CAPITOLO OTTAVO
Capri
33 d.C. - 786 ab Urbe Condita
Caligola ha ventun anni
21
Il servo addetto al vino filtrò con il colino la bevanda forte e nera che Tiberio faceva arrivare dalla Grecia, andando a riempire il grande cratere da cui gli ospiti principali del banchetto potevano attingere per riempire le loro coppe.
Mentre osservava l'operazione, Gaio trattenne a stento un gemito di piacere. E forse anche di rabbia, perché, se c'era qualcosa che non sopportava, era il non riuscire a capire tutto ciò che accadeva intorno a lui e che lo riguardava.
«Bevi, Gaio, assaggia questo nettare. Dubito che tu abbia mai assaporato nulla del genere.»
Tiberio, disteso come sempre sul lectus medius, il triclinio riservato all'imperatore, aveva già immerso nel cratere la sua coppa e gliela stava mostrando con un sorriso tirato sulle labbra, che Gaio non riuscì a interpretare del tutto. Era forse di scherno? O di compiacimento?
Ormai era quasi impossibile riconoscere lo stato d'animo di Tiberio, su quel viso raggrinzito parzialmente nascosto da una barba folta, che si confondeva con i capelli tenuti lunghi dall'imperatore, che gli piovevano sul viso in ciocche unte e del colore della neve sporca.
Cercando di sorridere si allungò a sua volta e pescò un po' del vino speziato e allungato con acqua e miele che di solito riusciva a torcergli lo stomaco e a fargli venire i crampi, e che aveva assaggiato spesso, per quanto Tiberio lo presentasse ogni volta come una novità. Il vecchio era davvero abile a non far capire in quali condizioni fosse la sua mente: cominciava a dare segni di demenza o si trattava del solito trucco per far abbassare la guardia ai suoi ospiti e lasciarli parlare liberamente, per poi coglierli in fallo?
Gaio ricordava bene la fine che aveva fatto Seleuco, uno dei grammatici più stimati da Tiberio, che non mancava mai di sorprendere l'imperatore con la sua erudizione. Per un po' l'imperatore lo aveva assecondato, elogiandolo davanti a tutti e mostrandosi sorpreso per la capacità di Seleuco di dissolvere ogni dubbio sulle questioni filosofiche e matematiche che Tiberio preparava a lungo prima dei banchetti, in cui i sapienti di corte erano invitati per risolvere i grandi enigmi che solo una mente illuminata come la sua poteva sollevare. Poi aveva iniziato a fingere di non ricordare le risposte che il grammatico gli aveva dato qualche giorno prima e cambiava argomento. E così Seleuco aveva cominciato a inciampare nella sua apparente sapienza, era apparso sempre meno sicuro e preparato, finché Tiberio non l'aveva messo con le spalle al muro e lo aveva fatto confessare davanti a tutti: da tempo l'astuto grammatico pagava alcuni servitori di Tiberio perché gli riferissero su cosa si stava preparando l'imperatore per il banchetto del giorno dopo, e durante la notte studiava per fare bella figura e dimostrarsi il più sapiente tra gli ospiti dell'imperatore.
Dopo la confessione, Tiberio aveva brindato alla sagacia di Seleuco, e tutti sembravano convinti che il grammatico sarebbe riuscito a cavarsela con poco. Ma l'imperatore, il giorno dopo, lo aveva fatto cacciare da Capri e costretto al suicidio, adducendo come scusa che il grammatico aveva agito per tornaconto personale, raggirando l'imperatore e corrompendo i suoi servi.
Adesso, mentre lo fissava cercando di comprendere che cosa passasse dietro quegli occhi acquosi e stretti perennemente in due fessure, Gaio era certo che anche per lui, quel giorno, fosse stata approntata una prova, una sorta di processo davanti a tutti per carpire le sue vere intenzioni.
Lo aveva intuito fin dal momento in cui era stato accompagnato, a sorpresa, a uno dei triclini addossati a quello dell'imperatore.
Il locus consularis, che designava l'ospite più importante, era occupato da Lucio Anneo Seneca, il filosofo stoico che Gaio aveva già avuto modo di incontrare diverse volte e la cui luce avida che gli balenava negli occhi non gli era mai piaciuta. Quell'uomo si dichiarava attratto solo dai grandi dilemmi della vita e a parole disdegnava gli agi terreni, ma lui l'aveva visto accomodarsi in stanze con arredi che gareggiavano con quelli dell'imperatore e bere da coppe d'oro, come solo certi conquistatori facevano, per brindare alla propria gloria.
