CAPITOLO TERZO

 

 

Roma

23 d.C. - 776 ab Urbe Condita

Caligola ha undici anni

 

8

Quando l'imperatore uscì dalla grande sala in cui si stava svolgendo il banchetto, con la smorfia truce che gli era solita e il codazzo di pretoriani, liberti e schiavi che lo seguivano come un nugolo di calabroni, Gaio si ritrasse nell'ombra e cercò di diventare invisibile.

Non gli riusciva difficile, tutto sommato. Fra i componenti della dinastia Giulio-Claudia di cui quel palazzo era gremito, lui era il più piccolo di età, dopo Tiberio Gemello, il nipote diretto di Tiberio, sopravvissuto alla malattia che aveva colpito sia lui sia il fratello gemello, che non ce l'aveva fatta. Gaio non godeva della considerazione e delle attenzioni che tutti prestavano a quell'insulso moccioso che non sapeva nemmeno reggere un gladio. Tiberio Gemello passava il tempo circondato da femmine e da tutori dai modi compiacenti, che cercavano di istruirlo nella cultura greca e romana e forse di proteggerlo da altre possibili malattie, tenendolo recluso e lontano dal mondo.

Al solo pensiero, Gaio rabbrividì. Aveva studiato così tanto filosofia, matematica e scienze di tutti i tipi, da essere certo che gli sarebbe bastato per tutta la vita, e ringraziava il padre di averlo portato con sé in Germania e poi in Asia, dove aveva visto gran parte delle province romane che si estendevano a nord e a est dell'impero e aveva preso dimestichezza con la vita militare. Cosa che certo Tiberio Gemello poteva scordarsi, viste le premure di cui era circondato.

Infastidito, Gaio scivolò dietro le colonne del peristilio, cercando di non farsi distanziare troppo dall'imperatore, che aggrediva i corridoi con un'energia e una rabbia davvero notevoli, se si pensava a quanto era vecchio. Gaio aveva sentito dire che l'imperatore avesse superato i sessant'anni, ma gli sembrava un'esagerazione. Tiberio era vecchio, ma non poteva esserlo così tanto. Lui faticava a ricordare qualcuno, nell'ambito familiare, che avesse anche solo cinquant'anni, figurarsi sessanta. A parte le donne, naturalmente, che sembrava avessero stretto un patto con gli dei e riuscivano a vivere molto più a lungo degli uomini che sposavano, che fossero aristocratici, imperatori o semplici plebei.

Un paio di esempi li aveva in famiglia. La sua bisnonna Livia, vedova del grande Augusto, partecipava ancora ai banchetti e alle principali attività della corte imperiale, nonostante avesse già raggiunto da tempo i cento anni. Questo, almeno, sostenevano tutti coloro che ne parlavano con reverenza, anche se lui non era mai riuscito a scoprire la verità. E poi c'era sua nonna Antonia Minore, figlia di Marco Antonio e imparentata con chissà quante stirpi reali d'Oriente grazie al rapporto con Cleopatra, che aveva allargato i confini della loro discendenza anche alle straordinarie terre d'Egitto.

Mentre passava lungo le vasche di raccolta dell'acqua piovana, tenendosi a debita distanza dal corteo imperiale, Gaio storse la bocca. Tiberio era forse l'unico maschio della loro stirpe che cercasse di rivaleggiare in longevità con le donne della dinastia Giulio-Claudia, a parte Augusto, che però aveva caratteristiche divine che Tiberio poteva solo sognarsi. E il pensiero che l'imperatore fosse destinato a vivere ancora a lungo non gli piaceva affatto: giorno dopo giorno si rendeva conto di quanto fosse difficile, per lui e la sua famiglia, contrastare la diffidenza di Tiberio, che sembrava ritenerli la causa di tutti i suoi mali.

Per questo motivo Gaio lo seguiva ogni volta che poteva, ascoltando, osservando, cercando di comprendere la trama intricata dei rapporti di potere che legava l'imperatore agli uomini che lo circondavano, e che esibiva come una barriera insormontabile per chiunque.

Gaio sapeva di essere il meno considerato tra i figli di Germanico, forse al pari delle sue sorelle. Ma non solo non si infuriava per questo, anzi portava pazienza e cresceva all'ombra di tutti, imparando quanto più poteva e sfruttando la sua capacità di aggirarsi per il palazzo imperiale come un fantasma per spiare chiunque gli capitasse a tiro. Non dimenticava la promessa che aveva fatto a Germanico: l'avrebbe vendicato, avrebbe restituito dignità alla sua famiglia, convinto di essere il solo, tra i suoi fratelli, che avrebbe potuto tenere testa a Tiberio e ai suoi scagnozzi.

Uno dei quali, se ne rese conto con sgomento, si stava avvicinando dalla direzione opposta a quella in cui stava scivolando lui, e per poco non andò a sbatterci contro.

Si accorse che era Seiano all'ultimo istante, ma per una combinazione di agilità, istinto e fortuna riuscì ad appiattirsi dietro la statua di qualche oscuro antenato. Il prefetto del Pretorio, nonché principale confidente di Tiberio, gli passò accanto senza accorgersi di lui.

Tornò a respirare, con il cuore che gli martellava nel petto, deciso a non perdere di vista i due: quando Tiberio e Seiano si appartavano, scacciando liberti, schiavi e pretoriani, era perché avevano cose importanti da discutere, al riparo da orecchie indiscrete.

E lui non si sarebbe perso una sola parola.

 

9

Per fortuna, le porte del palazzo imperiale non erano come quelle che aveva visto ad Antiochia, con serrature che impedivano a chiunque il passaggio, anche quando non c'erano guardie a presidiarle. Lì, nella grande villa di Tiberio sul Palatino, ogni ingresso era guardato a vista da due pretoriani, che si irrigidivano e assumevano pose da parata, quando l'imperatore e il prefetto del Pretorio passavano veloci, senza neppure degnarli di un'occhiata. E dopo che erano andati oltre, quei soldati si rilassavano, si scambiavano occhiate incerte e scoppiavano a ridere, o si mettevano a parlare come se avessero scampato chissà quale pericolo. Allora Gaio ne approfittava.

Gli risultò facile sgusciare inosservato fra le ombre dei colonnati e tenere il passo di Tiberio e Seiano fino a quando non li vide imboccare il corridoio che portava alla biblioteca del palazzo, là dove, gli era stato detto, era conservato l'archivio imperiale, che Tiberio teneva lontano da occhi indiscreti.

Soddisfatto di quella decisione da parte dei due, Gaio si precipitò verso il vestibolo che dava accesso all'ala con il vivarium, in cui i servi di corte allevavano le strane specie di pesci di cui l'imperatore amava cibarsi. Da quella piccola stanza, in cui già si percepiva l'odore aspro delle vasche, scivolò in uno dei condotti che facevano affluire l'acqua nei vivai, che si ramificavano per tutta la villa intersecandosi con le tubature che portavano l'acqua riscaldata nelle terme private di Tiberio.

Gaio aveva già percorso diverse volte quei condotti, che erano una via formidabile per raggiungere di nascosto i luoghi più inaccessibili della villa. Nonostante avesse già undici anni, la sua corporatura esile gli permetteva di muoversi agilmente nelle condutture di pietra in cui un adulto avrebbe faticato a infilarsi.

Imboccò sicuro la diramazione che lo avrebbe portato, fiancheggiando la biblioteca, a una delle finestrelle di aerazione che gli avrebbe consentito di ascoltare tutto quello che Tiberio e Seiano si dicevano. Doveva solo stare attento alle tubature dell'acqua riscaldata, che partendo dalla fornace alimentavano diverse parti del palazzo imperiale e sviluppavano un forte calore. Una volta si era incautamente seduto su uno di quei tubi arrugginiti e si era scottato le natiche. Ma adesso che lo sapeva, avrebbe solo dovuto preoccuparsi di non toccare niente e di spogliarsi per evitare di macerarsi nel sudore.

Raggiunse in fretta il luogo del suo appostamento, proprio nel punto d'incontro fra uno dei condotti di pietra che facevano scorrere l'acqua fino al vivarium e un paio di grossi tubi di ferro resi bollenti dall'acqua proveniente dalla fornace.

Cercò la finestrella più comoda per la sua altezza e riconobbe subito il panno che lui stesso aveva lasciato in quel luogo per potersi sedere su una pietra senza rischiare di bruciarsi ancora.

