Era solo un
cinese
di Jack
London
Titolo originale: Only a chinago
Traduzione di Marcella Dallatorre
© 1939 Charmian K. London
Raccolto ne Inverno Giallo ’74-’75 (1975)
Ah Cho non capiva il francese. Se ne stava seduto nell’affollata aula del tribunale, stanco e annoiato, ad ascoltare il rapido, incessante francese pronunciato alternativamente dai vari funzionari. Ad Ah Cho sembrava solo un ronzio, tanto che si meravigliava della stupidità dei francesi che ci mettevano tanto tempo a trovare l’assassino di Chung Ga, e che poi non lo trovavano affatto. I cinquecento coolie della piantagione sapevano che era stato Ah San a commettere il delitto, e Ah San non era stato nemmeno arrestato. Era vero che tutti i coolie avevano deciso segretamente, di comune accordo, di non testimoniare mai l’uno contro l’altro, ma dopo tutto la cosa era così evidente che i francesi avrebbero potuto scoprirlo da soli che il loro uomo era Ah San. Erano proprio stupidi, quei francesi.
Ah Cho non aveva fatto niente per cui dovesse aver paura. Non aveva preso parte all’omicidio. D’accordo, era stato presente e Schemmer, il sorvegliante della piantagione, si era precipitato nelle baracche subito dopo il fatto e l’aveva trovato lì, insieme agli altri; e con questo? Chung Ga era stato pugnalato solo due volte. Era evidente che non potevano essere stati tutti e quattro a dare quelle due pugnalate. Al massimo, se ogni ferita fosse stata provocata da una persona diversa, i responsabili potevano essere solo due.
A questo aveva pensato Ah Cho quando, insieme ai suoi tre compagni, aveva mentito e confuso le cose mentre deponeva davanti alla Corte su quanto era successo. Avevano detto di aver sentito il rumore dell’omicidio e di essere perciò corsi sul posto, come Schemmer. Solo che c’erano arrivati prima di Schemmer, ecco tutto. D’accordo, Schemmer aveva dichiarato che, avendo sentito il rumore di una lite mentre passava di lì, era rimasto fuori della porta per almeno cinque minuti, prima di entrare; poi, quando era entrato, vi aveva trovato già dentro gli imputati, i quali non potevano essere entrati poco prima, per il semplice fatto che lui era rimasto fermo per un bel po’ davanti all’unico ingresso delle baracche. E con questo? Ah Cho e gli altri tre imputati avevano sostenuto che Schemmer doveva essersi sbagliato. Alla fine li avrebbero certo lasciati andare. Di questo erano più che sicuri. Non potevano essere giustiziati quattro uomini per due sole pugnalate. Oltre tutto, nessun altro aveva visto il delitto. Ma quei francesi erano talmente stupidi! In Cina, un magistrato avrebbe ordinato che tutti e quattro venissero torturati – Ah Cho lo sapeva bene – e la verità sarebbe saltata fuori. Era facile conoscere la verità, con la tortura. Ma quegli stupidi di francesi la tortura non la usavano, perciò non avrebbero mai scoperto chi aveva ucciso Chung Ga.
Ma Ah Cho non sapeva tutto. La Compagnia inglese che possedeva la piantagione aveva portato a Tahiti quei cinquecento coolie affrontando grosse spese, perciò non voleva che i suoi dipendenti, che le erano costati tanto cari, si mettessero ad uccidersi l’un l’altro. Per non parlare dei francesi, che erano impazienti di far rispettare ai cinesi le virtù e i pregi della propria legge. Per ottenere questo scopo non c’era niente di meglio di una punizione esemplare, di tanto in tanto. D’altra parte, poi, per cos’altro poteva servire la Nuova Caledonia se non per mandarci degli uomini a vivere in modo miserabile per scontare le proprie umane debolezze?