A Gaio era stato assegnato il lectus summus, alla sinistra di Seneca; dall'altra parte, sul lectus imus, si era adagiato Marco Giunio Silano. Ciò significava che, dopo l'ospite d'onore, le due persone più importanti del banchetto erano proprio lui e Silano.
Per fortuna, sul triclinio accanto al suo, primo della fila che si allungava tutto intorno ai tavoli con le pietanze servite da una schiera di domestici, si era sdraiato Macrone, che avrebbe potuto in qualche modo appoggiarlo, nel caso Tiberio avesse deciso di metterlo alla gogna davanti a tutti.
Fin dal momento della gustatio, l'antipasto, che venne servito dopo che un servo gli aveva lavato e profumato i piedi perché potesse distenderli liberamente, Gaio aveva aspettato che Tiberio gli rivolgesse la parola, ma questo non era avvenuto. Finché non era stato versato il vino, e allora l'imperatore lo aveva sollecitato a bere con lui, proprio come stavano facendo Seneca e Giunio Silano.
«Ti ringrazio, mio princeps» disse Gaio quando ebbe la certezza che la sua voce non avrebbe tremato. «Non solo per il vino, ma soprattutto per l'onore che mi fai nel concedermi un posto fra i tuoi ospiti di rilievo.»
«Ma tu non sei solo un ospite» crepitò la voce di Tiberio. «Sei sangue del mio sangue.»
Quell'affermazione fece perdere un colpo al cuore di Gaio. Si voltò a lanciare una rapida occhiata a Macrone, che però sembrava distratto, occupato a piluccare il cibo che via via arrivava in decine di elaborate portate.
«Hai visto, Gaio? Per l'occasione il maestro di cerimonia è l'uomo di cui tutta Roma parla.»
Tiberio si era rivolto ancora una volta a lui, ignorando ostentatamente Seneca, che avrebbe dovuto essere il suo primo interlocutore.
«Eccolo laggiù!» continuò l'imperatore, con un'energia che contrastava con l'aspetto trasandato e aggredito dagli anni che lo faceva sembrare ancora più vecchio di quanto fosse. «Marco Gavio Apicio! Vieni qui e raccontaci le meraviglie che hai preparato.»
Un uomo corpulento e ben vestito, con una toga ricamata d'oro e calzari morbidi, realizzati con la pelle di qualche animale esotico che Gaio non riuscì a riconoscere, si avvicinò con aria soddisfatta, si inchinò davanti all'imperatore e allargò le braccia, a comprendere le mille portate che si stavano accumulando sui tavoli davanti ai triclini.
«Come vedi, mio princeps, nulla è lasciato al caso. Oggi sarà mia cura sorprendere te e i tuoi ospiti con sapori ineguagliabili e originali, che mai palato umano ha avuto il piacere di gustare. A parte il mio, naturalmente...»
Tiberio scoppiò a ridere e afferrò un pezzo di cibo da un piatto, qualcosa che assomigliava a un pesce, o almeno a una parte di un pesce molto grande, immerso in salse colorate.
«Questo che cos'è?» chiese, addentando il boccone e sgranando gli occhi per la sorpresa. «È delizioso!»
Apicio s'inchinò ancora, trattenendo a stento una risata di soddisfazione, che gli tremò nel flaccido doppio mento.
«Hai colto subito il boccone più prelibato» rispose. Gaio non riuscì a comprendere se la sua era semplice adulazione o se credeva davvero in ciò che diceva. «È la murena apicia, così ho chiamato questa pietanza di mia invenzione.»
«Murena?» fece Tiberio osservando il pesce. «Di solito è una carne dura, difficile da masticare, ma questa...» Addentò ancora, e sembrò succhiare il boccone fra lingua e palato. «Si scioglie come il garum! E ha un sapore sopraffino.»
«Tu mi lusinghi, princeps» disse Apicio, felice come un bambino davanti a un nuovo gioco.
«È forse vero quello che si dice?» intervenne Seneca sorseggiando del vino. «Che le tue murene sono così speciali perché le nutri con la carne dei tuoi schiavi?»
Per un attimo vi fu silenzio. Tutti aspettavano la reazione di Apicio a quelle parole. Anche Tiberio sembrava incuriosito e divertito da quell'uscita del filosofo.
Marco Gavio Apicio scrutò Seneca per qualche istante con espressione glaciale, poi si sciolse in un sorriso e si rivolse direttamente all'imperatore: «In verità, mio princeps, si tratta solo di dicerie. Non nutro affatto le mie murene con la carne insipida di qualche schiavo. Tutt'altro. Da qualche tempo le faccio banchettare con le carni dei traditori che hai messo a morte dopo la caduta di Seiano. Ecco perché sono così tenere e saporite!».
