CAPITOLO PRIMO
Selva di Teutoburgo, Germania
17 d.C. - 770 ab Urbe Condita
Caligola non ha ancora cinque anni
1
«Guarda questa terra, Gaio. Vedi come è grassa e rigogliosa, sotto lo strato di foglie? Sai perché è così, anche se in questa foresta il sole non attraversa quasi mai le chiome degli alberi?»
Il bambino sollevò il naso verso l'alto e osservò l'intrico vegetale che li sovrastava, così fitto da stendere un manto d'ombra perenne sul vasto sottobosco, rendendolo ancora più cupo e spaventoso. C'era uno strano odore nell'aria, che Gaio Giulio Cesare Germanico non riusciva a identificare, ma era sicuro avesse a che fare con le domande del padre.
Restò a pensarci per un po', ma era distratto dai suoni dei misteriosi animali che popolavano la foresta e dal fragore dei legionari in marcia. Si strinse nelle spalle ossute.
«No» confessò. «Non lo so.»
Il padre lo fissò con una strana espressione, che Gaio gli aveva visto solo quando era molto preoccupato o, peggio, quando era pronto a sgridarlo. Poi aprì un mezzo sorriso, addolcendo il viso spigoloso, dai tratti forti e decisi, che riusciva a intimorire chiunque fosse costretto ad affrontarlo.
Tranne la mamma, pensò Gaio. Agrippina era la sola che sapesse mettere in difficoltà il grande Germanico, comandante delle legioni romane sul Reno, temuto dai suoi nemici e amato dai legionari, che avrebbero dato la vita per lui.
«È importante che tu lo sappia» continuò il padre, posandogli una mano sulla testa e scompigliandogli i capelli. «Se vuoi diventare un guerriero forte e rispettato dai compagni, un valido generale capace di guidare gli uomini in battaglia, allora devi conoscere le ferite che ancora insanguinano Roma.»
Gaio sgranò gli occhi, sorpreso. Non credeva che si trattasse di una cosa così importante. Tornò a guardarsi attorno nella penombra, ma non vide nulla. Indispettito, diede un calcio al terreno con una delle caligae che calzava fin dal giorno in cui sua madre, per gioco, gliele aveva fatte indossare, anche se quelle calzature militari erano enormi e lo impacciavano nei movimenti, quindi sollevò uno sguardo mesto sul padre.
Ma Germanico non lo stava guardando. Si era eretto in tutta la sua statura, e la sua figura imponente era rivolta verso nord, là dove la foresta di Teutoburgo si faceva più fitta e impenetrabile. Dietro di loro le legioni al comando di suo padre marciavano a ranghi serrati. Il terreno vibrava sotto i piedi di Gaio, trasmettendogli quel senso di forza e di sicurezza che lo aveva sempre accompagnato nei viaggi con i genitori in quelle terre barbariche.
«Se affondi le mani nel terreno, vedrai che è molto scuro e che i vermi brulicano, cibandosi del sangue di cui è impregnato.»
Germanico aveva parlato a voce bassa, ma lui era riuscito a sentirlo benissimo. Eccitato si piegò verso il basso e, senza avere il coraggio di toccare lo strato di foglie che formava un mantello perenne sulla selvaggia terra di Germania, cercò di riconoscere il sangue di cui aveva parlato suo padre.
«Se lo annusi, se lo assaggi, capirai che si tratta di sangue romano» continuò Germanico con voce grave. «Qui sono morte migliaia di soldati, massacrati dai barbari guidati da Arminio. Tre intere legioni, comprese sei coorti di fanteria e tre ali di cavalleria ausiliaria, sono state annientate in questa foresta. In soli tre giorni sono morti più di quindicimila legionari, compreso il loro comandante, il valoroso Publio Quintilio Varo.» Fece una breve pausa, durante la quale Gaio cercò di immaginare come dovessero apparire quindicimila soldati massacrati e ammassati sul terreno, poi continuò, voltando lo sguardo su di lui: «I superstiti vennero quasi tutti sacrificati alle divinità delle tribù barbare che ci hanno sconfitto».
Gaio si sentì inondare dalla rabbia e dall'indignazione. «Tu li hai vendicati, vero padre?»
Prima di rispondere Germanico esitò un istante, poi gli scompigliò ancora i capelli con una mossa fin troppo rude, che quasi lo fece cadere a terra.
«Sono tornato qui qualche anno fa, grazie alle indicazioni dei pochi scampati al massacro, e abbiamo recuperato ciò che restava dei nostri uomini.» Fece un sospiro, e tornò a guardare nell'intrico della vegetazione. «Non hai idea di quello che abbiamo trovato. Ovunque c'erano mucchi di ossa spolpate dagli animali della foresta, e sui tronchi degli alberi erano state inchiodate le teste di centinaia di legionari, che ormai giacevano come teschi scarnificati. E poi... poi c'erano gli altari.»
Si interruppe di nuovo, e Gaio trattenne il fiato. Anziché chiedere al padre di continuare, sentendo che non sarebbe riuscito a parlare, gli afferrò un lembo della veste e tirò un paio di volte.
Germanico parve riscuotersi e lo guardò accigliato, poi continuò: «Avevano eretto dei rozzi altari di pietra e legna, su cui avevano sacrificato ai loro dei i nostri tribuni e tutti i centurioni su cui erano riusciti a mettere le mani. Un monito per le legioni di Roma e per i loro comandanti».
Gaio strinse i pugni. «Dobbiamo vendicarli!» gridò.
«Tu non farai proprio niente» intervenne una voce alle loro spalle, e Gaio sussultò per la sorpresa. Si voltò e corse incontro alla madre, che era scesa dalla portantina e si era avvicinata a passo felpato, tanto che lui non l'aveva nemmeno sentita. O forse era stato così preso dal racconto del padre che non si sarebbe accorto nemmeno se lei l'avesse preso fra le braccia e sbaciucchiato sul collo, come faceva fin troppo spesso per i suoi gusti.
«Qui c'è il sangue dei legionari, quelli da vendicare, tutti!» esclamò rischiando di inciampare nelle caligae.
