CAPITOLO DICIASSETTESIMO
Roma
39 d.C. - settembre
792 ab Urbe Condita
Caligola ha ventisette anni
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Continuavano ad arrivare, portando doni agli sposi e augurando che gli dei fossero benevoli con la loro progenie.
Caligola li accoglieva senza nemmeno guardarli in faccia, porgendo loro una mano, a volte persino un piede, per farseli baciare. Lo divertiva che quei ricchi discendenti delle famiglie più antiche e potenti dell'Urbe non si facessero scrupolo di inginocchiarsi davanti a lui e prodursi in lodi sperticate, baciandogli le caligae come avrebbe fatto uno schiavo per chiedere salva la vita, o un cane con il suo padrone.
Ecco, questo era forse il paragone che meglio calzava, per quella fila di femminucce che tremavano al solo pensiero che lui potesse interessarsi a loro e chiedesse a Protogene di annotare i loro nomi sui suoi registri. Pugnale e Spada erano temuti più delle armi vere da cui avevano preso il nome, ma in realtà Caligola non aveva quasi bisogno di attingere ai segreti custoditi nei registri del suo liberto per fare strage di quei cani. Ci pensavano da soli a tradirsi e a denunciarsi a vicenda, come avevano fatto fin dai tempi di Augusto, e lui aveva deciso che non meritavano neppure il suo disgusto per un simile atteggiamento. Avrebbe preferito vederli insorgere contro di lui, organizzarsi magari con un esercito armato, per poter combattere fuori dalle mura di Roma una battaglia epica che lo avrebbe certamente visto vincitore.
Invece quei miserabili tremavano come foglie per il terrore, si nascondevano e si maledicevano l'un l'altro e, anche se lui non concedeva i suoi favori a nessuno, continuavano a credere che accusare gli altri fosse il modo migliore per garantirsi il suo appoggio e quindi vivere sicuri nelle loro ricchezze e negli agi della loro posizione.
Ma non sapevano che il gioco era appena iniziato.
«Cesare! Presto! È arrivata l'ora!»
Elicone si era precipitato nella grande sala allestita per la salutatio pallido come un cadavere, facendosi largo tra la ressa che si accalcava per rendere omaggio all'imperatore. Caligola balzò in piedi e fece un cenno ai pretoriani che, guidati da Cassio Cherea, fendettero i clientes come la prua di una nave e crearono un corridoio sicuro in cui lui si infilò di corsa, al seguito di Elicone.
«È già venuta al mondo?» chiese eccitato.
«Ancora no, princeps, ma... come fai a sapere che sarà una bambina?»
Caligola sorrise. Lo sapeva bene, perché Drusilla era venuta a trovarlo in sogno, quella notte, e gli aveva annunciato che Milonia Cesonia avrebbe partorito una splendida bambina.
“La chiamerò come te, mia adorata sorella” le aveva promesso, e adesso non vedeva l'ora che quel prodigio si compisse.
I servi e gli schiavi imperiali correvano indaffarati da ogni parte. Caligola si precipitò nella sala in cui le levatrici avevano preparato tutto per il parto, insieme ai medici più autorevoli che dovevano garantire sull'incolumità della madre e, soprattutto, della creatura che stava per nascere.
Sapeva che li avrebbe uccisi con le sue stesse mani, se fosse accaduto qualcosa a sua figlia, quindi non si stupì di vederli tutti intorno alla sedia, con un foro al centro, su cui Cesonia era seduta a gambe larghe, i pugni stretti nello sforzo.
«Ci siamo, ancora poco!» la incitò una delle levatrici, ma Milonia scosse la testa e la fissò infuriata.
«So bene come si mettono al mondo i figli!» ringhiò. «Prendetelo perché sta per uscire.»
Caligola si avvicinò, e proprio quando fu davanti alla donna che quel giorno stesso era diventata la sua quarta moglie, riuscì ad assistere al parto.
«Tenetelo!» gridò Milonia, per poi prodursi in uno sforzo inumano, digrignando i denti e trattenendo in gola un grido che l'avrebbe squassata, se fosse esploso con tutta la sua potenza. E all'improvviso, come se fosse stata la cosa più facile e naturale del mondo, il neonato scivolò fuori dal ventre di sua moglie con uno strano rumore, per finire tra le mani di una levatrice, che fu rapida a ricoprirlo con un panno pulito, mentre uno dei medici tagliava il cordone ombelicale e Milonia Cesonia si rilassava sulla scomoda sedia da parto.
«Adesso portatemi a letto, ho bisogno di riposare» mormorò l'imperatrice, mentre Caligola faceva un passo avanti per osservare il nuovo nato.
«Che cos'è? Maschio o femmina?» chiese subito, mentre due medici e un astrologo studiavano le manine e i piedini del bambino per cercare i segni della benevolenza o della rabbia degli dei.
«Ecco tua figlia, princeps» rispose la levatrice, strappandola all'esame dei sapienti per porgergliela con estrema delicatezza. «È bella come il sole e sanissima.»
Caligola si sentì sciogliere dalla felicità. Drusilla aveva avuto ragione. Sua sorella gli era vicina, non lo aveva abbandonato.
Raccolse il fagotto in cui sua figlia si dibatteva, urlando di rabbia per essere stata strappata al ventre della madre, e si sorprese di quanto fosse leggero. Guardò il visetto rugoso della bambina e pensò che era la cosa più bella che avesse mai visto.
Poi raggiunse una delle grandi finestre che davano sui giardini imperiali e sollevò sua figlia verso il sole, perché Apollo potesse ammirarla.