Si sfilò la veste, sotto la quale non portava nulla, allargò le strisce di cuoio dei calzari e se li tolse. Poi, dopo aver sistemato i suoi indumenti nell'angolo più asciutto del condotto, ovvero una specie di rientranza nella parete creata da alcune pietre lavorate male dai mastri costruttori, si sistemò accanto alla finestrella e attese. Sapeva che i due ci avrebbero messo un po' di più a raggiungere la biblioteca, che aveva un unico ingresso, sorvegliato dai pretoriani, ricavato direttamente nell'ala del palazzo in cui si trovavano le stanze private dell'imperatore.

Gaio non era mai riuscito a introdursi direttamente in quella parte della villa, la più sorvegliata, ma, grazie a una visita a Tiberio che aveva fatto una volta insieme ad Agrippina e alla nonna Livia, era riuscito a farsi un'idea della disposizione dei corridoi e delle stanze, memorizzandoli dentro di sé per comporre una specie di mappa del palazzo, che gli era molto utile per le sue scorribande.

Aveva così collezionato un numero sorprendente di segreti che molti frequentatori del palazzo credevano di custodire solo per sé. Aveva capito che non c'era nulla di più prezioso, per conoscere il funzionamento della vita a corte, che ascoltare e assistere non visto agli incontri segreti dei nobili, dei liberti e dei servitori che si aggiravano nella villa di Tiberio a diverso titolo.

Quante cose aveva imparato, e quanto sapeva, sul conto di tanti che credevano di muoversi nell'ombra, all'insaputa di tutti. Forse un giorno quei segreti gli sarebbero stati utili per scopi che adesso nemmeno riusciva a immaginare, ma ricordava le parole del padre e i suoi insegnamenti: per lui e la sua famiglia era molto importante comprendere le intenzioni degli uomini più potenti dell'impero, per non farsi mai trovare impreparati.

Era ancora immerso in questi pensieri quando avvertì dei rumori dall'altra parte del muro. Allora si mise in ascolto.

«Perché ancora qui, mio imperatore?» chiese Seiano quando i due furono entrati e i pretoriani ebbero chiuso la porta della biblioteca alle loro spalle.

«Perché ho bisogno di risposte» disse Tiberio con la sua vocina querula e fastidiosa. «Lontano da orecchie indiscrete.»

Gaio esultò. Aveva visto giusto. L'incontro si preannunciava interessante. Senza che quei due sospettassero minimamente di essere spiati.

«Complottano contro di me! Io lo so. Ho visto come mi guardano.»

«Chi, Cesare? Chi complotta contro di te?»

«Tutti!» rispose rabbioso Tiberio, fissando il prefetto del Pretorio con gli occhi di un pazzo. Era teso, spaventato, le mani gli tremavano. A Gaio ricordò quel vecchio folle che se ne stava accucciato davanti al tempio di Augusto a minacciare la folla che gli passava accanto solo con la forza dello sguardo, quasi volesse fare intendere che, se non gli avessero dato qualche moneta, lui avrebbe potuto scagliare la rabbia degli dei contro di loro. Tutti gli raccomandavano sempre di stargli alla larga, perché era un pazzo e poteva diventare pericoloso, e in quel momento, osservando Tiberio dalla feritoia nel muro, Gaio pensò che lo stesso si poteva dire dell'imperatore. Bruciava di follia, sembrava che vedesse attorno a sé una folla di fantasmi protesi con le armi verso di lui per ucciderlo come era stato fatto con Giulio Cesare.

«No, mio princeps, ti assicuro che non c'è nessun complotto nei tuoi confronti» cercò di rassicurarlo Seiano con voce calma ma decisa.

Il prefetto del Pretorio aveva un atteggiamento conciliante nei confronti di Tiberio. Lo blandiva con poche parole posate e non sembrava temerne la reazione, qualunque potesse essere. L'impressione di sicurezza e di forza che Seiano trasmetteva era impressionante, e Gaio ne ebbe quasi più paura degli sguardi folli che Tiberio lanciava ovunque, anche in quella sala in cui non potevano esserci altri che loro due.

Ricordò quello che aveva detto sua madre, un giorno in cui si trovavano tutti a pranzo insieme ai suoi fratelli, Nerone Cesare e Druso Cesare, e alle sorelle, Giulia Livilla, Giulia Drusilla e Giulia Agrippina: «Diffidate di quell'uomo. È una serpe che cerca di incantarvi con lo sguardo e la voce suadente, mentre con la mano armata vi conficca un pugnale fra le costole».

Un'immagine molto vivida, che non era più uscita dalla mente di Gaio, e che adesso trovava conferma in ciò che stava vedendo.

«Tu parli così perché sei al sicuro, in mezzo ai tuoi pretoriani» sbuffò Tiberio andando a sedersi allo scrittoio su cui, si diceva, componesse dei poemi sulla sua persona, per esaltarla e lasciare un ricordo ai posteri che fosse più clemente e positivo di quello che la gente comune aveva di lui.

Seiano allargò un mezzo sorriso e si avvicinò all'imperatore. Gaio si deterse alcune gocce di sudore dalla fronte e strizzò gli occhi che gli bruciavano per il calore, ma rimase in ascolto: sarebbe stato importante per la sopravvivenza della sua famiglia. Fece una smorfia e si corresse quasi subito: per la sua sopravvivenza, perché poteva fare ben poco per i fratelli, le sorelle e, forse, per la madre. Tranne Drusilla, per la quale provava una simpatia profonda e con cui aveva una sintonia di sguardi e gesti che sorprendeva lui per primo, con gli altri della famiglia non andava molto d'accordo. Anzi. I fratelli lo consideravano un moccioso imbarbarito dai lunghi viaggi lontano da Roma, incapace di comportarsi in modo adeguato alla corte dell'imperatore. E Livilla e Giulia Agrippina lo sdegnavano con fare altezzoso, manco fosse un fratello adottivo da tenere a distanza.

Ma Gaio sapeva di essere più furbo e intelligente di tutti loro. Lo stava dimostrando proprio in quel momento, spiando le due persone che più potevano risultare pericolose per la sua stessa vita, anziché trastullarsi con i divertimenti di corte o darsi da fare negli incontri mondani, intrecciando relazioni con le altre famiglie aristocratiche quasi a voler costruire una rete di protezione attorno alla dinastia Giulio-Claudia.

Un fiotto di rabbia gli salì in gola. Possibile che fossero così stupidi? A partire da sua madre, che tanto aveva fatto per sfidare Tiberio e alla fine aveva ottenuto solo di far uccidere Germanico. L'imperatore era forse un pazzo ma non era uno stupido, sapeva come difendersi da chiunque lo minacciasse. E poi era paranoico, come gli diceva sempre Hellase, il suo tutore greco, perché credeva che tutti fossero in combutta contro di lui.

Quell'uomo non esitava a imbastire processi assurdi contro chiunque gli lanciasse un'occhiata storta, ed era pronto a soffocare nel sangue qualsiasi tentativo di deporlo dal trono imperiale. E poteva contare sull'aiuto di Seiano, che era tutt'altro che un folle, anzi appoggiava l'imperatore con lucida intelligenza, pronto a sostenerlo per abbattere chiunque osasse frapporsi al loro cammino, conquistando in questo modo sempre più potere, sempre più influenza.

Gaio scosse la testa, che cominciava a pulsargli per lo sforzo di ragionare su quelle faccende, per lui ancora piuttosto complicate. Quando si trovava con i suoi tutori faceva domande, andava al di là dell'argomento di studio che gli veniva proposto e si faceva spiegare le tante cose che non capiva, quando restava in ascolto nei meandri del palazzo imperiale e raccoglieva informazioni. E piano piano aveva cominciato a comprendere che tutto era prezioso, anche le cose che sul momento non capiva. Doveva solo memorizzarle e poi parlarne con qualcuno che non sospettasse dove le aveva sentite, ma fosse in grado di mettere in luce i tanti risvolti che celavano ogni discorso, ogni parola da lui captati.

«E Druso, allora?» ringhiò Tiberio, facendo sussultare Gaio per la sorpresa.

Tornò a guardare attraverso la finestrella. L'imperatore si era alzato e affrontava Seiano con aria minacciosa. «Cosa credi che stia tramando, quell'inetto? Lo vedo come mi guarda, come sogghigna mentre racconta a tutti quello che farà, quando sarà lui imperatore!»