Agrippina lo afferrò al volo prima che finisse con la faccia tra le foglie umide del sottobosco. E impregnate di sangue!
«Tuo padre è qui per questo, e stai sicuro che sa fare bene il suo lavoro» lo tranquillizzò lei, sollevandolo in braccio e fissando Germanico con una strana espressione.
«Era giusto che sapesse» si limitò a dire il padre, sostenendo lo sguardo della moglie.
Lei non rispose nulla, finché la sua espressione si addolcì e le sue labbra scesero verso il collo lungo ed esile di Gaio.
«Basta baci!» protestò lui allontanandola e guardandosi attorno per capire se qualche soldato li avesse visti. Si vergognava di quelle effusioni, che lo facevano apparire ridicolo di fronte ai legionari.
«Indossi ancora le caligae?» gli chiese la madre osservando gli enormi calzari che aveva ai piedi. «Non rischi di inciampare?»
«No!» ribatté lui, dibattendosi finché Agrippina non lo rimise a terra. «Io sono un soldato! Come papà!»
Restò a fronteggiare i genitori pronto a dare battaglia, mentre l'odore del sangue dei legionari che erano caduti in quella foresta gli riempiva le narici, adesso sì forte e ben percepibile.
Agrippina e Germanico si scambiarono un'occhiata, poi scoppiarono a ridere, e Gaio si sentì arrossire fino alla radice dei capelli.
Colmo di rabbia e di vergogna scappò via, barcollando sulle caligae troppo grandi e deciso a nascondersi per sempre nel fitto della foresta, dove avrebbe dato la caccia ai barbari di Arminio uccidendoli a uno a uno, fino a quando vendetta non fosse compiuta.
2
«Ehi, Caligola! La sai maneggiare una spada?»
Gaio gonfiò il petto e strinse i denti, cercando di assumere la posa minacciosa che aveva provato mille volte davanti al grande specchio di ottone di sua madre. Avrebbe anche voluto sollevarsi sulle punte dei piedi per sembrare più alto, ma non poteva farlo con quei due che lo fissavano ridacchiando.
«Perché mi chiamate così?» chiese.
«Ma è un onore che ti facciamo» rispose uno dei due legionari, raggiungendolo e circondandogli le spalle con un braccio. «Mica tutti i ragazzini possono indossare le scarpe dei soldati, cosa credi.»
«È vero» aggiunse l'altro. «E poi ognuno di noi ha un nome di battaglia. Tu ce ne hai uno?»
Gaio scosse la testa, rendendosi conto che il legionario aveva ragione. Non aveva mai pensato di cercarsi un nome di battaglia, tutti ce l'avevano.
«Allora perché non Caligola?» propose il primo dei due legionari. «Suona bene, fa pensare a un vero guerriero!»
«Ma certo, Caligola!» approvò l'altro. «Sarai ricordato come il più giovane legionario della storia di Roma!»
Gaio gonfiò ancora di più il petto, questa volta per l'orgoglio, e fissò le enormi caligae che portava ai piedi. Se fosse dipeso da lui, non se le sarebbe tolte nemmeno per andare a dormire.
«Caligola...» ripeté con una certa esitazione, poco convinto che quel nome fosse davvero adatto a lui.
«Ma certo, ragazzo» disse il primo legionario dandogli una pacca sulla spalla. «È un magnifico nome di battaglia.»
«Solo che adesso devi provare di esserne degno» aggiunse l'altro.
Gaio si accigliò. «Cosa devo fare?»
I due si scambiarono una strana occhiata, che lui non riuscì a interpretare, poi si fecero sotto e sorrisero.
«Ce l'hai un'amichetta?» gli chiese uno dei legionari. «Una che fa quello che le dici?»
«Un po' più grande di te» aggiunse l'altro. «Ma non troppo.»
Gaio scrollò le spalle. «Sono il figlio di Germanico» rispose. «Ho tante schiave.»
«Bene» annuirono i due, all'unisono.
Poi quello che gli era più vicino si inginocchiò accanto a lui e lo fissò con aria severa. «Trova una bella amichetta e portala qui. Ma, mi raccomando, non dire niente a nessuno. Questa è la tua prova segreta per guadagnarti il nome di battaglia e diventare uno di noi, un vero legionario.»
Gaio sgranò gli occhi, pieno di eccitazione. «Userò il gladio?» chiese.
I due ridacchiarono.
«Come no» rispose quello inginocchiato al suo fianco. «Userai il gladio. Dopo averci fatto usare i nostri, però...»
Scoppiarono entrambi a ridere, ma Gaio non restò a chiedersi perché. Corse via cercando di non inciampare nelle caligae, chiedendosi freneticamente quale delle schiave al suo servizio avrebbe potuto chiamare perché assistesse alla sua iniziazione.
E la scelta non poté che cadere su Frinia, la ragazza di origine gallica che si occupava di riordinare i loro giacigli ogni mattina, e che lui considerava quasi una sorella.
Sarà abbastanza grande?, si chiese corrucciato mentre si fiondava nella tenda che divideva con i genitori e con tutto il seguito della servitù. Non cercò di rispondersi.
Frinia era lì che chiacchierava con altre schiave.
Le piombò addosso come un falco sulla preda.
«Ecco, lei va bene?»
Gaio la spinse avanti. Frinia aveva undici anni, era alta una spanna più di lui e aveva i capelli lunghi fin quasi alle caviglie, come imponeva la tradizione della sua tribù. Non era mai stata a Roma e si trovava nella tenda dei suoi genitori da meno di un anno, eppure Gaio era entrato subito in sintonia con lei. Si piacevano e ridevano spesso insieme, soprattutto per il modo ridicolo con cui Frinia cercava di esprimersi in latino. E poi, lei era l'unica che non lo prendesse in giro perché non si toglieva mai le caligae.
I due legionari si avvicinarono con aria interessata, si guardarono attorno un paio di volte come se temessero l'arrivo di qualcuno, poi esaminarono con attenzione la ragazzina, che si era fatta improvvisamente silenziosa e cupa, gli occhi bassi.
