime agli occhi. "Ma devo essere onesta, d'accordo?"
"Okay, Chrissie, lo capisco. Sei stata fantastica, e…"
"Non serve dire altro, capisco anch'io. Almeno, però, torniamo a essere amiche prima di dormire."
"Sì."
"'Notte, allora." Fece per spegnere la luce.
Mi rimisi a letto. Non volevo più uscire, il mio cervello cominciava a comprendere le implicazioni di quella situazione.
Chrissie mi amava. E neppure io ero tanto ingenua da credere che intendesse “come amica”.
La domanda era: “Io la amavo?”. Ero stata con Ace solo poche settimane prima. Ma mi colpiva il fatto che, ora che Star non c'era più, ero in grado di avere legami profondi con ogni genere di persona, maschi o femmine che fossero…
21
Mi sentii toccare piano sulla spalla. "Svegliati, Cee. Devo andare all'aeroporto. Ho dormito troppo."
Mi misi subito a sedere.
"Parti? Adesso?"
"Sì, te l'ho appena detto."
"Ma…" Mi alzai e cercai i pantaloncini. "Vengo con te."
"No, non sono brava con gli addii." Poi mi abbracciò stretta. "Buona fortuna, spero che tu scopra veramente chi sei" disse, poi mi lasciò e andò verso la porta. Non mi sfuggì il significato nascosto in quell'augurio.
"Mi farò viva, lo prometto" dissi.
"Mi piacerebbe. Qualunque cosa succeda." Poi aprì la porta.
Stava per andarsene, perciò decisi di fare qualcosa. "Senti, Chrissie, sono stata davvero bene con te. Questi ultimi giorni sono stati i più belli della mia vita."
"Grazie. Scusa per ieri notte e per tutto il resto. Non avrei dovuto… be'." Sorrise tristemente. "Devo andare."
Poi si sporse verso di me e mi sfiorò le labbra con un bacio. Restammo così per qualche secondo, poi lei si staccò. "Ciao, Cee."
Si chiuse la porta alle spalle e mi ritrovai da sola in una stanza che, all'improvviso, mi pareva più triste, come se Chrissie si fosse portata via tutto il calore, l'amore e la felicità. Mi lasciai andare sul letto. Ero impreparata a quel genere di situazione. Cercai di dormire, ma il silenzio mi rimbombava nelle orecchie. Mi sentivo come quando Star se n'era andata nel Kent dalla sua nuova famiglia: abbandonata.
In realtà non era così, ma quello che era appena successo mi aveva scioccata: Chrissie aveva detto di amarmi.
Quella sì che era una rivelazione. Me l'avevano detto così poche persone… Ecco spiegato il motivo per cui quella ragazza mi piaceva così tanto. Oppure era… ero…?
Dannazione! Scossi la testa, confusa. Non ero mai stata brava a comprendere le emozioni; mi sarebbero serviti uno Sherpa e una torcia per orientarmi nel labirinto buio della mia mente. Stavo giusto pensando che forse avrei dovuto affidarmi a un professionista, come faceva mezzo mondo, quando squillò il telefono sul comodino.
"Signorina D'Aplièse? C'è un signore che la cerca."
"Come si chiama?"
"Ha detto di chiamarsi Drury. Vi siete conosciuti alla missione di Hermannsburg."
"Gli dica che scendo subito." Riagganciai, mi infilai gli stivali e scesi di sotto.
Trovai il tizio di Hermannsburg che camminava avanti e indietro nella reception, come un animale in gabbia. Torreggiava tra quei mobili di plastica moderni, con i vestiti polverosi e il volto scavato dal sole.
"Salve, signor Drury. Grazie di essere venuto" dissi educatamente.
"Ciao, Celaeno. Chiamami Phil. C'è un posto dove possiamo sederci?"
"Mi sa che stanno ancora servendo la colazione." Guardai la receptionist, che annuì.
