La serena, pacata
esistenza
della signora Afton
di Patricia
Highsmith
Titolo originale: The Gracious, Pleasant Life of Mrs. Afton
Traduzione di Hilja Brinis
© 1962 Patricia Highsmith
Raccolto ne Inverno Giallo ’82-’83 (1982)
Per il dottor Felix Bauer, lo psicanalista, intento a guardar fuori dalla finestra del suo studio al pian terreno in Lexington Avenue, il pomeriggio era come un pigro torrente che avesse perso il suo corso, o non sapesse più se scorrere in un senso o nell’altro. Il traffico si era fatto più intenso, ma nel sole cocente le auto avanzavano a passo d’uomo dietro una fila interminabile di fanalini rossi, le cromature arroventate e come incandescenti. Lo studio del dottor Bauer aveva l’aria condizionata ed era perciò gradevolmente fresco; ma qualcosa – la logica, forse, o il suo sangue – diceva a Bauer che fuori l’aria era torrida, e questo lo deprimeva.
Guardò le ore. La signorina Vavrica, che sarebbe dovuta venire alle tre e mezzo, stava di nuovo mancando all’appuntamento. Gli pareva di vederla, probabilmente seduta in un cinema, ora, tentare di ipnotizzare se stessa, a occhi sbarrati, per non pensare a ciò che avrebbe dovuto fare e aveva, invece, schivato. C’erano tante cose che Bauer avrebbe potuto fare prima del prossimo appuntamento delle quattro e un quarto, ma preferiva starsene svogliatamente alla finestra.
Che cos’avrà mai New York, stava riflettendo il dottore, per riuscire a privarmi così di qualsiasi iniziativa? Lavorava molto – l’aveva sempre fatto – ma, in America, lo faceva con la consapevolezza di logorarsi. Non era come vivere a Vienna o a Parigi, dov’era sempre riuscito a rilassarsi, la sera, in compagnia della moglie e degli amici, e poi a trovare altre energie per lavorare ancora; o per leggere, fino alle ore piccole.
D’improvviso si vide davanti l’immagine della signora Afton, piccola, piuttosto appesantita ma ancora bella, con una rara, radiosa grazia tipica della mezz’età: sempre lievemente olezzante, Bauer ricordò, di una colonia alla gardenia. L’immagine si sovrapponeva ora al ricordo delle serate nella vecchia Europa.
La signora Afton era una donna molto simpatica, un’americana del Sud. Confermava quello che lui aveva sentito dire spesso sugli Stati del Sud, e cioè che conservavano tradizioni di vita in cui vi era posto per i pasti, le visite, le conversazioni e, in poche parole, per il dolce far niente. Bauer l’aveva intuito da alcune frasi dette dalla signora Afton – forse non necessarie ma piacevoli a udirsi – e dalle buone maniere che l’ansia non le aveva fatto dimenticare. La signora Afton rifletteva uno stile di vita che, come un’alchimia, trasformava il mondo in qualcosa di diverso e di molto più aggraziato. Non capitava spesso, al dottor Bauer, di trovare persone così gradevoli tra i suoi pazienti: ma già, la signora Afton era venuta da lui il lunedì precedente per consultarlo a proposito del marito, non di se stessa.
Il paziente delle quattro e un quarto, il serissimo signor Schriever, che sfruttava fino all’ultimo centesimo il costo della visita, arrivò e se ne andò senza minimamente intaccare la superficie monotona del pomeriggio.
Di nuovo solo, il dottor Bauer si passò una mano sulla fronte, si lisciò con impazienza le sopracciglia e prese un ultimo appunto sul signor Schriever. Il giovane aveva parlato di nuovo come una macchina, esitando, poi accavallando le parole, e nessuna domanda era servita a incanalarlo su sentieri più promettenti.
Con le persone come Schriever, bisognava sforzarsi per convincere se stessi di poter riuscire, a lungo andare, ad aiutarle. La prima barriera da abbattere era sempre la tensione: non la tensione quasi oggettiva, dovuta alla guerra e alla povertà, che il dottor Bauer aveva riscontrato in Europa, bensì la tensione tipicamente americana, diversa in ciascun individuo, e che ciascun individuo sembrava alimentare in sé più che mai proprio nel momento in cui si affidava allo psicanalista per riuscire a liberarsene.