Ah Cho non sapeva tutto questo e se ne stava seduto nell’aula ad aspettare la prevedibile sentenza, che avrebbe consentito a lui e ai suoi compagni di tornarsene liberi alla piantagione, a lavorare fino alla scadenza del contratto. Mentre aspettava, ripensò al giorno in cui aveva firmato il contratto ed era partito con la nave per Tahiti. Nel suo villaggio sulla costa la vita era stata molto dura, e quando si era impegnato a lavorare per cinque anni nei Mari del Sud per cinquanta centesimi messicani al giorno, gli era sembrato un colpo di fortuna. Nel suo paese c’era gente che lavorava un anno intero per dieci dollari messicani. Qui, invece, avrebbe percepito cinquanta centesimi al giorno; avrebbe ricevuto quella somma favolosa per un solo giorno di lavoro! Cosa importava se quel lavoro era pesante? Alla fine dei cinque anni sarebbe tornato a casa – questo era nel contratto – e non avrebbe più dovuto lavorare. Sarebbe stato ricco per il resto della sua vita, con una casa sua, una moglie e dei bambini che da grandi l’avrebbero venerato. Sì, e dietro la casa avrebbe avuto un piccolo giardino, un posto dove meditare e riposare, con i pesci rossi in un minuscolo laghetto e i campanelli tintinnanti al vento sugli alberi, e intorno ci sarebbe stato un muro ben alto, in modo che la sua meditazione e il suo riposo non fossero disturbati.
Bene, ormai di quei cinque anni ne erano già passati tre. Ormai solo due anni separavano la piantagione di cotone di Tahiti dalla meditazione e dal riposo che lo aspettavano. Purtroppo in quel momento stava perdendo dei soldi per la sfortuna di essere stato presente all’uccisione di Chung Ga. Era in prigione da tre settimane, e per ogni giorno di quelle tre settimane aveva perso cinquanta centesimi. Meno male che adesso mancava poco alla sentenza, e presto avrebbe potuto rimettersi a lavorare.
Ah Cho aveva ventiquattro anni. Aveva un buon carattere, e gli era facile sorridere. Il suo corpo sottile da asiatico contrastava con la sua faccia rotonda come la luna, che emanava una gioia gentile e una dolcezza di spirito piuttosto insolite tra i suoi connazionali. E la sua natura corrispondeva realmente al suo aspetto. Non dava mai alcun disturbo, non prendeva mai parte a nessun alterco, non giocava d’azzardo. Si accontentava delle piccole cose e dei piaceri più semplici. Il silenzio e la quiete nel fresco della sera, dopo una giornata di estenuante lavoro nel campo di cotone, gli davano una soddisfazione infinita. Era capace di starsene ore ed ore a guardare un fiore solitario e a filosofare sui misteri e gli enigmi della vita. Un airone blu su una sottile striscia di spiaggia solitaria, il bagliore argenteo di un pesce volante, o un tramonto di madreperla rosa sulla laguna riuscivano a incantarlo fino al punto di fargli dimenticare completamente la lunga serie di giornate faticose e la pesante frusta di Schemmer.
Schemmer, Karl Schemmer, era un bruto, un bruto violento. La sua paga se la guadagnava davvero: riusciva a tirar fuori anche l’ultima particella di forza da quei cinquecento schiavi, perché di schiavi realmente si trattava, fino alla scadenza del contratto. Schemmer ce la metteva tutta per sfruttare fino in fondo la forza di quei cinquecento corpi sudati, e trasformarla in balle di soffice cotone pronte per essere esportate. Per svolgere il suo compito, si aiutava con una spessa striscia di cuoio, larga tre pollici e lunga un metro, che a volte finiva sulla schiena nuda di un coolie ricurvo con uno schiocco che sembrava una schioppettata. E di questi schiocchi se ne sentivano molti, quando Schemmer passava in mezzo al campo.