«Davvero niente male» disse uno dei due. «Tu che ne pensi, Flavio?»
L'altro allungò una mano e con due dita costrinse Frinia a sollevare il viso. «Che cosa sei, germanica?»
«È gallica» spiegò Gaio, che cominciava a diventare impaziente. «Va bene, no?»
«Certo» rispose il legionario di nome Flavio, lanciando un'occhiata divertita al compagno. «Tu che dici, Aurelio? Merita un paio di affondi di gladio?»
A quelle parole Gaio sobbalzò, eccitato. Non vedeva l'ora di poter impugnare una spada, una di quelle vere, non le armi di legno che i suoi tutori lo obbligavano a usare durante gli allenamenti.
«Io dico di sì» rispose Aurelio circondando le spalle di Frinia con un braccio e facendo segno a Gaio di seguirlo. «Andiamo, è tutto pronto.»
«Aspetta» lo fermò Flavio guardandosi attorno. «Hai visto Cassio Cherea? Prima si aggirava da queste parti, e sai che se ci becca...»
«No, non è più qui» sorrise Aurelio dando una pacca sulla spalla del compagno. «Tranquillo, anche quel bastardo deve divertirsi, ogni tanto. So che è andato da Pomeria, la ragazza di Capua.»
Flavio scoppiò a ridere. «Bene, allora ne avrà per molto! Sempre meglio non averlo attorno.»
«Proprio così.» Aurelio si girò verso Gaio e gli strizzò l'occhio. «Allora, piccolo guerriero, sei pronto?»
Gaio non se lo fece ripetere: scattò in avanti, prese per mano Frinia e la trascinò con sé dietro i due legionari.
Quando si rese conto che le dita della ragazza tremavano leggermente, sorrise e scosse la testa.
«Vedrai, ce la farò» le disse per confortarla. Perché lui, il figlio del grande Germanico, non aveva dubbi che sarebbe riuscito a superare qualsiasi prova cui lo avessero sottoposto per diventare un vero legionario.
Non capiva che cosa c'entrasse Frinia in tutto questo, ma i due soldati sembravano contenti della sua scelta.
Se questo era di buon auspicio, lui non poteva che esserne felice.
«E la mia spada?» chiese Gaio indispettito, incrociando le braccia sul petto. «Quand'è che me la date?»
Stava cominciando a stufarsi di quei due. Avevano portato lui e Frinia in una tenda sporca, che puzzava di un odore rancido che non riusciva a definire, e sembravano più interessati alla ragazza che a lui. Manco dovesse essere Frinia a dover dimostrare la sua abilità in combattimento!
Dopo essersi tolti la lorica e la tunica lurida che indossavano sotto, i due legionari avevano chiesto a Gaio di ordinare a Frinia di spogliarsi.
«Perché?» aveva chiesto lui sorpreso, guardandosi attorno. Come avrebbe potuto maneggiare la spada, lì dentro? C'era appena lo spazio per muoversi, con tutte le cianfrusaglie che vi erano accatastate.
«Perché lei è una tua schiava e ti deve obbedire» aveva risposto Aurelio. «Se non dimostri di avere autorità su una schiava, come pensi di poter diventare un soldato?»
Sbuffando, Gaio aveva chiesto a Frinia di svestirsi, ma lei lo aveva guardato come se le avesse ordinato di gettarsi nel fiume.
«Non posso farlo» aveva protestato.
Gaio l'aveva guardata sorpreso. «Sì, invece, io sono il tuo padrone» aveva risposto, ottenendo commenti di approvazione da parte dei due legionari.
«Gaio, ti prego...» lo aveva supplicato Frinia, e questo lo aveva fatto infuriare. Lei non si era mai opposta a un suo ordine, e decideva di farlo proprio adesso, nel giorno più importante della sua vita?
«Spogliati!» le aveva gridato, cercando di apparire determinato e autorevole come suo padre, quando si rivolgeva agli attendenti sul campo.
Frinia lo aveva fissato con occhi colmi di lacrime, e Gaio aveva capito di avere esagerato un po'. L'aveva trattata male, certo, ma non era colpa sua: doveva fare la prova per diventare un legionario, e lei non lo stava aiutando.
«Forza, bella, obbedisci al tuo padrone» l'aveva sollecitata Aurelio sghignazzando.
Gaio aveva fatto segno a Frinia di sbrigarsi, perché stavano perdendo un sacco di tempo. Alla fine, senza più guardarlo, Frinia si era tolta le vesti, restando nuda accanto a lui. Gaio aveva osservato i due uomini per capire se finalmente fosse arrivato il suo momento, ma quelli si erano messi a ridacchiare e si erano spogliati a loro volta, fino a restare nudi in quella tenda dall'aria irrespirabile.
«Forza, soldato, spogliati anche tu!» lo aveva incitato Flavio. «I legionari fanno tutto insieme, non lo sai? È così che una legione impara a muoversi come un solo uomo.»
In quel momento Gaio aveva creduto di capire. Si era spogliato in fretta, mentre Frinia singhiozzava accanto a lui, cercando di coprirsi il più possibile con le braccia e con le mani.
«Cosa facciamo?» aveva chiesto Gaio, guardandosi attorno per vedere se riusciva a scorgere le spade, che dovevano essere nascoste da qualche parte.
«Adesso tu guarda, imparerai un po' di cose» aveva risposto Aurelio, afferrando Frinia per le spalle e costringendola a sdraiarsi per terra, su una rozza coperta di lana di pecora. Flavio aveva raggiunto l'amico e insieme avevano cominciato a toccarla dappertutto, mentre lei strillava e si dimenava come se le facessero il solletico.
Gaio li aveva guardati per un po', deluso che si fossero messi a giocare in quel modo stupido, che a lui non interessava. Era roba da bambinetti di due anni, e lui ormai ne aveva quasi cinque.
Ma poi Aurelio si era girato verso di lui con una strana espressione e il viso arrossato e gli aveva ordinato con tono perentorio: «Dille di stare zitta e di fare quello che le ordiniamo, altrimenti puoi rivestirti e andartene».