Seiano scosse piano la testa, senza allentare il suo sorriso. «No, non credo proprio che Druso possa essere un pericolo, Cesare» rispose. «È troppo preso dalle matrone che gli ronzano intorno, molte delle quali per mio diretto ordine.»

Tiberio lo fissò sorpreso. «Che cosa intendi dire?»

«Tuo figlio è un ingenuo. Crede di essere così affascinante da poter conquistare qualsiasi donna gli capiti per le mani, nonostante sua moglie non gradisca questo atteggiamento.»

Tiberio sventolò una mano in aria. «Livilla è una sciocca. Si dice abbia una relazione con un altro uomo, ma ancora non sono riuscito a scoprire chi sia. Fatto sta che per le sue ansie d'amore non si accorge che Druso la sta mettendo in ridicolo, lei e tutta la sua famiglia.»

«Fatto sta che sono riuscito a convincere alcune belle matrone a darci una mano» continuò il prefetto del Pretorio. «Ovviamente, in cambio di qualche favore nei confronti dei loro mariti.»

Tiberio sbuffò, come se la cosa non lo riguardasse. Poi allargò un sorriso sbilenco, che impressionò Gaio più di ogni altra sua espressione.

«Mi pare che Druso non sia il solo a beneficiare dell'attenzione di qualche bella donna» disse, soffermandosi a scrutare la reazione di Seiano.

«Se ti riferisci a me, mio imperatore, sai che sto agendo per tuo conto.»

«Ma certo» ridacchiò Tiberio. «Immagino che per te sia un grande sacrificio portarsi a letto una donna come Claudia Livilla.»

Gaio sussultò per la sorpresa. Sua zia Livilla? La moglie di Druso, il figlio dell'imperatore, nonché sorella di Germanico e figlia adottiva dello stesso Tiberio, attorno a cui ruotavano molti dei discorsi di discendenza al trono che si facevano a corte e che tanto annoiavano Gaio. Claudia Livilla aveva messo al mondo una figlia, Giulia, e due gemelli, Tiberio e Germanico, proprio nell'anno in cui era morto il padre di Gaio, ma entrambi erano gracili di costituzione, nati prematuri. Tiberio Gemello era sopravvissuto per miracolo a una malattia che li aveva colpiti entrambi, ma nessuno sapeva con certezza se la linea di discendenza di Tiberio avrebbe avuto un futuro attraverso Livilla o no.

E adesso quei due parlavano di sua zia come se fosse al centro di qualche oscura macchinazione di cui lui non sapeva nulla.

«Per una volta, ammetto che l'incarico mi soddisfa abbastanza» rispose Seiano stringendosi nelle spalle, ma i suoi occhi acuti, simili a quelli di un falco, non si staccavano da quelli cisposi di Tiberio. «Anche se non è facile muoversi in quella casa senza lasciarsi distrarre da Giulia. Tua nipote è un bocconcino davvero squisito.»

Anziché infuriarsi per una simile affermazione, l'imperatore si batté una mano su una coscia e scoppiò a ridere.

«Un'altra puttanella, tale e quale sua madre! Per fortuna se l'è sposata Nerone Cesare, così abbiamo un occhio anche fra le mura di Agrippina.»

Seiano parve rabbuiarsi. «È lei il vero pericolo» affermò. «Non so cosa stia complottando, ma è evidente che quella donna è tanto bella quanto ambiziosa. I legami di parentela che ha con le linee di sangue imperiale e di mezza nobiltà romana l'aiutano parecchio a ottenere i suoi scopi.»

«Mi sorprende che non sia ancora caduta fra le tue braccia» disse Tiberio.

Seiano fece una smorfia. «Lei non è come tutte le altre.»

Gaio si sentì di confermare quelle parole. Sua madre aveva una forza e una predisposizione tale al comando, che spesso rivedeva in lei suo padre quando si rivolgeva alle truppe, riuscendo a convincere i soldati a sacrificare la propria vita in nome di Roma. Solo che lei era una donna, e nonostante i suoi sforzi non avrebbe mai potuto governare sull'Urbe.

«Che cosa intendi?» chiese l'imperatore, adesso particolarmente attento.

Seiano si strinse nelle spalle. «Non è attratta da quello che affascina comunemente le matrone di Roma. Ho saputo che giace indifferentemente con uomini e donne, spesso ammucchiando cinque o sei amanti alla volta nel suo letto, ma sempre con atteggiamento dominante.»

«Che le piaccia comandare mi sembra chiaro» ridacchiò Tiberio. «Altrimenti non discenderebbe da Cesare.»

«Infatti è così» annuì Seiano. «È per questo che non cerca qualcuno da amare, con cui confidarsi o corrispondere sentimenti. Lei è uno scrigno chiuso che nessuno può aprire, e gli sfoghi che si procura con i suoi schiavi e i suoi liberti sono secchiate d'acqua gelida su un fuoco che la divora dentro.»

La risata dell'imperatore fece rabbrividire Gaio. Era acuta, piena di scherno e di un divertimento greve e torbido che ben si sposava con la figura ingobbita di Tiberio, grifagna e minacciosa come quella di una poiana su un trespolo.

«Sto scoprendo la tua anima poetica, caro Seiano, e questo mi sorprende. Credevo fossi un combattente, più abituato a usare il gladio che le parole.»

Seiano si passò la lingua sulle labbra. «A volte il gladio non serve a niente, per esempio con donne come Agrippina.»

«Allora seducila! Sei bravo in queste cose, mi pare. Nessuna donna, a Roma, può resistere al fascino dell'uomo più potente dell'impero.» Fece una breve pausa, fissandolo con gli occhi stretti in due fessure. «Dopo di me, naturalmente.»

Seiano s'inchinò fin troppo cerimoniosamente. «Io sono solo il primo dei tuoi servitori, Cesare» disse. Poi tornò a fissare l'imperatore, sostenendone lo sguardo. «E comunque ti posso assicurare che Agrippina non è interessata a me. Il mio... fascino, come dici, con lei non ha alcuna presa. Anzi, credo abbia capito le mie intenzioni e fa di tutto per tenermi lontano.»

Tiberio si rabbuiò di nuovo. «Questo non mi piace» sibilò. «Abbiamo bisogno di maggiore controllo su quella donna e tutta la sua famiglia. Se può arrivare un pericolo concreto al mio regno, è da quella parte che dobbiamo guardare.»

Gaio trattenne il respiro. Così Tiberio e Seiano credevano che sua madre fosse una cospiratrice. Il che significava che non solo lei, ma tutta la loro famiglia era in pericolo.

«Forse è presto per dirlo» sostenne Seiano, tornando a far respirare Gaio. «Ma vanno tenuti d'occhio. Per questo Giulia può essere una fonte preziosa di informazioni. Da parte mia, continuerò a sforzarmi di frequentare la moglie di tuo figlio in segreto, così da avere anche Druso sotto controllo.»

Tiberio fece una smorfia. «Quella donna non perde mai l'occasione per ricordare a tutti che lei e la sua famiglia discendono direttamente da Augusto per diritto di sangue, al contrario di me.»

«E di tuo figlio, se è per questo» aggiunse Seiano in tono piatto, come se avesse discusso così tante volte di quell'argomento da averlo a noia.

L'imperatore sghignazzò, tornando apparentemente sereno con uno di quei bruschi cambiamenti d'umore che ormai Gaio aveva imparato a riconoscere.

«Hai ragione» gracchiò, dirigendosi allo scrittoio ingombro di pergamene e tavolette per la scrittura. «Scopri tutto quello che puoi su Druso e su Agrippina, e stai pronto nel caso si scoprisse che stanno complottando contro di me. Da soli o persino pronti a fare fronte comune.»

«Ma certo» lo rassicurò Seiano, mentre Tiberio gli dava le spalle.

A Gaio sembrò di cogliere una luce maligna negli occhi del prefetto del Pretorio, ma non riuscì a decifrarla del tutto. Perché quell'espressione? Perché quella smorfia tirata sulle labbra, che gli era parsa piena di... come avrebbe detto Hellase? Sarcasmo? Mentre si asciugava di nuovo la faccia dal sudore, venne travolto da un dubbio sorprendente. Possibile che Seiano non fosse quel mastino da guardia fedele all'imperatore che tutti temevano? Possibile che avesse anche lui ambizioni per allargare ulteriormente il suo potere?