Una volta, all’inizio del suo primo anno di lavoro, aveva ucciso un coolie con un solo pugno. Non che avesse spaccato la testa di quell’uomo come un guscio d’uovo, ma quel colpo era bastato a rovinare quello che c’era dentro, e dopo essere stato male per una settimana l’uomo era morto. Comunque i cinesi non avevano fatto alcuna rimostranza ai francesi che governavano Tahiti. Schemmer era il loro problema più grosso. Dovevano evitare la sua ira così come evitavano il veleno dei millepiedi che si nascondevano nell’erba o si insinuavano nei dormitori durante le notti di pioggia. I chinago – come venivano chiamati i cinesi dall’indolente, bruna popolazione locale – stavano attenti a non irritare troppo Schemmer, vale a dire lavoravano al massimo della resa. Quel pugno aveva fruttato migliaia di dollari alla compagnia, ed era per questo che Schemmer non aveva avuto alcuna noia per quella violenza.
Che cosa importava se il cinese era morto? Oltre tutto era morto per un colpo di sole, come attestava il certificato medico. D’accordo, a Tahiti nessuno era mai morto per un colpo di sole, ma era proprio questo che faceva della morte di quel cinese un caso unico. Questo era quanto aveva scritto il dottore nel suo rapporto.
Era proprio impossibile capire quei bianchi. Ah Cho meditò sulla loro impenetrabilità mentre se ne stava seduto nell’aula, in attesa del verdetto. Non era proprio possibile immaginare che cosa passasse per la loro mente. Erano tutti così simili – gli ufficiali e marinai della nave, i funzionari e i numerosi bianchi della piantagione, Schemmer compreso. Si arrabbiavano apparentemente senza una ragione al mondo, e la loro rabbia era sempre pericolosa. A volte erano come belve feroci. Un chinago non sapeva mai se un gesto avrebbe fatto loro piacere o avrebbe suscitato uno scoppio di ira. Inoltre, la cosa più sbalorditiva di tutte era la loro efficienza, quella loro straordinaria abilità di far funzionare le cose, di ottenere dei risultati, di piegare alla loro volontà tutti gli esseri umani, e persino le forze naturali. Certo, gli uomini bianchi erano davvero strani e meravigliosi: erano dei demoni.
Ah Cho non riusciva a capire perché il verdetto tardasse tanto ad essere pronunciato. Nessuno degli uomini sotto processo aveva messo le mani addosso a Chung Ga. L’aveva ucciso Ah San da solo. Era stato Ah San: gli aveva fatto rovesciare la testa all’indietro tirandogli il codino, e con l’altra mano, da dietro, gli aveva affondato il coltello nel corpo. L’aveva colpito due volte. Chiudendo gli occhi, lì nell’aula, Ah Cho si rivide davanti la scena del delitto – la lite, le parole oltraggiose corse tra i due litiganti, gli insulti indirizzati ai reciproci venerabili antenati, le maledizioni lanciate alle future generazioni, il balzo di Ah San, lo strattone al codino di Chung Ga, il coltello che affondava per due volte nella carne, l’aprirsi improvviso della porta, l’irruzione di Schemmer, la corsa verso la porta, la fuga di Ah San, le scudisciate di Schemmer che spingevano gli altri nell’angolo, lo sparo con cui Schemmer aveva chiamato i rinforzi. Ah Cho rabbrividì nel rivivere quei momenti. Un colpo di frusta l’aveva ferito a una guancia, portandogli via un po’ di pelle. Schemmer aveva mostrato alla Corte quella ferita quando, sul banco dei testimoni, aveva identificato Ah San. Solo adesso il segno era scomparso. Che colpo era stato! Bastava un paio di centimetri più nel mezzo, e gli avrebbe cavato l’occhio.
Poi Ah Cho dimenticò tutto quanto era successo, abbandonandosi al pensiero del giardino di meditazione e di riposo che sarebbe stato suo non appena fosse tornato al suo paese.