«Il suo nome è Giulia Drusilla!» gridò agli dei e agli uomini che si muovevano come formiche in tutto l'impero. «E tutti voi dovrete tributarle gli onori che non avete voluto concedere a mia sorella.»
Detto questo consegnò la bambina alla levatrice e raggiunse Milonia Cesonia.
«Sei stata brava» le disse.
«Mi dispiace solo per una cosa» rispose lei, imbronciata.
«Cosa?»
«Che questa notte non potremo festeggiare il matrimonio come avevo immaginato.»
Caligola scoppiò a ridere, si chinò e la baciò sulla fronte.
«Ci penserà Micenio a rendere allegra questa notte» le disse.
«E la nostra bambina, Cesare» sorrise lei. «La nostra splendida Giulia Drusilla.»
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Non sembrava possibile che una creatura così minuscola e fragile potesse sopravvivere, invece Giulia Drusilla stava dimostrando una forza e un'energia che erano pari solo al desiderio che sua madre manifestava a letto, quando si prodigava con Caligola e Micenio per dimostrare che non solo era tornata perfettamente in forma, dopo il parto, ma che i suoi appetiti erano perfino cresciuti.
«Sarà per tutto il latte che Drusilla ti succhia dal seno» aveva riso una volta Caligola, e lei come risposta aveva ficcato uno dei suoi capezzoli duri e grandi come ghiande in bocca a Micenio, che aveva poppato con lussuria.
«Questa è l'unica cosa che mi manca dell'essere donna. Generare un'altra vita e poterla nutrire con il frutto del mio seno.»
Né lui né Milonia avevano dato troppo peso alle parole di Micenio, ma entrambi sapevano che quella creatura dolce e sempre dedita all'appagamento del piacere altrui sarebbe stata una madre meravigliosa, se la natura le avesse dato gli strumenti per poterlo diventare. In mancanza di questa opportunità, Micenio si prendeva cura di Giulia Drusilla con un affetto e una dedizione che avevano sorpreso Caligola, il quale un giorno, osservandolo, si era chiesto quanto fosse giusto lo strano rapporto che si era instaurato fra loro tre.
Proprio in quel momento, però, Milonia Cesonia era piombata su di loro con la sua solita fame e il desiderio di essere riempita in ogni anfratto del suo corpo, e la parte maschile di Micenio era stata costretta ad aiutarlo a soddisfare quella donna che non sembrava mai sazia.
E Giulia Drusilla, che per qualche tempo aveva scandito lo scorrere delle ore nel palazzo imperiale, che si era adeguato ai momenti in cui dormiva, poppava o giocava con Micenio e con le schiere di serve e nutrici che circondavano la famiglia reale come api in movimento, era sempre al centro dell'attenzione e brillava come la più preziosa delle gemme che Caligola avesse mai visto.
«Ti vedo felice, Cesare» disse una voce alle sue spalle, riscuotendolo da quei dolci pensieri. Caligola si voltò tenendo sua figlia in braccio, con una cautela perfino eccessiva, e scrutò il nuovo arrivato.
«Callisto. Non ti vedo da un po'. Almeno non nelle mie stanze private.»
Il liberto si inchinò profondamente, in un gesto di scusa che non gli apparteneva, e lo fissò con la fronte attraversata da rughe profonde.
«Se non fosse importante non sarei qui» si limitò a dire.
Caligola lo osservò per qualche istante, poi tornò a guardare sua figlia, che rideva e stava cercando di acchiappargli il naso con le manine.
«Avrai fame» le disse. «Meglio darti a tua madre, adesso che non c'è Micenio, così avrai di che poppare a volontà.»
«Oh, non temere, Cesare» ridacchiò Milonia, avvicinandosi per prendere la bambina. «Ho abbastanza latte per tutti e due. Anzi» aggiunse voltandosi verso Callisto mentre faceva sbucare un seno dalla veste, «se qualcun altro vuole favorire...»
Caligola scoppiò a ridere e raggiunse Callisto, che aveva perso un po' della sua imperturbabilità e sembrava a disagio.
«Non darle retta» lo tranquillizzò, trascinandolo fuori dalla stanza. «Con lei gli dei devono avere sbagliato qualcosa. Doveva nascere giumenta, e invece le hanno dato il dono della parola...»
Callisto non si ammorbidì per la battuta, e Caligola comprese che aveva davvero qualcosa di grave da riferirgli. Un senso di nausea gli salì dallo stomaco, perché in quei giorni aveva come rimosso il pensiero dell'impero, del Senato, degli intrighi con cui era stato costretto a combattere ogni giorno. Da quando era nata sua figlia, aveva trascorso gran parte del tempo con lei, dimentico di qualsiasi altro problema che non riguardasse le sue poppate e i suoi rigurgiti.
Tornare a calarsi nei panni dell'imperatore e ricordare tutto quello che era rimasto in sospeso, soprattutto nei riguardi di coloro a cui aveva giurato vendetta, non era una sensazione piacevole.
«Va bene, dimmi cos'è successo» chiese a Callisto non appena furono entrati nella grande biblioteca che Caligola aveva fatto allestire in un'ala del palazzo e che pensava di ingrandire ancora, non appena avesse avuto il tempo per parlarne con i suoi architetti. «Se riguarda qualche denuncia da parte di quei cani che siedono in Senato, io...»
«Tua sorella Agrippina va a letto con Emilio Lepido. Sappiamo che questa notte si sono incontrati in segreto con alcuni tribuni militari inviati da Getulico.»
