CAPITOLO UNDICESIMO

 

 

Roma

37 d.C. - 790 ab Urbe Condita

Caligola ha venticinque anni.

È imperatore da tre mesi

 

26

Quando rimise piede nella sua vecchia casa sul Palatino, la domus che era stata di Germanico e che Tiberio aveva fatto espropriare dopo l'esilio di Agrippina e dei suoi fratelli, Caligola avvertì un senso di pace e di benessere mai provato prima. Non era per la toga bordata di porpora che indossava, per la schiera di pretoriani che gli faceva da scorta, per il trionfo che il popolo gli tributava ovunque lui andasse, per la deferenza dei senatori e delle famiglie aristocratiche, che ancora dovevano capire come si sarebbe comportato nei loro confronti dopo l'ubriacatura dell'investitura imperiale. Finalmente suo padre, ovunque fosse, l'avrebbe guardato, pieno di orgoglio e di affetto, con il consenso che si riserva ai vincitori.

Aveva trascorso i primi venticinque anni della sua vita in disparte, ignorato da tutti, preoccupato di non mettersi mai in risalto, di non risultare aggressivo e carico di protervia come tanti che aveva visto innalzarsi per poi finire nella polvere, e la sua strategia si era dimostrata vincente. Gli altri erano morti, o erano stati mandati in esilio, mentre lui...

Si guardò attorno, ricordando i giorni in cui, da ragazzino, aveva abitato quella domus, seppure per poco tempo, e gli venne da sorridere.

«Io, padre, adesso sono imperatore» mormorò, avendo cura che nessuno potesse sentirlo.

Pronunciare quelle parole gli fece venire appetito, e battendo le mani richiamò i servi e i liberti che gli erano stati messi a disposizione. Appartenevano ancora, per la maggior parte, al vecchio seguito di Tiberio, ma lui non era ancora riuscito a rimpiazzarli tutti con i suoi collaboratori più fidati, e la questione avrebbe richiesto un po' di tempo. Nel frattempo, avrebbe dovuto fare conto sui servi di Tiberio, e soprattutto sui suoi liberti, a cui il vecchio imperatore aveva affidato gran parte dell'amministrazione dell'Urbe e delle province.

«Voglio mangiare qui» disse. «Preparate per me e per i miei ospiti.»

Il nugolo di servitori si mosse come un solo uomo, dimostrando grande efficienza e l'abitudine a obbedire all'istante a ogni ordine pronunciato. Il che non dispiacque affatto a Caligola.

«Hai intenzione di stabilirti qui, dunque?» gli chiese Macrone, affiancandolo. Con lui c'era Ennia, splendida come sempre, anche se adesso più timida e riservata nei suoi confronti, come se percepisse il divario che si era creato fra loro, dopo la sua investitura a princeps.

«Non lo so» rispose Caligola. «Di certo, non avrei lasciato la casa di mio padre a Gaio Calpurnio Pisone.»

«È stato Tiberio a volere che si insediasse qui, dopo la confisca» gli ricordò Marco Giunio Silano, che ormai sembrava non volersi più staccare da lui.

Quell'atteggiamento lo irritava. Negli ultimi tempi aveva avuto quasi l'impressione che i due, Macrone e Silano, fossero più delle guardie del corpo che suoi amici e confidenti, ma si rendeva conto di essere ancora un po' frastornato da quello che era successo: aveva bisogno di tempo per arrivare al giusto equilibrio.

«Non mi importa per Pisone» ribatté sventolando una mano in aria. «Non me la prenderò con lui e la sua famiglia, però nessuno deve occupare la casa di Germanico, adesso che suo figlio è tornato.»

La questione era chiusa, e i suoi due più stretti collaboratori lo capirono e non aggiunsero altro.

«Gaio, vieni! Ricordi questo albero? Ci siamo saliti insieme!»

Drusilla era la sola che avesse il permesso di chiamarlo ancora Gaio. Nessun altro poteva farlo, e lui stesso ormai faticava a pensare a se stesso in modo diverso da quel soprannome, Caligola, che aveva portato con orgoglio fin da bambino.

Sorridendo raggiunse la sorella accanto a un vecchio albero tutto storto, che resisteva agli strali del tempo, e con affetto abbracciò Drusilla, che quando sorrideva aveva la capacità di illuminarsi come una torcia nella notte.

«Me lo ricordavo molto più alto» disse. «Possibile che quei ramoscelli abbiano retto il nostro peso?»

«Il mio lo reggono ancora!» esclamò lei cominciando ad arrampicarsi.

«Drusilla!» esclamò Marco Emilio Lepido, suo marito da pochi giorni, accorrendo preoccupato. «Scendi da lì, è pericoloso!»

Caligola lo fermò con un braccio. In un'altra situazione probabilmente avrebbe fatto decapitare chiunque avesse osato rivolgersi in quel modo a sua sorella, ma sapeva che Lepido era molto affezionato a Drusilla, e se aveva alzato un po' il tono della voce era solo perché era sinceramente preoccupato per lei. E questo era un bene: la sorella aveva bisogno di essere circondata da affetto e da amore, oltre che da sagge preoccupazioni sulla sua incolumità.

«Non le succederà niente» lo tranquillizzò.

Drusilla si mosse agile e leggera come sempre, mettendo in mostra le gambe snelle ma forti sotto la tunica, che a un certo punto s'impigliò in un ramo e si strappò. Ma lei non rinunciò a salire, e quando fu a cavallo del ramo su cui da ragazzini si erano appollaiati insieme, per contemplare il mondo da un'altezza che era sembrata vertiginosa, incrociò le braccia sul petto e lo fissò divertita.

«Visto? Mi regge ancora.»

Emilio Lepido la guardava nervoso. Caligola era certo che si sarebbe buttato ai piedi dell'albero per attutire l'impatto con il proprio corpo, se Drusilla fosse caduta. Quell'uomo era davvero innamorato di sua sorella, e per un momento si sentì di compatirlo, perché sapeva che il suo affetto non era ricambiato dalla sorella, il cui cuore batteva solo per lui. Ma la dedizione di Lepido gli fece un ottimo effetto e contribuì ad accrescere il suo buonumore.

«Adesso vieni giù» ordinò alla sorella allungando una mano per porgerle sostegno. «Dobbiamo intrattenere gli ospiti.»

Il banchetto non era certo come quelli organizzati da Tiberio, in cui i commensali dovevano letteralmente affogare nelle pietanze servite sui tavoli e nel vino di cui venivano continuamente riempiti i crateri. E mentre bevevano e mangiavano dovevano lusingare l'imperatore senza concedersi soste, e senza rischiare di annoiarlo o infastidirlo.

Caligola non aveva mai gradito quegli eccessi. Da quando era diventato imperatore aveva organizzato ben pochi banchetti degni di quel nome, preferendo intrattenere i suoi ospiti con cibi nutrienti ma delicati, vino sempre allungato con acqua e insaporito con il miele. Non gradiva neanche l'eccessiva adulazione nei suoi confronti, che ricusava non appena ne aveva sentore.

Macrone aveva approvato fin da subito quel suo comportamento, spiegandogli che, dopo gli anni del terrore di Tiberio, tutta Roma avrebbe apprezzato i suoi modi pacati e privi di eccessi.

«Spero che mi acclameranno anche per le misure economiche e amministrative che stiamo mettendo in atto» aveva ribadito Caligola divertito, ma Macrone non aveva raccolto la provocazione e si era limitato ad acconsentire con un cenno della testa.

Adesso, mentre piluccava da un piatto all'altro, Caligola riassunse mentalmente i provvedimenti che aveva adottato fin dal giorno della sua investitura. Tutto sommato si considerava soddisfatto: il popolo romano e il Senato avevano reagito con entusiasmo. O almeno così sembrava.

«Marco Giunio» chiamò, rivolgendosi a colui che considerava ancora suo suocero, «credi che ormai i festeggiamenti in mio nome possano considerarsi finiti?»

«Durano da ben tre mesi!» esclamò Silano con la bocca piena e il mento unto di garum, di cui andava ghiotto. «Mi dicono che sono stati sacrificati quasi duecentomila animali, con cui tutta Roma ha banchettato giorno e notte. Ormai saranno tutti esausti.»

«Bene» commentò Caligola soddisfatto. «E il Senato? Quali sono le reazioni?»

Silano s'incupì, inghiottì il boccone, bevve un sorso di vino e si passò la manica della tunica sulla bocca.