Gaio era rimasto sorpreso, senza capire il motivo della rabbia che aveva visto divampare dagli occhi del legionario, e si era avvicinato a Frinia.
«Stai zitta!» le aveva gridato con tutta la forza e la determinazione che possedeva. «Fai quello che vogliono i miei amici o ti faccio frustare!»
La ragazza l'aveva fissato per un istante, a bocca aperta, poi aveva chiuso gli occhi e si era abbandonata sulla coperta, mentre una lacrima le scorreva sulla guancia.
Di fronte a quella reazione, Gaio si era sentito attraversare da sentimenti contrastanti. Un po' si era sentito in colpa per il modo in cui aveva trattato Frinia, che considerava un'amica, non una semplice schiava. Ma si era sentito anche attraversare da un brivido quando aveva visto la paura nei suoi occhi e quando lei aveva obbedito all'istante al suo ordine.
È questo che prova un capo?, si era chiesto.
Allora aveva pensato di aver compreso le intenzioni dei due legionari: gli stavano insegnando a comportarsi da uomo, a dare ordini come un comandante. Avrebbe avuto bisogno solo di impugnare una spada, poi tutto sarebbe stato perfetto.
Invece, le cose erano andate diversamente. I due uomini avevano continuato a toccare Frinia e a strusciarsi su di lei, proprio come Gaio aveva visto fare spesso tra alcuni schiavi, di notte, quando credevano che nessuno potesse vederli o sentirli. Solo che i gemiti e i lamenti di Frinia non gli erano sembrati simili a quelli che provenivano di notte dall'angolo degli schiavi. Era come se la ragazzina provasse dolore, e anche se non aveva più urlato e non aveva cercato di divincolarsi, Gaio l'aveva sentita soffocare delle grida.
E la cosa era continuata per un po', mentre Aurelio e Flavio si alternavano, ridacchiando e grugnendo, sul corpo di Frinia, che a un certo punto aveva smesso anche di lamentarsi e di muoversi.
Gaio era rimasto a guardare, aspettandosi qualcosa di importante anche per lui, ma non era successo niente, e adesso si sentiva deluso e spazientito.
«Allora?» ripeté. «Dovevate darmi la spada!»
«Ma certo» rispose Flavio avvicinandosi a lui, mentre Aurelio si muoveva sopra Frinia emettendo dei versi disgustosi. «Sei stato bravo, quindi possiamo dire che hai superato la prima parte della prova.»
Gaio sgranò gli occhi, all'improvviso dimentico di tutti i dubbi che aveva avuto e della rabbia sorda che pian piano era montata dentro di lui.
«Davvero?» chiese eccitato.
Flavio ridacchiò, poi si portò in un angolo della tenda, frugò in un mucchio di oggetti buttati alla rinfusa e finalmente ne cavò quella che a Gaio sembrò la spada più bella che avesse mai visto.
«Eccola qua» disse il legionario porgendogliela. «Da questo momento è tua, e tu sei un soldato della nostra guarnigione a tutti gli effetti.»
Gaio allungò una mano e prese la spada, una corta daga dalla punta allargata. Aveva un aspetto magnifico. Quando Flavio la lasciò, quasi gli cadde di mano, per il peso, ma fece forza con i muscoli e riuscì a reggerla.
«Vedi tutti quei segni sul filo della lama?» gli disse il legionario. «Li hanno lasciati le ossa dei nemici che questa daga ha fatto a pezzi.»
Gaio trattenne il fiato per l'emozione, osservando il ferro brunito che aveva un'aria minacciosa e gli trasmetteva un'impressione incredibile di forza.
«La tua prova, però, non è finita» aggiunse Flavio. Gli strappò la spada dalle mani e si sdraiò, invitandolo a fare altrettanto.
«Cosa devo fare?» chiese Gaio con un gemito.
«C'è un altro gladio che devi impugnare, legionario Caligola» rispose Flavio. «Lo vedi? Guarda come diventerà anche il tuo, quando sarai più grande e potrai giacere con una donna come abbiamo fatto noi.»
Gaio osservò Flavio. Solo in quel momento si accorse della spada di carne che aveva fra le gambe. Anche a lui, quando si toccava o quando qualcuna delle schiave lo lavava, diventava duro e gli dava fastidio, ma non credeva che crescendo quella parte del suo corpo si sarebbe sviluppata così tanto.
«Forza, ragazzo, datti da fare» disse Aurelio dal giaciglio su cui era sdraiato insieme a Frinia. «Guarda come fa la tua schiava con me, e fai altrettanto con il prode Flavio. Quando avrai finito, sarai un legionario a tutti gli effetti e potrai avere la tua spada.»
Gaio osservò sorpreso Frinia, che aveva impugnato il pene di Aurelio e lo scuoteva su e giù, mentre il soldato la tastava fra le gambe.
«Ma io...» mormorò guardando Flavio accanto a lui.
«Tranquillo, questo è il nostro segreto» lo rassicurò il legionario. «Nessuno può raccontare agli altri cosa è successo durante un'iniziazione. Nemmeno tu. Perché, se lo facessi, ti taglierebbero la testa.»
Gaio deglutì, indeciso e un po' spaventato. Poi l'occhio gli cadde sulla spada che luccicava a terra, accanto a Flavio, e comprese che non poteva tirarsi indietro. Se era questo che facevano gli uomini, i veri soldati, avrebbe dimostrato di essere uno di loro.
Quando, oltre alle caligae, avesse avuto anche una spada, i legionari non avrebbero più avuto dubbi ad accoglierlo nei loro ranghi.
3
Faceva caldo. Gaio era stufo di restare seduto sullo sgabello accanto a suo padre, nella vasta radura che era stata creata dai legionari tagliando gli alberi in un cerchio quasi perfetto.
Agrippina era rimasta al campo, non aveva interesse ad assistere alle controversie che nascevano ogni giorno negli accampamenti di confine e che Germanico doveva risolvere come un re che giudica dal suo scranno. Il comandante di un esercito era l'uomo più potente dopo l'imperatore, Gaio l'aveva capito molto bene. Però, anche se suo padre gli aveva chiesto di restare con lui per mostrargli come si comportava un comandante di fronte alle richieste e alle pretese dei suoi uomini, Gaio sedeva nervoso sullo sgabello, desideroso di sgattaiolare via per andare a impugnare la spada e addestrarsi al combattimento.