Altro silenzio, ancora più pesante e imbarazzato, finché Tiberio non scoppiò a ridere, tenendosi la pancia e rischiando quasi di cadere dal triclinio. A quel punto tutta la sala si riempì di risate, e Gaio vide Apicio lanciare a Seneca un'occhiataccia, in parte di trionfo e in parte di sberleffo.
Il filosofo lo ignorò, riprendendo a bere a piccoli sorsi, e il maestro di cerimonia s'inchinò ancora e fluttuò via, dichiarando che doveva andare a occuparsi delle prossime portate, perché le sorprese erano solo all'inizio.
Messo di buonumore, Tiberio incitò tutti a servirsi dell'altro vino, e Gaio immerse la coppa nel cratere anche se era ancora piena. Con la coda dell'occhio cercò di capire se Seneca volesse continuare la discussione a proposito dei metodi di Marco Gavio Apicio, ma il filosofo non era uno sciocco e non avrebbe certo rovinato il buonumore di Tiberio insistendo con la sua polemica. Anzi, si allungò verso il tavolino e raccolse a sua volta un pezzo di murena, gustandola come se si trattasse del cibo più delizioso che avesse mai assaggiato.
«Peccato che non ci sia qui tua madre» disse a un certo punto l'imperatore, cogliendo ancora una volta Gaio di sorpresa. «Ad Agrippina sarebbero piaciuti questi piatti, non trovi?»
Gaio buttò giù un sorso di vino e lanciò un'occhiata a Macrone, che questa volta lo stava fissando attento, con un profondo cipiglio. Anche lui aveva capito quanto quelle parole, pronunciate con la massima leggerezza, celassero in realtà il desiderio dell'imperatore di indagare il suo stato d'animo.
Prima che Gaio potesse rispondere, Tiberio agitò una mano nell'aria, come a volersi sbarazzare dei cattivi pensieri che lo angustiavano, e aggiunse: «In fondo, se si è lasciata morire è perché era ancora molto legata al ricordo di tuo padre. Come tutti noi, del resto».
«Germanico è stato un grande generale al servizio dell'imperatore» intervenne Marco Giunio Silano. «Non è facile, per una donna, vivere sapendo che non potrà più avere un uomo del genere.»
Gaio restò per qualche istante a guardarli, poi si rese conto che Tiberio non aveva bisogno di alcuna risposta da parte sua. Aveva liquidato così, con una semplice battuta, il ricordo di Agrippina e la tragedia del suo recente suicidio, e l'aveva fatto pubblicamente, in modo che tutti capissero che lui non era coinvolto in ciò che era successo.
Gaio sentì montare la collera dentro di sé, ma la stretta di una mano sul braccio lo riportò all'istante alla ragione. Si voltò e vide che Macrone scuoteva piano la testa, come a metterlo in guardia dal raccogliere la provocazione dell'imperatore.
Perché ormai era chiaro che si trattava di questo. Tiberio sosteneva che Agrippina si fosse uccisa, ma tutti sapevano che non era così. Qualche giorno prima della sua morte, un emissario della madre era riuscito a sbarcare sull'isola e si era presentato a Gaio mostrandogli una tavoletta con il sigillo di Agrippina. Colto dal panico, lui non aveva voluto prendere la missiva e aveva ordinato all'uomo di andarsene. Ma il messaggero, evidentemente istruito a dovere, gli aveva spiegato in quali difficili condizioni si trovasse sua madre, che chiedeva pietà e lo implorava di intervenire per lei presso l'imperatore.
«Solo tu, mio signore, puoi aiutarla, altrimenti è destinata a morire d'inedia e di fame» aveva concluso l'emissario prostrandosi davanti a lui.
Gaio si era spaventato ancora di più, perché qualcuno avrebbe potuto vederli e riferire a Tiberio, che non ci avrebbe messo molto a scoprire la verità. E se avesse saputo che Agrippina era entrata in contatto con lui, avrebbe pensato che stavano complottando qualcosa ai suoi danni. Per Gaio sarebbe stata la fine.
«Di' a mia madre che non ho alcuna influenza sull'imperatore e che, se vuole salvarsi, dovrà farlo da sola» aveva dichiarato allontanandosi dall'emissario e ordinando ad alcuni servi di scacciarlo.
«Mio signore, Agrippina ha detto che si ucciderà, se non riceverà risposta dall'unico figlio che le è rimasto!» aveva gridato l'emissario facendo echeggiare la voce nei corridoi della villa imperiale. In preda al terrore e a una rabbia furibonda, Gaio si era lanciato contro l'uomo e lo aveva afferrato per la gola, mentre con l'altra mano estraeva il pugnale che teneva sempre nascosto sotto la toga.