«Hai fatto bene a tenere quel discorso in Senato, convocando anche i rappresentanti dell'ordine equestre e del popolo» rispose, misurando le parole come se avesse timore di dire qualcosa che avrebbe potuto contrariarlo. «E hai fatto benissimo a proclamare cessati tutti i processi per lesa maestà istruiti da Tiberio, così come a restituire la libertà a chi era stato esiliato o tradotto in carcere...»

«Ma?» lo interruppe Caligola, suo malgrado divertito dall'impaccio che vedeva sul volto di Silano.

Questi si passò una mano sulla barba, che da qualche tempo teneva lunga e ispida.

«Forse non avresti dovuto bruciare pubblicamente, nel Foro, tutti i documenti processuali che Tiberio aveva fatto raccogliere» si decise a rispondere. «Anche perché fra quei documenti c'erano tutte le prove e le motivazioni riguardanti le accuse sollevate da Tiberio e da Seiano contro tua madre e i tuoi fratelli.»

«Quel falò è stato un segnale chiaro» intervenne Macrone. «Dovrebbe aver tranquillizzato il Senato e tutti coloro che per tanti anni hanno vissuto nel terrore sotto Tiberio.»

Silano si strinse nelle spalle. «Questo è vero» disse. «Però non significa che le accuse e le denunce cesseranno, anzi. So per certo che molti si stanno preparando a porgere le loro rimostranze all'imperatore, innescando un altro tentativo di ingraziarsi i suoi favori e approfittando del fatto che sia stata fatta piazza pulita delle vecchie questioni per ricominciare dall'inizio.»

«Ignorerò qualsiasi accusa e delazione» affermò Caligola. «Almeno per ora.»

Silano e Macrone lo fissarono come se volessero cogliere il vero significato delle sue parole.

Caligola si portò alla bocca una coppa di vino per celare il ghigno sarcastico che gli premeva sulle labbra. Forse quei due avevano immaginato la verità. Prima del grande falò nel Foro, lui aveva fatto redigere delle copie di tutti i documenti processuali di Tiberio che avessero a che fare con la sua famiglia. Voleva leggere con calma quello che Seiano prima e Tiberio poi avevano architettato per mettere i suoi con le spalle al muro, e non si sarebbe certo fatto scrupolo di prendersi la sua rivincita con chi era stato coinvolto, con chi aveva testimoniato e portato prove contro sua madre e i suoi fratelli. Che si credessero pure al sicuro, di fronte alle sue dichiarazioni di pace e alla sua apparente pietas, rivolta all'intera classe aristocratica, che Caligola sentiva di odiare con tutto se stesso. Prima o poi si sarebbe vendicato di quella gente. Ma per il momento aveva bisogno di rasserenare gli animi e far credere a tutti che fossero Macrone e Silano a reggere le sorti dell'impero.

«Io ho apprezzato molto il tuo discorso funebre per Tiberio» si inserì nella discussione Emilio Lepido, che godeva dell'onore di essere ammesso nella cerchia dei più intimi consiglieri di Caligola. Era sdraiato su un grande triclinio insieme a Drusilla, che bella come una dea piluccava tra le portate e, di tanto in tanto, sorrideva maliziosa, intrigandolo come solo lei sapeva fare.

«Davvero?» chiese Caligola, scrutando Lepido con attenzione. «E che cosa, esattamente, ti è piaciuto?»

Anche in questo caso lui aveva giocato d'anticipo con il Senato, e lo aveva messo alla prova prendendolo alla sprovvista. Aveva infatti chiesto, con una lettera pubblica che era stata letta da Silano nella Curia, che venissero accordati a Tiberio gli stessi onori funebri che aveva ricevuto Augusto, concedendo che la sua salma fosse consacrata e accolta nel Pantheon.

Silano gli aveva riferito dello sgomento dei senatori, che erano pronti a dichiarare una damnatio memoriae nei confronti di Tiberio, per cancellarne ogni ricordo dagli atti pubblici e dalle stele votive, e di come si fossero interrogati sulle vere intenzioni di Caligola.

«Voglio solo tributare i giusti onori a un uomo che ha regnato su Roma per così tanto tempo»

E infatti, sotto lo sguardo perplesso della classe senatoria e persino del popolo, che non aveva mai amato Tiberio, Caligola aveva preteso e ottenuto di svolgere un solenne funerale per il vecchio imperatore nel mausoleo di Augusto, e lì aveva dato il meglio di sé, rivelando solo ai più attenti e scaltri le vere ragioni di quella farsa.

Era curioso di capire se Lepido fosse davvero riuscito a cogliere le sfumature del suo discorso, e il motivo per cui aveva voluto onorare le spoglie di Tiberio davanti a tutta Roma, quando avrebbe preferito gettarle senza indugio nel Tevere.

Lepido si strinse nelle spalle, come se non volesse esagerare troppo nel mettersi in mostra.

«Credo che chi ti ha ascoltato abbia pensato ben poco a Tiberio, su cui ti sei soffermato lo stretto necessario» disse, colpendo piacevolmente Caligola. Quell'uomo si stava rivelando una continua sorpresa. Mentre Lepido continuava, lanciò un'occhiata a Drusilla, la vide compiaciuta e comprese che forse dietro a quella divertente scenetta c'era il suo zampino. «In realtà le tue parole sono state efficaci nel ricordare Augusto e tuo padre, e nel far capire alla gente che, dopo gli anni del terrore, la dinastia Giulio-Claudia avrebbe reintegrato i migliori valori di Roma, partendo proprio da te, l'unico figlio maschio sopravvissuto di Germanico.»

Lepido tacque. Per un attimo vi fu silenzio, mentre Caligola beveva un sorso di vino. Tutti gli occhi erano puntati su di lui, in attesa della sua reazione. Un atteggiamento consueto, quando c'era ancora Tiberio, perché non era possibile capire come avrebbe reagito l'imperatore a qualsiasi discorso fatto dai suoi ospiti. Ma lui non voleva ricalcarne, così abbassò la coppa e scoppiò a ridere, allungandosi per dare una pacca su una spalla di Lepido.

«Sei molto astuto, cognato!» disse, mentre il clima si distendeva in tutto il triclinium. «E intelligente.»

«Molti senatori hanno capito le tue intenzioni» disse Silano, come se solo adesso si fosse ricordato di quell'episodio.

«E il popolo ti ha acclamato più volte, quando hai fatto il nome di tuo padre» aggiunse Macrone con aria soddisfatta.

«Bene, allora vedo che i miei intenti non sono stati così difficili da capire» scherzò Caligola. «Il che significa che non possiamo certo fermarci qui.»

«Cos'altro vuoi fare, fratello?» gli chiese Drusilla allungandosi sul triclinio, languida come una sirena su uno scoglio.

«Intendo dare seguito ai lasciti testamentari di Tiberio» rispose lui godendosi la reazione di tutti, fra sorpresa e preoccupazione. «A parte la questione della divisione dell'impero fra me e Tiberio Gemello, ovviamente» precisò, vedendo che Silano e Macrone si scambiavano un'occhiata che equivaleva a un duplice sospiro di sollievo.

«Parli delle donazioni?» chiese Emilio Lepido, accarezzando la testa di Drusilla.

Caligola lo invidiò, perché avrebbe voluto essere lui su quel triclinio con la sorella, ma si concentrò sulla risposta che voleva dare, e che tutti aspettavano con evidente curiosità.

«Elargirò quarantacinque milioni di sesterzi al popolo, proprio come aveva voluto Tiberio. Ma poi andrò oltre. Gratificherò tutti con una pioggia di denaro che dovrà rimarcare la mia generosità, ben superiore a quella del vecchio imperatore.»

«In realtà le casse imperiali non sono messe così bene, e...» provò a intervenire Silano, ma Caligola lo bloccò subito alzando una mano.

«Darò trecento sesterzi a ogni capofamiglia di Roma» continuò, mentre ricordava quello che già da tempo aveva pianificato dentro di sé. «E non mi dimenticherò certo dei pretoriani, dei Vigili o dei soldati dell'impero.» Si voltò verso Macrone. «Comunica pure ai tuoi uomini che ciascuno di loro riceverà mille sesterzi.»

«Ma è quasi l'equivalente di un anno della loro paga!» protestò Silano, che era stato designato a occuparsi delle finanze dell'impero.