Sua madre lo aveva sempre messo in guardia dal prefetto del Pretorio e, dopo quello che aveva sentito, fu costretto a darle ragione. «Se potesse, ucciderebbe Tiberio all'istante, portando quel suo culo secco sul trono e pretendendo di seguire le orme di Cesare grazie al controllo dei pretoriani»: questo le aveva sentito dire un giorno mentre parlava con uno dei suoi confidenti, un liberto gigantesco che Agrippina si portava a letto, insieme a un paio delle sue serve più giovani e carine, per uno di quei giochetti di gruppo che lei sembrava apprezzare tanto e di cui Tiberio e Seiano erano perfettamente a conoscenza.

Sua madre aveva ragione. E lui avrebbe dovuto cambiare obiettivo, per le sue sortite nel palazzo. Anziché occuparsi soprattutto di Tiberio, avrebbe dovuto concentrare i suoi sforzi sul prefetto del Pretorio. Quell'uomo nascondeva qualcosa. Se Agrippina aveva ragione, poteva diventare più pericoloso dell'imperatore, per il futuro della sua famiglia e, soprattutto, per lui stesso.

Gaio ascoltò ancora per qualche istante, poi decise che sarebbe stato inutile continuare a macerarsi in quel forno. Così raccolse i vestiti e scivolò nei condotti fino a un punto in cui poté tornare a respirare normalmente. Si rivestì in fretta e si diresse alle terme, dove si sarebbe lavato e intanto avrebbe pensato a quella svolta imprevista, che avrebbe cambiato radicalmente il suo modo di agire nei giorni seguenti.

Prima, però, doveva cercare delle conferme. Non era sicuro che tutto quello che aveva udito fosse da interpretare come lui aveva fatto. Era troppo giovane, non aveva ancora esperienza, perciò si rendeva necessario un confronto con qualcuno che lo aiutasse a capire meglio, a cogliere le sfumature che si celavano nelle parole che aveva ascoltato e memorizzato.

Sorrise. Dopo le terme sarebbe corso da Filenia, la ricamatrice di sua madre che lui aveva ingaggiato perché gli insegnasse il modo corretto di comportarsi a letto con le donne. Si era infatti reso conto che le abitudini rudi e spartane dei legionari con le prostitute e con altri camerati, in cui lui era stato coinvolto fin da bambino, erano ben diverse da quello che uomini e donne facevano quando si trovavano sotto le lenzuola. Aveva spiato abbastanza alcove da capire che c'era una netta differenza fra il sesso e l'amore, e non voleva restare ignaro di niente, nonostante i suoi undici anni. Perché intuiva che la conoscenza era potere e, forse, l'arma più potente di cui disponeva chi non poteva combattere con il gladio.

Così, grazie ai sesterzi che riusciva a rubare dalla saccoccia dei liberti amministratori di palazzo, aveva convinto Filenia, una bellezza persiana che gli dimostrava una certa simpatia, a incontrarsi con lui di nascosto per svelargli tutti i segreti dell'amore e del sesso, di cui intendeva impadronirsi per sfruttarli quando fosse arrivato il momento.

Ma Filenia non era una prostituta. Era una ragazza di intelligenza sopraffina, l'aveva capito da un pezzo. Sapeva che non poteva rifiutarsi di aiutarlo, perché lui avrebbe potuto farla cacciare dalla loro casa con una scusa qualsiasi, quindi aveva cercato fin dal principio di prendere con lo spirito giusto l'incarico per cui lui la pagava. Adesso, Gaio ne era convinto, quei loro incontri clandestini, durante i quali si parlava dell'unione dei corpi e delle anime, e si mettevano in pratica le arti che Gaio vedeva esercitare ogni notte nei talami degli adulti, in fondo le piacevano. Incontri durante i quali riuscivano a parlare anche di molte altre cose, tanto che ben presto Filenia era diventata la sua principale confidente, la persona con cui si sentiva più a suo agio.

Corse rapido verso le terme. Forse Filenia sarebbe stata anche lei da quelle parti, perché aveva il permesso di usufruire delle piscine riservate ai liberti di corte, e di solito approfittava di quell'opportunità, quando la loro famiglia andava in visita nel palazzo imperiale.

Quella sera ci sarebbe stato un grande banchetto in onore di chissà quale nobile che voleva l'approvazione di Tiberio per il matrimonio della figlia, dunque lui e Filenia avrebbero potuto appartarsi e parlare con calma, mentre gli adulti si riempivano la pancia con i manicaretti dei cuochi di corte.

Tiberio sarà stato anche paranoico, come sosteneva Hellase, ma non rinunciava mai a partecipare ai sontuosi banchetti che quasi ogni sera si organizzavano nella villa imperiale, soprattutto quando erano altri a pagare le spese. Aveva decine di assaggiatori, ma tutti sapevano che era possibile aggirare il problema e avvelenare comunque qualcuno in maniera letale, se lo si voleva davvero. E dato che lui si credeva il bersaglio continuo di centinaia di complotti, Gaio non capiva come potesse essere così tranquillo, quando si ingozzava di portate una dietro l'altra.

Avrebbe chiesto anche questo a Filenia, mentre lei si spogliava e gli faceva ammirare il suo magnifico corpo, che suscitava strane emozioni dentro di lui e aveva effetti evidenti sui suoi lombi, come non era mai avvenuto quando si intratteneva con i legionari e le prostitute da campo.

 

10

«Che succede, Gaio? Non mi sembri concentrato, oggi.»

Filenia prese il lenzuolo e si coprì il corpo nudo.

«Caligola.»

«Come?»

Gaio si voltò a guardarla accigliato. «Per te sono Caligola, ricordalo.»

«Ma certo» rise la ragazza, passandogli le unghie della mano sul ventre. «Tu sei il mio bel Caligola. Che però non riesce a concentrarsi sulla nostra lezione, oggi.»

Gaio sbuffò e le scostò la mano, tirandosi a sedere sul letto. Era vero, non aveva nessun interesse per le “lezioni” di sesso che Filenia gli impartiva con tanta dedizione. Non quel giorno. Aveva ancora in mente le parole di Seiano e Tiberio, ma non si decideva a parlarne con la ragazza.

Quando l'aveva raggiunta nelle terme e l'aveva convinta a seguirlo nelle sue stanze, lei si era subito spogliata e si era distesa sul letto con aria divertita, forse pensando che lui avesse voglia di approfondire le loro lezioni, ormai diventate vere e proprie esercitazioni in cui Filenia si adoperava per spiegare, con il linguaggio del corpo, cosa si dovesse fare e come muoversi per procurare il massimo piacere a una donna, e riceverne altrettanto.

Ma Gaio aveva altro per la testa. L'aveva lasciata fare per un po', chiedendosi quali implicazioni ci sarebbero state nel rivelare i discorsi di Tiberio e Seiano a quella ragazza, di cui non poteva fidarsi del tutto, nonostante l'amicizia che li legava.

«Allora, mi vuoi dire che cos'hai?» lo sollecitò Filenia.

Gaio la guardò negli occhi neri e grandi come pozze d'acqua e si rese conto che, se si fosse confidato con lei, poi avrebbe avuto più di un'amica, di un'insegnante e di una compagna di letto. Da quel momento Filenia sarebbe diventata qualcosa di diverso, che il suo tutore Hellase, una volta, gli aveva sintetizzato in un'unica, terribile parola: complice.

E non era certo di volersi portare dietro un peso del genere. Non con Filenia.

Allungò la mano, le sorrise e poi si strinse nelle spalle. «Non ho niente» disse. «Però credevo che oggi mi avresti fatto vedere qualcosa di nuovo, di particolare.»

Filenia si appoggiò su un gomito e lo fissò a lungo, con una strana smorfia a metà fra il divertito e il sorpreso. Aveva intuito che c'era ben altro nella sua testa, ma non avrebbe insistito e non avrebbe fatto altre domande.

«Ma certo!» esclamò. «Dimmi tu quello che vuoi fare. Ti sono venute delle idee? Hai delle curiosità da soddisfare?»

«Proprio così» rispose Gaio saltando giù dal letto e andando a frugare sul fondo di un baule in cui erano conservate le sue armi e le sue dotazioni da battaglia. Trovò quello che cercava, avvolto in un panno, e tornò da Filenia con aria sorniona.