Nella signora Afton, non c’era traccia di quella tensione. Era davvero un peccato che una donna nata e allevata per la felicità dovesse essere legata a filo doppio a un uomo che vi aveva rinunciato. Ed era un peccato che il dottor Bauer non potesse far niente per lei. Quel giorno, ormai Bauer l’aveva deciso, l’avrebbe appunto avvertita di non poterle essere d’aiuto.
Alle 5 in punto, Bauer cercò col piede, sotto il tappeto, il pulsante che apriva la porta esterna dello studio, e lo premette due volte. Guardò verso l’uscio interno, poi si alzò e lo aprì. La signora Afton entrò immediatamente, il passo rapido ed elastico nonostante fosse un po’ grassottella, la testa castana, pettinatissima, tenuta bene eretta.
— Buonasera, dottor Bauer. — Si allentò la sciarpa di chiffon azzurro, poi prese posto nella poltrona di cuoio. — Si sta divinamente bene, qui. C’è un bel fresco! Penso che me ne andrò proprio con rammarico.
— Sì, — Bauer sorrise. — L’aria condizionata è una benedizione. — Si chinò sulla scrivania e rilesse gli appunti che aveva preso il lunedì.
Thomas Bainbridge Afton, anni 55. Stato di salute, buono. Irritabile. Ansia di fare moto e tenersi in forma. Negli ultimi mesi, dieta e allenamento severissimi. Stanza dell’appartamento d’albergo equipaggiata con attrezzi ginnici. Si allena strenuamente. Tendenze schizoidi, sado-masochistiche. Rifiuta di curarsi.
In modo specifico, la signora Afton era venuta per sapere da lui in che modo il marito poteva essere persuaso, se non a smettere, almeno ad attenuare quel regime.
Il dottor Bauer sorrise con un po’ di imbarazzo alla signora, seduta al di là della scrivania. Doveva spiegarle, ancora una volta, che non gli era possibile curare un paziente per interposta persona. La signora Afton lo aveva supplicato di lasciarla venire per un secondo colloquio. Ed era evidentemente fiduciosa e speranzosa, tanto che ora lui non sapeva come cominciare.
— Come andiamo, oggi? — domandò, come faceva sempre.
— Benissimo. — Lei esitò. — Penso d’avervi detto quasi tutto quello che c’è da dire. A meno che non abbiate qualcosa da domandarmi. — Poi, come rendendosi conto della propria intensità, si appoggiò allo schienale, batté le palpebre e sorrise. Il sorriso sembrava ripetere quello che lei aveva già detto il lunedì. — So che è buffo: un marito che flette le braccia davanti allo specchio come un ragazzino di dodici anni, ammirandosi i muscoli. Ma capirete che, quando lo vedo tremare per la stanchezza, alla fine, temo per la sua vita.
Se lui, con lo stesso genere di sorriso e un cenno di comprensione, avesse esordito, dicendo: — Dato che vostro marito rifiuta di venire personalmente a seguire una cura... — lei si sarebbe lasciata congedare e sarebbe uscita per sempre dallo studio, portandosi dentro il suo carico d’ansia. La signora Afton non riversava subito fuori i suoi guai, come facevano in genere le donne della sua età e del suo tipo, ed era troppo orgogliosa per ammettere certi fatti imbarazzanti: per esempio, che il marito la batteva, a volte. Di questo, il dottor Bauer era quasi certo.
— Ho il sospetto, naturalmente, che vostro marito stia ricostruendo un ego danneggiato, attraverso il suo regime a base di cultura fisica. Il suo ragionamento inconscio è che, avendo fallito in altre cose – i suoi affari, per esempio la perdita di quella proprietà nel Kentucky, cui avete accennato, o il fatto di non potervi offrire il tenore di vita che vorrebbe – possa compensare questo lato col diventare molto forte fisicamente.