Caligola lo guardò a bocca aperta. Con una sola frase quell'uomo gli aveva riversato addosso un numero spropositato di problemi, che lo fecero rabbrividire.
«Non mi sorprendo più di tanto di Agrippina e di Lepido» disse. «Il marito di mia sorella ormai è decrepito, e lei non l'ha certo sposato per amore.»
«Gneo Domizio Enobarbo sa tutto e, come sempre, non osa dire nulla ad Agrippina.»
Caligola sorrise suo malgrado. «Lo so» disse. «Mia sorella ha l'abitudine di comandare lei, a casa sua.»
«E adesso lo sta facendo anche con Emilio Lepido.»
Caligola si accigliò. Che cosa poteva mai significare questo? Lepido era stato il marito di Drusilla, un uomo all'apparenza onesto e votato alla causa imperiale, al sostegno della loro famiglia. Per questo, quando lui aveva nominato Drusilla sua erede, non aveva avuto problemi a considerare l'idea che il regno sarebbe andato a Emilio Lepido, che avrebbe governato per conto della moglie come imponeva la tradizione di Roma.
Però da qualche tempo Lepido si era oscurato, aveva cominciato a parlare male di lui e delle persone di cui si circondava, ed era finito nei registri di Protogene, anche se Caligola non aveva voluto sapere per quali motivi. Però l'indulgenza che poteva riservare a Lepido perché era stato il marito di Drusilla aveva un limite.
«Con la nascita di tua figlia, Agrippina e Lepido sono stati tagliati definitivamente fuori da ogni speranza di mettere le mani sull'impero» affermò Callisto, strappandolo alle sue meditazioni.
Caligola lo guardò. Aveva ragione, naturalmente. Con l'arrivo di Giulia Drusilla erano tramontate le speranze di sua sorella di vedere un giorno suo figlio conquistare il Palatino. E forse Lepido meditava da tempo di sposare Agrippina per tornare a essere l'uomo che avrebbe potuto regnare al posto della moglie e di suo figlio, ancora troppo piccolo per poter diventare imperatore.
Tutti ragionamenti condivisibili, che probabilmente avrebbe fatto anche lui, al loro posto. Ma... il problema era che l'imperatore si chiamava Caligola, aveva solo ventisette anni e si sentiva in piena forma.
«I contatti con Getulico fanno pensare che stiano complottando qualcosa» continuò Callisto, con l'irritante potere di riuscire ad anticipare le sue domande.
Caligola si alzò e cominciò a camminare avanti e indietro per la stanza, trovando la conferma che era troppo piccola e che andava senz'altro allargata.
«Che cosa potrebbero fare?» chiese ad alta voce, pur sapendo che la domanda era rivolta a se stesso.
Callisto, abituato a quel suo modo di fare, non rispose e lui scosse la testa. «Se le legioni del Reno appoggiassero la congiura e si ribellassero, potrebbero minacciare seriamente Roma.»
«E Agrippina, tramite il figlio, potrebbe garantire una continuità da parte della dinastia Giulio-Claudia» completò il quadro Callisto. «Soprattutto se anche i consoli, su mandato del Senato, fossero d'accordo per questa strategia.»
«Avete raccolto prove anche su questo?»
«Non ancora, Cesare, ma questa sembra più che una semplice ipotesi.»
Caligola scosse la testa. Era sorpreso che la situazione fosse già così pericolosa. C'erano tutte le premesse per un complotto che portasse qualcun altro al potere. Restava solo un ostacolo da abbattere, lui.
«Dunque non ci resta altro da fare che partire al più presto per la Germania, come avevamo pianificato» disse, pensando con una fitta al cuore che quella decisione, ormai impossibile da rimandare, lo avrebbe tenuto lontano da sua figlia.
«I preparativi sono terminati» confermò Callisto. «Nell'ultimo mese abbiamo risolto tutti i problemi e organizzato la partenza nei minimi dettagli.»
«Dovremo dirigerci a tappe forzate verso il Reno, per non dare la possibilità a Getulico di organizzare una difesa.»
«Riusciremo a mettere insieme un esercito di duecentomila uomini, Cesare. Sempre ammesso che le legioni e le truppe ausiliarie che abbiamo fatto richiamare da tutto l'impero non vengano bloccate dai loro comandanti.»
«Potrebbero farlo dietro ordine dei consoli, o del Senato» annuì Caligola.
«Per questo forse dovresti destituire i consoli in carica e proclamarne altri. E poi muovere subito verso Mevania, la città in cui si stanno schierando le prime legioni al tuo comando.»
«Di quanti uomini dispone Getulico?»
«Quattro legioni, ma composte da uomini stanchi, che non hanno alcun interesse a farsi massacrare. Non dal proprio imperatore.»
«Procediamo comunque a nuovi reclutamenti» affermò Caligola, eccitato all'idea di una spedizione nelle terre in cui era stato da bambino con suo padre. «E recuperiamo viveri in abbondanza, non voglio che si debbano razziare i territori da Mevania al Reno per mantenere i legionari, ci farebbe perdere troppo tempo.»
«È già stato fatto, princeps, come tu stesso ci avevi suggerito tempo fa.»
«Bene. Allora concludiamo i preparativi e partiamo.»
«E di Agrippina e Lepido cosa ne facciamo?» chiese Callisto.
Caligola lo guardò. «Loro non devono immaginare niente, così come Getulico. Chiederò alle mie sorelle e a Lepido di venire con noi per cogliere l'opportunità di farsi onore e partecipare a questa grande spedizione in Gallia e in Germania, dove accumuleremo abbastanza ricchezze da recuperare le spese per il reclutamento dell'esercito e dividere ciò che resterà in famiglia.»