«Allora che si uccida pure, perché da quello che so io lei non ha più alcun figlio che si preoccupa per la sua sorte.»
Detto questo aveva affondato il coltello nel ventre dell'emissario, poi aveva fatto trascinare via il corpo dai suoi servi perché lo facessero sparire nelle acque del mare. Nessuno doveva sapere di quel contatto avuto con Agrippina.
Quando, diversi giorni dopo, Gaio aveva saputo del suicidio della madre, aveva tirato un sospiro di sollievo, perché quella morte significava che Agrippina non era riuscita a organizzare la sua fuga, e neppure a vendicarsi nei confronti dell'imperatore e di tutti coloro che l'avevano tradita, lui compreso.
Sarebbe stato da sciocchi ribattere alle parole di Tiberio, proprio come stava cercando di fargli capire Macrone, e Gaio si rilassò, lasciando che la rabbia lo abbandonasse. Per fortuna, tanto rapidamente gli strali dell'ira riuscivano a scuoterlo, tanto velocemente lui riusciva a respingerli e a tornare quieto. Una qualità, questa, che gli aveva già salvato la vita più di una volta, soprattutto al cospetto di Tiberio.
«Peccato anche che non ci siano le tue sorelle» disse all'improvviso l'imperatore, che sembrava aspettare ogni momento buono per coglierlo di sorpresa. «Anche se posso assicurarti che il mio pensiero e le mie preoccupazioni vanno spesso a loro, come immagino farai anche tu.»
Questa volta Tiberio lo fissò dritto negli occhi, aspettando una risposta.
Gaio chinò leggermente il capo. «Loro ti sono sempre state fedeli» disse, cercando di apparire convincente. «Proprio come me.»
Avvertì crescere un forte brusio attorno a sé, ma si trattenne dal voltarsi a guardare chi avesse mormorato e bisbigliato dopo le sue parole e si concentrò su Tiberio.
L'imperatore restò impassibile, poi bevve un sorso di vino e si girò verso Seneca, rivolgendosi per la prima volta all'ospite d'onore del banchetto.
«Non sei stato tu a sostenere che la virtù di una donna si specchia nell'integrità del suo consorte?» chiese al filosofo, che anziché rispondere si limitò ad allargare un mezzo sorriso e a portarsi una mano sul cuore. Poi tornò a voltarsi verso Gaio. «Il che significa che è arrivato il momento di preservare la virtù delle tue sorelle che ancora non hanno marito.»
Gaio strinse i denti, gonfiando i muscoli delle mascelle. Pensò a Drusilla, e si sentì avvolgere dall'inquietudine. Aveva sempre saputo che prima o poi quel momento sarebbe arrivato.
«Ci ho pensato a lungo. Insieme a Silano abbiamo individuato le persone giuste con cui accasare Drusilla e Livilla» continuò Tiberio. «E naturalmente non abbiamo dimenticato Giulia, vedova di tuo fratello Nerone. Vero, Marco Giunio?»
Tirato in causa, Silano si sollevò sul triclinio e fissò Gaio. «Mi sono permesso di dare qualche suggerimento, che l'imperatore ha voluto accettare nella sua eterna magnanimità.»
«Oh, falla finita» sghignazzò Tiberio.
Silano sorrise, bevve un sorso di vino, pizzicò qualcosa da un vassoio e, dopo averlo assaporato per un tempo che a Gaio parve infinito, disse: «Il nostro princeps concederà Giulia a Rubellio Planco, che da tempo la desiderava e che, soprattutto, è pronto a fare una ricca donazione di sesterzi all'imperatore».
Scoppiarono diverse risate, ma Gaio non si lasciò distrarre e si concentrò sulle parole di Marco Giunio Silano, che proseguì: «Livilla andrà in sposa a Marco Vinicio, che ha sempre dimostrato grande lealtà nei confronti di Roma, e la bella Drusilla troverà sistemazione nella ricca domus di Lucio Cassio Longino, di cui mi onoro di essere grande amico».
Gaio restò senza parole. Lucio Cassio Longino? E chi era mai? Si rese conto di conoscere ben poco delle fortune dei pochi che erano riusciti a sopravvivere alle persecuzioni di Tiberio e Seiano, soprattutto se non avevano frequentato la Villa Jovis negli ultimi anni.
«Allora che ne pensi? Sei soddisfatto?»
Era stato l'imperatore a rivolgergli la domanda. A Gaio parve di avere la bocca piena di granelli di sabbia. Bevve un sorso di vino e si strinse nelle spalle, fingendo un'indifferenza che non provava.
