CAPITOLO DECIMO
Miseno
37 d.C. - 790 ab Urbe Condita
Caligola ha venticinque anni
24
Gaio avrebbe voluto uscire, andare incontro alla folla e spiegare loro che dovevano avere pazienza, che prima o poi le cose sarebbero cambiate, ma era bastato un solo sguardo di Macrone per fargli capire che sarebbe stata una follia.
La grande villa di Tiberio a Miseno, che una volta era stata di Lucullo, ferveva di attività e di persone che correvano in modo concitato, mentre le urla di Tiberio si inseguivano lungo i corridoi cercando di sovrastare il frastuono che proveniva dall'esterno, dove alcune centinaia di persone si erano radunate per accogliere l'arrivo dell'imperatore.
Gaio sapeva che Tiberio era pronto, dopo tanti anni, a fare ritorno a Roma per sistemare alcuni affari (ma forse avrebbe fatto meglio a pensare conti) rimasti in sospeso e per dare al Senato la conferma di essere ancora vivo e in forma, al contrario di quanto si vociferava in giro. Di solito era lui stesso a diffondere la voce che stava male, che era in procinto di morire, per poi ripresentarsi più in forma di prima, lucido e cinico come sempre, pronto a mettere sotto processo tutti coloro che avevano approfittato della falsa notizia per fare proseliti contro di lui.
Ma questa volta no. Gaio sapeva che Tiberio era sbarcato a Miseno con l'intento di fare ritorno a Roma e mettere con le spalle al muro i tanti che ormai non facevano altro che speculare su quello che sarebbe successo il giorno della sua morte, forse per informarli che aveva fatto un patto con gli dei e che grazie a questo avrebbe continuato a regnare sull'Urbe fino a quando non se ne fosse stancato.
Però, quando era arrivato alla villa che Macrone aveva fatto presidiare dai pretoriani, l'imperatore aveva avuto una brutta sorpresa: c'era una folla in attesa, ma non per tributargli gli onori che si aspettava. Lo avevano attaccato a male parole, ignorando le picche dei pretoriani e scagliando anche qualche uovo marcio e verdura appassita, con un'arroganza e una mancanza di timore che lo avevano sconvolto.
Tiberio si era subito rinchiuso nella domus e aveva cominciato a urlare chiedendo a Macrone di ucciderli tutti, mentre i suoi consiglieri si affannavano nel tentativo di tranquillizzarlo, spiegandogli che compiere una strage di cittadini romani non era certo il modo migliore per celebrare il suo ritorno a Roma.
Persino gli indovini e gli àuguri, che avevano approntato sacrifici in fretta e furia, avevano dovuto ammettere che la cosa migliore per lui sarebbe stata ignorare la protesta e mettersi a riposo, perché tutte quelle emozioni potevano solo avere un effetto deleterio sulla sua salute.
Ma Tiberio sembrava non curarsi di nessuno e si aggirava per la villa come un cane rabbioso, prendendosela con chiunque gli capitasse a tiro.
Gaio aveva assistito in disparte, ma quando aveva visto comparire Macrone insieme a un drappello dei suoi pretoriani gli si era fatto incontro e gli aveva chiesto come fosse possibile che quella gente fosse ancora là fuori, a gridare e a insultare l'imperatore.
Macrone aveva fatto una smorfia, aveva congedato i suoi uomini, poi gli aveva spiegato che si trattava di una manifestazione spontanea di cittadini, che avevano tutto il diritto di esprimere i loro sentimenti verso l'imperatore.
«Ma tu puoi disperderli!» aveva ribattuto Gaio. «Non capisci che sono pericolosi? Potrebbero diventare molti di più, una folla imprevedibile e incontrollabile, che se facesse irruzione potrebbe farci tutti a pezzi.»
«Nessuno farà irruzione» aveva sostenuto Macrone convinto. «I miei uomini li tengono sotto controllo. E pian piano li respingeremo, ma dobbiamo stare attenti. Se dovessimo uccidere qualcuno, anche solo poche persone, la voce si spargerebbe, e a quel punto sarebbe davvero difficile controllarne le conseguenze.»
«Ma che cosa vogliono?» aveva chiesto esasperato Gaio. «Perché non vanno davanti al Senato a lamentarsi?»