"Il buffet chiude tra venti minuti" ci disse, per cui andammo nell'altra stanza.
"Vuole qualcosa dal buffet?"
"Prendo un caffè, se c'è."
Ordinai due caffè forti e mi buttai sul cibo, accumulando una pila altissima nel piatto.
"Mi piacciono le donne che amano mangiare" commentò Phil quando tornai al tavolo.
"Ah, a me piace" dissi a bocca piena. A giudicare da come mi guardava, non aveva mai visto una ragazza ingozzarsi tanto.
"C'è stato l'incontro degli anziani, ieri sera a Hermannsburg" disse dopo aver svuotato la tazza di caffè in un solo sorso.
"Sì, me l'aveva accennato."
"Alla fine dell'incontro ho fatto girare la tua fotografia."
"Qualcuno ha riconosciuto il ragazzo?"
"Sì." Phil fece cenno alla cameriera di versargli altro caffè. "Puoi dirlo forte."
"Come sarebbe?"
"Non capivo perché tutti lo guardassero e lo indicassero ridendo."
"E perché?"
"Perché il tizio della foto era tra i presenti. È uno degli anziani. Tutti lo prendevano in giro per quella foto."
Feci un bel respiro e bevvi un sorso di caffè, indecisa se urlare, saltellare di gioia o rigettare la colossale colazione che avevo appena consumato. Non ero abituata a così tante emozioni nel giro di ventiquattro ore.
"Okay" dissi.
"Dopo un po' hanno smesso di ridere e il tizio della foto è venuto a parlarmi non appena tutti se ne sono andati."
"E che ha detto?"
"Vuoi la verità?"
"Certo."
"Be', non ho mai visto un anziano piangere, prima d'ora. Ieri sera è successo."
"Ah." Per qualche motivo anch'io ero commossa.
"Sono uomini grandi e forti e non cadono facilmente preda delle emozioni. Ma in sostanza sa benissimo chi sei e vuole conoscerti."
"Ah" dissi di nuovo. "Ehm, chi pensa che io sia? Voglio dire… chi sono io per lui?"
"Crede di essere tuo nonno."
"Okay."
Stavolta lasciai che le lacrime scorressero liberamente, perché l'alternativa sarebbe stata avere il voltastomaco. E scendevano senza sosta davanti a quell'uomo che non conoscevo. Lo vidi frugarsi in tasca e porgermi un fazzoletto.
"Grazie" dissi dopo essermi soffiata il naso. "È lo shock, cioè… Ho fatto tanta strada e non mi aspettavo di trovare davvero… la mia famiglia."
"Ne sono sicuro." Aspettò pazientemente che mi ricomponessi.
"Scusi" dissi, e lui scosse la testa.
"Lo capisco."
Stringevo forte il fazzoletto fradicio. "Perché crede di essere mio… nonno?"
"Penso che stia a lui dirtelo."
"Non potrebbe essersi sbagliato?"
"Certo," disse Phil facendo spallucce "ma ne dubito. Quegli uomini hanno un istinto che va ben al di là di quello che tu e io possiamo anche solo immaginare. E Francis, tra tutti gli anziani, è il migliore. Se sa una cosa, la sa, punto e basta."
"Okay." Il fazzoletto era talmente zuppo che fui costretta a pulirmi il naso con il dorso della mano. "Quando vuole incontrarmi?"
"Il prima possibile. Mi ha detto di chiederti se ti va di tornare a Hermannsburg con me. Adesso."
"Adesso?"
"Sì, se ti va. Presto tornerà nel Bush, perciò ti suggerisco di non perdere tempo."
"Okay," dissi "ma non ho modo di tornare indietro."
"Stanotte puoi dormire da me, se necessario, e domani ti riporterò in città quando vorrai."
"D'accordo. Devo prendere la mia roba."
"Va bene, fai con calma. Io tanto devo fare delle commissioni in città. Che ne dici se ci vediamo qui tra mezz'ora?"