La signora Afton distolse lo sguardo e gli occhi le si allargarono. Il dottor Bauer l’aveva già vista sgranare così le pupille dopo qualcosa detta da lui o quando tentava di ricordare qualcosa; e l’aveva vista stringere improvvisamente le palpebre quando qualcosa la divertiva, con una civetteria giovanile che ancora scintillava attraverso le lunghe ciglia ricurve. Ora l’atteggiamento della testa metteva in risalto la larghezza degli zigomi; la fronte che andava restringendosi, il mento tondeggiante: una faccia materna, sebbene la signora Afton non avesse figli.
Finalmente, molto dubbiosa, lei replicò: — Immagino possa essere una spiegazione logica.
— Ma non siete d’accordo?
— Non del tutto. — Risollevò la testa. — Non credo che mio marito consideri se stesso un fallimento. Viviamo ancora in maniera molto confortevole, sapete.
— Sì, certo.
Lei guardava l’orologio elettrico la cui lancetta rosicchiava via, silenziosamente, quei preziosi quarantacinque minuti. — Non potete suggerirmi niente che possa aiutarmi a moderare la sua... la sua routine, dottor Bauer?
— Non c’è proprio nessuna speranza che si possa convincerlo a venire da me?
— Temo di no. Vi ho già detto come la pensa sui dottori in genere. Dice che potranno trastullarsi con lui da morto, ma che finché sarà vivo non avrà mai niente a che fare con loro. Ah, forse non ve l’ho detto, ma ha venduto il suo cadavere a una scuola di medicina. — Sorrideva di nuovo, ma lui, in quel sorriso, avvertì un guizzo di vergogna, o forse di collera. — L’ha fatto sei mesi fa. Penso che possa interessarvi, saperlo.
— Sì.
— Vedete, dottore, sono convinta che se poteste vederlo per alcuni momenti... intendo dire, se lui non sapesse chi siete, sono convinta che potreste scoprire tante più cose di quelle che io potrei mai dirvi.
Il dottor Bauer sospirò. — Vedete, anche in quel caso, tutto quello che potrei dirvi sarebbe frutto di ipotesi. Né da voi, né dallo scambiare qualche parola con lui per pochi istanti, mi è possibile venire a sapere i fatti che, in primo luogo, hanno dato origine a questa sua ossessione per l’atletica. Potrei consigliarvi di aiutarlo a ricostruire ciò che ha perduto, contatti sociali, qualche hobby e così via... ma sono certo che avrete già tentato.
La signora Afton confermò con un cenno della testa d’aver provato.
— E tuttavia, psicologicamente, significherebbe soltanto correggere le cose in superficie, — aggiunse il dottor Bauer, in tono di scusa.
La signora non diceva niente. Le labbra serrate agli angoli, fissava le macchie di sole che la veneziana metteva in un angolo della stanza. Ma nonostante la posa intenta, c’era un che di desolato, in lei, che indusse Bauer ad abbassare lo sguardo sulla stilografica con cui continuava a giocherellare, là sulla scrivania.
— Eppure, vi sarei talmente grata se soltanto voleste provare a vederlo, non fosse che attraverso l’atrio del nostro albergo. Poi, qualsiasi cosa mi direte di lui, mi sembrerà... come dire? più esatta.
Tutto quello che dico è esatto, pensò Bauer. Abbandonò le sue obiezioni per andare, con la mente, a ciò che doveva assolutamente dirle: e cioè, che non le rimaneva altra via che rivolgersi a un consultorio familiare. Il responso, probabilmente, sarebbe stato il ricoverare il marito per le cure necessarie, e la signora Afton, ne era sicuro, avrebbe sofferto più di quando lui aveva insinuato che quel marito fosse un vero fallimento, come individuo. Infatti, aveva detto di amare ancora quell’uomo, e di non avere mai pensato a un divorzio e neppure a una breve separazione. Non soltanto lo amava, Bauer se ne rendeva conto, ma ne era orgogliosa.
Poi, all’improvviso, gli venne in mente che accettare di vedere quel marito, di osservarlo sia pure da lontano, potesse essere il conclusivo gesto di cortesia che andava invano cercando. Dopo averlo visto, si sarebbe sentito in pace, per avere fatto quanto era umanamente possibile.