Macrone aveva preso un lungo respiro, prima di rispondere: «Credo che questo sarà solo il primo di tanti episodi di ribellione, se Tiberio non si decide a fare qualcosa. Ha dimenticato il popolo di Roma e si accanisce solo a fare piazza pulita di chiunque cerchi di ostacolarlo nelle sue manie di grandezza.»
«Quell'idiota crede di essere immortale!» aveva grugnito Gaio.
«E si comporta di conseguenza, senza alcun riguardo per Roma.»
Gaio aveva allargato le braccia. «Tiberio però se la prende con l'aristocrazia, non con la gente comune. E là fuori non vedo un solo senatore. Mi stai dicendo che quelle persone sono state mandate qui apposta a fare rappresaglia contro l'imperatore?»
«Non posso escluderlo» aveva risposto Macrone. «Ma credo che le ragioni siano ben altre.»
«Quali?»
Macrone l'aveva scrutato per un istante, come per accertarsi che non stesse fingendo anche con lui, ma quando Gaio aveva scosso la testa, incitandolo a continuare, era sembrato rassegnarsi.
«Hai idea di quanta gente ha perso il lavoro grazie alle stragi che sta compiendo Tiberio?» gli aveva detto, suscitando all'improvviso uno sprazzo di comprensione dentro di lui. «Quanti liberti, notabili e cavalieri sono stati rovinati da questa guerra sotterranea tra le più importanti famiglie romane, che alla fine non risparmia nessuno?»
Gaio era ammutolito, poi aveva avuto quell'impulso improvviso, deciso a uscire fuori dalla domus e a recarsi da quella gente per convincerli ad andarsene e a lasciarli in pace. Aveva creduto di poter avere una qualche ascendenza su di loro, perché ogni tanto, tra le urla della folla, avvertiva chiaramente qualcuno fare il suo nome, inneggiare a Germanico e alla sua famiglia. E se ciò da un lato lo spaventava - se Tiberio avesse anche solo sospettato che dietro a quel tumulto c'era lui, non ci avrebbe messo molto a fargli tagliare la testa -, dall'altro aveva creduto che potesse essere un buon viatico per dargli la possibilità di disperdere la folla.
Ma Macrone lo aveva bloccato con lo sguardo. E adesso Gaio non sapeva più che cosa fare, combattuto fra rabbia, timore e incertezza.
«Lascia che me ne occupi io» gli disse il prefetto del Pretorio. «Tu raggiungi gli altri, cerca di capire com'è l'umore di Tiberio, e prega gli dei perché non decida di ordinarmi una carica.»
Macrone se ne andò a passo di marcia, e Gaio restò per qualche istante a torcersi le mani, mentre le urla della folla si sovrapponevano a quelle stridule e cariche di follia dell'imperatore.
Poi finalmente si mosse, deciso a fare qualcosa al più presto, tenendo però a mente quello che gli aveva ripetuto Macrone anche il giorno prima della partenza per Miseno. Forse era vero che quella poteva essere una buona occasione per liberarsi finalmente di Tiberio, se si fossero mossi con decisione e con la dovuta calma.
«Io sono pronto» mormorò a se stesso, immaginando che il prefetto del Pretorio potesse sentirlo.
Cercò di assumere l'aspetto mite, seppure dignitoso, che lo aveva caratterizzato negli ultimi anni, e raggiunse i poeti, i filosofi, gli astrologi e i matematici che componevano la variopinta corte di Tiberio, pronto ad ascoltare tutti per non perdersi nemmeno un particolare, alla ricerca di qualsiasi elemento potesse risultare utile a lui e a Macrone per infliggere quel colpo mortale a Tiberio che ormai sognava tutte le notti.
Le grida di Tiberio erano cessate. Quando Gaio raggiunge un gruppo di persone che discuteva animatamente, si rese conto che le facce erano stravolte, e molte rivelavano preoccupazione. Evitò di concentrarsi su coloro che, lo sapeva bene, da anni fingevano un attaccamento all'imperatore che non provavano, e osservò con attenzione, restando a qualche passo di distanza, i più fedeli sostenitori di Tiberio, uomini che da lui dipendevano e trovavano nutrimento, e senza il quale sarebbero presto finiti in qualche fossa. Comprese che l'agitazione che li tormentava era autentica.
Era successo qualcosa all'imperatore.