"Perfetto, grazie."
Ci separammo; io corsi di sopra, nella mia stanza. Dire che mi girava la testa è un eufemismo. Mentre preparavo lo zaino mi sentivo come intrappolata in un film troppo lungo, che fino a quella mattina andava a rilento e che improvvisamente era stato mandato avanti per far succedere tutto insieme.
L'Australia, Chrissie, mio nonno…
Mi rialzai e dovetti addirittura reggermi al muro. Scossi la testa ma peggiorai solo le cose, perciò mi sdraiai sul letto, sentendomi una smidollata.
"Troppe emozioni" mormorai, e iniziai a respirare profondamente per calmarmi. Quando mi alzai, mancavano solo dieci minuti all'appuntamento con Phil.
Segui la corrente, Cee, pensai mentre mi lavavo i denti. Segui la corrente.
Alla reception mi dissero che non c'era da pagare nulla. Chrissie doveva aver utilizzato i pochi soldi che aveva per saldare il conto. Mi sentii malissimo per non averci pensato prima. Era una ragazza orgogliosa, come me, e non voleva approfittarsi dei miei soldi.
Davanti all'albergo era parcheggiato il pick-up vecchio e polveroso che avevo visto a Hermannsburg.
"Butta lo zaino dietro e sali a bordo" mi invitò Phil.
Partimmo e, mentre Phil guidava, lo studiai di sottecchi. Dalle punte degli scarponi sporchi alla cima del cappello Akubra, passando per le braccia abbronzate e muscolose, tutto in lui era perfetto, l'archetipo dell'uomo del Bush australiano.
"Hai scelto un bel momento per arrivare, ragazza mia" disse.
"Sì, se questo tizio è davvero mio nonno. Solo che non capisco come possa saperlo. Non mi ha mai vista in foto, e so che il nome che porto me l'ha dato il mio padre adottivo."
"Conosco Francis da metà della mia vita e di solito non reagisce così. E poi avevi la sua fotografia, ricordi?"
"Sì, forse è stato lui a spedirmela, a lasciarmi l'eredità?"
"Forse."
"Com'è? Come persona, dico?"
"Francis?" Phil ridacchiò. "È difficile da descrivere. La parola giusta è “unico”. Con gli anni si è tranquillizzato, ovviamente; penso sia nato all'inizio degli anni Trenta, quindi ha superato la settantina. Ultimamente dipinge poco…"
"È un artista?"
"Sì, e anche piuttosto conosciuto da queste parti. Da bambino ha vissuto nella missione. E da quello che dicevano gli anziani, ieri sera, pare che seguisse Namatjira come un cucciolo di dingo."
"Anch'io sono un'artista." Mi morsi il labbro. Ero di nuovo sull'orlo delle lacrime.
"Be', il talento è un fattore ereditario, no? Non so bene cosa mi abbia trasmesso il mio vecchio, a parte l'odio per le persone e le città… Senza offesa, mia cara, ma sto meglio con i miei cani che con gli esseri umani."
"Quindi non sono imparentata con Namatjira?" Pensai a quanto sarebbe rimasta delusa Chrissie.
"Sembra di no, ma Francis Abraham è sicuramente un buon parente da vantare."
"Abraham?"
"Sì, alla missione gli hanno dato un cognome, come facevano con tutti gli orfani."
"Era orfano?"
"Meglio che te ne parli lui. Io so poche cose. Devi solo sapere che è un brav'uomo, non come certa gente da queste parti. Mi mancherà, quando si ritirerà dal comitato. Tiene a bada gli altri, se capisci cosa intendo. Lo rispettano."
Il cuore iniziò a battermi più forte quando arrivammo nel parcheggio della missione di Hermannsburg. Avrei tanto voluto che ci fosse Chrissie a calmarmi.
"Forza, andiamo a prendere qualcosa da bere mentre lo aspettiamo" mi invitò Phil scendendo dal pick-up. "Meglio se lasci lo zaino lì… Non vuoi che qualche visitatore sgradito ci si infili dentro, vero?"