«Se il mio princeps ha così deciso, sono sicuro che sono le scelte migliori» sostenne, allargando un sorriso falso quanto il compiacimento che vide comparire sul volto di Tiberio. Sapeva che il vecchio era infuriato per non essere ancora riuscito a scalfire la sua aria distante e apparentemente disinteressata alla sorte dei suoi familiari.
«Naturalmente ho pensato anche a te» infierì ancora Tiberio, affondando un altro colpo micidiale.
«Vuoi trovarmi moglie?» si ritrovò a chiedere Gaio, senza riuscire a nascondere un fremito nella voce. Più che spaventato era sorpreso, perché, mentre il banchetto procedeva e le sorprendenti portate cucinate da Apicio si succedevano una dopo l'altra, tutti parevano concentrati su di lui, intenti a gustarsi lo spettacolo inscenato da Tiberio per confonderlo, mortificarlo e farlo uscire allo scoperto, con l'intento ormai non più celato di metterlo spalle al muro e crocifiggerlo.
Ma lui non era come Gesù di Nazaret, si disse, quel falso profeta di cui tutti parlavano e che si era prima proclamato re dei giudei e poi si era lasciato uccidere senza nemmeno protestare, senza tentare la minima difesa e appellandosi alla magnanimità di un dio di cui Gaio non ricordava più il nome. No. Lui avrebbe combattuto fino alla fine, rifiutandosi di finire schiacciato come un insetto, al pari di tutti coloro che avevano osato sfidare Tiberio.
Ma non avrebbe combattuto con la spada, perché era solo questo che l'imperatore aspettava. Lui aveva altre armi, affinate nei tanti anni in cui era riuscito a tenersi ai margini, studiando le persone e imparando a leggere sui loro volti ciò che pensavano davvero mentre ostentavano espressioni ingannatrici.
Proprio come stava facendo Tiberio in quel momento.
«Credo sia giusto pensarci, non trovi?» lo riscosse il vecchio con una risatina, subito spalleggiato da Silano. «E sono sicuro che la mia scelta ti risulterà gradita.»
L'imperatore fece un cenno con la mano. Alcuni servitori si allontanarono, per tornare poco dopo insieme a una persona. Una bambina, piccola, magra, smunta e con la pelle diafana, come se non vedesse la luce del sole da quando era nata. Aveva i capelli neri lunghi quasi fino ai piedi e gli occhi grandi, incastonati nelle orbite come oggetti preziosi caduti per sbaglio in quel teschio avvizzito.
«Questa è mia figlia, Giunia Claudilla» disse Silano indicando la bambina. «Non è stata bene, nei giorni scorsi, e il viaggio fin qui non le ha giovato, ma presto si riprenderà.»
Gaio osservò la bambina.
«Ovviamente Giunia Claudilla è troppo giovane» continuò Tiberio, sempre più divertito. «Quanti anni ha, Silano?»
«Dieci, mio princeps.»
«Ecco, direi che dovremo aspettare almeno un paio d'anni. Tu che ne dici, grande filosofo e conoscitore della virtù umana?»
Si era rivolto a Seneca, che sembrava assorto in pensieri tutti suoi, ben lontano dalle cose di cui si discuteva in quella sala, e che si riscosse con aria annoiata.
«A dieci anni non si è ancora donne» rispose. «Ma a dodici sì, naturalmente.»
«Bene!» esclamò Tiberio battendo le mani. «Allora anche questa è fatta. Tu che ne dici, Gaio? Riuscirai a resistere un paio d'anni, in attesa che la figlia del prode Silano diventi donna?»
«Immagino che Seneca si riferisse alla possibilità di mettere al mondo dei figli» intervenne Marco Giunio Silano. «Il che non significa che l'erede di Germanico non possa prendersi le sue soddisfazioni con mia figlia già a partire da questa sera.»
Furono in tanti a scoppiare a ridere compiaciuti, dopo che Tiberio ebbe dato il via all'ilarità generale. Gaio osservò la bambina e rabbrividì al pensiero di doversi intrattenere a letto con lei.
«Ritengo che sia una buona cosa» aggiunse Seneca, anche se non era stato interpellato. «Non c'è niente di meglio, per una femmina, che donare la propria verginità a suggello di una promessa di matrimonio.»
Tiberio batté ancora le mani, compiaciuto, poi si concentrò sulle nuove portate che arrivarono dalle cucine, come se all'improvviso la questione del matrimonio di Gaio non fosse più di alcuna importanza.