Provò a guardarsi attorno, alla ricerca di qualcuno a cui chiedere spiegazioni, quando all'improvviso si sentì chiamare.
«Gaio! Sapevo che ti avrei trovato!»
Si voltò e vide avanzare due uomini verso di lui. Ci mise solo qualche istante a riconoscerli, dietro le barbe ispide e i capelli lunghi, le espressioni cupe sotto la pelle spessa e coriacea, cotta dal sole di Giudea.
«Agrippa!» lo salutò Gaio, andando incontro al nipote di Erode e abbracciandolo con più trasporto di quanto fosse necessario, forse perché aveva bisogno di incontrare una faccia conosciuta e non ostile, in quella situazione caotica. Poi si voltò verso il suo accompagnatore, che sapeva essere il cugino di Agrippa, Tolomeo di Mauretania, figlio di Cleopatra Selene, la figlia di Cleopatra e Marco Antonio, nonché sorellastra di sua nonna Antonia, che aveva avuto modo di conoscere durante la sua permanenza nella domus Augusta. «Mi fa piacere rivederti. Eri solo un ragazzo, l'ultima volta che ci siamo azzuffati nel cortile di mia nonna.»
Tolomeo annuì, ma non sorrise, mantenendo la stessa espressione corrucciata del cugino.
«Non so che cosa sia accaduto» disse Gaio, prevenendo le loro domande. «Ero con Macrone, e stavamo discutendo della folla che urla là fuori. Sentivamo le grida infuriate dell'imperatore, ma poi... all'improvviso più niente. E adesso...» Fece un segno intorno, a indicare tutte quelle facce cupe. «Non capisco.»
Giulio Agrippa gli si fece più vicino e parlò a bassa voce.
«Io ho sentito qualcosa» rivelò. «Appena arrivati, siamo stati annunciati a Tiberio, ma ci ha fatto attendere e non ci ha ricevuti.»
«L'abbiamo sentito gridare anche noi» aggiunse Tolomeo. «Ci siamo avvicinati e l'abbiamo visto stramazzare a terra.»
Gaio si accigliò. «Che cosa intendi?»
«Si è afflosciato» spiegò Agrippa. «Era circondato da alcune persone che non conosco, ma nessuno è riuscito a reggerlo in piedi.»
«E poi?» chiese Gaio, sentendo affluire il sangue alle tempie, dove cominciò a pulsare un dolore intermittente.
Tolomeo scosse la testa. «Non lo sappiamo. L'hanno portato via, forse nelle sue stanze, e ci hanno detto che non sarebbe più stato possibile farci ricevere.»
«Immaginavo che fossi qui, così ti abbiamo cercato» concluse Agrippa.
Gaio sospirò. Non sapeva se Tiberio avesse avuto un altro dei suoi frequenti malanni, da cui sembrava sempre non riuscire a riprendersi finché, il giorno dopo, si ripresentava con aria scanzonata, come se durante la notte qualche divinità fosse intervenuta in suo aiuto per instillargli un'altra goccia di vita eterna.
«Sono tutti molto insicuri» disse Tolomeo guardandosi attorno, mentre medici, senatori, sacerdoti e artisti di ogni genere si aggiravano per la casa come se non sapessero a chi rivolgersi.
«E spaventati» aggiunse Agrippa.
Gaio li guardò. Non poteva più aspettare. Fuori dalla domus la folla gridava contro Tiberio, e non era difficile cogliere ogni tanto il suo nome, scandito in modo ossessivo, ritmato.
Caligola! Caligola!
Gaio sapeva che, se Tiberio si fosse ripreso dal suo malessere e avesse sentito le ovazioni che il popolo gli tributava, non avrebbe esitato a farlo uccidere.
«Devo cercare Macrone» disse riscuotendosi e dando una pacca sul braccio di Giulio Agrippa. «Voi andatevene, non restate qui. Potrebbe essere pericoloso.»
Non diede loro il tempo di ribattere e corse via, rasentando le pareti della casa per evitare gli sguardi spaventati delle persone che correvano da ogni parte, senza una meta apparente.
Quando fu fuori dalla domus si guardò attorno, poi finalmente individuò Macrone, che stava discutendo con alcuni pretoriani mentre a qualche centinaio di passi di distanza, dietro un cordone di soldati che sembrava fin troppo esile, la folla gridava e lanciava oggetti contro chiunque passasse a tiro. Erano aumentati di numero, e cominciavano davvero a fare paura.