«Non più» ribatté Caligola deciso. «Da adesso la paga dei pretoriani sarà raddoppiata. E voglio che siano dati cinquecento sesterzi a ciascun membro dei Vigili e delle coorti urbane.»

«Hai pensato anche ai soldati di cittadinanza romana che non risiedono nell'Urbe?» gli chiese Macrone, che sembrava molto soddisfatto delle sue decisioni, perché avrebbero rinsaldato con forza la fedeltà dei pretoriani.

«Per loro ci saranno trecento sesterzi ciascuno» rispose Caligola. «Però oggi stesso dobbiamo risolvere un problema.»

«Quale?» chiese Macrone.

«Le guardie del corpo imperiali. Hanno fatto un giuramento, e dovrebbero essere legate a me da un patto di fedeltà pronunciato davanti agli dei.»

«È così» annuì Macrone. «Sono fra i più fedeli e i più abili dei miei pretoriani.»

«Bene» fece Caligola. «Mi sono fatto dare i loro nomi e ho scoperto delle cose interessanti.»

Ancora una volta era riuscito a coglierli tutti di sorpresa. Macrone e Silano si scambiarono un altro sguardo pieno di incertezza, mentre gli altri ospiti tacevano e distoglievano lo sguardo da lui.

«Sono praticamente gli stessi che hanno ucciso e trucidato in nome di Tiberio e Seiano» continuò, «torturando e decapitando così tanta gente che non è possibile ricordarli tutti. O mi sbaglio?»

«No, princeps, non sbagli» confermò il prefetto del Pretorio. «Hanno obbedito agli ordini, e la loro fedeltà dovrebbe essere dimostrata proprio da questo.»

«Saranno altrettanto fedeli anche a me?»

«Di più, princeps. Perché di te hanno più rispetto.»

Quelle parole confortarono Caligola, che si rilassò e bevve un altro sorso di vino.

«Molto bene» disse. «Allora convocali domani nei Fori. Dovranno dare sfoggio di sé davanti alla Curia.»

«Perché, mio princeps?» chiese sorpreso Silano.

Caligola lo fissò con gli occhi ridotti a due fessure. «Perché i tuoi amici senatori dovranno vederli, rendersi conto che adesso sono al mio servizio, e che se io lo vorrò riprenderanno a uccidere e torturare senza alcuna esitazione, proprio come hanno fatto con Tiberio.»

Tacque. Non c'era bisogno di aggiungere altro. Avevano capito tutti.

«Ma adesso beviamo e mangiamo, basta con questi musi lunghi!» esclamò tornando a sorridere. «Drusilla, dai tu il buon esempio!»

 

27

«Il compito di un buon sovrano è dispensare virtù al proprio popolo dando il buon esempio. Se la tua mano e il tuo cuore saranno abbastanza generosi, ne sarai ripagato con ricchezze ancora superiori da parte dei tuoi sudditi.»

Caligola osservò Lucio Anneo Seneca, che aveva parlato rivolto ai senatori riuniti nella Curia, e si trattenne dallo scoppiare a ridere. Anzi, con una capacità sorprendente di atteggiare il proprio viso a un'espressione di regale condiscendenza, annuì e andò ad abbracciare il filosofo, a cui una parte del Senato aveva dato la parola dopo che molti si erano espressi a favore dell'imperatore.

Caligola sapeva che tra quelle mura si celavano i cani che avevano acconsentito al massacro della sua famiglia, che si erano scannati fra loro come belve solo per raggiungere ricchezze e onori che non gli spettavano, facendo delle delazioni e dei processi sommari di Tiberio il loro strumento per sbarazzarsi di chiunque gli ostacolasse il cammino.

Era a causa loro, lo sapeva, se suo padre era morto, se sua madre e i suoi fratelli erano stati esiliati e poi costretti a uccidersi, se lui aveva dovuto passare sei anni terribili a Capri, alla corte del folle Tiberio.

L'aristocrazia romana. Quelle famiglie nobili che odiavano la dinastia Giulio-Claudia e che avevano creduto possibile estinguerla facendo affidamento sulle ambizioni di un prefetto del Pretorio e di un imperatore codardo.

Ma il loro tentativo era fallito. Adesso era lui a impugnare il bastone del comando.

Doveva però dare credito a Macrone, quando questi, con la sua consueta capacità di intuire i suoi pensieri, gli suggeriva di non allarmare i senatori, anzi di blandirli facendo credere loro che le cose sarebbero cambiate e che lui non avrebbe portato rancore. Se si fossero rilassati, se avessero creduto di poter riprendere le loro macchinazioni e i loro intrighi senza interferenze da parte sua, allora gli avrebbero dato la possibilità di regnare senza doversi continuamente guardare le spalle o senza dover essere costretto a rinchiudersi in un esilio dorato, come aveva fatto Tiberio.

«Se vuoi guadagnarti la libertà di muoverti e agire come meglio credi, prima di tutto devi conquistarti la fiducia del Senato» aveva rincarato la dose Marco Giunio Silano. «Quando ti appoggerà e ti sosterrà, il tuo potere diventerà ineguagliabile. Più di quello avuto da Augusto o da Cesare, perché avrai non solo l'esercito ai tuoi ordini, ma anche il sostegno del popolo. Mai nessuno ha potuto raccogliere un simile bottino, prima d'ora.»

Caligola aveva ascoltato con attenzione. Silano aveva ragione. E aveva anche inteso quale avrebbe dovuto essere il pegno da pagare per ottenere l'appoggio del Senato.

«Deve cessare la paura» gli aveva spiegato il suocero. «Se li rassicuri e fai capire che non sei loro nemico, e che anzi li sosterrai, ti appoggeranno a viso aperto.»

Caligola aveva già operato in quel senso, ma era chiaro che non bastava. L'aristocrazia non si fidava ancora del nuovo imperatore. E faceva bene, perché lui non aveva nessuna intenzione di dimenticare quello che gli avevano fatto.

Nel frattempo, però, li avrebbe accontentati. Si era recato nella Curia per ascoltare le loro richieste e pronunciare un discorso di distensione. Non si era aspettato l'intervento di Seneca, che nei suoi scritti non era mai stato troppo morbido nei confronti del potere imperiale, ma era stato bravo a non scoppiare a ridere in faccia al filosofo, a non sputargli addosso tutta la rabbia che lo divorava dentro, e che riusciva a tenere sotto controllo con grande difficoltà, solo perché la lunga pratica della sua vita lo aveva abituato a fare della finzione e dell'inganno un'arte che conosceva alla perfezione.

«Io vi ringrazio per avermi accolto» disse rivolto a quelle facce cupe che lo scrutavano con sospetto. «Come avete visto, ho deciso di dimenticare la follia vendicativa di Tiberio e ho bruciato le carte di tutti i processi. Ma non mi limiterò a questo.» Tacque, mentre un cauto brusio si diffondeva nella sala. «Dice bene il sapiente Seneca: il sovrano migliore è quello che sposa la virtù e la riflette sui suoi sudditi.»

Aveva letto quella frase da qualche parte, ma non ricordava dove. In ogni caso, era evidente che nessuno fra i presenti sembrava dubitare che provenisse dal suo cuore, e questo contribuì a divertirlo ancora di più.

«Darò io per primo l'esempio» continuò, caricando la voce di una determinazione che aveva provato più volte davanti allo specchio. «Qui, al cospetto delle persone più nobili e illustri dell'Urbe, proclamo che rinuncio a farmi tributare onori dal popolo. Non saranno erette statue con la mia effigie, e non mi farò scrupolo di criticare in ogni occasione, e in ogni atto del mio principato, tutte le azioni scellerate di Tiberio che hanno portato alla lotta intestina e fratricida che ha dilaniato le nostre famiglie, senza risparmiarne nessuna.»

Non sapeva se quell'ultima affermazione fosse vera, ma di certo l'ovazione che si alzò dai senatori, e le espressioni felici e sorprese che vide spuntare sui loro volti, gli fecero capire che era proprio questo che si auguravano.

«Vi chiedo solo alcune piccole cose, in cambio, a riconoscimento della mia volontà di garantire al Senato e al popolo romano tutta l'autonomia che si merita» continuò dopo un po', ritenendo arrivato il momento di raccogliere qualche frutto. «Lasciate che Roma omaggi la scomparsa di mia madre e dei miei fratelli, dopo che Tiberio ha preteso per loro delle semplici fosse scavate nella nuda terra.»