Mentre il giudice leggeva la sentenza, rimase seduto con la faccia impassibile – come del resto i suoi tre compagni. Rimasero impassibili anche quando l’interprete spiegò che tutti e quattro erano risultati colpevoli dell’assassinio di Chung Ga, e che Ah Chow sarebbe stato decapitato, Ah Cho avrebbe dovuto passare vent’anni in prigione nella Nuova Caledonia, Wong Li dodici anni, e Ah Tong dieci. Era inutile agitarsi. Persino la faccia di Ah Chow rimase inespressiva, anche se era la sua testa che doveva essere tagliata. Il magistrato aggiunse poche parole, e l’interprete spiegò che la faccia di Ah Chow, gravemente ferita dalla frusta di Schemmer, aveva reso l’identificazione così sicura che, visto che uno doveva morire, era stato scelto lui. Anche nel caso di Ah Cho era stata proprio la ferita alla faccia – che aveva dimostrato senza ombra di dubbio la sua presenza sul luogo del delitto e la sua sicura partecipazione – a meritargli vent’anni di carcere. Furono spiegati i motivi proporzionali di ogni sentenza, fino ad arrivare ai dieci anni di Ah Tong. Che i chinago imparassero bene la lezione – concluse la Corte – in modo che capissero che a Tahiti la legge sarebbe stata fatta rispettare comunque.
I quattro cinesi furono riportati in prigione. Non erano né sconvolti né addolorati. Una punizione così dura per un crimine che non avevano commesso non era affatto più strana delle altre innumerevoli stranezze che facevano i bianchi.
Nelle settimane successive Ah Cho osservò spesso Ah Chow con una certa curiosità. La sua testa presto sarebbe stata tagliata dalla ghigliottina che stavano costruendo nella piantagione. Per Ah Chow non ci sarebbe stata né vecchiaia, né giardini pieni di tranquillità. Quanto a lui, non era sconvolto: vent’anni non erano altro che vent’anni, in fondo. Voleva dire che il suo giardino sarebbe stato rimandato di quel periodo, tutto qui. Pensò al nome che gli avrebbe dato: lo avrebbe chiamato “Il giardino della quiete del mattino”. Questo pensiero lo rallegrava tutto il giorno. Inventò anche una massima riguardo alla virtù della pazienza, che risultò molto confortante, soprattutto per Wong Li e Ah Tong. Ah Chow, invece, non prestò attenzione alla massima di Ah Cho. La sua testa si sarebbe separata così presto dal suo corpo che lui non avrebbe avuto bisogno di pazienza per aspettare quel momento. Fumò bene, mangiò bene, dormì bene, e non si preoccupò del passare del tempo.
Cruchot era una guardia. Conosceva la disciplina e la paura dell’autorità e, per quanto lo riguardava, l’unica differenza tra Dio e il suo sergente era l’ubbidienza cieca che riservava al secondo. Infatti, nella mente di Cruchot il sergente risultava più grande di Dio – tranne che alla domenica – perché normalmente Dio era qualcosa di molto lontano, mentre il sergente era normalmente molto vicino.
Fu Cruchot che ricevette l’ordine, inviato dal presidente della Corte al direttore del carcere, di consegnare Ah Chow allo stesso Cruchot. Ora, poiché la sera prima il presidente della Corte aveva dato una cena per il capitano e gli ufficiali della nave da guerra francese, gli occhi gli facevano così male che non stette nemmeno a rileggere lo scritto, per cui non si accorse di aver dimenticato l’ultima lettera del nome di Ah Chow. Sull’ordine risultava “Ah Cho”, e quando Cruchot lo presentò al direttore del carcere, questi gli consegnò proprio Ah Cho. Cruchot lo fece sedere accanto a sé, su un carretto trainato da due muli, e partì.
Ah Cho era tutto contento di essere all’aria aperta. Se ne stette seduto di fianco alla guardia con gli occhi sfavillanti. La sua espressione si fece ancora più radiosa quando notò che i muli erano diretti a sud, verso Atimaono. Senza dubbio Schemmer lo aveva mandato a prendere. Schemmer voleva che tornasse al lavoro. Benissimo, avrebbe lavorato sodo. Schemmer non avrebbe mai avuto motivo di lamentarsi di lui. Era una giornata infuocata. Il vento era caduto. I muli sudavano, e anche Cruchot, e Ah Cho. Ma era Ah Cho quello che sopportava meglio il gran caldo, perché aveva lavorato per tre anni sotto quel sole, nella piantagione. Era raggiante, così raggiante che persino una mente torpida come quella di Cruchot non poté fare a meno di meravigliarsene.