«Potrebbero capire che sai tutto, princeps.»
«E dunque che faranno, rifiuteranno? Non credo proprio. Ci seguiranno con la paura che io possa farli uccidere in ogni istante, e quando arriveremo da Getulico li metterò alla prova per capire fino dove sono disposti ad arrivare.»
«E i consoli?» chiese Callisto fermandolo davanti alla porta della biblioteca.
Caligola aveva urgenza di raggiungere sua figlia, Micenio e Milonia, per spiegare loro quello che stava succedendo. Adesso il suo pensiero andava soprattutto a Giulia Drusilla e alla sua incolumità.
«Chi possiamo nominare al loro posto?»
«Io proporrei Domizio Afro e Aulo Didio Gallo» rispose Callisto senza un attimo di esitazione, a dimostrazione che aveva già pensato a tutto. «Sono persone fidate, che possiamo controllare.»
«Va bene» annuì Caligola. «Mi fido del tuo giudizio.»
«Un'ultima cosa» lo fermò ancora il liberto. «Devi sottrarre al controllo del Senato la legione d'Africa, l'unica ancora rimasta sotto il comando della Curia.»
«Credi che potrebbe diventare un problema?»
«Ne dubito. Ma sarebbe un segnale molto forte per chi sta pensando che sia facile sbarazzarsi di te, Cesare.»
Caligola annuì e uscì dalla biblioteca.
Adesso doveva convincere Milonia Cesonia a restare a Roma per occuparsi della figlia, e Micenio a rinunciare alla compagnia di Giulia Drusilla per seguirlo in Germania. Perché poteva privarsi di tutto, in quella nuova avventura, ma non di Micenio.
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L'odore.
Della terra, degli alberi, dell'aria. Degli uomini che abitavano quelle regioni.
Credeva di averlo dimenticato, ma non era così. Persino l'odore del fiume, lo scorbutico Reno che tracciava percorsi tortuosi in quei territori freddi e inospitali, era proprio come lo ricordava.
Un odore che si mischiava in maniera indissolubile con il ricordo di suo padre. E con il sogno di poterlo eguagliare nelle sue imprese militari.
Allungò un piede e diede un calcio a un sasso, osservando le modeste caligae che indossava, e che avevano fatto inorridire Micenio, quando si era presentato davanti a lui per recarsi nel luogo del processo.
«Con queste ho seguito le orme di mio padre» gli aveva spiegato, anticipando ogni possibile protesta del suo amante. «E con queste indosso voglio chiudere la contesa con la mia famiglia.»
Ecco ciò che lo addolorava. E che lo faceva infuriare.
Germanico aveva messo al mondo tre figli maschi e tre figlie femmine, e anziché lottare tutti insieme per garantire alla loro famiglia il futuro pieno di gloria e di rispetto che un padre si attende dalla sua progenie, si erano scontrati l'uno con l'altro, si erano ignorati, si erano accusati vicendevolmente, e alla fine erano morti o erano stati uccisi in solitudine.
Tutti tranne lui, Agrippina e Livilla, che alla fine avevano commesso il peccato maggiore: tradire l'imperatore e, allo stesso tempo, la loro famiglia.
Elicone gli aveva riferito quello che i messaggeri arrivati da Roma avevano dichiarato, a nome delle varie autorità dell'Urbe. Non era rimasto sorpreso dal fatto che il Senato, i comizi popolari e i pretoriani fossero d'accordo con le sue decisioni e attendessero l'esito del processo che lui aveva deciso di istruire direttamente lì, sulle sponde del Reno.
Quando era arrivato con il suo esercito nelle regioni governate da Cornelio Lentulo Getulico, cogliendolo di sorpresa e già pronto a gettarsi ai suoi piedi per dichiarare la sua fedeltà all'imperatore, Caligola lo aveva fatto arrestare e spedito a Mogontiacum, dove, per ordine di alcuni tribuni militari della coorte pretoria che lo accompagnava, era stato giustiziato senza nemmeno perdere tempo a sentirne le ragioni.
Decine di centurioni delle legioni al comando di Getulico erano stati interrogati o si erano presentati spontaneamente per raccontare i fatti, e le prove che Elicone aveva raccolto sul suo progetto di ribellarsi all'imperatore e marciare su Roma erano così circostanziate che non ci fu bisogno di altro per addossare a Getulico le sue colpe. E non solo a lui...
«Siamo pronti, Cesare» lo richiamò una voce alle sue spalle. «Al tuo comando.»
Si voltò e intercettò lo sguardo di Cassio Cherea, che comandava la sua scorta e che, come lui, conosceva bene quei luoghi, per esserci stato al seguito di Germanico. Caligola lo aveva voluto con sé proprio a quello scopo, ed era a lui che aveva chiesto di preparare tutto come convenuto.
«Questa volta ce le abbiamo, le scimmie?» gli chiese.
Cassio Cherea aggrottò le sopracciglia per un istante, come se non capisse la domanda, poi sembrò ricordare quando, più di vent'anni prima, su ordine di Germanico aveva giustiziato un ragazzo che aveva ucciso il padre, secondo l'antico rito dell'insaccamento, e che lui stesso aveva poi fatto rotolare nel Reno.
«Abbiamo tutto ciò che hai ordinato» si limitò a rispondere senza lasciar trasparire nulla dallo sguardo duro, grigio come il cielo che li sovrastava, carico di pioggia.
«Bene» annuì Caligola. «Allora di' a tutti che il banchetto può iniziare.»