Le esclamazioni a favore di quella proposta furono persino più veementi di quanto si sarebbe aspettato.

«E lasciate che un decreto di questo augusto consesso conceda ai miei parenti ancora in vita gli onori di cui non sentono il bisogno, ma che io voglio per loro, come forma di ringraziamento per avermi sostenuto nei difficili anni trascorsi al cospetto di Tiberio.»

Altre esclamazioni, battiti di mani e fischi di approvazione da parte di molti senatori. Caligola si sorprese di quanto fosse facile addomesticare quelle bestie da cortile che credevano di dominare il mondo.

«Dicci quali privilegi vuoi che vengano concessi ai tuoi familiari» gridò Silano più forte degli altri, per sovrastare il clamore che rimbombava sulle pareti della Curia, «e noi ti accontenteremo.»

Caligola strinse gli occhi. Nessuno, fra i presenti, aveva capito di essere stato manovrato. Con qualche menzogna ben distribuita era riuscito a portarli tutti dalla sua parte. Adesso avrebbe ottenuto quei favori che in altre circostanze difficilmente sarebbe riuscito ad avere, se non con l'imposizione e la forza. La differenza era sostanziale: i decreti del Senato restavano agli atti, erano parte integrante della storia di Roma, per chiunque fosse arrivato dopo di lui, anche fra mille anni. Le imposizioni dei tiranni, invece, finivano sul rogo e venivano bandite dalla memoria, non appena l'Urbe si liberava del dittatore. E questo lui lo sapeva molto bene.

«Vi ringrazio» disse sollevando le mani per acquietare il clamore. «Chiedo solo poche cose. Accordate a mia nonna Antonia il titolo di Augusta e gli onori concessi alla divina Livia. E quando assumerò il consolato, che prometto già da ora manterrò solo per pochi mesi, senza ostacolare nessuno dei magistrati che meritano di ricoprire questa massima carica ben più di quanto possa farlo io, lasciate che mi affianchi mio zio Claudio, che oggi non vedo tra di voi e che per troppo tempo è stato dimenticato dalla vita attiva dell'Urbe.»

Vi furono delle esclamazioni di sorpresa, e qualche borbottio inquieto, ma alla fine nessuno se la sentì di rovinare quel clima di reciproca intesa per richieste così insignificanti. Caligola poté continuare a sorprenderli, lanciandosi anche in improvvisazioni che gli diedero una certa soddisfazione.

«Infine, nella speranza che vogliate ratificare questa mia decisione, vi comunico che adotterò Tiberio Gemello come mio figlio, facendolo uscire dalla gabbia in cui l'ha rinchiuso Tiberio.»

Molti batterono le mani e fischiarono, altri scoppiarono a ridere divertiti, ma pochi avevano compreso il significato di quella decisione. Forse Silano, a cui Caligola non aveva mai accennato nulla in proposito, e che adesso lo scrutava in silenzio. E il cupo Seneca, che era andato a sedersi in disparte e ascoltava senza partecipare all'euforia generale.

«Gli conferirò la toga virilis» continuò Caligola con un ghigno divertito, senza preoccuparsi di essere smascherato, «e lo nominerò princeps iuventutis, principe della gioventù, come fece Augusto con i suoi nipoti scelti per la successione.»

L'acclamazione che seguì era quanto meno ridicola. Quegli idioti festeggiavano un provvedimento che stabiliva solo una cosa: che era l'imperatore a designare il suo erede, al contrario di quanto aveva fatto Tiberio, e che non sarebbe stato così facile sbarazzarsi di lui anzitempo, perché l'alternativa a Gaio Cesare Augusto Germanico, detto Caligola, sarebbe stata un ragazzino introverso di cui non si sapeva nulla, se non che probabilmente covava un rancore formidabile contro tutto e tutti, dopo una vita trascorsa nella sua prigione dorata. Chi poteva essere sicuro che fosse meglio di lui?

Mentre usciva dalla Curia, avvertì su di sé lo sguardo di Marco Giunio Silano. Lui probabilmente aveva capito il vero significato della nomina di Tiberio Gemello a suo erede, e sarebbe corso a parlarne con Macrone. Perché, se era vero che adesso erano loro due gli uomini forti al suo fianco, la designazione di un erede eliminava qualsiasi ipotesi che altri potessero aspirare al trono imperiale, nel caso in cui a lui fosse successo qualcosa.

La domus tiberiana sul Palatino, che sorgeva in una vasta area fra il tempio della Grande Madre Cibele e il Foro, era stata edificata a partire dalla modesta casa in cui lo stesso Tiberio era nato, e che aveva voluto trasformare in residenza imperiale, anche se negli ultimi quindici anni vi aveva soggiornato ben poco. A sud, oltre il vivarium che ormai era stato prosciugato e pareva una grande vasca abbandonata in cui erano cresciute erbacce tenaci, si trovava la casa di Livia Augusta, in cui Caligola da ragazzo aveva passato momenti spensierati insieme ai pochi amici che era riuscito a frequentare.

«Allargherò la villa dalla parte del Foro» affermò dopo aver dato un'occhiata alla domus tiberiana e avere deciso che quella sarebbe stata la sua residenza imperiale. Avrebbe continuato a usare anche la casa di Germanico, ma era indubbio che un imperatore avesse bisogno di una dimora all'altezza, e nessuna costruzione, sul Palatino, poteva eguagliare per dimensioni e fasto la domus imperiale di Tiberio.

Voleva però avvicinarsi il più possibile al cuore dell'Urbe, e già immaginava un passaggio che avrebbe fatto scavare nel fianco del declivio e che avrebbe collegato il peristilio della domus tiberiana con la Via Sacra, facendosi spazio attraverso gli orti e le abitazioni che ostruivano il passaggio.

«Mi assegnerai delle stanze nella villa imperiale?» gli chiese Drusilla avvicinandosi a lui dopo avere volteggiato come una vestale intorno alle colonne che sostenevano l'ampio criptoportico. «Così potremo vederci più spesso!»

Caligola la fissò estasiato, cercando di cogliere i particolari del suo corpo sotto i veli che la avvolgevano e la facevano sembrare più una creatura uscita da qualche leggenda silvana, che la vivace sorella a cui non riusciva più a rinunciare.

«Che cosa ne penserà tuo marito?» le chiese, mentre i servi e gli schiavi sciamavano in ogni direzione, intenti a rendere di nuovo abitabile e confortevole il palazzo imperiale, rimasto troppo a lungo disabitato.

Drusilla scoppiò a ridere, gli scivolò accanto sfiorandolo con un bacio sulla guancia e, quando lui cercò di agguantarla, scappò via.

«Emilio Lepido ti adora, lo sai?» gli rispose. «Farebbe qualsiasi cosa, per il suo imperatore. Figurati se si opporrà all'idea di avere delle stanze tutte per noi nel palazzo imperiale.»

«Ma io potrei volere solo te» ribatté Caligola. «E nessun altro. Nemmeno tuo marito.»

Lei compì due giravolte, saltò sulle punte dei piedi nudi e gli fu dietro, a circondarlo con le braccia sottili.

«E poi cosa direbbe la gente?» gli mormorò in un orecchio, facendogli scorrere un brivido lungo la schiena. «Lascia che mio marito mi segua, e forse potremo anche divertirci insieme.»

Questa volta fu il turno di Caligola di scoppiare a ridere, divertito dalla malizia della sorella.

«Forse hai ragione» disse, prendendola per mano e trascinandola all'interno della domus tiberiana. «Il che significa che avrete bisogno di molto spazio. Aiutami a scegliere i vostri alloggi.»

Drusilla ridacchiò eccitata e lo abbracciò con impeto, rischiando quasi di farlo cadere.

«Ah, avessi io una sorella che mi vuole così bene!» risuonò una voce alle loro spalle. «Invece, sono solo come un cane.»

Caligola si voltò. Quando vide Giulio Agrippa che avanzava con il suo seguito di servi, non poté fare a meno di allargare le braccia per accoglierlo.

«Tu non sarai mai solo, finché ci sarò io» affermò abbracciandolo. «Sono felice che tu abbia accettato il mio invito.»

«Il nuovo imperatore di Roma mi chiama e io non dovrei precipitarmi da lui?» disse Agrippa. «Ci tengo alla mia testa!»

Scoppiarono a ridere entrambi, poi Caligola indicò all'amico di seguirlo nel palazzo imperiale, insieme alla sorella e ai suoi servitori.