Marco Giunio Silano fece un cenno ai servitori che circondavano sua figlia, e la bambina scomparve da qualche parte nella grande villa imperiale, forse accompagnata dalle serve che l'avrebbero preparata per la notte che avrebbe passato con lui.
Gaio si sforzò di apparire sereno, del tutto a suo agio nonostante i colpi ricevuti da Tiberio, e provò ad assaggiare alcune delle prelibatezze che gli ospiti dell'imperatore decantavano a ogni boccone. Ma aveva lo stomaco chiuso, sentiva il desiderio di svuotarlo in qualcuno dei vasi che erano stati preparati accanto ai triclini, per chi avesse voluto svuotarsi il ventre senza abbandonare la sala.
Ma non lo fece, e ricacciò indietro la nausea con uno sforzo di volontà. Sapeva che era questo che Tiberio si aspettava da lui: un atto di debolezza o di forza estrema, per dimostrare a tutti di che pasta era fatto.
Lanciò un'occhiata a Marco Giunio Silano. L'uomo lo stava fissando a sua volta con aria incuriosita. Aveva già avuto un riscontro da parte di quel potente senatore, che l'aveva chiamato princeps, e adesso capiva perché gli fosse stata promessa in sposa proprio Giunia Claudilla. Loro due erano gli uomini più potenti di Roma, dopo l'imperatore, e quando questi fosse scomparso, c'era la possibilità che Gaio raccogliesse l'alloro del comando. A quel punto, se fosse stato sposato con la figlia di Silano, le loro famiglie e le loro ricchezze sarebbero state ineguagliabili per chiunque, nell'Urbe.
Gaio si rilassò. Tutto sommato aveva avuto fortuna, e il tentativo di Tiberio di metterlo in difficoltà si stava rivelando per lui una buona occasione. Un alleato come Silano poteva rivelarsi prezioso.
Sorrise al senatore, mostrandosi compiaciuto per la decisione che gli era stata comunicata. Silano ammiccò soddisfatto e si portò alle labbra il boccale, prendendo un lungo sorso di vino, gesto che Gaio si affrettò a imitare.
«Sapete cosa vi dico?» squittì l'imperatore con voce acuta, che denotava quanto fosse ormai ubriaco. «Per festeggiare tutti questi matrimoni, anziché sperperare denaro con cerimonie sfarzose, omaggerò il popolo di Roma con una cospicua donazione. Cento milioni di sesterzi. Anzi, mille! Che il Senato distribuirà a tutti coloro che ne avranno bisogno, senza pretendere interessi per almeno tre anni!»
L'ovazione che seguì aveva il sapore della sorpresa e dell'indignazione da parte di tutti i presenti, che però si guardarono bene dal mostrare apertamente ciò che pensavano.
Gaio lesse l'ipocrisia su quelle facce ridenti. Tiberio era circondato da codardi disposti a mentire su tutto, pur di ottenere i favori e la benevolenza del loro imperatore. Una feccia che avrebbe meritato la morte seduta stante, e che gli fece tornare il senso di nausea.
Ma dissimulò tutto e, come ormai era abituato a fare, rise anche lui, fingendosi compiaciuto della generosità dell'imperatore.
22
Giunti alla consummatio, verso la fine del banchetto, Gaio si sentiva spossato. Era arrivato davvero ogni genere di cibo, e molte delle portate che aveva assaggiato proprio non aveva idea di che cosa fossero.
Marco Gavio Apicio si era superato, e solo raramente aveva risposto alle domande di Tiberio e dei suoi ospiti, spiegando come fosse riuscito a ottenere certi sapori anche da pietanze che di solito non erano troppo apprezzate. A un certo punto erano arrivati dei vassoi pieni di carni alla brace, affumicate con erbe che Apicio raccoglieva personalmente nei luoghi più impervi dei monti Simbruini, accompagnate da una salsa dal sapore impareggiabile, che aveva lasciato tutti incantati.
«Se non mi spieghi subito come hai ottenuto questa meraviglia, giuro che ti farò mettere sotto processo per attentato alla sanità mentale del tuo imperatore!» lo aveva minacciato a un certo punto Tiberio, dopo avere divorato due quaglie annegate nella salsa speziata.
Senza perdere il suo buonumore, nonostante sapessero tutti che non c'era da scherzare quando Tiberio pronunciava una minaccia, anche se celata in una battuta di cattivo gusto, Marco Gavio si era stretto nelle spalle e aveva risposto leccandosi tracce della sua magnifica salsa dalle dita grassocce.
«Il segreto sta tutto nei fichi, mio princeps.»