La piccola collina che sovrastava la valle in cui scorreva il Reno brulicava di soldati, ma anche di schiavi affaccendati a servire i cibi che venivano cucinati sui fuochi disseminati un po' ovunque, mentre un padiglione eretto in fretta e furia teneva a bada la pioggia che aveva cominciato a cadere sui triclini disposti a semicerchio e sui tavoli imbanditi.
Da quel punto, Caligola riusciva a scorgere le numerose curve che il letto del fiume scavava nella terra nera di Germania. Ancora una volta si chiese quale dio si fosse divertito a tracciare quel percorso tortuoso per le acque che scendevano dalle montagne e che correvano fino al mare. Un fiume possente e aggressivo, dalle acque gelide che schiumavano in continuazione, e che non aveva nulla della placida sicurezza del Tevere.
«Devo dire che la tua arte di sorprenderci migliora giorno dopo giorno» esordì Agrippina con una mezza risata. «Tutto questo è... incredibile.»
Aveva fatto ruotare un braccio, che reggeva un pezzo di carne di cinghiale accompagnato da una salsa nera e forte prodotta da cuochi di quelle terre, indicando tutto quello che stava succedendo sotto il padiglione in cui era stato allestito il banchetto, ma anche ovunque su quella collina glabra punteggiata dai fuochi delle cucine da campo e dagli accampamenti dei legionari.
«A me sembra solo che prendiamo freddo e rischiamo di non apprezzare gli straordinari cibi che i cuochi stanno preparando» intervenne Livilla, la quale come sempre aveva aspettato che fosse Agrippina a iniziare il discorso per poi seguirla a ruota. «Perché ci siamo fermati in questo luogo così inospitale? Non potevamo raggiungere una città?»
«Getulico ci aspettava a Mogontiacum» intervenne Emilio Lepido, che fino a quel momento aveva solo piluccato, senza mangiare quasi nulla delle meraviglie culinarie che Caligola aveva fatto preparare per loro. «Forse avremmo potuto raggiungerlo e fargli l'onore di partecipare a questo ricco banchetto, Cesare.»
Caligola sorrise, mentre sgranocchiava con gusto gli ossicini di una quaglia che era stata cotta nell'acqua bollente insieme ad alcune erbe amare che ne esaltavano il sapore.
«Tu che dici, Sulpicio, saremmo riusciti a raggiungere Mogontiacum prima di sera?» chiese a Servio Sulpicio Galba, che insieme a lui, alle sue sorelle, a Lepido e a Micenio componeva il ristretto gruppo di ospiti del banchetto imperiale.
«Non credo, Cesare» rispose Galba, pulendosi la bocca sulla manica della tunica. «Ma mi è stato detto che forse sarà Getulico a raggiungerci qui, dunque il problema dovrebbe essere risolto.»
Caligola non mancò di notare lo scambio di sguardi fra Lepido, Agrippina e Livilla, e decise che era arrivato il momento di dare il via allo spettacolo.
Il giorno in cui suo padre lo aveva voluto con sé su quella collina, per renderlo partecipe di un atto di giustizia, il cielo era nuvoloso e minacciava pioggia. Adesso, pareva quasi che le gocce gelide che cadevano dal cielo plumbeo non fossero altro che la continuazione di quella giornata. L'erba verde e rigogliosa era fradicia e il terreno affondava sotto le caligae dei soldati, mentre le squadre preparate da Cassio Cherea si mettevano in movimento al suono dei corni.
Caligola aveva voluto che tutto fosse organizzato con la massima precisione, e si ripromise di complimentarsi con i tribuni militari. Avevano addestrato alla perfezione gli uomini: ogni singolo legionario si muoveva in sincronia con gli altri, dando vita a schieramenti perfettamente allineati nonostante l'acqua che intrideva il terreno e che scorreva a rivoli impetuosi lungo il fianco della collina, fino al Reno che mugghiava inferocito nella valle più in basso.
Quando furono creati i corridoi di uomini armati, arrivò il momento di far comparire le gabbie contenenti gli animali, trasportate a braccia da decine di schiavi.
«Meraviglioso!» esclamò Sulpicio Galba, sputacchiando cibo e vino da tutte le parti.
Caligola lo guardò divertito, rendendosi conto che la scelta di affidare le province del Reno a quell'uomo era stata intelligente: non si sarebbe mai azzardato a ribellarsi all'imperatore, perché era troppo stupido e troppo codardo per farlo. O semplicemente perché avrebbe preferito nuotare nell'oro restando ai margini dell'impero, piuttosto che imbarcarsi in un'avventura dai dubbi risultati. Come aveva fatto quello stolto di Getulico.
Quando le gabbie con le scimmie, i cani e i galli vennero disposte in due file ordinate davanti ai legionari schierati, Caligola lanciò un'occhiata alle sorelle e a Lepido per studiare la loro reazione. Erano un po' sorpresi, ma Agrippina sembrava soprattutto divertita da quello spettacolo inatteso, e questo dimostrava che ancora non si rendevano conto di ciò che li aspettava.
«Che cosa c'è dentro quei sacchi?» chiese Livilla con un inaspettato guizzo di curiosità, lei che aveva sempre contenuto ogni manifestazione emotiva dietro al cipiglio severo che la contraddistingueva.
Aveva indicato i sacchi che alcuni schiavi tenevano in mano, che si contorcevano e sussultavano come se contenessero le anime di qualche spirito dannato.
Caligola bevve un sorso di vino e sorrise alla sorella. «Serpenti, mia cara Livilla» rispose. «Della specie più velenosa che è possibile catturare in queste regioni.»