— Posso tentare, — disse, alla fine.
— Oh, grazie! Sono sicura che servirà: lo sento! — Sorrise, sedette più eretta. Scosse la testa, perché Bauer faceva l’atto di offrirle una sigaretta. — Vi racconterò un’altra cosa che è successa, — disse, e il dottor Bauer capì, da come parlava, che gli era infinitamente grata. — Dovevo vedervi alle due e mezzo di lunedì, come ricordate; così, per poter uscire da sola, ho detto a Thomas che dovevo trovarmi alle due e mezzo da Lord & Taylor, con la signora Hatfield: è una vecchia amica, abita anche lei nel nostro albergo. Bene, alle due stavo facendo colazione da sola, lì in albergo, quando inaspettatamente è arrivato Thomas. Non facciamo mai colazione insieme, perché lui preferisce andare in un piccolo locale di Madison Avenue. E io stavo mangiando del fritto di pesce, che a sentire Thomas è a dir poco un tentativo di suicidio. Il fritto di pesce è una specialità dell’albergo, lo fanno di lunedì e io lo ordino sempre. Bene, avevo appena detto a Thomas d’avere appuntamento con la signora Hatfield alle due e mezzo, quando la signora Hatfield in persona entra anche lei nella sala da pranzo. È molto miope e non ci aveva visti, ma mio marito l’aveva vista benissimo. Si è seduta a un tavolo, ha ordinato la colazione, ed era chiaro che intendeva rimanere là un’ora e più. Thomas è rimasto seduto di fronte a me senza dire una parola, sapendo che avevo mentito. Gli piace fare così, a volte. Poi, se ne viene fuori con le accuse in tutt’altro momento, e quando io meno me l’aspetto.
— E l’ha fatto? Quando? — la sollecitò il dottor Bauer.
— Ieri pomeriggio. Sapeva con certezza che ero andata a colazione con la signora Hatfield, perché lei era venuta di sopra a prendermi. Avevamo pranzato all’Algonquin, in compagnia di altre due signore. Quando sono tornata, verso le tre, Thomas mi ha accusata d’essere andata al cinema in tutt’e due i pomeriggi, sebbene fosse chiaro che, ieri, dopo colazione, non vi fosse stato assolutamente il tempo di vedere un film.
— Non vuole che andiate al cinema?
Lei scosse la testa, ridendo: di una risata tollerante, quasi gaia. — L’aria viziata, sapete? A sentir lui, i cinema andrebbero tutti rasi al suolo. Oh, povera me, a volte è perfino buffo! E poi, dice che i film che piacciono a me sono la forma più deteriore di svago. A me, lo confesso, piacciono i film musicali, e vado a vederli quando mi pare e piace.
Il dottor Bauer era sicurissimo del contrario. — E che cos’altro ha fatto?
— Be’, non molto, in verità, ma ha scagliato l’orologio d’oro per terra. Un gesto così puerile e petulante, che quasi non credevo ai miei occhi.
Lo guardò, come se si aspettasse una reazione, poi aprì la borsetta, ne trasse un orologio d’oro e si avvolse la catena attorno all’indice, come per mostrarlo meglio. Quando l’orologio girò, Bauer vide che sul retro c’era un monogramma di iniziali intrecciate.
— È l’orologio che gli regalai per il primo anniversario di matrimonio. Sarò all’antica, ma mi piace che un uomo porti un bell’orologio da tasca. Per miracolo, funziona ancora. Devo solo portarlo a far cambiare il vetro. Mi sono limitata a raccogliere l’orologio da terra, senza dire una parola, e lui si e messo la giacca ed è uscito per la solita passeggiata pomeridiana. Cammina ogni giorno dalle tre alle cinque e mezzo, con qualsiasi tempo, poi viene a casa e fa la doccia – una doccia fredda – prima di uscire a cena insieme, a meno che non sia una delle sue serate con il Maggiore Stearns. Vi ho detto, mi sembra, che il Maggiore Stearns è il migliore amico di Thomas. Giocano a scacchi o a ramino diverse sere la settimana... Vi sarà possibile vedere mio marito questa settimana, dottor Bauer?