«Macrone!» chiamò avvicinandosi di qualche passo, ma all'improvviso sembrò che il mondo si fosse fermato. Un silenzio innaturale calò per qualche istante sul grande spiazzo di terra battuta antistante la domus di Tiberio, e Macrone e i suoi pretoriani smisero di urlare, sorpresi a loro volta.
Poi la folla ruggì di nuovo, invocando un nome a gran voce. «Caligola!» urlarono centinaia di bocche all'unisono. «Caligola! Caligola! Caligola!»
Gaio restò immobile a fissare quello spettacolo innaturale, in qualche modo osceno eppure straordinario. La folla cominciò ad avanzare, le braccia protese verso di lui, e insieme al suo nome iniziò a scandire anche quello di suo padre.
Caligola! Germanico! Caligola!
Con quel clamore nelle orecchie Gaio si sentì confuso, frastornato. Per la prima volta da quando Germanico lo aveva lasciato a se stesso, si sentì nudo, esposto, inondato dalla luce del sole e impossibilitato a nascondersi, a rifugiarsi in qualche nicchia d'ombra per non farsi notare, per evitare di suscitare l'ira di qualche potente che avrebbe potuto denunciarlo all'imperatore e provocare la sua rovina.
Eppure, si sentiva anche eccitato e pieno di ardore. Una smania crebbe lentamente dentro di lui al ritmo delle urla della gente e ben presto riuscì a scacciare la paura e la terribile sensazione di essere vulnerabile, un bersaglio facile per chiunque avesse voluto eliminarlo.
Caligola! Germanico! Caligola!
Ma chi avrebbe potuto farlo, con tutta Roma che l'inneggiava in quel modo? Neppure Tiberio avrebbe avuto il coraggio di uscire dalla domus, con quelle centinaia, forse migliaia di persone che acclamavano il suo nome e premevano per raggiungerlo, per toccarlo, forse per alzarlo sulle braccia e portarlo in trionfo.
Gaio gonfiò il petto e si lasciò inondare da quelle nuove sensazioni, un vento di libertà e di sicurezza che non gli era mai appartenuto e che riuscì in breve tempo ad asciugargli il sudore della paura che lo ricopriva, invisibile eppure sempre presente.
Caligola! Germanico! Caligola!
Si preparò ad accogliere il tributo dell'Urbe, che finalmente lo consacrava per ciò che era, riconoscendo la purezza del suo sangue e acclamandolo per offrirgli il trionfo supremo.
«Gaio, vieni via! Presto!»
La voce di Macrone e lo strattone possente del prefetto lo riportarono così bruscamente nel luogo in cui si trovava, che ebbe l'impressione di avere ricevuto un colpo di spada al costato.
«Non puoi restare qui!» ringhiò ancora Macrone spingendolo avanti e costringendolo a tornare nella domus, mentre dietro di loro i ranghi dei pretoriani si serravano per arginare la folla. «Sei pazzo? Tiberio è ancora vivo. Se ti ha sentito...»
«Dobbiamo farlo!» lo affrontò Gaio bloccandosi e tenendolo per un braccio.
Macrone era molto più forte di lui, con il corpo muscoloso che aveva ben conosciuto nelle loro notti d'amore, ma in quel momento niente sarebbe riuscito a smuoverlo da quel punto, dove aveva piantato i piedi.
«Che cosa vuoi dire?» gli chiese il prefetto del Pretorio sorpreso.
Gaio snudò i denti, rendendosi conto che il suo aspetto doveva essere più simile a quello di un barbaro che a quello del figlio di Germanico, erede al trono imperiale.
«Tiberio è crollato. L'hanno portato nei suoi appartamenti e sono tutti spaventati. Non lasciamogli il tempo di riprendersi. Facciamolo adesso!»
Fra di loro calò il silenzio.
Macrone si guardò attorno, come se volesse accertarsi che nessuno li avesse sentiti. Ma questa volta a Gaio non importava. Che ascoltassero pure, che capissero quello che aveva intenzione di fare.
Che provassero a fermarlo!
Caligola! Germanico! Caligola!
L'ululato della folla, là fuori, non era calato, i cittadini romani continuavano a inneggiarlo, a invocarlo.