«Ti ho portato un dono, princeps» rivelò Giulio Agrippa quando furono all'interno.

«Davvero?» fece divertito Caligola. «E di che si tratta? Non vedo cammelli carichi d'oro da nessuna parte.»

«Oh, è un dono ben più prezioso dell'oro, vedrai.»

«Che cos'è?» esclamò Drusilla, fissandolo eccitata.

Agrippa restò a guardarli per un istante con un'espressione indecifrabile, poi li abbracciò entrambi e disse: «Andiamo in un posto tranquillo e riservato. Lì, mio princeps, ti farò vedere ciò che ti ho portato. E che sono sicuro piacerà anche alla tua bellissima sorella».

Una schiava abbigliata con vesti dai colori sgargianti entrò in quella che era stata la biblioteca imperiale, uno dei locali più confortevoli di tutta la domus tiberiana. Non portava nulla con sé, e Caligola la guardò sorpreso, senza capire.

«Ti presento Micenio» disse Agrippa indicando la schiava.

Caligola scambiò uno sguardo accigliato con Drusilla, poi osservò meglio la figura che si stagliava davanti a loro, immobile e con le braccia lungo i fianchi. Era minuta, dall'apparenza molto delicata, e le curve che si intravedevano sotto le vesti non lasciavano dubbi: si trattava di una donna, forse una ragazzina di nemmeno quindici anni. Allora perché Agrippa l'aveva chiamata Micenio?

«Mi stai dicendo che è un ragazzo?» chiese senza capire.

«A te cosa sembra, mio princeps?» replicò Agrippa, enigmatico.

Caligola si strinse nelle spalle. Non riusciva a capire dove volesse arrivare l'amico, anche perché poco importava se lo schiavo era un ragazzino dall'aspetto femmineo o una bambina in procinto di diventare donna. Che dono poteva mai essere, per l'imperatore di Roma, che poteva disporre di tutti gli schiavi e le serve che voleva?

«Non ne ho idea» rispose alla fine, afferrando una brocca di vino e portandosela alla bocca. «E, se devo essere sincero, non capisco qual è il tuo gioco.»

Agrippa lo fissò per un istante, poi forse comprese che lui si stava innervosendo e fece un gesto alla schiava.

«Spogliati» le ordinò.

La ragazza cominciò a togliersi lentamente le vesti di dosso e tornò a guardarlo con aria divertita, come se avesse davvero in serbo chissà quale sorpresa per lui.

Caligola s'incuriosì. Gli sembrava strano che l'amico volesse prendersi gioco di lui, così osservò le movenze di Micenio con più attenzione.

Era senz'altro una ragazza, più grande di quanto aveva immaginato in un primo momento, adesso che cominciava a distinguere parte del suo corpo. Aveva movenze leggere, delicate ed estremamente sensuali, anche se non sembrava cercare in alcun modo di sedurre il suo potente ospite. Quella leggiadria, si rese conto Caligola, proveniva direttamente dall'anima di quella creatura e si liberava nell'aria a ogni movimento delle braccia, a ogni strusciare dei piedi morbidi e delicati sul pavimento.

Quando ebbe sfilato la tunica di lino che indossava, volteggiando in modo armonioso, più simile a una ballerina che a una serva che obbediva all'ordine del suo padrone, Caligola ebbe la conferma che si trattava di una ragazzina, forse sui diciassette anni. Non era alta, ma era armoniosa e ben proporzionata, le gambe magre e toniche delle ballerine, i fianchi stretti e la vita così sottile che pareva davvero voler imitare una vespa, come si diceva di alcune fra le più belle donne della corte imperiale.

Dopo che ebbe sciolto il velo che portava sul collo e sulle spalle, e che in parte le copriva la testa, Micenio restò quasi del tutto nuda davanti a lui. Solo i fianchi erano rimasti coperti da un morbido velo: il seno piccolo e acerbo, con i capezzoli che spuntavano come ghiande scure, era delizioso, e il ventre magro e liscio. La pelle di quella creatura era bianca e all'apparenza soffice e liscia come quella di un bambino, senza imperfezioni che la deturpassero.

Caligola aveva già visto altre giovani donne altrettanto belle. Per quanto Micenio riuscisse a impressionarlo per il candore e la freschezza che emanava, si trattava pur sempre di una ragazzina, che non poteva competere certo in bellezza con la sua adorata Drusilla.

«Perché la chiami Micenio, se è una femmina?» si decise finalmente a chiedere ad Agrippa. «E per quale motivo dovrei apprezzare un simile dono?» Si voltò verso Drusilla, e le scostò la veste mettendo in mostra il corpo perfetto della sorella. «Non ti sembra che il meglio sia già in mio possesso?»

Giulio Agrippa sorrise e si inchinò di fronte a lui.

«Nessuna donna è più bella di Drusilla, né potrà mai esserlo» lo rassicurò. «Però... non hai ancora visto tutto, mio princeps.»

Fece un altro cenno a Micenio, che lentamente, con gesti misurati, cominciò a sciogliere il velo che aveva attorno ai fianchi, ruotando su se stessa. Quando l'ebbe tolto e gettato da parte, restò immobile davanti ai loro occhi, voltata di spalle. Caligola osservò accigliato il corpo magro e armonioso della ragazzina, e dovette ammettere che la rotondità del sedere e la perfezione delle sue forme erano molto invitanti, soprattutto l'impressione che la pelle sulle natiche fosse delicata e morbida come quella di una pesca. Ma ancora una volta non trovò nulla che sua sorella o altre schiave a sua disposizione non potessero regalargli ogni notte, a ogni suo battito di mani.

«Io non capisco, davvero, perché...» provò a dire, ma in quel momento Micenio, con la stessa grazia e naturalezza con cui faceva ogni gesto, girò su se stessa e si mostrò a lui fissandolo con gli occhi più neri della notte.

«Com'è possibile?» esclamò Drusilla facendo un balzo al suo fianco, rubando a Caligola le parole di bocca.

«Adesso capisci perché il suo nome è Micenio, mio princeps?» mormorò Agrippa soddisfatto.

Caligola osservò sbigottito la creatura che aveva davanti. Non c'era alcun dubbio che fosse una donna, una ragazza splendida dalle movenze sensuali, con il viso delicato e gli occhi grandi. Le labbra erano state disegnate da un artista, il collo sottile scivolava nelle spalle ben proporzionate, e fianchi, sedere, gambe... tutto in lei esprimeva l'armonia che la Natura sapeva donare alle donne più belle.

Eppure...

Eppure Micenio era un uomo. Non c'erano dubbi, perché quello che gli spuntava fra le gambe era un pene maschile, per di più di considerevoli dimensioni, se paragonato all'insieme della sua figura.

Quella visione ebbe il potere di riempire Caligola di sgomento. Non aveva mai visto nulla del genere. Adesso capiva perché Giulio Agrippa avesse avuto quel sorrisino divertito sulle labbra per tutto il tempo: sapeva che il suo “dono” avrebbe avuto effetto su di lui.

«Ma... funziona?» chiese Drusilla osservando affascinata quello strano incrocio fra il corpo di una donna e l'apparato di riproduzione di un uomo. «Lei.. lui... insomma, potrebbe...»

«Naturalmente» rise Agrippa avvicinandosi a Micenio e prendendogli in mano il pene. «E lo sa usare molto bene, ve lo posso garantire.»

Cominciò a muovere su e giù la mano. Ben presto, sotto gli occhi sbalorditi di Caligola e di sua sorella, il pene di Micenio si gonfiò e si protese verso di loro, ergendosi spavaldo e duro come una spada di roccia.

«Questo è il mio dono per te, Cesare» continuò Agrippa smettendo di sollecitare Micenio e spingendolo verso di lui. «È il più eccezionale degli amanti, la più straordinaria delle creature. A Gerusalemme era tenuto segregato nelle stanze di un uomo molto potente, che l'ha cresciuto in segreto, approfittando delle sue grazie e delle sue capacità. Ma quando me l'hanno portato, dopo averlo scoperto, ho capito che una simile meraviglia era un dono che gli dei facevano all'unica persona sulla terra che potesse meritarselo. All'imperatore di Roma, il nostro signore.»