— Penso di poter combinare per venerdì a mezzogiorno, signora Afton, — rispose lui. Il venerdì pomeriggio lavorava in clinica, e prima di andarci poteva fare una sosta in quell’albergo. — Ci risentiamo per telefono venerdì mattina? Così faremo un piano preciso. È sempre meglio farlo all’ultimo momento.
Bauer si alzò e subito si alzò anche lei, sorridente, eretta. — Benissimo. Aspetto la vostra telefonata, allora. Mi sento tanto meglio, sapete? Ma temo di essermi fermata un paio di minuti di troppo.
Lui agitò la mano, facendo capire che non era il caso di parlarne, poi tenne aperta la porta. Qualche istante dopo, lei se n’era andata; ma aleggiava; ancora, nell’aria, un lieve profumo d’acqua di colonia, mentre Bauer, ritto presso la porta chiusa, fissava il crepuscolo ormai sceso al di là della finestra...
Quando il dottor Bauer arrivò in studio, il mattino seguente alle 9, la signora Afton aveva chiamato già due volte. Voleva essere richiamata immediatamente, lo informò la segretaria, e Bauer intendeva farlo subito dopo avere appeso il cappello; ma già il suo apparecchio stava squillando.
— Potete venire questa mattina? — disse la signora Afton.
Il tremito di paura nella voce di lei lo allarmò. — Certo che posso, signora Afton. È successo qualcosa?
— Sa che sono venuta a consultarvi sul suo conto. A consultare qualcuno, intendo dire. Mi ha accusata apertamente; subito dopo essere tornato dalla passeggiata mattutina... come se lo avesse scoperto così, misteriosamente. Mi ha accusata di slealtà verso di lui, ha fatto le valigie e ha detto che se ne andava. Ora è fuori. Non con le valigie, quelle sono ancora qui, perciò dev’essere andato a camminare. Probabilmente, verso le dieci tornerà. Vi sarebbe possibile venire subito?
— È violento, di carattere? Vi ha battuta?
— Oh, no! Niente del genere. Ma so che è la fine. So che non potremo andare avanti, dopo quanto è accaduto.
Il dottor Bauer calcolò quanti appuntamenti avrebbe dovuto disdire. Quello delle 10,15 e, forse, quello delle 11. — Potete trovarvi nell’atrio per le dieci e un quarto?
— Oh, certo, dottor Bauer!
Gli riuscì difficile concentrarsi durante l’appuntamento delle 9,15 e, ricordando la voce della signora Afton, deplorava di non essersi recato immediatamente all’albergo. La signora si era rivolta a lui, sia pure in maniera inconsueta, e pertanto se ne sentiva responsabile.
In taxi, alle dieci e qualche minuto, accese una sigaretta e sedette immobile, incapace di dare una scorsa al giornale che aveva portato con sé. In quella bella mattinata di giugno, mentre lui veniva trasportato passivamente da un taxi che non faceva che svoltare angoli e trovare semafori rossi, la signora Afton si trovava in piena crisi dopo più di venticinque anni di matrimonio.
E lui di quale utilità poteva esserle? Quella di chiamare rinforzi in caso di violenza, o di pronunciare le solite frasi di conforto, o di consiglio, nel caso il marito fosse venuto a prendere le valigie per poi andarsene definitivamente? Era la fine dell’esistenza serena e pacata della signora Afton, la quale, senza suo marito, non sarebbe stata mai più quella di prima.
Gli pareva di sentirli, i commenti di lei, parlando con le amiche: — Thomas ha le sue stranezze... le sue piccole bizzarrie. — E poi, con se stessa, dopo una serie di momenti di imbarazzo e di compromessi: — È un essere impossibile.