All'improvviso si sentì più forte di quanto fosse mai stato. Avrebbe potuto scatenare quella folla contro chiunque si fosse frapposto al suo cammino, come il più letale degli eserciti, e niente sarebbe riuscito a fermarlo. Men che meno un vecchio imperatore che non si decideva a morire.
Macrone, che era rimasto a guardarlo in silenzio, all'improvviso parve rilassarsi, prese un profondo respiro e annuì.
«Va bene» disse. «Hai ragione. Forse è davvero questo il momento che abbiamo atteso per tanto tempo.»
Gaio non riuscì a trattenere un brivido di eccitazione. «Ricordi quello che mi hai detto quando è morta mia moglie? Che Giunia Claudilla era stata solo uno strumento per avvicinarci ancora di più al cuore di Roma?»
Macrone non disse nulla, limitandosi a guardarlo.
«Lei è morta cercando di mettere al mondo mio figlio, e questo è stato interpretato come un segno di sventura. Ma non è così, amico mio. Era un chiaro segnale degli dei, adesso lo capisco.»
Una ruga di indecisione comparve sulla fronte del prefetto, e Gaio scoppiò a ridere.
«Con il fardello di un figlio e di una moglie da proteggere sarei stato troppo vulnerabile, capisci?» gli spiegò, rendendosi conto che alla fine il disegno divino si chiariva. «Mia madre, i miei fratelli, tutti coloro che avrebbero potuto frenarmi, risultare di ostacolo alla mia ascesa, sono morti o si sono fatti da parte. Anche quell'inetto di Cassio Longino, il marito di mia sorella.» Fece una pausa, trattenendosi dallo sputare per terra. «Credevo fosse una persona a posto, fidata. E invece... Drusilla ha scoperto che anche lui è una spia di Tiberio.»
«Questo non possiamo saperlo con certezza» protestò Macrone. «Io credo...»
«No!» lo interruppe subito Gaio. «Non siamo riusciti a trovare le prove, ma mia sorella sa quello che dice. Per questo ha chiesto il divorzio e l'ha ottenuto, grazie all'intercessione di Antonia.»
«E Marco Emilio Lepido?» gli chiese il prefetto. «Hai dubbi anche su di lui?»
Gaio scosse la testa. «No, di lui so tutto. È cresciuto nel cortile di mia nonna, e la sua famiglia non è mai stata coinvolta in nessun processo.»
«Questo non vuol dire che sia dalla nostra parte.»
«Ma mia sorella ha deciso che è l'uomo che fa per lei. Lo sposerà, e io non la ostacolerò. Drusilla deve rimanere al sicuro, lontano dalle lotte di potere che insanguinano Roma. Al resto dovremo pensare noi.»
Macrone gonfiò il petto in un lungo respiro, ma non disse niente.
«Ora resto solo io a sbarrare la strada ai sogni d'immortalità di Tiberio» sibilò Gaio. «E niente potrà più fermarmi.»
Aspettò che Macrone avesse ben compreso le sue parole, poi si rimise in movimento, lasciandosi spingere dall'urlo concitato della folla, che non smetteva un istante di acclamare il nome di Caligola e di Germanico.
Due entità, ora lo capiva, che si erano fatte una sola.
25
Mentre marciavano decisi verso le stanze di Tiberio, sfruttando i pretoriani di Macrone per fendere la folla di aristocratici e artisti che cercava di fermarli per subissarli di domande, Gaio, per la prima volta dopo tanto tempo, si accorse di non procedere con la schiena leggermente incurvata, tenendosi il più possibile dietro gli altri, per nascondersi e ripararsi dallo sguardo inquisitore dei tanti che avevano influenza su Tiberio e che potevano screditarlo.
Camminava a testa alta, sentendo vorticare dentro di sé l'eccitazione suscitata dalle grida della folla. Non aveva più paura, non temeva più le risate, i commenti di scherno, le allusioni e le velate minacce che aveva sempre creduto volteggiassero attorno a lui come una nuvola persistente.
Affiancava Macrone a passo svelto, deciso. Tutti coloro che lo guardavano, all'improvviso sembravano capire, si accigliavano e poi si facevano da parte, cupi, ascoltando l'incitamento della folla all'esterno, che faceva ancora tremare i muri della domus, e probabilmente solo in quel momento ricordavano chi lui fosse, di quale uomo fosse figlio, di quale dinastia facesse parte.