I suoi amici Flavio e Aurelio gli stavano insegnando come tenere il gladio e vibrare affondi, e a difendersi dagli attacchi dei nemici. In cambio non doveva fare altro che portare nelle loro tende le schiave più belle su cui riusciva ad avere una certa autorità (era essenziale che non dicessero niente agli altri, soprattutto ai suoi genitori) e partecipare ai loro giochi che, se all'inizio lo imbarazzavano un po', adesso cominciavano a divertirlo, soprattutto quando i due legionari facevano partecipare altri commilitoni ai loro incontri. Allora Gaio si sentiva parte di loro, come un vero soldato che stava crescendo con la prospettiva di diventare un possente guerriero, e nessuno lo derideva o lo guardava storto perché aveva solo cinque anni.
Flavio gli teneva il gladio nascosto nella sua tenda, perché, anche se Gaio l'avrebbe voluto sempre con sé, appeso al fianco, era chiaro che Germanico e Agrippina non avrebbero mai permesso che andasse in giro armato.
«Tu che ne dici, Gaio? Quale decisione prenderesti al mio posto?»
La domanda quasi lo fece sobbalzare. Fissò il padre interdetto. Poi, quando vide l'espressione dura che tirava i suoi lineamenti, abbassò la testa, sentendosi avvampare.
«Non hai ascoltato, vero?»
Gaio scosse la testa. Sapeva che sarebbe stato inutile mentire a Germanico.
Il padre allungò un braccio, ma anziché colpirlo con forza, come avrebbe meritato, gli scompigliò i capelli con la mano.
«Questi sono incarichi noiosi, hai ragione» gli disse allargando un mezzo sorriso. «Ma un buon comandante deve prendersi cura dei suoi uomini in ogni situazione.»
Gaio sollevò lo sguardo. «Ma non possono pensarci i tribuni?» chiese, ponendo una domanda che si faceva ormai da qualche tempo.
«Potrebbero, certo» annuì Germanico. «E se ho incarichi più importanti da svolgere, è a loro che mi affido. Ma capisci che, per loro, è ben altra cosa» e allungò un dito a indicare la folla di persone che aspettavano un suo cenno per potergli sottoporre il proprio problema «farsi giudicare da un tribuno piuttosto che dal loro comandante?»
Gaio si guardò attorno e notò la grande varietà di espressioni sui volti di quella gente, che andavano dalla paura alla speranza, dalla vergogna al rispetto. Suo padre aveva ragione. Anche lui, se avesse subito un torto, avrebbe voluto essere giudicato da Germanico, non da qualcun altro.
«Un giorno potresti essere tu a sedere sul mio scranno» gli disse il padre. «Allora dovrai sapere come comportarti.»
Gaio gonfiò il petto, rendendosi conto solo in quel momento dell'importanza che aveva la sua presenza lì, al fianco del comandante dell'esercito romano sulle sponde del Reno. Lui era il figlio di Germanico, il più potente e acclamato generale di Roma. Non doveva pensare solo a giocare e a addestrarsi con la spada, ma anche a prendersi cura dei suoi uomini, dei legionari e di tutte quelle persone che formavano un esercito e di cui sarebbe stato non solo il capo supremo, ma anche una specie di padre e di madre.
Questo gliel'aveva spiegato anche Agrippina. Gaio aveva creduto di capire le parole della madre, ma solo adesso avvertiva l'importanza di quello che i genitori stavano cercando di insegnargli.
Di tutta la loro famiglia, lui era l'unico ad averli accompagnati al fronte. Dunque Germanico doveva avere qualche ambizione su di lui. Forse voleva designarlo come suo erede sul campo, farne un grande guerriero e un comandante come lui. Ecco perché doveva ascoltarlo, in ogni situazione, anche quelle apparentemente noiose e di poco interesse. Tutto gli sarebbe servito per diventare, prima o poi, un guerriero e un generale.
«Perdonami, padre» rispose raddrizzando la schiena e cercando di fargli capire che non si sarebbe più distratto. «Starò attento e imparerò tutto.»
Germanico fece una breve risata, poi gli diede uno scappellotto sulla testa e tornò a occuparsi dei questuanti che gli stavano davanti, in attesa di un suo cenno.
«Bravo, soldato» gli disse. «Adesso vediamo come te la cavi.»
«Cos'hai da dire a tua discolpa?» tuonò Germanico, fissando con aria severa il giovane che gli stava davanti, inginocchiato a terra. Due legionari lo tenevano fermo.
Gaio era perplesso. Quel ragazzo non era un soldato, doveva avere poco più di quindici anni e apparteneva alla schiera degli addetti alle salmerie e agli approvvigionamenti delle legioni. Aveva raccontato una storia assurda, che lui non aveva capito bene: aveva ucciso suo padre, uno dei cuochi dell'accampamento. E quando i legionari che tenevano fermo il ragazzo avevano riferito a Germanico i dettagli di ciò che era successo, Gaio aveva perso il filo del discorso.
«Mio padre mi teneva in catene» affermò il giovane, senza avere il coraggio di sollevare lo sguardo da terra. Gocce di sangue gli cadevano dal labbro spaccato e si raggrumavano nella polvere. Qualcuno doveva averlo picchiato con forza, perché aveva lividi dappertutto e un taglio profondo sopra l'orecchio sinistro.
«Cosa intendi dire?» chiese Germanico, protendendosi leggermente in avanti. Il padre sembrava più interessato del solito, e Gaio comprese che non doveva trattarsi di un semplice crimine da punire con il taglio della testa. Forse ci sarebbero state delle sorprese, e all'improvviso si sentì eccitato.
Il giovane sollevò appena la testa e sputò bava e sangue.
«Avevo solo chiesto dei soldi a un amico» ringhiò, con un coraggio che sorprese Gaio «perché mio padre non mi dava mai niente!»