«Serpenti?» fece Livilla scossa. «Ma per quale motivo? E a cosa servono quelle scimmie, i galli e i cani?»
Caligola si alzò dallo scomodo triclinio di legno che era stato approntato dai mastri carpentieri e raggiunse il bordo della piattaforma su cui era stato allestito il banchetto. In quel punto la pioggia, che scendeva di traverso, gli sferzava piedi e caviglie con piccole lame ghiacciate, ma non ci fece caso. Stava già pregustando quello che sarebbe accaduto e non vedeva l'ora di assistere alle espressioni delle sue sorelle e di Lepido di fronte allo spettacolo che aveva organizzato per loro.
Un tribuno militare corse verso di lui, il viso atteggiato a una maschera impassibile, mentre dall'elmo l'acqua gli cascava negli occhi e su tutta la faccia, scavata dalle stagioni e da tutto quello a cui aveva assistito, in anni di campagne militari ai confini. Non ricordava più come si chiamasse, ma era stato fra i primi a recarsi da lui a rendergli omaggio, dopo avergli spiegato di essere stato al servizio del grande Germanico.
«È tutto pronto, Cesare. Come tu hai ordinato» scandì il tribuno dopo aver portato l'avambraccio con il pugno chiuso a battere sul petto.
Caligola avrebbe voluto indossare la lorica che era stata di suo padre, ma per quel giorno non sarebbe stato necessario. In fondo, non stava partecipando a una parata militare o a una spedizione contro il nemico. Era qualcosa di più simile a un processo, anche se i diretti interessati ancora non l'avevano capito.
«Bene» confermò, annuendo verso il tribuno. «Cassio Cherea è pronto?»
«Sì, Cesare. Aspetta solo il suono dei corni.»
«Allora procediamo» concluse Caligola, voltandosi e tornando al suo triclinio. Afferrò la coppa e la immerse nel cratere del vino, poi l'allungò verso uno schiavo che si precipitò a versargli del miele e a mescolare il tutto con un bastoncino aromatizzato.
«Proprio non vuoi dirci di che si tratta?» gli chiese Agrippina, sdraiata sul fianco languida come una dea, con un'espressione a metà fra la noia e una contenuta curiosità.
«Abbi pazienza, sorella» le rispose Caligola bevendo il vino forte di Germania. «Presto capirai tutto.»
Prima che qualcuno potesse aggiungere altro, risuonò un corno da battaglia, seguito subito da altri, che lasciarono propagare un lungo lamento fino alle acque ruggenti del fiume. A quel punto una squadra di pretoriani si staccò dalle linee schierate e andò a circondare alcuni uomini che erano arrivati a bordo di un carro. Li scortò fino a un punto a pochi passi dal palco del banchetto e li costrinse a cadere in ginocchio nel fango e nell'acqua gelida, mentre le spade sguainate li pungolavano nella schiena.
Era impossibile capire chi fossero, perché erano a torso nudo e tenevano le teste chine, forse in ossequio all'imperatore o, più probabilmente, perché così era stato ordinato loro, pena un singolo colpo preciso al collo che li avrebbe uccisi all'istante.
«Chi sono quegli uomini?» chiese Emilio Lepido allarmato. Sembrava il solo capace di cogliere l'atmosfera gelida che aveva pervaso la collina, da quando i soldati si erano messi in movimento per formare gli schieramenti allineati.
«Generali, tribuni militari e centurioni» rispose Caligola dopo aver gustato un altro sorso di vino. «Tutti traditori che hanno cercato di organizzare una ribellione insieme al loro comandante.»
Vi fu silenzio, e lui notò gli sguardi pieni di incertezza di Lepido e di Livilla, e quello, adesso cauto e più ostile, di Agrippina.
«Procediamo!» ordinò Caligola tornando ad alzarsi e avvicinandosi agli uomini inginocchiati. Poco importava se si fosse inzuppato dalla testa ai piedi: Germanico avrebbe fatto altrettanto per dimostrare ai suoi uomini che lui era uno di loro, e che avrebbe preso le sue decisioni conoscendo bene le difficoltà che le persone più umili dovevano affrontare ogni giorno.
Cassio Cherea, in qualità di comandante dei pretoriani che componevano la scorta reale e che obbedivano direttamente all'imperatore, si fece avanti e diede un ordine ai suoi usando semplicemente lo sguardo e un movimento secco della testa.
Ciascun pretoriano afferrò i capelli di uno dei prigionieri, costringendolo a rialzare la testa per affrontare lo sguardo di Caligola. Lui li passò in rassegna uno per uno, rendendosi conto che non li conosceva né li aveva mai visti, e che pure sarebbero stati pronti a ucciderlo in nome di un giuramento fatto al loro comandante. Non sapeva come avrebbe reagito Germanico a un simile tradimento, ma aveva le idee chiare su come si sarebbe comportato lui.
«Voi siete parricidi» affermò con voce grave, facendo in modo che lo sentissero non solo i prigionieri, ma anche tutti i legionari schierati sulla collina e, soprattutto, i suoi ospiti sotto il tendone del banchetto. «Come il figlio che leva la mano contro il padre, uccidendo chi gli ha donato la vita e ha il suo stesso sangue, voi avete levato le spade contro il padre della patria, per fare sgorgare il sangue dell'imperatore.»
Un brusio si diffuse fra i soldati. Caligola lo ignorò e continuò a fissare i prigionieri.