«Nei fichi?» aveva chiesto sorpreso l'imperatore. «Non vorrai dirmi che questa salsa è fatta con i fichi. Com'è possibile?»
«Oh, no» aveva riso Apicio. «I fichi li mangiano le oche. I miei servi le ingozzano per mesi interi solo con il tipo più pregiato di fichi, che mi faccio portare da un mio fornitore. Poi, quando muoiono, io estraggo il fegato e lo lavoro secondo una mia ricetta speciale, per farne... questa salsa, come la chiami tu, mio imperatore. In realtà, è a tutti gli effetti un condimento a base di carne.»
Le risate che si erano sollevate in tutto il triclinium avevano impedito a Tiberio di continuare con le richieste di spiegazioni. Apicio non aveva perso tempo ed era sgattaiolato via con la scusa di dover sovrintendere ai lavori in cucina. In realtà aveva svelato ben poco della sua ricetta, se non che si trattava di fegato d'oca. Un uomo astuto, che riusciva a prendere Tiberio per il verso giusto, senza indisporlo e gratificandolo con risposte mirate che riuscivano a soddisfarlo e nel contempo non compromettevano i preziosi segreti culinari di cui era depositario.
Gaio non era riuscito ad apprezzare tutto quello che era stato servito, al contrario per esempio di Seneca, che per quanto se ne stesse per lo più sulle sue, rispondendo con parca serietà alle provocazioni di Tiberio, non si era certo tirato indietro, quando si era trattato di fare onore alle pietanze di Apicio.
Adesso che finalmente il banchetto era arrivato al termine, Gaio sentì di dover elevare un ringraziamento agli dei per averlo sostenuto, perché a un certo punto aveva temuto di non farcela, visto che in realtà quello a cui puntava Marco Gavio era ucciderli tutti ingozzandoli di cibi straordinari proprio come faceva con le sue oche.
Adesso restava il rito, sempre molto gradito a Tiberio, della comisatio, durante il quale l'imperatore avrebbe brindato a qualche nemico che si era tagliato le vene o a qualche sua nuova composizione poetica. Quando finalmente fosse crollato sotto i vapori del vino, i servi di palazzo lo avrebbero trascinato nelle sue stanze, e tutti sarebbero stati liberi di abbandonare il triclinium, portandosi via le pietanze avanzate.
Come sempre, Tiberio lasciava ai suoi ospiti più illustri l'onore di cominciare la comisatio. Faceva riempire le brocche del suo vino migliore e aspettava a tracannarlo dopo ogni breve discorso in cui tutti, dal primo all'ultimo dei convitati, dovevano prodursi.
Gaio calcolò che prima del suo turno avrebbe dovuto sorbirsi ancora tre o quattro coppe piene del vino nero e pastoso che piaceva tanto all'imperatore, e dunque avrebbe dovuto impegnarsi a fondo per non stramazzare al suolo in un lago del proprio vomito, come sarebbe accaduto a molti.
«Così, dunque, comincia il momento più solenne della nostra celebrazione» esordì Tiberio alzando la coppa, «e dato che fra i nostri ospiti c'è chi discende da Cesare e da Augusto, credo sia giusto cominciare da lui, per porgere il nostro omaggio agli dei.»
Gaio ci mise qualche istante a capire che l'imperatore si stava riferendo alla sua persona. Lo stava infatti guardando con una strana smorfia, piena di sarcasmo e di livore, mentre gli puntava la coppa di vino come se volesse invitarlo a bervi insieme a lui.
«Come vedete, Gaio è rimasto solo, dopo che anche suo fratello Druso ha deciso di togliersi la vita» continuò Tiberio con voce impastata. «E ormai non restano che femmine, oltre a lui, a tenere alto il nome della dinastia Giulio-Claudia.»
Nella sala calò un silenzio imbarazzato, che sembrò divertire ancora di più l'imperatore. Gli ospiti non sapevano se ridere, atteggiarsi a smorfie di dolore o compiangere Gaio, ormai diventato il centro dell'attenzione.
Lui si guardò attorno. Non c'era traccia di Tiberio Gemello, ormai relegato da qualche parte nella Villa Jovis a occuparsi di inutili studi che lo tenessero lontano dalla vita di corte. E con un senso di nausea comprese che Tiberio aveva ragione: ormai restava lui solo a rappresentare la dinastia più potente di Roma, a parte lo stesso imperatore e suo zio Claudio, che era considerato da tutti poco più di un inetto.