«Non è un delitto chiedere un prestito» ribatté Germanico. «E tuo padre non poteva impedirti di ottenerlo. A meno che, naturalmente, tu non volessi utilizzare quei soldi per uno scopo in contrasto con l'attività del pater familias.»
Il ragazzo sembrò rattrappirsi su se stesso, scosso da un fremito. «Si teneva tutto per lui» gemette dopo un po'. «A me e ai miei fratelli non dava mai niente, solo gli avanzi.»
«Era suo diritto farlo» gli ricordò Germanico, e Gaio si sorprese che qualcuno dovesse spiegare a quel ragazzo una cosa tanto semplice. «Il patrimonio familiare è gestito dal pater. È sempre stato così. Non puoi certo cambiare tu le cose.»
«Per questo l'ho ucciso!» urlò il ragazzo dimenandosi tra le braccia dei due legionari, uno dei quali gli assestò un calcio nel fianco che lo fece piegare in due senza fiato.
Germanico tornò a rilassarsi contro lo schienale dello scranno e prese un lungo respiro. Poi si voltò verso Gaio, che lo guardò aspettando di essere interpellato.
«Tu che ne dici, soldato?»
«Se un uomo uccide il padre è sempre colpevole» rispose Gaio, ricordando gli insegnamenti del suo tutore.
«Esatto» annuì Germanico. Adesso aveva un'aria stanca, quasi sfiduciata, che Gaio non riuscì a interpretare. «E dunque quale credi che debba essere il mio giudizio?»
Gaio si guardò attorno. In molti erano in attesa della sua risposta, chi fissandolo con sospetto, chi con un misto di timore e rassegnazione. Era chiaro che conoscevano tutti la risposta, ma capivano che non si trattava solo di esprimere un parere. Per la prima volta il figlio di Germanico sedeva accanto al padre e poteva condividere con lui un atto della giustizia romana.
«Deve essere insaccato» rispose alla fine.
Sullo spiazzo si levò un forte clamore. Ma, al contrario di quanto gli era parso in un primo momento, non era di disapprovazione o di rabbia. La maggioranza dei presenti sembrava apprezzare le sue parole, e molti ora lo guardavano con rispetto.
Gaio si sentì riempire d'orgoglio. In fondo non era così difficile fare il comandante: bisognava solo fare in modo che la maggioranza degli uomini accogliesse le tue decisioni in modo favorevole.
«Quindi dobbiamo ucciderlo» disse ancora suo padre con una voce stranamente calma e priva di espressione.
Gaio lo guardò senza capire. «Certo.»
«E che ne sarà dei suoi fratelli?» aggiunse Germanico indicando due ragazzini in disparte, stretti l'uno all'altro e spaventati, come se temessero di essere uccisi anche loro. «E dell'attività del padre? Saremo costretti a sequestrare tutti i suoi strumenti di lavoro e a consegnarli al miglior offerente.»
Gaio osservò i due ragazzini, uno dei quali doveva avere all'incirca la sua età, poi si strinse nelle spalle.
«Non lo so» rispose. «Ma la legge dice che dev'essere insaccato.»
Il clamore tra la folla divenne un sordo brusio, in attesa della replica di suo padre, ma Germanico si limitò a sospirare e a fare un cenno ai due legionari che tenevano fermo il colpevole.
«Va bene, allora facciamo come dice la legge» proclamò. «Insaccatelo.»
«Ci vorrebbe una scimmia» borbottò il centurione incaricato di eseguire la sentenza. «Così non è la stessa cosa.»
Gaio pensò che il centurione avesse ragione. Come potevano insaccare il colpevole, se non trovavano una scimmia?
Si voltò verso suo padre. Sembrava più interessato a contemplare il corso del Reno, che scorreva ai piedi della placida collina su cui si trovavano. Il cielo era grigio come le acque del fiume e le nubi minacciavano pioggia.
Gaio conosceva ogni aspetto della pratica di insaccare i colpevoli di parricidio, ne aveva sentito parlare mille volte, ma non aveva mai assistito a un'esecuzione. A mano a mano che si avvicinava il momento cruciale, la sua eccitazione divenne sempre più forte.
Il ragazzo aveva smesso di agitarsi e se ne stava inginocchiato a piagnucolare con le mani legate dietro la schiena. Sapeva che cosa lo aspettava.
«Possiamo fare a meno della scimmia» tagliò corto Germanico, voltandosi all'improvviso verso il centurione. «Cassio, procedi e facciamola finita.»
Gaio avrebbe voluto correre fino al grosso sacco che era stato approntato per l'esecuzione e guardarci dentro, ma sapeva che doveva restare accanto al padre, assumendone il contegno e l'espressione grave. Eppure la curiosità lo divorava.
Il centurione e i suoi uomini avevano protestato un po', quando era stato chiesto loro di approntare il sacco in cui sarebbe stato rinchiuso il giovane, che poi sarebbe stato fatto rotolare fino al fiume. La tradizione infatti prevedeva che nel sacco fossero infilati un serpente, un cane, un gallo e una scimmia, ma, data la situazione, si era dovuti scendere a compromessi. Al posto del gallo, infatti, di cui nessuno nelle salmerie era disposto a disfarsi, era stata presa una gallina, e se il serpente era una bestia dall'aspetto inquietante di cui Gaio era rimasto soddisfatto, il cane gli era sembrata una scelta pietosa. Si trattava di un bastardino di piccola taglia, forse più spaventato del condannato stesso, ma Germanico aveva detto che andava benissimo. Per quanto riguardava la scimmia, aveva sentenziato che si poteva farne a meno. Con una certa delusione Gaio aveva capito che non sarebbe stata una esecuzione perfetta, come esigeva la tradizione.
Ma tutto sommato lo spettacolo ci sarebbe stato lo stesso, perché vedere una persona chiusa in un sacco a lottare con degli animali, mentre veniva fatta rotolare nel fiume, non era una cosa di tutti i giorni.
Quando finalmente il centurione fece segno ai due legionari di condurre il prigioniero al suo cospetto, Gaio si trattenne a stento dal battere le mani.