Rabbrividii al solo pensiero. E se davvero avessi dovuto passare la notte lì? Nell'Outback, circondata dai miei peggiori incubi a otto zampe?
Forza, Cee, sii coraggiosa. Devi affrontare le tue paure, cercai di convincermi mentre seguivo Phil verso l'ingresso.
"Coca-Cola?" Frugò nel frigorifero.
"Grazie." Aprii la lattina mentre Phil cercava un libro sullo scaffale.
"Ecco qua."
Si mise a sfogliare un grosso volume dalla copertina rigida intitolato Arte aborigena del Ventesimo secolo, e sperai con tutta me stessa che non volesse darmi da leggere un saggio di quelle dimensioni.
"Lo sapevo che era qui." Picchiettò su una pagina con l'indice. "È di Francis. L'hanno esposto alla galleria nazionale di Canberra."
Guardai la pagina e non potei fare a meno di sorridere. Il mio potenziale nonno aveva studiato con Namatjira, e quindi mi aspettavo un paesaggio ad acquerello. Invece sotto gli occhi avevo un vibrante dipinto puntinato, un vortice di rossi, arancioni e gialli accesi, che mi ricordava la girandola che Pa' aveva acceso in giardino per festeggiare il mio diciottesimo compleanno.
A un'occhiata più ravvicinata iniziai a distinguere le forme in quella spirale perfetta. Un coniglio, forse, e… quello era un serpente?
"È bellissimo" dissi. Capii per la prima volta cos'era in grado di fare un artista di talento con la tecnica dei puntini.
"Si intitola Ruota di fuoco" disse Phil. "Che ne pensi?"
"Mi piace molto, ma non me l'aspettavo visto che ha studiato con Namatjira."
"Sì, ma Francis è andato anche a Papunya con Clifford Possum, molto prima che arrivasse Geoffrey Bardon. Sono stati loro due ad avviare il movimento Papunya. Vieni, ti faccio vedere qualche lavoro di Clifford."
Ero in imbarazzo: quell'uomo parlava una lingua che mi era sconosciuta. Non avevo idea di chi fossero Geoffrey Bardon o Clifford Possum, né dove fosse Papunya. Bella studentessa d'arte sono, pensai.
"Guarda." Phil mi mostrò un'altra pagina e vidi un secondo, bellissimo dipinto. L'artista aveva lavorato con i pastelli, plasmando le forme con migliaia di minuscoli puntini. Mi ricordava un po' Le ninfee di Monet, anche se l'artista sembrava aver preso da entrambe le due scuole pittoriche combinandole per produrre qualcosa di unico.
"Si intitola Warlugulong. È stato venduto a più di due milioni di dollari l'anno scorso" disse Phil inarcando un sopracciglio. "Roba seria. Scusami, Celaeno, devo controllare il bagno. Ieri ci ho trovato un bel serpentello."
"Certo. Ehm, mio… nonno, ha detto quando arriverà?."
"Oggi, ma non so quando" rispose vago lui. "Prendi quello che vuoi dal frigo, ci vediamo dopo."
Armata di bottiglia d'acqua presi il libro e cercai un posto dove sedermi. C'era soltanto uno sgabello alto dietro il bancone, perciò mi appollaiai sopra e sfogliai le prime pagine.
Ero talmente presa da tutti quei capolavori, di cui tentavo con fatica di decifrare i titoli, che alzai lo sguardo solo quando sentii aprirsi la porta d'ingresso. Non avevo sentito macchine in avvicinamento.
"Salve" disse la figura sulla soglia.
"Salve."