Micenio scivolò sensuale in mezzo a loro, e Caligola e Drusilla lo osservarono affascinati, lo toccarono, sfiorarono quella pelle liscia e delicata, le curve femminili del suo corpo e l'acciaio del suo vigore mascolino, poi si scambiarono un'occhiata piena di desiderio.

«Ora vi lascio soli» disse Agrippa retrocedendo in fretta. «Credo che ne avrete per un po'.»

Quando se ne fu andato, Caligola accarezzò il viso di Micenio, appoggiò le labbra su quelle calde e morbide del dono più bizzarro e affascinante che gli fosse mai stato fatto e rise, mentre Drusilla si piegava e cominciava a divertirsi con il membro del loro nuovo, magnifico amante.

«Ancora non ho capito come devo considerarti» gli chiese Caligola prima di costringere Micenio e Drusilla a staccarsi per seguirlo in camera da letto. «Sei un maschio o una femmina?»

«Io sono quello che tu vuoi, mio princeps» si limitò a rispondere quella deliziosa creatura con una voce suscitò un brivido lungo la schiena di Caligola, e che contribuì ad aumentare la sua confusione: perché non era né la voce di una ragazza, né quella di un ragazzo. E forse era proprio così: Micenio non era nulla di ciò che aveva conosciuto, e al tempo stesso era tutto ciò che lui avrebbe voluto diventasse.

«Allora adesso sarai la mia donna e l'uomo di mia sorella» gli disse. «Fino a quando non decideremo che sarà arrivato il momento di scambiarci di ruolo.»

 

28

«Basta, per favore, non ce la faccio più...»

Sulpicio Mauro, uno dei pretoriani che Macrone gli aveva consigliato per i suoi allenamenti con la spada, fece un passo indietro e abbassò il gladio mettendosi in posizione di riposo.

Caligola lo fissò irritato, cercando di non far vedere quanto fosse affaticato. Il petto gli faceva male, non riusciva a respirare bene, quasi che la polvere dell'arena improvvisata nei giardini imperiali, dove nessuno avrebbe potuto disturbarlo, gli avesse rivestito la gola e i polmoni.

«Acqua» ordinò a uno dei servi che attendevano a una certa distanza. Mentre il ragazzino accorreva con una brocca, cercò di rimettersi dritto per recuperare un po' della lucidità che gli era mancata nel momento in cui Sulpicio aveva fatto l'affondo. Aveva capito che, dopo la finta, sarebbe partito l'attacco decisivo, e aveva piantato i piedi per terra per poterne sostenere l'urto, pronto a scivolare di lato come gli avevano insegnato fin da bambino, per far partire il colpo che avrebbe aperto uno squarcio nel fianco del suo avversario. Eppure, nel momento in cui Sulpicio Mauro era scattato, un giramento di testa gli aveva fatto ballare il pretoriano davanti agli occhi e un senso di nausea lo aveva colpito allo stomaco, facendolo boccheggiare.

Mentre si piegava in due era stato costretto a sollevare un braccio e a gridare al suo avversario di fermarsi. Se Sulpicio lo avesse colpito, lui sarebbe crollato a terra come la più incapace delle reclute, perché non sentiva più le forze.

«Ecco, mio princeps» disse lo schiavo allungando verso di lui un mestolo pieno d'acqua, lo stesso che usavano i gladiatori per dissetarsi fra un combattimento e l'altro.

Caligola allungò la mano per prenderlo, ma ancora venne aggredito dalle vertigini, barcollò e sentì il terreno aprirsi sotto di lui, come se una divinità avesse deciso che era giunto il momento di farlo sprofondare nell'Averno.

Per fortuna, due mani robuste lo afferrarono e gli impedirono di cadere. Caligola sbatté le palpebre e provò a dire qualcosa. Dalla gola gli uscì solo un rantolo strozzato.

«Presto, vai a chiamare i servi dell'imperatore!» ordinò la voce di Sulpicio Mauro. «E anche i suoi medici!»

Caligola avrebbe voluto ribattere che non serviva nessun medico, che si sarebbe ripreso fra un istante, non appena avesse potuto bere un po' di acqua, ma ancora una volta il mondo ruotò tutto intorno a lui. La nausea era così forte che un conato lo fece piegare in due e lo costrinse a vomitare sulla terra battuta dello spiazzo di allenamento.

All'improvviso vi fu un gran trambusto. Sagome scure correvano da ogni parte e gridavano, mentre la percezione di ciò che gli stava accadendo scemava lentamente, un conato dietro l'altro. Il dolore al ventre era così forte che Caligola pensò di avere ricevuto un colpo di spada da Sulpicio Mauro, e per un istante si chiese se il pretoriano non fosse stato incaricato da qualcuno di ucciderlo, fingendo di scambiare con lui dei colpi di allenamento. Ma chi poteva avere dato l'ordine?

Mentre l'oscurità cominciava a vorticare attorno a lui, e le voci e le ombre che lo circondavano si amalgamavano in un'unica creatura infernale che lo insidiava da vicino, quasi volesse divorarlo in un boccone, pensò che solo Macrone avrebbe potuto convincere uno dei suoi pretoriani a rinnegare il giuramento di fedeltà all'imperatore per ucciderlo.

Si portò le mani al ventre per cercare di fermare l'afflusso di sangue che certamente stava sgorgando copioso, e che era responsabile di quello che gli stava succedendo, ma prima che potesse sincerarsi dell'entità della ferita la creatura immane gli saltò addosso, costringendolo a gridare mentre si sentiva trascinare negli inferi con uno strappo doloroso.

Il buio aveva una strana forma. I colori cupi, distorti, che si rincorrevano da una parte all'altra del suo campo visivo avevano il potere di annientarlo e di risucchiargli l'aria dai polmoni insieme al sangue dalle vene. Più di una volta Caligola aveva creduto di trovarsi nell'Averno, insieme a creature oscure che sibilavano e si contorcevano trasformando la loro disperazione in vapori velenosi, che l'avvolgevano come un sudario e gli cantavano nelle orecchie melodie di morte. Credette di vedere vestali a cui qualcuno aveva cavato gli occhi, che danzavano sopra i resti dei corpi di coloro che erano stati torturati e gettati nel Tevere, prima che le creature degli abissi infernali scivolassero fuori dai loro antri, per nutrirsene con grugniti bestiali.

Lui era morto, questo lo aveva capito, ma quando si dibatteva, quando cercava di raggiungere la superficie di quel lago di tenebra, uno spiraglio di luce brillava davanti a lui, indicandogli la strada. Allora ringhiava e si scuoteva, ignorando il dolore alle viscere e in ogni altra parte del corpo, e cercava di nuotare anche se non aveva più braccia, né gambe per scalciare. Spalancava la bocca e lanciava urla mute di rabbia, di dolore e di disperazione, mentre il suo corpo riprendeva ad affondare e la luce si affievoliva.

Continuò così per un tempo infinito, un'eternità di dolore e confusione che era il suo orribile castigo, e che lo accompagnava verso figure informi che cercavano di ghermirlo, sussurrando parole d'amore. Oh, lui sapeva bene quale fosse l'inganno, e se ne teneva lontano per quanto gli era possibile, cercava di affondare ancora di più, di nascondersi nel fango che gli entrava nei polmoni e lo faceva tossire e piangere lacrime di sangue, finché qualcosa non lo catturava e lo trascinava di nuovo verso la luce, strappandogli brandelli di pelle dal corpo pallido e gonfio, come quello di un cadavere lasciato per giorni nell'acqua putrida di uno stagno.

“Tu mi hai ingannato...” sibilò una di quelle figure d'ombra che gli vorticavano attorno, cercando di ghermirlo. “Ti sei tenuto in disparte, ti sei nascosto, e quando hai potuto mi hai pugnalato alle spalle.”

Caligola boccheggiò. Aveva riconosciuto subito la voce. Era quella di sua madre, seppure deformata dalle creature innominabili di cui era diventata parte.

“Hai ucciso tutti noi, la tua famiglia!” lo aggredì un'altra voce, quella stridula e petulante di suo fratello Druso. “E adesso noi ti lasceremo affondare.”

Caligola si dibatté, cercò di rispondere, ma il fango lo sommerse, gli entrò nella bocca e negli occhi, e le tenebre tornarono a regnare nella sua mente, regalandogli qualche istante di pace.