Il ragazzo si alzò e camminò barcollando, ma ostentava un'espressione decisa che sorprese Gaio.
«Devo fargli togliere le vesti?» chiese il centurione rivolto a Germanico.
Gaio sgranò gli occhi. Non aveva idea di che cosa prevedesse la legge, ma era evidente che, senza vestiti, con il serpente, il cane e anche la gallina rinchiusi insieme a lui, per il ragazzo sarebbe stata ancora più dura. Si sarebbero azzuffati e morsicati a vicenda, e forse qualcuno sarebbe morto prima ancora di finire nel fiume, dove la corrente impetuosa del Reno avrebbe rapidamente messo fine all'esecuzione.
Dentro di sé si augurò che il ragazzo riuscisse a uccidere i suoi avversari prima di soccombere, e provò a pensare a cosa avrebbe fatto lui, se si fosse trovato in quel sacco. Prima di tutto avrebbe afferrato il serpente per la testa, poi lo avrebbe rivolto contro il cane, in modo che lo mordesse, e alla fine avrebbe tirato il collo alla gallina, così...
«Tu che ne dici, Gaio?» lo riscosse la voce di suo padre. «Hai sentito cosa ha chiesto Cassio Cherea? Dobbiamo togliere i vestiti al condannato?»
Gaio deglutì a vuoto. Osservò il ragazzo prostrato a terra, poi il centurione e infine suo padre. Il panico lo sommerse. Non voleva sbagliare risposta, ma non aveva idea di che cosa prevedesse la tradizione.
Fu suo padre a trarlo d'imbarazzo, facendo un gesto con la mano verso il condannato: «Va bene così».
Gaio avrebbe voluto aggiungere qualcosa, ma quando vide i due legionari sollevare il giovane e infilarlo nel sacco, trattenne il fiato e osservò la scena a occhi sgranati.
«Chiudetelo in fretta!» ordinò il centurione.
Mentre il condannato e le bestie cominciavano ad agitarsi e a dibattersi nel sacco, i legionari lo serrarono con delle corde e poi lo fecero rotolare a terra.
Per un po' non successe niente. Poi Cassio Cherea guardò Germanico, che annuì brevemente e diede un calcio al sacco, facendolo precipitare lungo il pendio ripido della collina. Arrivato in fondo, dove la terra franava creando una specie di strapiombo di una decina di passi, il sacco si levò in volo, roteò un paio di volte su se stesso e cadde in acqua, sollevando una cascata di spuma. Restò a galla solo pochi istanti, poi affondò e scomparì del tutto.
Gaio restò a guardare le acque del Reno, deluso. Alla fine non era successo quasi niente. Si era aspettato di vedere il sacco scuotersi e sobbalzare, mentre al suo interno si combatteva per sopravvivere, e che la tela si macchiasse di sangue. E poi si era aspettato grida umane e versi di animali, magari una mano che spuntava dal sacco tenendo in pugno la testa del serpente, che grondava veleno dai denti protesi... Invece nulla. Si era svolto tutto in brevissimo tempo, quasi in un silenzio assoluto, anche da parte della folla che assisteva all'esecuzione e che adesso stava già sciamando in tutte le direzioni.
«E ora?» chiese Gaio al padre, senza riuscire a distogliere gli occhi dalle acque torbide del Reno, da cui sperava di veder spuntare il sacco, oppure un corpo ricoperto di sangue.
«Ora torniamo da tua madre» rispose Germanico prendendolo per mano e trascinandolo via. «Lo spettacolo è finito. Per oggi ne ho avuto abbastanza.»
4
«Io sono un semplice proconsole, non l'imperatore!»
Quella frase aleggiò per qualche istante nell'aria, mentre Gaio tratteneva il fiato in attesa della risposta di sua madre. Germanico aveva parlato con forza, ma anche con una certa rassegnazione nella voce, che lo aveva deluso profondamente. Possibile che non riuscisse mai a contrastare Agrippina? In fondo lei era una femmina, e lui era il più coraggioso comandante che l'esercito romano avesse mai avuto, il più amato dalle legioni. Eppure... quando i suoi genitori si affrontavano in quel modo, discutendo di cose che Gaio non capiva, sembrava che fosse sempre la madre a spuntarla, almeno dall'espressione soddisfatta che assumeva. Si avvicinava a Germanico, gli passava una mano sul viso e poneva fine alle loro discussioni con un bacio, oppure strusciandosi contro di lui.
Gaio venne percorso da un brivido di disgusto. Ancora non capiva come facessero gli adulti a provare così tanto piacere ogni volta che venivano in contatto con il corpo di una donna. Con i baci, poi!
Quando i suoi amici legionari lo facevano giocare nelle loro tende, insieme alle schiave che lui procurava per quegli incontri, lo costringevano a toccare le ragazze e a infilare le dita dentro di loro, spiegandogli che era lì che un vero soldato si prendeva il suo piacere, ma Gaio ogni volta avvertiva solo un moto di repulsione, e l'odore che gli restava appiccicato alle dita gli dava la nausea. Alla fine era meglio toccare il corpo di un uomo, come quello di Flavio, che sembrava gradire particolarmente il tocco delle sue mani, perché non dovevi penetrare oscuri recessi e, se evitavi di toccare il liquido che sprizzava dopo avere giocato un po' con lui, non ti restava nessun odore addosso. Se non quello di sudore e di cuoio tipico dei legionari, che Gaio finalmente cominciava a sentire anche su di sé e sui suoi vestiti.
Non capiva, dunque, come fosse possibile che suo padre, il possente Germanico, temuto da interi popoli, soccombesse a sua madre, abbozzando solo un tentativo di difesa o di contrattacco, ogni volta che lei lo affrontava tenendo i pugni appoggiati sui fianchi.
Quella mattina era accaduta la stessa cosa. Gaio era nella tenda di famiglia intento a pulire le sue caligae, quando aveva assistito allo scontro fra Agrippina e suo padre.