All'inizio pensavo fosse un turista in visita a Hermannsburg, perché non poteva essere mio nonno… tutti gli anziani aborigeni che avevo visto nelle fotografie erano piuttosto piccoli e scuri di carnagione, con la pelle ridotta dal sole impietoso a una ragnatela di rughe, simile a una prugna secca. Al di là del fatto che mi sembrasse troppo giovane, era alto e magro, con la carnagione come la mia. Si tolse il cappello e mentre mi veniva incontro mi accorsi che aveva due occhi incredibili. Erano azzurri con tracce d'oro e ambra, e l'iride somigliava a quei quadri puntinati che avevo guardato finora. Mi accorsi che anche lui mi fissava, e diventai rossa all'istante sotto quello sguardo indagatore.
"Celaeno?" Aveva la voce profonda e misurata. "Sono Francis Abraham."
Incrociai il suo sguardo.
"Sì."
Restammo in silenzio, e mi resi conto che neanche lui sapeva come esordire: per entrambi era un momento topico.
"Posso avere un po' d'acqua?" mi chiese indicando il frigo. Gli ero grata di aver infranto quel silenzio, ma mi chiesi perché me lo stesse chiedendo. Dopotutto era un “anziano”, qualsiasi cosa significasse, ed ero abbastanza sicura che potesse fare un po' come gli pareva, lì dentro.
Lo guardai andare verso il frigo. Camminava con passo sicuro e quando allungò un braccio vidi che era ancora muscoloso. Eppure Phil mi aveva detto che aveva più di settant'anni. Come faceva quest'uomo così forte e giovanile a essere così avanti con l'età? Sembrava una specie di Crocodile Dundee: aprì la bottiglia con pollice e indice senza alcuno sforzo. Bevve di gusto, prendendosi quel tempo per pensare a cosa dirmi. Forse.
Dopo aver svuotato la bottiglia la gettò nel cestino della spazzatura e si girò di nuovo a guardarmi.
"Ti ho mandato io quella fotografia" disse. "Speravo che venissi."
"Oh, grazie."
Seguì un lungo silenzio, poi lui sospirò, scosse la testa e si avvicinò.
"Celaeno… Vieni ad abbracciare tuo nonno."
Non c'era spazio per muoversi, lì dietro il bancone, perciò mi bastò fare un passo per ritrovarmi tra le sue braccia. Appoggiai la testa sul suo petto e sentii il battito del cuore, forte e sicuro.
Quando alla fine ci staccammo, ci asciugammo entrambi gli occhi di nascosto. Sussurrò qualcosa in una lingua che non capii, poi guardò in alto. Ora era più vicino e vedevo le sottilissime rughe che gli coprivano la pelle. Era più anziano di quanto mi era sembrato a prima vista.
"Sicuramente avrai tante domande da farmi" disse.
"Eh sì."
"Dov'è Phil?"
"È andato a caccia di serpenti nel… bagno. Di certo non gli dispiacerà se usiamo la sua capanna."
"Allora vieni" disse allungando un braccio. "Abbiamo tante cose di cui parlare."
La capanna in cui dormiva Phil era bassa e angusta, con un ventilatore preistorico che puntava su un ruvido letto, composto solo da un sacco a pelo su un materasso macchiato. Francis aprì la porta che dava sulla veranda. Prese una sedia malferma e la mise fuori.
"Prego" disse.
"Grazie." Mi sedetti e mi accorsi che il panorama compensava senza dubbio la mancanza di comodità. Deserto rosso a perdita d'occhio, che poco più avanti si interrompeva davanti a un ruscello. Dall'altro lato, una linea di cespugli argentati che dipendevano da quella limitata riserva d'acqua. E ancora oltre… be', non c'era più nulla fino all'orizzonte.
"Per un po' ho vissuto lungo il ruscello. Come molti di noi. Ma con la mente ero altrove, se capisci cosa intendo."
Non capivo, ma annuii comunque. Mi trovavo proprio al confine tra due culture che da oltre duecento anni facevano fatica a venire a patti l'una con l'altra. L'Australia era un Paese giovane, cercava di capire chi fosse. Proprio come me. Stavamo facendo progressi, ma sbagliavamo spesso, perché non avevamo secoli di esperienza a guidarci.