«Ieri ho fatto una sortita nella camera da letto di mia madre, e...»

«Tua madre?» lo interruppe Filenia con un sobbalzo. «Gaio, lo sai che è pericoloso! Agrippina non tollera che qualcuno si introduca nelle sue stanze senza il suo permesso.»

Gaio sventolò una mano in aria, liquidando all'istante la faccenda. «Non mi ha visto nessuno, lo sai che sono bravo in questo.»

Filenia sbuffò, scuotendo la testa, e Gaio le mostrò l'involto che teneva in mano.

«Frugando un po' fra le sue cose ho trovato questo» disse, sapendo che la ragazza non avrebbe saputo resistere alla curiosità, anche se quell'oggetto era stato sottratto dalle stanze di Agrippina.

Filenia esitò per un istante, mordendosi le belle labbra, poi capitolò come Gaio si era aspettato.

«Che cos'è?» gli chiese.

«Dall'aspetto me ne sono fatto un'idea» rispose Gaio cominciando ad aprire l'involto, «però mi piacerebbe che tu mi mostrassi... come si usa.»

Quando finalmente ebbe messo in mostra l'oggetto rubato, Filenia si portò una mano alla bocca per soffocare un grido di eccitazione e di sorpresa.

«Credo che mia madre si diverta parecchio, con questo» affermò Gaio porgendo l'oggetto a Filenia, che lo raccolse con due sole dita e lo fissò affascinata. «È uno strumento per procurarsi piacere, vero? O per procurarlo a un'altra donna, immagino.»

Filenia annuì mentre passava un dito lungo tutto l'oggetto, per saggiarne la superficie incredibilmente liscia, che qualche artigiano aveva lavorato per chissà quanti giorni prima di riuscire a ottenere quel risultato.

Si trattava di un pezzo di legno duro, forse ebano, visto il colore scuro e lucido, intagliato e lavorato fino a fargli assumere l'aspetto di un pene maschile di notevoli dimensioni, congelato nel momento di massimo vigore. Era leggermente inarcato all'insù, e aveva persino quelle che sembravano grosse vene in rilievo, che percorrevano tutta l'asta fino al glande, liscio e provvisto di un piccolo foro nel mezzo, per rendere ancora più realistica quella rappresentazione minuziosa di un fallo in erezione.

«Non ne avevo mai visto uno prima d'ora» mormorò Filenia, «anche se ne ho sentito parlare. Molte donne li usano, ma solo quelle che possono permettersi strumenti del genere.»

Gaio inarcò un sopracciglio. «Be', mia madre non ha certo problemi di denaro. Soprattutto se si tratta di soddisfare le sue inesauribili voglie.»

«Gaio!» lo redarguì Filenia. «Non parlare così di tua madre.»

«Ti ho detto di chiamarmi Caligola.»

Lei sorrise e si chinò per sfiorargli la guancia con un bacio. Poi gli mormorò in un orecchio: «Anche se non ho mai visto usare uno di questi affari, credo di sapere come funziona. Vuoi vederlo all'opera?».

Gaio si sentì attraversare da una scossa di eccitazione, e qualcosa si mosse fra i suoi lombi. Ma non tanto al pensiero che presto avrebbe visto Filenia adagiata sul letto a gambe aperte, mentre si procurava piacere con quel pezzo di legno, quanto all'idea che quel fallo d'ebano fosse stato usato da sua madre, magari durante una delle orge che organizzava con i suoi schiavi più fidati.

Adesso con Filenia avrebbe cercato di capire come funzionava e come riusciva a procurare piacere a una donna, ma da quella sera stessa, dopo averlo riportato in camera di sua madre, si sarebbe organizzato per cercare di sorprendere Agrippina mentre lo utilizzava nelle sue sedute amorose.

Nel frattempo avrebbe meditato sulle parole di Tiberio e Seiano che aveva colto quel giorno e avrebbe cercato di comprenderle da solo. Qualcosa gli diceva che sarebbe stato meglio per lui non parlarne con nessuno.

Per la sicurezza della sua famiglia, ma soprattutto per la sua.

 

11

C'era grande eccitazione nella villa che Agrippina aveva ereditato da Germanico, che a sua volta l'aveva avuta da sua madre Antonia e che era stata fatta costruire da Marco Antonio, il loro avo più discusso e di cui era proibito parlare in presenza dell'imperatore o di altri membri della corte reale.

Gaio la percepiva nell'aria. Vedeva tutti affannarsi come api impazzite, e ben presto fu costretto a interrompere l'esercitazione con il gladio che stava conducendo da solo nel peristilium per accorrere ai richiami che sentiva echeggiare lungo i corridoi e i colonnati.

«Che succede?» chiese a sua sorella Agrippina quando la incrociò in uno degli androni, insieme a due schiave che si guardavano attorno spaventate.

«Non lo so» rispose lei stringendosi nelle spalle. Altezzosa come una regina, nonostante i suoi otto anni, la sorella non sembrava né particolarmente preoccupata né incuriosita dal trambusto scoppiato in casa.

«Dov'è Drusilla?» le chiese Gaio guardandosi attorno.

«Perché sei sempre preoccupato per quella bambinetta?» sbuffò Agrippina, arricciando le sopracciglia in un modo che sembrava avere ereditato da sua madre e che inquietava sempre Gaio. «Comunque l'ho vista andare nel tablinum. Pare che si stiano radunando tutti là.»

«Tutti chi?» chiese sorpreso Gaio avviandosi con lei: era chiaro che anche Agrippina si stesse dirigendo verso il grande studio che era stato di Germanico.

«Ci sono già Nerone Cesare e Druso» rispose la sorella, «e nostra madre, naturalmente.»

«Una riunione di famiglia?» chiese sconcertato Gaio, che durante le sue sortite segrete in tutta la casa non aveva mai sentito nulla che si potesse collegare a quel fatto. «Per quale motivo?»

«Andiamo là e lo scopriremo» rispose piccata Agrippina svoltando nel corridoio e imboccando l'ingresso del tablinum come una donna già fatta e finita, mentre le sue schiave si fermavano con gli altri servi di palazzo che si erano riuniti in disparte, concentrati in un fitto conciliabolo.

Mentre raggiungeva gli altri nella sala, Gaio si sentì imporporare le guance per la rabbia. Se non avesse incontrato sua sorella non avrebbe saputo di quella riunione, che forse si sarebbe svolta senza di lui.

Si guardò attorno con astio. Oltre ai suoi parenti c'era anche uno dei liberti più cari a sua madre, Cerasio, che li scrutava tutti con aria severa, pur tenendosi leggermente in disparte.

Hanno convocato anche estranei alla famiglia, ma nessuno ha avvertito me!, pensò Gaio con rabbia mentre raggiungeva la piccola Drusilla che, come lo vide, gli sorrise e corse ad abbracciarlo. In quella casa lei era la sola che sembrava ricordarsi della sua esistenza. Anche se era la più piccola, Gaio le fu grato per il calore che emanava e che gli arrivava al cuore ogni volta che se la trovava vicino.

«Bene, mi sembra che ci siano tutti» esordì ad alta voce Cerasio rivolgendosi ad Agrippina Maggiore, ma facendo in modo che tutti capissero che dovevano fare silenzio.

Gaio scrutò il liberto e cercò di ricordare tutto quello che aveva scoperto su quell'uomo piccolo e dall'aria meschina, ma che nascondeva una furbizia e un'intraprendenza sorprendenti. Sapeva che era lui a procurare gli uomini e le donne che affollavano il letto di sua madre, diversi ogni notte a parte un paio di centurioni che Agrippina incontrava con una certa costanza. E sapeva che era Cerasio ad amministrare il patrimonio di famiglia, seppure sempre sotto l'occhio vigile di altri due liberti e della stessa padrona di casa. E naturalmente sapeva quali fossero le tendenze sessuali del liberto, visto che l'aveva sorpreso più di una volta in atteggiamento a dir poco licenzioso con diversi schiavi molto giovani e con i figli gemelli di uno dei tribuni del pretorio che l'imperatore aveva assegnato alla custodia della loro casa, non sapeva se per garantire loro la necessaria sicurezza o per tenerli d'occhio.