Stavano discutendo del richiamo che avevano ricevuto di tornare a Roma, di cui tutti parlavano. Gaio non era sicuro di avere ben compreso di che cosa si trattasse, ma dall'euforia generale dei legionari accampati sul corso del Reno, doveva trattarsi di qualcosa di molto importante, forse della celebrazione di un trionfo. Era la più alta ricompensa per un condottiero, e veniva tributato a suo padre per le vittorie conseguite e per essere riuscito a portare la pace ai confini.
Ma Germanico sembrava volersi opporre. Per una volta Gaio fu costretto a schierarsi dalla parte di sua madre, che stava ammonendo il marito a non trascurare il grande onore che veniva tributato alla loro famiglia.
Poi la discussione si era un po' complicata, e lui non era più riuscito a capire come stessero esattamente le cose, finché suo padre si era portato con il viso a meno di una spanna da quello della madre e aveva pronunciato quelle parole, che avevano fatto scendere il silenzio nella tenda: «Io sono un semplice proconsole, non l'imperatore!».
Agrippina restò a fissarlo negli occhi con espressione dura, infuriata. Poi all'improvviso sembrò sciogliersi e un sorriso le comparve sulle labbra. Con un dito sfiorò delicatamente il viso di Germanico, si avvicinò e lo baciò sulle labbra.
«Bleah!» sibilò Gaio, distogliendo gli occhi. Era davvero incredibile come sua madre fosse capace di passare dalla collera al sorriso in un istante. E ancora non riusciva a comprendere come qualche semplice carezza e un bacio potessero scardinare così facilmente la determinazione di suo padre. Sembrava quasi che fosse preda di un incantesimo.
«So chi sei» rispose Agrippina in un sussurro, che Gaio faticò a sentire, pur tendendo le orecchie. «Il più grande guerriero che Roma abbia mai avuto. E questo i tuoi uomini lo sanno.»
Germanico scosse la testa e, stranamente, si allontanò da lei anziché circondarle la vita con le mani e stringerla forte, come faceva di solito quando Agrippina lo baciava. Per una volta, non sembrava disposto a cedere.
«Che cosa dovrei fare?» domandò passandosi una mano sulla testa. «Entrare a Roma, godermi il trionfo e intanto schierare le legioni fuori dalle mura?» Si voltò a guardarla. «È questo che vuoi?»
Agrippina tornò a tirare le labbra in una smorfia dura, decisa.
«Tiberio è un incapace odiato da tutti» affermò, facendo sussultare Gaio. «L'esercito è con te. Dimostra a Roma e al Senato che puoi essere un nuovo Cesare.»
«Dunque non ti basta nemmeno il trionfo?» le chiese Germanico con un sorriso amaro. «Devo far cadere l'imperatore e prendere il comando? E poi? Che ne facciamo del Senato? E di chi dovesse opporsi? Li uccidiamo tutti?»
Quelle parole vorticarono nella mente di Gaio come api impazzite. Prendere il comando? Uccidere tutti? Prima che potesse mettere ordine in quel frastuono, Agrippina si portò di nuovo i pugni sui fianchi.
«Saranno tutti con noi, te lo posso garantire. Non ci sarà bisogno di uccidere nessuno, se non quei pochi che resteranno fedeli a Tiberio» disse con una smorfia cattiva, che impaurì Gaio. «E non saranno in molti, lo so per certo.»
Germanico restò a guardarla per un istante, con aria sorpresa, poi la raggiunse e l'afferrò per le braccia.
«Non stai dicendo sul serio, vero?» le chiese, con gli occhi gonfi di rabbia. «Che razza di uomo credi io sia?»
Agrippina si divincolò dalla sua stretta. «Sei l'uomo che mi ama, che proseguirà la dinastia Giulio-Claudia e che potrebbe governare Roma, se solo non fossi così...»
«Così cosa?»
Lei aprì la bocca per replicare, poi scosse con forza la testa e si lasciò sfuggire un gemito. «Così maledettamente onesto!» esclamò alla fine, dando l'impressione, per la prima volta da quando Gaio assisteva alle loro discussioni, di essere sul punto di cedere.
Germanico la raggiunse e l'abbracciò, baciandola sui folti capelli neri. «Io combatto per Roma, lo sai» le disse in un sussurro. «Non per me stesso.»
Agrippina lo guardò. «Sei un testone» concluse, ma Gaio vide che sorrideva e, immaginando quello che i due avrebbero fatto, adesso che la discussione sembrava finita, afferrò le sue caligae e sgattaiolò fuori dalla tenda.
Probabilmente nemmeno si erano accorti di lui. Adesso si sarebbero rotolati sulle coperte per un bel po', ansimando e gemendo come piaceva tanto agli adulti, e tutti i discorsi sarebbero stati dimenticati.
Per una volta suo padre era riuscito a tenere testa alla madre, e ad averla vinta, ma stranamente Gaio non si sentiva contento. Credeva che Agrippina avesse ragione. Tutti i soldati che lui conosceva e frequentava gli spiegavano che sarebbero stati pronti in qualsiasi momento a marciare su Roma, se solo Germanico avesse dato il comando. Odiavano Tiberio quasi più dei barbari che si nascondevano nelle foreste, e avrebbero dato la vita per vedere suo padre ricevere il trionfo e poi sedere sul trono, con l'alloro in testa.
Gaio sbuffò. Se fosse stato lui al posto di Germanico, non avrebbe esitato: avrebbe condotto le legioni verso l'Urbe e sarebbe diventato imperatore. L'uomo più potente del mondo.
Com'era possibile che suo padre preferisse restare un semplice generale? Un proconsole o quello che era, anziché il princeps, il comandante di tutti i romani?
Per un momento si immaginò al posto di Germanico, su una quadriga condotta da magnifici stalloni bianchi, la spada in pugno, mentre entrava nel Foro e proclamava la presa del potere.
Che cosa ne avrebbe fatto, lui, di Tiberio e dei suoi fedeli?
Gaio non ebbe un istante di esitazione: finse di sollevare alta la spada e la calò, più e più volte, per mozzare le teste di tutti coloro che avrebbero osato opporsi al suo cammino.
Così doveva fare un vero imperatore.