Tuttavia per orgoglio, educazione o senso del dovere, aveva conservato, insieme al senso dell’humor, l’aria d’essere sposata felicemente. — Thomas è un marito ideale... Uno scossone del taxi interruppe il filo dei suoi pensieri. Si erano fermati nel bel mezzo di un isolato tra la Quinta e la Sesta Avenue, davanti a un albergo più piccolo e più malandato di quanto lui avesse previsto: uno stretto edificio malinconico, probabilmente pieno di persone di mezz’età come gli Afton, residenti là da decenni.
La signora Afton avanzò a passo rapido verso di lui attraverso l’atrio piastrellato in bianco e nero, e la faccia tesa le si aprì a un sorriso di benvenuto. Gli porse la mano, dopo essersi asciugata rapidamente il palmo con il fazzoletto. — Quanto vi sono grata, dottor Bauer! Ora è tornato, è di sopra. Ho pensato di presentarvi come amico di un’amica mia: una certa signora Lanuxe, di Charleston. Potrei dire che siete passato soltanto un momento a portarmi i suoi saluti, e che dovete subito prendere il treno.
— Come volete. — Bauer la seguì verso l’ascensore, sollevato di trovarla così padrona di sé.
Entrarono in un piccolo ascensore cigolante, azionato da un vecchio, e rimasero in silenzio durante la lenta salita. Vicinissimo a lei, Bauer ora poteva vedere le tracce di grigio tra quei capelli castano chiaro, e poteva sentirla respirare in modo un po’ affannoso. Il fazzoletto era sempre appallottolato nel pugno.
— Da questa parte.
Si avviarono lungo un corridoio piuttosto buio, scesero un paio di scalini e si fermarono infine davanti a un’alta porta.
— Sono sicurissima che è nella sua stanza, ma busso sempre — mormorò lei. Poi aprì la porta. — Questo è il soggiorno.
Il dottor Bauer aveva istintivamente ficcato il giornale nella tasca della giacca, in modo da poter avere le mani libere. Ora si ritrovò in una stanza deserta, piuttosto deprimente, contenente mobili d’albergo, qualche libro, un vecchio lampadario d’ottone e un caminetto nero e di piccolissime proporzioni.
— È lì dentro, — disse lei, andando verso un’altra porta. — Thomas? — Spinse cautamente l’uscio.
Nessuna risposta.
— Non c’è? — domandò Bauer.
Per un momento, la signora Afton parve imbarazzata. — Dev’essere uscito di nuovo. Ma potete entrare, nel frattempo, e vedere le cose di cui vi ho parlato. Questa è la sua palestra, come la chiama lui.
Il dottor Bauer avanzò in una stanza che era circa la metà del soggiorno, e molto più buia, dato che aveva soltanto una piccola finestra aperta su una scala anti-incendio: Gli occorse qualche momento per individuare le strane forme che giacevano a terra o pendevano dal soffitto. C’erano attrezzi da pugile, un “cavallo” e, per terra, due palloni da basket. Bauer raccattò dal pavimento un paio di guantoni. Ne prese uno in mano e l’altro venne su insieme, assicurato al primo per le stringhe.
— Ha anche un vogatore, — disse la signora Afton. — È di là nell’armadio.
— Potremmo fare un po’ più di luce?
— Sì, certo. — Lei tirò un cordone e, sul soffitto, si accese una lampadina. — Di solito, a quest’ora, lui è qui. Sono tanto spiacente. Ma sono certa che ritornerà da un momento all’altro.
I lacci dei guantoni, notò Bauer, erano candidi e intatti, come se non fossero mai stati usati. Ora, alla luce della lampada, si vedeva benissimo che tutto l’equipaggiamento era nuovo di trinca. Il “cavallo” era un po’ polveroso, ma il cuoio non recava alcuna traccia di uso. Sul lato più vicino a Bauer, si vedeva ancora l’etichetta, nuova fiammante. Niente era mai stato usato. Era una sorpresa tale, per lui, che dapprima non si rese conto di quello che significava.
— E c’è lo specchio. — Lei indicava un alto specchio posato a terra ma appoggiato, ben diritto, contro la parete. Rise: — Passa le ore davanti a quello specchio.