«In questo stesso luogo, più di vent'anni fa, mio padre mi ha fatto vedere come si puniscono i parricidi, e io ho imparato la lezione» disse camminando avanti e indietro, le mani dietro la schiena e le caligae che affondavano nel fango. «Adesso voi pagherete le vostre colpe come hanno stabilito i nostri padri, e prima di loro i padri dei nostri padri.»
Detto questo tornò sotto il tendone e, ignorando Micenio, che si era subito avvicinato con una coperta, andò a sedersi sul suo triclinio, evitando di guardare Lepido e le sue sorelle.
Cassio Cherea aspettò un suo cenno, poi diede gli ordini, che risuonarono nel silenzio che batteva la collina con ancora più forza dello scroscio della pioggia.
I prigionieri vennero fatti alzare, poi gli schiavi con i sacchi che contenevano i serpenti avanzarono e si disposero in una fila ordinata. Aperti i sacchi, i pretoriani costrinsero i prigionieri a infilarsi in quelle trappole mortali, picchiandoli con le else delle spade quando cercarono di ribellarsi e di divincolarsi. Altri soldati aprirono le gabbie, presero i cani, le scimmie e i galli, e li infilarono nei sacchi insieme ai prigionieri, le cui urla si mischiarono ai ringhi e ai versi degli animali. Finita questa operazione i sacchi vennero richiusi e, sollevati ciascuno da due schiavi, portati verso il bordo della collina.
«Quello laggiù non è il Tevere» disse Caligola rivolgendosi finalmente alle sorelle e a Lepido, «ma farà comunque il suo dovere.»
Detto questo osservò gli schiavi mentre facevano rotolare i sacchi, che sussultavano e si dimenavano come se fossero preda di creature infernali, fin sul fianco scosceso della collina e li lasciavano rotolare verso il Reno, le cui acque grigie e mortali sembravano in famelica attesa di inghiottirli.
Il tutto durò pochi istanti, poi all'improvviso quello spettacolo terminò. Cassio Cherea e i suoi uomini rientrarono nei ranghi e i servi ripresero a servire il cibo cucinato sui fuochi da campo.
«Allora, come vi è sembrato?» chiese Caligola rilassandosi sul triclinio e assaggiando una carne rossa che gocciolava sangue ma che non aveva idea a quale animale appartenesse. «Gran bello spettacolo, non credete?»
«Grandioso!» squittì Sulpicio Galba, rosso in faccia come se si fosse immaginato a sua volta rinchiuso in uno dei sacchi. «Non credo che qualcuno oserà mai più ordire una congiura contro di te, Cesare. Non dopo le magnifiche parole che hai pronunciato.»
«Di quale congiura sono stati accusati?» chiese Agrippina. Finalmente la sorella cominciava a capire che tutto quello spettacolo era stato allestito per loro, e abbandonava l'aria insofferente e svagata per aggredirlo come sapeva fare molto bene.
«Il loro comandante li ha sobillati» rispose Micenio, anche se non era stato interpellato. «Abbiamo le prove che quegli uomini erano pronti ad attaccare le legioni imperiali.»
«Se ne avessero avuto il tempo» aggiunse Caligola senza staccare gli occhi da quelli cupi di Agrippina.
«Il loro comandante?» chiese Emilio Lepido, sempre più pallido. «Ti riferisci a Getulico?»
«Chi altri?» fece Caligola sventolando una mano nell'aria, dando a intendere che per lui la questione era chiara in tutti i suoi aspetti. Anche quelli che riguardavano i presenti...
«È per questo che non abbiamo raggiunto Getulico a Mogontiacum?» chiese Livilla. «Per non dargli la possibilità di difendersi e smentire questa... assurdità?»
«Be', cara sorella, in realtà Getulico ha chiesto di conferire con l'imperatore» rivelò. «E io l'ho accontentato.»
Agrippina e Livilla si guardarono sorprese ma, prima che potessero dire qualcosa, lui fece un cenno a Elicone, che aspettava in disparte, e il liberto si fece avanti. Reggeva un grande vassoio coperto da una campana di bronzo, di quelle che servivano a mantenere calde le pietanze all'interno, che pose sul tavolino davanti a Caligola.
«Le sue argomentazioni non sono state molto convincenti» continuò questi, afferrando il coperchio e sollevandolo con un gesto brusco. «Però ha potuto spiegarci tante cose.»
Quando vide quello che c'era sul vassoio, Livilla lanciò un grido, mentre Lepido si accasciava sul triclinio e Agrippina irrigidiva tutti i muscoli del corpo.
Caligola afferrò un cucchiaio d'argento e saggiò la consistenza della pelle bollita sul viso di Getulico, la cui testa era appoggiata sul vassoio insieme a erbe aromatiche e allo stesso sugo speziato che era stato versato sulle carni del banchetto.
«Mi dicono che la cottura è avvenuta al punto giusto, e che possiamo gustarci una pietanza che da queste parti è considerata molto prelibata.»
Agrippina balzò in piedi, le labbra livide per la rabbia.
«Sei disgustoso!» proruppe. «Come hai potuto...»
«Io posso tutto!» ringhiò Caligola alzandosi a sua volta e fronteggiandola a muso duro. «Sono l'imperatore di Roma, il tuo imperatore, gli dei mi parlano e si confidano con me.»
«Nessun dio farebbe mai una cosa del genere» ribatté Agrippina.
«Credi sia peggio uccidere i propri nemici, o pensare di far sgorgare il sangue del proprio fratello?» le chiese allora lui, mettendo da parte ogni indugio. «Io appartengo alla tua famiglia, alla dinastia più potente di Roma, e voi» incluse anche Livilla nel gesto accusatorio del braccio teso, «avete complottato con quel cane di Getulico per dare le mie carni in pasto al ferro!»