«Grazie per essere venuti» esordì Agrippina con la sua voce calda e morbida, che suscitava in Gaio sensazioni contrastanti. Da una parte gli ricordava il periodo in cui era stato in Germania e poi in Asia insieme al padre, quando Agrippina era stata una madre amorevole e piena di attenzioni verso di lui, unico figlio ad averli seguiti in giro per il mondo; dall'altra capiva che quello era il tono suadente con cui lei cercava di ammaliare le persone per poi imporre la propria volontà.

«È accaduto un fatto grave» continuò la madre dopo aver fatto scorrere lo sguardo su ciascuno di loro. «Il figlio dell'imperatore è morto. Forse a causa degli eccessi a cui si abbandonava. O forse per volere degli dei.»

Quindi tacque e lasciò che quella notizia penetrasse nei presenti con tutta la forza che l'espressione del suo viso sottendeva.

Gaio, che era rimasto a guardarla a bocca aperta, cercò di pensare velocemente. Che cosa comportava, questo? Cosa sarebbe successo, adesso? E chi aveva ucciso Druso? Era chiaro che sua madre aveva voluto alludere a questo, quando aveva accennato all'intervento degli dei.

Fu Nerone Cesare a intervenire, il più anziano fra tutti i suoi fratelli, che dall'alto dei suoi diciassette anni poteva comportarsi come un adulto, e forse aveva ben chiaro il quadro della situazione.

«Direi che è una buona cosa, per la nostra famiglia» affermò, suscitando un sorriso di compiacimento sulle labbra di Agrippina Maggiore. «Anche se forse dovremmo cercare di capire chi ha ucciso l'erede di Tiberio, e perché.»

«Mi sembra facile immaginarlo» intervenne Druso Cesare con aria quasi annoiata, rispondendo al fratello. «Tiberio non si fida nemmeno più della sua ombra. Lo avrà fatto avvelenare da Seiano per non avere più rivali.»

Gaio ricordò quello che aveva sentito durante il colloquio fra l'imperatore e il prefetto del Pretorio. Druso Cesare aveva ragione.

«Se è così» si intromise Cerasio dopo aver dato un'occhiata ad Agrippina e aver ottenuto il suo consenso a parlare, «allora anche voi, miei nobili signori, siete in pericolo.»

Per un istante vi fu silenzio, mentre tutti si scambiavano sguardi incerti, finché Agrippina sollevò le braccia e aprì un sorriso radioso.

«Cerasio avrebbe dovuto fare teatro» disse, stemperando un po' la tensione che si era generata. «Non corriamo nessun pericolo, anche se non dobbiamo sottovalutare la possibilità che sia stato Tiberio a sbarazzarsi di suo figlio.»

«Se ha ucciso lui, perché dovrebbe esitare a uccidere anche noi, adesso che siamo l'unica famiglia che può ambire alla successione al trono?»

A parlare era stata Agrippina Minore, con la sua vocina da bambina già temprata da un carattere forte e deciso, che non aveva certo timore di mostrarsi anche in quel contesto.

«Perché gli dei e tutta Roma ci proteggeranno» rispose la madre, assumendo un'espressione molto simile a quella della figlia. «E noi stessi, naturalmente.»

«Se è così, forse dovresti cercare di essere un po' più morbida e accomodante nei confronti di Seiano, cara madre» osservò Druso con un mezzo sogghigno sulle labbra. «Non è forse lui il braccio armato di Tiberio? Continuare a respingerlo potrebbe essere uno sbaglio, vista la situazione.»

Agrippina lo fissò accigliata per qualche istante, poi la sua espressione si rilassò. «Seiano non sarà un problema. Voi pensate a muovervi con astuzia nella Curia, consapevoli del ruolo che vi spetta, adesso che il figlio dell'imperatore è morto.»

«Quale ruolo?» chiese aspro Nerone.

«Il prefetto del Pretorio non ha sangue reale nelle vene, non potrà mai essere imperatore» rispose Agrippina facendo un cenno a Cerasio e uscendo con lui dal tablinum, dopo aver passato una mano sul viso del figlio maggiore. «Ma tu sì.»

Quando la madre fu scomparsa, Nerone Cesare e Druso si immersero in una discussione fatta di grida, grugniti e discorsi che a Gaio parvero incomprensibili, così decise di salutare Drusilla stringendosela ancora al petto e uscì dal tablinum, ignorato da tutti.

Era chiaro che Agrippina non aveva detto tutto quello che sapeva. Voleva saperne di più, avere chiara la situazione per decidere come comportarsi nel caso in cui Cerasio avesse avuto ragione e le loro vite fossero davvero state in pericolo. E sapeva come fare. Aveva visto aggirarsi per casa Lemurico, il centurione namibiano con cui sua madre passava molto del suo tempo libero, e non aveva dubbi che adesso lei fosse corsa tra le sue braccia per discutere con una persona fidata le mosse da mettere in campo per opporsi alle strategie di Tiberio, o del potentissimo Seiano.

Aveva appena svoltato in uno dei corridoi che conducevano alle stanze di Agrippina, quando si sentì afferrare per la collottola.

«E tu dove credi di andare?»

Le dita che lo tenevano per la veste avevano una forza prodigiosa, perché riuscirono a sollevarlo abbastanza da costringerlo a staccare i piedi da terra.

«Sono... Caligola...» balbettò, mentre la tunica gli stringeva la gola, rischiando di soffocarlo.

D'un tratto la morsa si attenuò, e Gaio ripiombò a terra. Boccheggiò e tossì, mentre l'aria gli rifluiva nei polmoni.

«Lo so bene chi sei» affermò l'uomo. «Ti ho chiesto dove credevi di andare.»

Tenendosi la gola, Gaio lo sbirciò da sotto in su, trattenendosi dal trasalire per la sorpresa. Era Lemurico, il volto così nero da confondersi con le tenebre che lo avvolgevano. Solo il bianco degli occhi risaltava, dando l'impressione di trovarsi davanti a un demone oscuro uscito dagli abissi dell'Averno.

«Volevo chiedere una cosa a mia madre» rispose Gaio, cercando di riprendere un po' di dignità. In fondo il centurione gli doveva obbedienza: lui era il figlio della padrona di casa, e Lemurico lo sapeva bene. Anche se non capiva come mai fosse lì, appostato nel corridoio, e non fra le braccia di sua madre.

«Agrippina non è qui» disse il centurione fissandolo con sospetto. «La sto aspettando anch'io, ma non l'ho vista.»

Gaio cercò di trattenere la sorpresa. Dove poteva essere andata? Perché non era corsa dal suo amante namibiano?

«Va bene» disse. «Allora torno nelle mie stanze. Le parlerò dopo.»

Fece per allontanarsi, ma una mano nera come la notte si allungò e lo fermò ancora, stringendogli così forte una spalla da costringerlo a gemere per il dolore.

«Io so perché sei venuto» sibilò Lemurico obbligandolo a voltarsi e guardandolo fisso negli occhi. Aveva sul volto una smorfia così minacciosa che Gaio si sentì sommergere dal panico. «Non è la prima volta che ci spii, vero?»

«Non so di cosa parli, io...» provò a dire, ma Lemurico si piegò su di lui e avvicinò il viso a meno di una spanna dal suo.

«Ti ho visto, più di una volta. Non ho detto nulla a tua madre perché lei potrebbe reagire molto peggio di quanto posso fare io, ma è ora di spiegarti che devi piantarla. Il tuo è un gioco pericoloso.»

In preda al panico, Gaio cercò di interpretare le parole del centurione, che non smetteva di fissarlo come se volesse incenerirlo grazie a un potere magico scaturito direttamente dagli inferi da cui era uscito.

Lui lo aveva visto! Una cosa gravissima, che mai aveva creduto potesse succedere. E più di una volta, persino. Com'era possibile? E che cosa pensava, adesso, di lui e delle sue scorrerie?

Non ho detto nulla a tua madre...

Perché Lemurico aveva taciuto?

«Tu non sei come tuo padre aveva sperato» disse il centurione, raddrizzandosi in tutta la sua statura. Il namibiano era un gigante, lo sovrastava con tutta la testa e buona parte del petto. «Voleva fare di te un guerriero, ma è morto troppo presto.»

Detto questo, fece una smorfia di disprezzo che riempì Gaio di vergogna, poi gli puntò contro un dito enorme e aggiunse: «Non farti più vedere da queste parti in mia presenza. La prossima volta non sarò così tollerante».