Il dottor Bauer assentì. Nonostante il sorriso, vedeva più ansia ora sulla faccia della signora Afton, che nel pomeriggio del loro primo colloquio: un’ansia che trasformava in due tormentati cordoni le sottili sopracciglia di lei. Le mani le tremavano, mentre si chinava a raccogliere un metro a nastro da terra e se lo avvolgeva attorno alle dita, aspettando fiduciosamente un commento da parte di lui.
— Forse farei meglio ad aspettare nell’atrio, — mormorò il dottor Bauer.
— D’accordo. Telefonerò giù e vi farò avvertire appena lui ritorna. Usa sempre le scale. Per questo, forse, non l’abbiamo incontrato quando è uscito di nuovo.
Le scale erano proprio di fronte, notò Bauer quando uscì nel corridoio. Le infilò, un po’ inebetito. Un uomo gracile e biondo stava salendo, parve scrutarlo per un attimo quando si incrociarono, ma Bauer era sicurissimo che non potesse trattarsi del signor Afton.
Si sentiva come tramortito, senza sapere esattamente che cosa gli avesse fatto quell’effetto. Nell’atrio si guardò intorno e, alla fine, si avvicinò al banco del portiere, che rimaneva seminascosto dietro un’altra scala.
— Avete una signora Afton registrata qui? — disse, e il tono era più di affermazione che di domanda.
Il giovane portiere alzò gli occhi dal giornale. — Afton? No, signore:
— La signora Afton, della Stanza 32.
— No, signore. Non c’è nessuna Afton, qui.
— Allora chi c’è nella Trentadue? — Del numero, se non altro, Bauer era sicuro.
Il giovanotto consultò brevemente una lista appesa sopra il quadro del centralino. — Quello è l’appartamento della signorina Gorham. — E lentamente, nel fissare il dottor Bauer, al giovane venne da sorridere, con aria divertita.
— La signorina Gorham? Non è sposata? — Bauer si bagnò le labbra. — Vive sola?
— Sì, signore.
— Conosce la persona di cui parlo? Una donna, sulla cinquantina, grassottella, capelli castani?
Aveva compreso, compreso... ma voleva essere certo, doppiamente certo.
— La signorina Gorham, sì: Francis Gorham.
Il dottor Bauer fissò negli occhi sorridenti il giovane e si domandò che cosa il portiere sapesse, d’altro, che lui ignorava. Molte volte la signora Afton doveva avere sorriso a quel giovanotto, per ingraziarselo, come aveva fatto con lui, nel suo studio.
— Grazie, — disse. — Non c’è altro.
Si girò nella direzione opposta, fissando nel vuoto, serrando i denti fino a che la sensazione di irrealtà cessò, il mondo tornò a raddrizzarsi e ritornò duro e un po’ squallido, come l’atrio di quell’alberghetto... fino a che scompare ogni traccia della signora Afton.
Si stava già avviando all’uscita quando il bisogno di ritornare alla routine lo indusse a guardare l’orologio, per cui si accorse che, tutto sommato, poteva essere di ritorno allo studio per l’appuntamento delle undici, visto che non erano ancora le dieci e quaranta. Si diresse, allora, verso la cabina telefonica, seminascosta da una enorme palma in vaso. Accanto c’era una mensola con gli elenchi del telefono, e un’ostinata, quasi insensata curiosità indusse Bauer a cercare sotto la lettera A dell’elenco di Manhattan.
C’era un unico Afton, ed era una ditta, o un negozio.
Bauer entrò nella cabina e formò il numero del suo studio.
— Per favore, — disse alla segretaria, — provate di nuovo a chiamare il signor Schriever, e domandategli se può ancora venire alle undici. Con tante scuse da parte mia per questi continui cambiamenti. Poi, quand’è il prossimo appuntamento per la signora Afton?
— Un momento. Ecco, era fissato, provvisoriamente, per le due e mezzo di lunedì.
— Volete cambiarlo, per favore, con un appuntamento per la signorina Gorham? Signorina Gorham, stessa ora.
— Gorham? G-O-R-H-A-M?
— Sì, penso di sì.
— È una paziente nuova, dottore?
— Sì, — disse Bauer.