Agrippina sostenne ancora per qualche istante il suo sguardo, poi forse comprese che qualsiasi parola da parte sua sarebbe servita solo a decretare la sua fine e crollò sul triclinio. Caligola voltò lo sguardo verso Livilla, ma la sorella lo distolse subito, piena di paura e di vergogna. Lepido sembrava una statua di cera, pallido e con le labbra esangui.
Caligola fece un cenno a Micenio, che raccolse un involto da sotto il suo triclinio e glielo portò. Lentamente, Caligola lo aprì e mise alla luce tre daghe. Poi si avvicinò ad Agrippina e le buttò la spada ai piedi del triclinio.
«Ecco, se volevate uccidermi» disse lanciando una seconda spada davanti ai piedi di Livilla «adesso potete farlo.» Si voltò verso Emilio Lepido e fece cadere la terza spada dove l'ex cognato avrebbe potuto prenderla con facilità. Poi allargò le braccia e restò immobile a guardarli, esponendo il proprio corpo a un attacco che, se fosse avvenuto con velocità, i pretoriani non avrebbero potuto fermare.
Per qualche attimo vi fu silenzio. Nessuno aveva il coraggio di alzare lo sguardo su di lui, o di posarlo sulle daghe che giacevano a terra. Poi finalmente Caligola abbassò di nuovo le braccia, sospirò e raccolse le spade, che passò di nuovo a Micenio.
«Io non infierirò sul sangue del mio sangue» continuò, richiamando con un cenno Cassio Cherea e i suoi pretoriani. «Voi due, sorelle, tornerete a Roma, e da lì sarete trasferite sulle isole pontine, per concludere i vostri giorni lontano dai miei occhi.»
«E mio figlio?» chiese Agrippina, guardandolo con una smorfia di terrore che non le si addiceva. «Che cosa ne sarà di lui?»
«Non ha colpe per la tua follia» rispose Caligola. «Lo affiderò a Claudio, che sembra avere una certa predilezione per i bambini come lui. E crescerà lontano dalla vipera in cui si è trasformata sua madre.»
Attese una replica che non venne, quindi si avvicinò a Emilio Lepido, sentendo che la rabbia che lo scuoteva dentro aveva bisogno di un bersaglio.
«Tu hai creduto di poter diventare sangue del mio sangue» gli disse, mentre i pretoriani lo circondavano. «E forse hai ucciso Drusilla, proprio come hai cercato di fare con me.»
«No, Cesare!» gridò Lepido con aria disperata. «Io amavo Drusilla, lo sai! Quale giovamento avrei ricevuto dalla sua morte?»
Caligola mostrò i denti mentre lo fissava.
«Di certo ne avresti avuto dalla mia» sibilò.
Prima che l'uomo potesse ribattere, fece un gesto secco con il braccio. Gli uomini di Cherea agguantarono Lepido e lo trascinarono via.
«Che cosa ne sarà di lui?» chiese di nuovo Agrippina con un filo di voce, ormai schiantata nella sua protervia.
Caligola si rivolse a Sulpicio Galba, che era rimasto zitto e immobile per tutto il tempo, bianco come la tunica che indossava.
«Tu sei il nuovo governatore di queste regioni» gli disse. «Qual è la punizione per i traditori, da queste parti?»
Galba deglutì a vuoto un paio di volte, prima di ritrovare la voce. «Vengono bruciati vivi, Cesare.»
«Allora che sia questa la sorte di Emilio Lepido» annuì Caligola, tornando a sdraiarsi sul triclinio. «Sarà bruciato sul fuoco depuratore. E tu, sorella, porterai a Roma le sue ceneri. Così potrai discutere con lui durante il viaggio, per stabilire se davvero è stata una mossa intelligente cercare di uccidere tuo fratello.»
I pretoriani si disposero attorno alle due donne e le obbligarono ad alzarsi. Agrippina gli lanciò un'occhiata strana, che era per metà carica d'odio e per metà sembrava volerlo implorare. Evidentemente non credeva alle sue parole, forse pensava che, non appena fosse tornato a Roma, lui avrebbe fatto eliminare anche suo figlio.
Ne sostenne lo sguardo senza mostrare alcuna espressione, perché il dubbio restasse per sempre dentro di lei, poi, prima che i pretoriani portassero via le sorelle, rivolse loro un'ultima domanda.
«Avete cercato voi di avvelenarmi, quando sono stato male?»
Agrippina non disse nulla, né i tratti del suo viso mutarono. Livilla, invece, scosse la testa.
«Sei un pazzo, se pensi questo» soffiò con voce piena di risentimento.
«E Drusilla?» le incalzò lui. «Sono un pazzo anche a credere che siete state voi a ucciderla?»
Nessuna rispose, proprio come aveva immaginato, e dopo avere sostenuto ancora per un po' i loro sguardi così simili a quelli della madre, e così lontani da quello aperto e sincero di Germanico, fece un cenno ai pretoriani ed evitò di guardarle, mentre le portavano via, verso il loro destino.
Gli avevano dato del pazzo, ma non avevano capito quanto fossero in errore. Lui era tutto tranne che in preda alla follia. Era divorato dalla collera, dal disgusto e da un desiderio opprimente di vendetta, perché sapeva che non erano stati gli dei a portargli via Drusilla, ma qualcuno che si nascondeva e tramava alle sue spalle.
E lui non avrebbe avuto pace fino a quando non lo avesse trovato e gli avesse fatto pagare la sua codardia. Anche a costo di portare mezza Roma al patibolo.