Gaio restò a guardarlo per un istante, sentendo agitarsi dentro sensazioni contrastanti. Aveva paura di quell'uomo, perché sapeva quanto fosse forte e valoroso in combattimento; e provava vergogna per il fatto di essere stato colto in fallo, come un bambino durante uno stupido gioco. Solo che lui non era più un bambino, e il suo non era un gioco.

Per questo provava anche rabbia, una furia sorda e cieca. Non poteva certo farsi mettere i piedi in testa dall'amante di sua madre. Un uomo, per di più, che disonorava il ricordo di suo padre, che pure lo aveva ammirato, infilandosi nel letto di Agrippina. Forse lo faceva già prima che Germanico morisse. Ne aveva sempre avuto il sospetto, mai la prova certa.

«Va bene» disse, tornando all'improvviso calmo. «Non lo farò più.»

Si voltò e si allontanò a testa china verso le sue stanze. E intanto pensava al momento migliore per agire.

 

12

Mentre attraversava le strette viuzze del Castro Pretorio, diretto alle baracche di Flavio e Aurelio, Gaio era eccitato, ma anche stranamente calmo. Ci aveva messo poco a decidere la mossa giusta da fare. Non poteva correre il rischio che Lemurico raccontasse ad Agrippina ciò che sapeva su di lui, e al tempo stesso non voleva rintanarsi in un angolo e restare fuori dai giochi. Era convinto di avere una parte importante nella storia della sua famiglia e di Roma. Se nessuno gli dava credito, allora era pronto a scovare da solo le informazioni che gli servivano, e a usarle per la sua sicurezza. E forse anche per ottenere quel riscatto che anno dopo anno gli sembrava sempre più doveroso nei confronti dei loro avi e degli dei che vegliavano sulla dinastia Giulio-Claudia, a cui lui apparteneva di diritto.

Era stato con suo padre ai confini dell'impero, si era addestrato con le truppe, aveva visto come combattevano e morivano i soldati romani. Lui solo, fra tutti i membri della sua famiglia, e questo voleva pur dire qualcosa. Se Germanico aveva voluto solo lui al suo fianco, fin da quando aveva solo quattro anni, era perché aveva visto nei suoi occhi la stessa forza e la stessa determinazione che facevano del padre il grande guerriero che tutti ancora ricordavano.

Strinse i pugni per la rabbia. Allora perché, dopo la morte di Germanico, lo avevano messo in disparte? Perché nessuno gli confidava mai niente, costringendolo a strisciare nei corridoi e nelle tubature del riscaldamento delle ville sul Palatino per scoprire quello che i potenti e i suoi familiari stavano complottando per mettere le mani sul potere supremo?

Non era giusto venire estromesso così dalla lotta per la conquista del trono, perciò da tempo aveva deciso di muoversi da solo per proteggere la sua famiglia ma soprattutto se stesso.

Quasi ogni giorno venivano consegnate all'imperatore denunce di tradimento che si risolvevano in veloci processi e sommarie esecuzioni. Nessuno era al sicuro, Gaio lo aveva appreso da tempo, anche grazie agli insegnamenti dei suoi tutori e soprattutto a ciò che aveva sentito dall'enigmatico ma scaltro Seneca. Aveva compreso che per muoversi nel modo migliore fra quei palazzi, fra quelle persone che si guardavano in cagnesco pronte a denunciarsi a vicenda senza scrupoli, occorreva saper diventare invisibili e manovrare in disparte, sfruttando ciò che si veniva a sapere a proprio uso e consumo.

Ma doveva evitare il rischio di farsi scoprire, e Lemurico adesso era diventato la sua priorità.

Mentre entrava nella baracca di Flavio e Aurelio, ebbe la certezza di non avere alternative. Doveva eliminare il namibiano, ma non poteva farlo da solo, anche se questo avrebbe significato portare altre persone nel difficile campo di battaglia su cui si stava muovendo, solitario e in perfetto silenzio.

«Siete soli?» chiese dopo essersi guardato intorno e aver verificato che non ci fosse nessun altro nella baracca.

Flavio sorrise e allargò le braccia. «Tu che dici? Hai scrutato in ogni angolo, mi pare!»

Aurelio, stravaccato sul suo giaciglio con una brocca di vino in mano, la barba e le vesti che puzzavano, si tirò su a fatica e lo guardò in cagnesco.

«Se siamo soli è per colpa tua, mio prode Caligola» biascicò. Era ubriaco fradicio, come al solito.

Gaio fu costretto a respirare con la bocca per non avvertire il lezzo di orina e vino rancido che proveniva da ciò che era rimasto del legionario che gli aveva insegnato a combattere e a tirare con il gladio.

Da quando era riuscito a far arruolare quei due nella Guardia pretoria, anziché esaltarsi per il ruolo di prestigio che avevano ottenuto, Flavio e Aurelio avevano preferito restarsene nella loro baracca a bere vino e consumarsi fra le gambe delle schiave che lui gli procurava. Tutte molto giovani e carine. Come giovanissimi erano alcuni schiavi che Flavio richiedeva ogni tanto, esprimendo le sue preferenze per l'armonia solida e grezza del corpo maschile, seppure ancora non perfettamente formato. Di tanto in tanto ci provava anche con lui, ma Gaio aveva capito da tempo di non avere alcun interesse per il grasso soldato con i capelli sempre più radi e il ventre prominente. Era stato al gioco finché ne aveva ricevuto un tornaconto, ma adesso quei due erano in debito con lui e non avevano più nulla da pretendere.

Però, ecco che all'improvviso gli potevano risultare utili. Era certo che, nonostante quello che avrebbe chiesto loro, non avrebbero mai aperto bocca con nessuno, mantenendo il suo segreto. Fra loro tre c'era un patto che ormai si era fatto così stretto e inestricabile che solo la morte avrebbe potuto spezzarlo.

«Vi ho procurato due schiave proprio ieri. Non vi sono bastate?» disse spostandosi verso Flavio, che sembrava puzzare un po' meno.

«Erano troppo vecchie» si lamentò Aurelio con un rigurgito, tornando a crollare sul giaciglio.

«La prossima volta farò meglio» promise Gaio. «Ve ne farò arrivare quattro o cinque fra le più giovani e inesperte della mia domus.» Guardò Flavio. «E anche un nuovo schiavo di sette anni che mi è stato affidato da mia madre, pronto a capire quanto è affilato il tuo gladio.»

I due pretoriani si scambiarono un'occhiata, poi fissarono Gaio con sospetto.

«Che cosa dobbiamo fare per un regalo del genere?» chiese Flavio.

«Lemurico» rispose lui.

«Il namibiano?» Aurelio scoppiò a ridere. «Quello crede di essere l'imperatore solo perché se la fa con tua madre.»

«Tu come fai a saperlo?» chiese accigliato Gaio.

«Ne parlano tutti» rispose Flavio stringendosi nelle spalle. «E Lemurico non fa niente per smentire le voci, perché giovano al suo prestigio.»

«Vuole fare carriera, quello scimmione» grugnì Aurelio. «E pensare che nel suo paese starebbe a spulciarsi sugli alberi insieme alla sua gente. Io li ho visti, nelle campagne d'Africa.»

«Lemurico è un centurione dei pretoriani, adesso» gli ricordò Gaio. «Ed è pericoloso.»

Flavio si sporse verso di lui. «Dicci che cosa hai in mente.»

«Dovete ucciderlo» rispose senza esitazioni Gaio.

Vi fu un attimo di silenzio, poi Flavio scosse la testa, mentre Aurelio beveva un lungo sorso di vino.

«Non staremo a chiederti perché lo vuoi morto» disse Flavio. «Ci basta che ci prometti una cosa.»

Gaio annuì. «Nessuno saprà niente di voi. Lo faremo insieme e io vi coprirò.»

Aurelio scoppiò a ridere. «Magnifico!» gridò, sputando bava e vino nero. «Protetti da un ragazzino che non conta un accidenti, nella sua famiglia!»

Gaio fece per scattare contro il pretoriano, ma Flavio allungò una mano e lo fermò.

«Fa sempre così quando beve, lo sai. Tu procuraci gli schiavi di cui ci hai parlato, e magari una borsa piena d'oro, e noi sistemeremo Lemurico.»

«Voglio esserci anch'io.»

«Scordatelo» rispose Flavio, più duro del solito. «Lascia fare a noi. Il tuo coinvolgimento potrebbe essere pericoloso. Per tutti.»