Poi ancora le ombre, movimento intorno a lui, una fornace che gli bruciava nelle viscere e carboni ardenti che gli scendevano in gola. Vide figure di uomini, donne e creature misteriose, che danzavano lente nel fango, creando mulinelli che disperdevano il suono e fagocitavano la luce, finché all'improvviso qualcosa accadde e lui si sentì risucchiare fuori da quel mondo impossibile, spalancò la bocca e riuscì a respirare, riempiendosi i polmoni carichi d'acqua e fango.

«Aiu... ta... te... mi...» provò a mormorare, ma non sapeva se era riuscito davvero a parlare o se dalle sue labbra erano usciti solo i grugniti dell'animale in cui si era trasformato.

Boccheggiò ancora, e quando vide passare delle persone accanto a lui allungò una mano per chiedere il loro aiuto. Lui era Caligola, l'imperatore, non potevano lasciare che affondasse di nuovo.

«Dobbiamo ucciderlo, non capisci? Se sopravvive, per noi sarà la fine.»

Di chi era quella voce? Perché la riconosceva ma non riusciva ad associarla a un volto, a un nome?

«Abbiamo il potere, sfruttiamolo finché possiamo!» aggiunse un'altra voce, scandita con un accento delle terre del Nord che gli era conosciuto, ma che non riuscì ad abbinare ad alcun volto.

«Macrone saprà cosa fare, non credi?»

«Dovrà mettersi d'accordo con Silano per spartirsi l'impero.»

«E noi saremo con loro, gli daremo il nostro appoggio.»

La rabbia salì impetuosa dentro di lui e scosse la testa per cercare di schiarirsi la mente. Complottavano senza curarsi del fatto che potesse sentirli, con la sicurezza e l'arroganza del vincitore. Ma non sapevano con chi avevano a che fare! Lui non era Tiberio, non era Augusto. Era Caligola, figlio di Germanico, e avrebbero imparato a temerlo più delle creature infernali che popolavano l'Averno, a cui lui era riuscito a sfuggire mille volte.

«Andatevene!» urlò, cercando di scacciare le figure in movimento che lo circondavano, prendendosi gioco di lui. «Andatevene o vi farò uccidere tutti!»

Il dolore tornò a sommergerlo, il fiato gli mancò e le tenebre lo incalzarono di nuovo. Ma questa volta cercò di resistere al desiderio di cadere, alla strana attrazione che l'abisso esercitava sulla sua anima, e si dibatté e si oppose con tutte le sue forze all'avanzata del fango, fino a quando avvertì una stretta e la luce gli esplose davanti agli occhi, tagliandoglieli con una lama affilata.

«Mio princeps...» mormorò una voce, così calda, morbida e suadente come non credeva avrebbe più potuto sentirne, negli abissi infernali in cui era stato risucchiato. «Riposati, non ti agitare... Ci sono qui io... ci sono qui io...»

Avvertì un tocco sulla fronte, sul viso, poi sul petto in fiamme, e si rese conto che la luce che filtrava dalle palpebre non faceva più troppo male, e che in qualche modo era ancora in grado di respirare.

Aprì gli occhi con uno sforzo immane e finalmente mise a fuoco un volto che riconosceva, un sorriso amico che resisteva al desiderio di scoppiare in pianto.

«Micenio...» mormorò, avvertendo questa volta, nitido, il suono della propria voce. «Sono qui. Sono vivo... nessuno mi potrà uccidere tanto facilmente...»

Spossato dall'impresa di avere pronunciato quelle parole, tornò ad abbandonarsi al buio, ma questa volta lo fece con la certezza che l'abisso era stato evitato, grazie al sorriso di Micenio e alla mano che lui gli aveva teso per farlo tornare nel mondo dei vivi.

«Ho visto delle cose orribili. L'Averno è peggio di quanto ci hanno cantato i poeti!»

Bevve un sorso d'acqua, poi tornò ad abbandonarsi sul cuscino.

Adesso stava meglio. Anche se faticava a parlare e non riusciva a tenere gli occhi aperti, sapeva di avercela fatta, che il pericolo era scampato. Era tornato dal mondo degli inferi. Anche se i dottori che lo circondavano in branco non sapevano quale malattia diagnosticare, era convinto di avere superato una prova importante. Come ogni soldato che si rispetti era dovuto scendere sul campo di battaglia per confrontarsi con i suoi nemici. Non sapeva chi fossero, né che aspetto avessero, ma aveva avvertito le loro parole, e aveva ancora nelle narici l'odore rancido della loro bramosia di potere.

Adesso che sapeva della loro esistenza, però, avrebbe potuto combatterli, prepararsi per affrontarli. Con l'aiuto delle poche persone di cui poteva ancora fidarsi.

«Tu sei tornato, princeps, e anch'io posso tornare a vivere.»

Caligola guardò Drusilla e con fatica allungò una mano verso di lei. La sorella gliela prese e se la portò alle labbra.

«Io non sono il tuo princeps» le disse. «Sono tuo fratello.»

Drusilla sorrise, anche se gli occhi lucidi dimostravano che non aveva ancora smesso di piangere per lui, poi agitò le mani e richiamò alcuni servi, che portarono una brocca d'acqua e ciotole piene di cibo.

«I dottori dicono che devi mangiare» gli ricordò lei, per l'ennesima volta quel giorno. «Mi prometti che almeno ci proverai?»

Caligola sospirò e chiuse gli occhi per un attimo, poi li aprì e cercò di mostrarsi determinato.

«Hai ragione» disse. «Devo riprendermi. Sono stato lontano per troppo tempo.»

Cercò di sollevarsi su un gomito, e subito due schiavi accorsero per aiutarlo. Si fece sistemare con la schiena contro il muro, e solo in quel momento si accorse che c'erano altri intorno al letto, alle spalle di Drusilla che sedeva accanto a lui. Uno era Callisto, il liberto imperiale che lo fissava con reverenza, poi c'era una bella ragazza con i fianchi e il petto generosi, che sapeva di avere già visto ma di cui non ricordava il nome. E infine c'era Micenio, che si tormentava le labbra mentre lo guardava con gli occhi sgranati, carichi di preoccupazione.

«Non credo che potrò occuparmi degli affari di Stato» mormorò rivolto a Callisto, che si inchinò e fece un passo avanti. «Sto meglio, ma ho bisogno di riposare ancora, prima di affrontare i tuoi demoni, ben più pericolosi di quelli che ho sconfitto nell'Averno.»

Sorrisero tutti, e Caligola vide il sollievo distendere i lineamenti preoccupati di Drusilla e Micenio.

«Sarà fatto, princeps» disse Callisto, inchinandosi profondamente. Poi fece un cenno alla ragazza, che lo affiancò. «Non ho mai potuto farti conoscere mia figlia Ninfidia. Adesso lei mi ha raggiunto qui a palazzo, e io vorrei che si occupasse di te, mentre organizzo i sacrifici agli dei.»

«No» ribatté Caligola con più determinazione di quanto sarebbe stato necessario, resistendo a una fitta lancinante che gli percorse il costato. «Non voglio che si facciano sacrifici. Né che si sappia che mi sto riprendendo.»

Callisto si accigliò, ma non fece domande, così lui tornò a rilassarsi e indicò Ninfidia.

«Ecco perché credevo di averla già vista» disse. «Ti assomiglia molto. Anche se lei è molto più carina.»

L'espressione di Callisto si ammorbidì. Senza aggiungere altro il liberto si congedò, lasciando lì sua figlia perché si occupasse di lui.

«Sei in buone mani» gli disse Drusilla, chinandosi a dargli un bacio sulla fronte. «Adesso riposati. Verrò a trovarti più tardi.» Detto questo si alzò e uscì dalla stanza.

Fu la volta di Micenio di avvicinarsi. Quella creatura eterea, che non apparteneva al mondo mortale, stava tremando, forse a causa dell'emozione che aveva patito nei giorni della sua malattia.

«Di che cosa ti preoccupi?» gli chiese Caligola.

Micenio lanciò un'occhiata a Ninfidia, che stava bagnando alcune pezze in acqua profumata, poi scosse la testa e accennò a un sorriso.

«Sono solo felice» rispose.

Caligola annuì, poi gli fece cenno di andare. Aveva davvero bisogno di riposare.

Quando fu rimasto solo, con Ninfidia e alcuni schiavi che si affaccendavano per rimetterlo sdraiato, chiuse gli occhi e si riaddormentò all'istante. E per la prima volta da chissà quanto tempo, non fece sogni di alcun tipo.