Senatori, filosofi, scienziati, nobili di ogni specie avanzavano urlando, poi si fermavano, li guardavano, masticavano ancora qualche parola, infine si facevano da parte, lasciandoli passare. E non erano solo i tre pretoriani armati che li precedevano a convincerli a ridimensionare le loro rimostranze e a tacere. No, di questo Gaio ormai era sicuro: era l'accorgersi all'improvviso di lui, della sua figura decisa e autoritaria, che indossava per una volta tutto il carisma e la forza che la dinastia Giulio-Claudia gli aveva tramandato col sangue.
«Hanno capito» mormorò a un certo punto Macrone, senza nemmeno girarsi a guardarlo, mentre entravano negli appartamenti di Tiberio sorvegliati da altri pretoriani, che si fecero subito da parte.
Gaio si sentì attraversare da un brivido. Macrone aveva ragione. Tutti avevano capito che per Tiberio era scoccata la fine e che, come acclamava la folla all'esterno della villa, adesso era lui che gli dei volevano sul trono di Roma.
Svoltarono in un corridoio e si trovarono davanti una persona: Marco Giunio Silano, il più fedele consigliere di Tiberio, li aspettava immobile, le gambe leggermente divaricate e un'espressione determinata sul viso.
Macrone fece un cenno ai suoi pretoriani, che si fermarono e si fecero da parte, e lui e Gaio avanzarono fino a fronteggiare il primo fra i senatori di Roma.
«Noi siamo una famiglia» disse Silano puntando lo sguardo in quello di Gaio e ignorando Macrone, nonostante il prefetto del Pretorio svettasse su tutti con la sua imponenza. «Se tu lo vorrai, io sarò al tuo fianco. Altrimenti uccidimi adesso, perché non potrei sopportare il disonore.»
Gaio restò per qualche istante in silenzio, a godersi quel momento di trionfo. L'uomo più potente dell'impero, dopo Tiberio, che in passato aveva agito con intelligenza, forse immaginando l'arrivo di quel momento, lo fronteggiava senza arroganza e senza protervia. Anzi, si inchinava a lui con la dignità di chi sapeva che Gaio, in quel momento, era in attesa di raggiungere il rango che gli avrebbero decretato gli dei.
Allungò una mano e strinse un braccio a Silano. «Seguici. Ho bisogno del tuo aiuto.»
Marco Giunio Silano si inchinò, si fece da parte e gli consentì di procedere fino all'ingresso della camera da letto di Tiberio.
«Come sta?» chiese Gaio prima di entrare.
«Si è un po' ripreso» rispose Silano. «Come al solito. Ma è ancora provato.»
«C'è qualcuno, dentro?» volle sapere Macrone.
«No. Ho congedato tutti i suoi medici e liberti. Restano solo un paio di schiavi, per le sue minime necessità.»
«Bene» fece Gaio scostando il telo e avanzando deciso.
«Che cos'hanno da urlare ancora? Perché non li avete uccisi tutti?»
Il ringhio di Tiberio era ancora possente, la sua voce corrotta dal tempo, che da decenni ispirava paura in chiunque la ascoltasse, sembrava ancora intatta, potente e determinata. Ma il vecchio che Gaio si ritrovò davanti disteso sul letto, con diverse coperte addosso, nonostante il tempo clemente di marzo, lo sorprese per l'impressione di fragilità che gli fece.
O sono io che comincio a non averne più paura?, si ritrovò a pensare.
«Gaio?» lo apostrofò Tiberio quando si rese conto che lui era lì, insieme a Macrone e a Silano, a cui si era subito rivolto non appena li aveva visti comparire. «Che ci fai, qui? Sei venuto a pietire qualcosa, come sempre? O ad allietarmi con qualcuna delle tue citazioni?»
Gaio scambiò una rapida occhiata con Macrone, poi si fece ancora più avanti, arrivando a sfiorare con le gambe i bordi del letto. Tiberio lo scrutava con gli occhi iniettati di sangue, il volto devastato dalle rughe, la pelle grinzosa e giallastra, eppure con l'espressione severa e determinata che tutti gli conoscevano.