Gaio lo guardò a lungo negli occhi, poi trattenendo la rabbia annuì e a labbra strette corse fuori dalla baracca, maledicendo per l'ennesima volta la sua giovane età e l'assurda posizione in cui si trovava.

Quando ricevette il messaggio, vergato su una corteccia d'albero, Gaio lesse le indicazioni, poi gettò il pezzo di legno nel braciere che riscaldava la sua stanza e corse fuori. Raggiunse il luogo convenuto per l'incontro correndo come mai aveva fatto in vita sua e, continuando a guardarsi attorno per vedere se qualcuno lo stesse seguendo, s'infilò nel vicolo maleodorante dell'Insula Emilia in cui Flavio e Aurelio lo stavano aspettando.

Li vide subito, appoggiati contro le pareti malconce di una casa, i calzari immersi in un pastone fangoso di terra, acqua ed escrementi gettati fuori dalle finestre dei palazzi alti tre piani, che sembravano restare in piedi solo grazie a qualche intervento divino.

«Dov'è?» chiese subito ai due, boccheggiando per riprendere fiato.

«Nel cubicolo in cui lo abbiamo sorpreso» rispose Flavio, osservandolo divertito.

«Che ci faceva in questo... posto?»

Aurelio sghignazzò. «Credi che tua madre sia più brava a letto delle baldracche delle insulae?» Scosse la testa. «È solo più bella e profumata, ma non farà mai a un uomo le cose che queste donne sono disposte a concedere per denaro.»

Gaio lo fissò senza capire, ma per il momento non era questo che gli interessava. Si guardò ancora alle spalle, poi incalzò i due con una certa apprensione.

«Fatemi vedere il corpo» domandò. Aveva chiesto la prova che Lemurico fosse davvero morto, forse non solo perché non si fidava di quei due, ma perché si trovava a una svolta cruciale della sua vita: per la prima volta, anziché limitarsi ad ascoltare, agiva in nome della propria sicurezza. E lo faceva eliminando un uomo che era a stretto contatto con sua madre, il che rendeva estremamente pericolosa e avventata quella decisione.

Ma ormai era tardi. Dopo essersi accertato che quei due non gli avessero combinato qualche brutto scherzo, sarebbe tornato a casa per rintanarsi nelle sue amate ombre e capire come avrebbe reagito Agrippina, quando avesse saputo che il suo Lemurico era stato ucciso, per di più in uno squallido lupanare di periferia.

«Abbiamo una sorpresa per te» disse Flavio, facendogli segno di entrare da una porticina che non aveva notato, occultata dal corpo del pretoriano.

«Di che si tratta?» volle sapere Gaio inoltrandosi nell'edificio.

«Oh, lo vedrai» ridacchiò Flavio, mentre Aurelio, alle loro spalle, emetteva un sonoro rutto, entrava a sua volta nel locale buio e richiudeva la porta.

Il braciere ci mise un po' di tempo ad accendersi e a diffondere una pallida luminescenza. Si trovavano in una specie di magazzino in cui erano accatastati sacchi e casse di vario tipo. Un terribile odore di muffa e di marcio permeava il locale.

Solo quando le fiamme cominciarono a guizzare con maggior vigore Gaio riuscì a scorgere il corpo rovesciato a terra, la schiena appoggiata a una delle cataste di sacchi e la testa reclinata di lato.

Lemurico era nudo. Non gli fu difficile riconoscerlo, anche se con la debole luce la sua pelle nera non emanava riflessi e si confondeva con le tenebre del locale.

Gaio si avvicinò piano, trattenendo il respiro. Non era certo il primo cadavere che vedeva, ma l'idea di essere stato lui a ordinare quella morte gli faceva uno strano effetto, un misto di esaltazione e di vergogna.

Arrivato a un passo dal namibiano, restò impressionato dalla muscolatura possente di quel guerriero, che Germanico considerava un formidabile avversario per chiunque.

«Come avete fatto a...»

«Ci stava dando dentro con una nostra vecchia conoscenza» ridacchiò Aurelio. «Lo abbiamo colto di sorpresa.»

«È stato più facile del previsto» ammise Flavio.

Gaio si voltò a guardarlo. «Hai parlato di una sorpresa» disse. «Quale sarebbe?»

Il pretoriano sghignazzò. «Non te ne sei ancora accorto?»

Gaio si accigliò. Non capiva di cosa stesse parlando. Si voltò di nuovo verso Lemurico, e in quel momento il centurione si mosse, spostando la testa verso di lui.

Gaio balzò all'indietro spaventato, mentre Aurelio scoppiava a ridere.

«Tranquillo, non può muoversi» lo rassicurò Flavio. «Gli abbiamo spezzato gambe e braccia.»

«Ma è ancora vivo» mormorò Gaio con un filo di voce, il cuore che gli rintronava nel petto.

«Certo, è questa la sorpresa» fece Flavio avanzando di un passo e porgendogli un coltello. «Abbiamo pensato di lasciare a te l'onore.»

Gaio guardò prima il coltello, poi Flavio, quindi ancora l'arma luccicante che raccoglieva il bagliore delle fiamme e sembrava sorridergli. Lentamente, con mano tremante, la prese e la soppesò.

«Non so se hai mai ucciso qualcuno» lo incalzò Flavio, «ma se non l'hai ancora fatto, sarà un onore per te iniziare con un possente guerriero come Lemurico.»

Con le gambe tremanti Gaio si avvicinò al centurione e osservò il corpo muscoloso, scuro come la notte. Che cosa avrebbe pensato, suo padre, di quell'omicidio? Quale onore poteva esserci nell'uccisione di un uomo a cui erano state spezzate gambe e braccia per renderlo inerme?

Si voltò a guardare i due pretoriani, che lo fissavano divertiti. Non c'era nessun onore nell'avere ordinato di eliminare un uomo solo perché poteva mettere a rischio la sua incolumità. E nemmeno nel fatto stesso di combattere una battaglia nei palazzi sul Palatino, senza gladi ma solo con l'intenzione di spiare tutti per venire a sapere cose che avrebbe sfruttato a suo vantaggio. Niente a che vedere con le battaglie di un esercito, con le campagne di guerra guidate da suo padre, con il sangue versato con onore, come aveva sempre immaginato che dovesse essere. Del resto a Roma gli eserciti non potevano entrare, e le battaglie più feroci non si consumavano a colpi di gladio, ma con gli intrighi di palazzo. La politica era uno strumento più forte e devastante di qualsiasi codice d'onore militare.

Prese un lungo respiro e strinse con forza l'impugnatura del coltello. Vide Lemurico muovere ancora leggermente la testa. Allora scattò in avanti come gli avevano insegnato Flavio e Aurelio.

La lama affondò nel petto del centurione, che sussultò e boccheggiò, sputò un grumo di sangue e si accasciò, mentre Gaio ritraeva il coltello dopo avergli impresso una torsione con il polso.

Lemurico giaceva morto ai suoi piedi. Lo aveva ucciso lui. Il primo uomo a cui toglieva la vita.

Con uno strano senso di disagio, Gaio avvertì di non provare alcuna emozione. Non era dispiaciuto per il namibiano, non si disprezzava per quello che aveva fatto, e non provava nemmeno quel senso di euforia che, immaginava, coglieva chiunque togliesse la vita a un nemico.

Ma questo, forse, accadeva in guerra. Non lì, in quel magazzino situato in uno dei quartieri più degradati di Roma.

«Ci pensiamo noi a far sparire il corpo» disse Flavio, facendolo sussultare per la sorpresa.

Si era dimenticato di non essere solo.

«Va bene» disse, voltandosi e porgendo il coltello sporco di sangue a Flavio. «Vi farò avere i vostri schiavi oggi stesso. E il denaro.»

Senza aggiungere altro uscì da quell'antro puzzolente, che gli aveva fatto venire la nausea.

Una volta fuori, si appoggiò alla parete dell'edificio, ma non riuscì nemmeno a vomitare.

Quando si tirò su, respirò a pieni polmoni e si sentì pronto a tornare a casa, alla sua solita vita, ma con una consapevolezza in più. Niente sarebbe riuscito a fermarlo. Lui era Caligola, un guerriero che presto avrebbe calcato le orme del padre.

Doveva solo restare vivo fino a quando non fosse arrivato il momento di far capire a Roma chi era davvero.