Suo fratello Druso aveva fatto una fine orribile. Grazie all'aiuto di Macrone, Gaio era riuscito ad andare a trovarlo nei sotterranei del carcere Tulliano sul Palatino, dove era imprigionato, e quello che aveva visto lo aveva disgustato. Senza più alcun onore e alcuna dignità, Druso si era ridotto a uno scheletro d'uomo, divorato dalla fame e dai pidocchi, che aveva cercato persino di sfamarsi masticando la paglia lurida del suo giaciglio. Per sua sfortuna non era rimasto soffocato nel tentativo, e quando lui era entrato nella cella l'aveva trovato seduto in una chiazza rancida del suo vomito, gli occhi che gli uscivano dalle orbite come quelli di un pazzo, e non era riuscito a chiedere altro che del cibo.
Macrone lo aveva avvertito che non sarebbe stato un bello spettacolo, ma di fronte a quella larva umana, a quello sbiadito ricordo di colui che era stato suo fratello, Gaio non aveva provato pietà. Solo disgusto, e una rabbia sordida che lo aveva spinto a estrarre il coltello e a gettarlo nel vomito, prima di voltarsi e andarsene.
«Prova a usare quello per tagliarti qualche pezzo di carne» aveva detto al fratello abbandonandolo al suo destino. «Dovrebbe essere meglio della paglia lurida su cui defechi.»
Non aveva più saputo che cosa ne fosse stato di suo fratello, e adesso finalmente poteva dire che quella terribile situazione era finita. Aveva sempre saputo che le condizioni di Druso Cesare erano un segno di spregio nei confronti della sua famiglia.
Gaio avvertì l'attenzione di Tiberio su di sé. Lo scrutava come un uccello da preda pronto a levarsi in volo per cacciare. Poi improvvisamente l'imperatore sorrise.
«Parlerò io per primo» proclamò. «Oggi ho deciso di nominare questore Gaio Cesare Germanico, e gli concederò la prerogativa di concorrere alle più alte cariche dell'impero con cinque anni di anticipo rispetto alle tappe del cursus honorum.» Fece una pausa, mentre Gaio lo fissava sbigottito, incapace di credere a quello che stava sentendo. Tiberio bevve un sorso di vino e poi riprese, con un ghigno divertito: «Il cammino sarà lungo per diventare imperatore, ragazzo mio. Ma da oggi dovrai fare sul serio.»
Tiberio tacque e cadde stremato sul suo triclinio, mentre tutto intorno a Gaio si alzavano voci, esclamazioni, grida di giubilo e di tripudio, come se si stesse festeggiando il trionfo di qualche grande guerriero.
Frastornato e incapace di dare un senso a quello che aveva sentito, Gaio si voltò verso Macrone.
Questi lo stava fissando con aria soddisfatta, e dopo avere bevuto un sorso di vino si allungò verso di lui e gli disse: «Non credere che sia arrivata la tua ora. Tiberio è astuto, come sempre. Adesso ti elogia e ti esalta, così il Senato e la plebe saranno soddisfatti. Ma domani potrebbe già cominciare a tramare contro quello che adesso ha legittimato come il suo nemico numero uno».
«Allora cosa posso fare?» chiese Gaio cercando di non parlare a voce troppo alta, per paura di essere udito.
Macrone si strinse nelle spalle. «Quello che hai sempre fatto. Tieniti in disparte, osserva, ascolta e cerca di capire il più possibile come funziona la vita di corte, quali sono le persone di cui ti puoi fidare e di chi invece è meglio diffidare. A suo tempo, tutto questo ti sarà prezioso.»
Gaio aprì la bocca per replicare, ma la voce di Giunio Silano lo riscosse e lo costrinse a voltarsi.
«Festeggiamo tutti insieme il grande onore che Tiberio ha concesso a Gaio Cesare Germanico!» esclamò l'uomo che presto sarebbe diventato suo suocero. «Solo ai principi della famiglia imperiale sono concessi i privilegi di cui oggi Gaio è stato investito. Rendiamogli onore e ringraziamo l'imperatore per la sua magnanimità!»
Il coro di apprezzamento che si sollevò ebbe il potere di far rintronare il cranio a Gaio, che sollevò la coppa a sua volta e bevve quasi senza accorgersene, per un gesto istintivo a cui ormai era abituato da tempo.
Perché nessuno avrebbe dovuto capire quale oceano in tempesta si agitava dentro di lui. Mentre all'esterno ostentava calma, sicurezza e il sorriso cordiale che aveva imparato ad aprire sulle labbra grazie a lunghe ore di allenamento davanti allo specchio.
Lanciò un'occhiata a Macrone, che lo stava osservando. Lui solo capiva il suo vero stato d'animo. E si augurò che fosse davvero disposto ad aiutarlo come aveva dichiarato fino a quel giorno.