«Ricordi quel lago, lo Specchio di Diana? Eravamo nel tempio, quando mi sono addormentata nella tua stanza, aspettando che tu tornassi da una delle tue sortite.»

Drusilla non lo guardava. Teneva i bellissimi occhi puntati da qualche parte nei suoi ricordi, e Caligola, nonostante il fuoco che gli faceva avvampare la pelle, avrebbe voluto sollevarsi e abbracciarla, stringerla a sé e accompagnarla ovunque lei si trovasse in quel momento.

«Scotti ancora» mormorò invece lei, allungando una mano per posargliela sulla fronte. Il palmo era fresco, morbido, e il suo tocco riuscì a rilassarlo. «Perché i dottori non riescono a sconfiggere la febbre? Che cosa dicono? Quali cure non hanno ancora provato?»

«Oh, ti prego, lascia fuori da questa stanza i medici e i sapienti» la supplicò lui con voce roca. Si sentiva la gola secca, piena di sabbia, e ormai da qualche giorno continuava a passare da uno stato di apparente ripresa al crollo totale, in cui la spossatezza lo inchiodava al letto e la febbre gli divorava la pelle e le ossa. «Non servono a nulla, anzi credo che stiano peggiorando le cose.»

«Ma come!» trasalì Drusilla scandalizzata. «Se è così io...»

«Ssh» la interruppe lui, prendendole una mano e portandosela alle labbra. «Che cosa mi stavi dicendo a proposito dello Specchio di Diana? Parliamo di cose piacevoli.»

Drusilla lo fissò mordendosi le labbra, piena di timore, poi parve sciogliersi e gli accarezzò ancora la fronte, aprendo un delicato sorriso.

«Quel giorno ho sperato tanto che tu arrivassi e mi prendessi in braccio, per mettermi nel tuo letto.»

Caligola rise. «Davvero, sorellina? Eri già così spregiudicata?»

Lei arrossì. «No, non intendevo quello! Mi sarebbe piaciuto poterti stare accanto, dormire sentendo il tuo respiro. Tutto qui.»

Lui la fissò. «Perché?» le chiese.

«Perché mi hai sempre dato sicurezza» rispose la sorella. «Più di chiunque altro.»

«Ma io non facevo nulla, e non contavo nulla nella nostra famiglia.»

«Questo lo credevano gli altri. Io no.» Il sorriso si allargò. «E a quanto pare ho avuto ragione, caro mio imperatore.»

Caligola sospirò. «Ho solo cercato di capire e di avere tutto sotto controllo per non farmi ingannare dalle apparenze.»

«Lo so» annuì Drusilla. «Una cosa che mi è sempre piaciuta di te.»

«Ci torneremo ancora, allo Specchio di Diana» affermò Caligola stringendole una mano. «Dimmi, come vuoi che faccia preparare il tempio per la nostra visita?»

Drusilla si strinse nelle spalle. «Non è tanto il posto. Siamo noi due.»

«Allora saremo ancora noi due, te lo prometto.»

Lei lo guardò con affetto e gli passò delicatamente le dita su una guancia. Poi il suo viso si atteggiò in un'espressione malandrina, di quelle che lui conosceva bene, e disse: «Una cosa, però, dovresti farla».

«Che cosa?» volle sapere Caligola.

«La strada dalla nostra domus sul lago fino al tempio è lunga e faticosa. Non sarebbe male accorciarla.»

«E come?»

Drusilla si alzò e sorrise: «Pensa se potessimo camminare sulle acque, come si diceva che facesse quel giudeo, il Nazareno. Non sarebbe magnifico?».

Caligola la guardò e annuì. «Farò in modo che questo tuo sogno possa avverarsi. Te lo prometto.»

Lei scoppiò a ridere. «Che sciocchezza!» disse, battendo le mani e chiamando i servitori. «Adesso riposati. Ninfidia ti aiuterà a rinfrescarti, così potrai ricevere le nostre sorelle, che ormai da troppo tempo scalpitano per poteri incontrare.»

Caligola sbuffò. «Perché non parli tu con loro?»

«Io non sono l'imperatore» l'ammonì lei. «E poi forse è ora che tu capisca quali sono le loro reali intenzioni.»

«Che cosa vuoi dire?»

Drusilla esitò solo un istante, poi rispose con un tono freddo, duro, che contrastava con la delicatezza del viso: «Non credo siano state troppo felici di sapere che ti stavi rimettendo dalla malattia. Dal loro punto di vista, sarebbe stato meglio che avessi fatto la fine dei nostri fratelli».

«Le hai sentite dire qualcosa di esplicito?»

«No, ma conosco lo sguardo di Agrippina. So che ha grande influenza su Livilla, e da quando Macrone e Silano si sono schierati su un altro fronte la battaglia per la successione è cominciata.»

Caligola fece una smorfia. «Io non sono ancora morto.»

«Per questo devi incontrarle e far capire loro come stanno le cose.»

«Dovrò convocare anche Macrone e Silano.»

«Sì, ma prima confrontati con Callisto» gli suggerì Drusilla, scivolando via e lasciandolo nelle mani della giovane Ninfidia. «Ha parecchie cose da raccontarti.»

Si sentiva stanco, accaldato. Rivoli di fuoco liquido gli scorrevano nel petto e nel ventre. La sola idea di parlare con Callisto di affari di Stato, degli intrighi e delle strategie di potere di chi avrebbe voluto scalzarlo dal trono gli faceva venire la nausea. Soprattutto sapendo che c'erano di mezzo le sue sorelle e Macrone. Di Silano non si era mai fidato, ma Macrone... Possibile che avesse sempre agito nella speranza di arrivare a mettere fuori gioco l'imperatore per esercitare il potere, come aveva già cercato di fare Seiano con Tiberio?

«Rilassati, Cesare, non lasciare che il fuoco ti consumi ancora.»

La voce di Ninfidia gli giunse attutita, ma servì a strapparlo a quei foschi pensieri. Aprì gli occhi e vide la ragazza seduta sul letto, accanto a lui. Teneva in grembo una bacinella con dell'acqua e, grazie a un panno inumidito, cercava di alleviare il calore che gli faceva bollire la pelle.

«Dovrei parlare con tuo padre» le disse Caligola. «Ma non ne ho voglia. Preferisco le tue carezze.»

Ninfidia sorrise, depose il panno e gli passò la mano sul petto, scostando la leggera tunica che indossava.

«Mi hanno insegnato diversi modi per scacciare il fuoco dalle membra degli uomini» disse. «Spesso la febbre è solo un sintomo, e la malattia si annida all'interno, dove è difficile raggiungerla.»

«Credi sia così anche per me? Forse un veleno che qualcuno mi ha somministrato senza che me ne accorgessi?»

Caligola si rese conto che era la prima volta che esternava quell'ipotesi. Ci pensava già da tempo, e aveva provato a interrogare in modo vago i medici, quando si era sentito abbastanza lucido da poterlo fare, per capire se l'origine della sua malattia potesse essere imputata a un tentativo di avvelenamento. Ma nessuno gliel'aveva confermato, anzi le ipotesi dei sapienti erano sempre state complicate e a volte fantasiose, ma non si erano mai avvicinate all'idea che la causa scatenante di tutto fosse il veleno, e lui non aveva voluto indirizzarli su quella strada.

Ninfidia si strinse nelle spalle. «Non lo so, mio princeps, ma se così fosse, forse posso aiutarti.»

Caligola la fissò sorpreso. «Come?» le chiese.

Ninfidia esitò un istante, poi lanciò un'occhiata ai servi che attendevano in disparte.

«Tutti fuori, voi» ordinò Caligola, quando ebbe capito. «Subito!»

I servi si dileguarono e Ninfidia restò sola con lui.

«Lasciati andare, Cesare» gli disse la ragazza tornando ad accarezzargli il petto e poi scendendo con le dita fino all'inguine.

Caligola scosse la testa. «Non credo di avere le forze per...»

«Tu non devi fare niente» lo interruppe Ninfidia, aprendogli la tunica e piegandosi su di lui. «Farò tutto io. E poi berrò il tuo seme, cercando di aspirare il veleno o qualsiasi sostanza malefica sia responsabile della tua malattia. Lasciami fare. Chiudi gli occhi e abbandonati, princeps. Il tocco delle mie labbra potrà aiutarti più di qualsiasi pozione proposta dai medici.»

Caligola sorrise. «Non ne dubito, bambina. Non ne dubito affatto.»