Per un istante Gaio sentì vacillare la propria sicurezza, sotto quello sguardo cattivo e indagatore, poi avvertì le grida della folla, sentì inneggiare il suo nome e quello di Germanico, e la calma tornò dentro di lui.
«Il tuo testamento non è valido» disse, allargando un sorriso pieno di scherno, rabbia e desiderio di vendetta. Ricordò tutte le persone a lui vicine che l'imperatore aveva fatto uccidere, o che si erano tolte la vita per causa sua, e dilatò le narici, mentre percepiva l'odore della morte che aleggiava sopra la figura rinsecchita di Tiberio. «Lo faremo abolire dal Senato. Io sarò imperatore.» Sventolò una mano con aria divertita. «Poi, deciderò che cosa fare di Tiberio Gemello.»
Tiberio lo guardò digrignando i denti, i tendini del collo tesi per lo sforzo.
«Uccidetelo!» ringhiò, rivolgendosi a Macrone e Silano. «Ho lasciato vivere fin troppo questo escremento! Non mi serve più! E non mi diverte più!»
Girò lo sguardo febbricitante sul prefetto del Pretorio, poi sull'uomo che gli era stato più fedele. Quando vide che non si muovevano, che sostenevano impassibili le sue smorfie allucinate, un barlume di comprensione lo colse. Cominciò a tossire, poi i colpi di tosse divennero una risata bassa e cavernosa, che lo costrinse a tornare a sdraiarsi.
«Così alla fine avete deciso con chi schierarvi» disse, rivolto al soffitto. «Vi sono grato per il lungo tempo che mi avete concesso, ma io non sono ancora pronto per lasciare Roma in mano a questa feccia.»
Gaio lo osservava incuriosito. Tiberio pensava davvero che gli dei fossero pronti ad ascoltarlo? Che raccogliessero i suoi deliri come preghiere strafottenti? Quell'uomo non era solo sfiancato nello spirito e nel corpo, era del tutto pazzo, avrebbe dovuto accorgersene da tempo.
«Non è a loro che devi rivolgerti per chiedere pietà» disse, allungando una mano e raccogliendo un cuscino imbottito di piume, di quelli che piacevano tanto all'imperatore. «Ma a me. A Gaio Cesare Augusto Germanico, imperatore di Roma.»
Prima che Tiberio potesse ribattere, gli schiacciò il cuscino sulla faccia e premette con forza, usando una mano sola. Il vecchio cominciò a dibattersi, e per un istante Gaio temette che si sarebbe liberato, ma poi un'altra mano si accostò alla sua. Macrone gli era venuto in soccorso.
Gaio si voltò e lanciò un'occhiata a Silano, che non esitò neppure un istante e in due falcate gli fu accanto. Allungò a sua volta un braccio e tutti e tre premettero insieme sul cuscino, fino a quando il corpo macilento del vecchio imperatore smise di dibattersi e sussultare.
«I medici dichiareranno che è spirato in pace, richiamato dagli dei nei Campi Elisi» affermò Marco Giunio Silano ritraendo il braccio.
Macrone scostò il cuscino e verificò che Tiberio fosse morto, poi scrutò Gaio.
«Ti farò proclamare imperatore dai miei pretoriani, qui a Miseno» gli spiegò. «Poi andrò a Roma, al Castro Pretorio, e sarai acclamato in forma ufficiale dall'esercito. Saranno tutti con te, mio princeps.»
«E io mi recherò subito in Senato per fare annullare il testamento di Tiberio» aggiunse Silano. «Sarà facile. La Curia dichiarerà pazzo l'imperatore per aver deciso di concedere il regno anche a un ragazzino come Tiberio Gemello, dividendolo e spartendolo in modo insensato.»
«Quando anche il Senato ti avrà decretato l'imperium, farai il tuo ingresso a Roma» concluse Macrone.
Gaio ascoltava affascinato, quasi stesse vivendo un sogno.
«Potrai entrare nell'Urbe accolto in trionfo dal popolo» aggiunse Silano con voce che Gaio percepì appena, mentre ancora, nelle orecchie e nel cuore, gli rimbombavano le acclamazioni della folla. «Sarai celebrato con il nome di Gaio Cesare Augusto Germanico.»
Gaio si riscosse.
«No» proclamò deciso, fissandoli entrambi. «Per tutti io sarò solo Caligola.»