Istintivamente sentivo che quell'uomo era più saggio di tanti altri. Incrociai il suo sguardo.
"Ah, Celaeno, da dove cominciare?" Guardò l'orizzonte lontano.
"Dimmelo tu."
"Sai, non pensavo che questo giorno sarebbe arrivato. Si desiderano così tante cose che non si avverano mai…"
"Lo so." Mi sarebbe piaciuto capire che accento fosse, il suo, perché era un misto di molte parlate diverse: ogni volta che mi pareva di averlo riconosciuto, capivo di aver sbagliato. C'era un po' di australiano, di inglese e perfino una traccia di tedesco.
"Quindi hai ricevuto la lettera e la fotografia dall'avvocato di Adelaide?" chiese.
"Esatto, sì."
"E i soldi, anche."
"Sì, grazie. È stato molto gentile da parte tua, se sei stato tu a mandarli."
"Ho fatto in modo che ti arrivassero, ma non erano soldi miei. Ora comunque sono tuoi di diritto. Per diritto di famiglia. La nostra." Mi rivolse un gran sorriso. "Somigli alla tua bisnonna. Sei molto simile…"
"Era la figlia di Camira? La bambina dagli occhi d'ambra?" azzardai.
"Sì. Alkina era mia madre. Io…" Sembrava sul punto di piangere.
"Ah" dissi.
"Okay" Francis riuscì a ricomporsi. "Dimmi cos'hai scoperto finora."
Gli dissi quello che sapevo, ma ero intimidita dal carisma di quell'uomo. Era così calmo e forte che io mi sentivo ancora più impacciata del solito.
"Sono arrivata al punto in cui nella biografia di Kitty Mercer si racconta dell'affondamento della Koombana. E della morte del padre e dei due fratelli. L'autore del libro fa capire che c'era un rapporto molto intimo tra Kitty e il fratello di suo marito. Drummond, vero?"
"L'ho letto. Dice senza tanti mezzi termini che avevano una relazione."
"La gente scrive di tutto pur di vendere, perciò non è che ci ho proprio creduto" balbettai. Avevo una gran paura di gettare fango su un membro della sua… della nostra famiglia.
"Celaeno, mi stai dicendo che questo biografo potrebbe aver raccontato in toni sensazionalistici la vita di Kitty Mercer?"
"Forse" ammisi.
"Celaeno."
"Sì?"
"Quando sentirai quello che sto per dirti, capirai che non lo ha fatto abbastanza!"
Guardai sbalordita Francis, che scoppiò a ridere. Quando tornò a guardarmi sembrava divertito. "Sto per raccontarti la vera storia, che mia nonna mi ha rivelato solo sul letto di morte. È stata una delle persone più care che abbia mai avuto."
"Lo capisco, ma se non vuoi, non raccontarmi nulla. Forse dovremmo conoscerci meglio, prima che tu possa fidarti di me."
"Ti ho sentita sin da quando eri ancora un minuscolo seme nel ventre di mia figlia. È di te che mi preoccupo, Celaeno. Non conosci le tue radici, non sai da dove vieni…" Francis sospirò. "E devi conoscere la storia dei tuoi antenati. Sei sangue del loro sangue. E del mio."
"Come mi hai trovata?" chiesi. "Dopo tutti questi anni."
"È stata la mia defunta moglie. L'ultimo desiderio di tua nonna è stato poter vedere, prima di morire, nostra figlia. Non l'ho trovata, ma ho trovato te. Per aiutarti a capire, devo riportarti indietro nel tempo. Conosci la storia fino all'affondamento della Koombana, quando tutti gli uomini della famiglia Mercer sono morti."
"Sì. Ma che c'entro io?"
"Capisco la tua impazienza, ma devi ascoltare con attenzione per capire. Sto per raccontarti che cosa successe a Kitty dopo quell'episodio…"