— Siete proprio strano — disse alla fine.
Ah Cho annuì, e la sua espressione si fece ancora più radiosa. A differenza del magistrato, Cruchot gli parlava in lingua kanaka, e questa Ah Cho la capiva.
— Ridete troppo — borbottò Cruchot. — Uno dovrebbe avere il cuore a pezzi in un giorno come questo.
— Sono felice di essere uscito di prigione.
— Tutto qui? — La guardia si strinse nelle spalle.
— E non basta?
— Allora non è che siate contento che vi taglino la testa!
Ah Cho lo guardò improvvisamente perplesso e disse: — Ma io sto tornando a Atimaono, a lavorare per Schemmer nella piantagione. Non mi state portando a Atimaono?
Cruchot si strofinò i lunghi baffi con aria meditabonda. — Bene, bene — disse alla fine, dando un colpetto di frusta al mulo che non teneva il passo. — Allora vuol dire che non lo sapete.
— Non so che cosa? — Ah Cho cominciava a sentirsi un po’ allarmato. — Schemmer non vuole più che io lavori per lui?
— Non dopo oggi. — Cruchot sbottò in una risata. — Vedete, non credo che sarete in grado di lavorare, dopo oggi. Un uomo senza testa non può lavorare, no? — Dette una gomitata scherzosa alle costole del chinago e sogghignò.
Ah Cho rimase zitto per un miglio sotto il sole rovente. Poi si decise a parlare. — Schemmer ha intenzione di tagliarmi la testa?
Cruchot annuì.
— C’è un errore — replicò Ah Cho con aria grave. — Io non sono il chinago a cui devono tagliare la testa. Io sono Ah Cho. L’onorevole giudice ha deciso che devo stare vent’anni nella Nuova Caledonia.
La guardia rise. Era proprio bella, questa storia del cinese che stava cercando di sfuggire alla ghigliottina. I muli attraversarono un boschetto di palme e costeggiarono il mare splendente per un mezzo miglio, prima che Ah Cho riprendesse a parlare.
— Vi dico che non sono Ah Chow. L’onorevole giudice non ha detto che doveva essere tagliata la mia testa.
— Non abbiate paura — disse Cruchot, con l’intenzione filantropica di rendere le cose più facili al suo prigioniero. — Così non è difficile morire. È una cosa rapida — schioccò le dita — così. Non è come pendere da un cappio, tirando calci e facendo smorfie per cinque minuti. È come ammazzare un pollo con un’accetta. Gli si taglia la testa, ed è finita. Lo stesso succede agli uomini. Paff! Ed è fatta. Non fa male. Non potete neanche accorgervene, se fa male. Quando la vostra testa se ne è andata, non vi accorgete più di niente. Vorrei morire io, così. In fretta, in un attimo. Siete fortunato a fare questa morte. Se vi venisse la lebbra cadreste a pezzi a poco a poco, un dito alla volta. Prima quelli delle mani, poi quelli dei piedi. Conoscevo un uomo che si è scottato con l’acqua bollente. Ci ha messo due giorni a morire. Lo si sentiva gridare a un chilometro di distanza. Voi invece! Tutto così in fretta. Zac! La lama vi taglia la testa, ed è finita. Può anche darsi che la lama faccia il solletico. Chi lo può dire? Nessuno che sia morto così è mai tornato indietro a raccontarlo.
Gli sembrò una battuta formidabile, e rise in modo convulso per mezzo minuto. In parte la sua allegria era intenzionale, in quanto considerava un dovere di umanità cercare di tener allegro il cinese.
— Ma io vi dico che sono Ah Cho — insistette l’altro. — Non voglio che mi taglino la testa.
Cruchot aggrottò le ciglia. Quel chinago stava proprio esagerando.
— Io non sono Ah Chow... — ricominciò Ah Cho.
— Adesso basta — lo interruppe la guardia. Sbuffò e si sforzò di assumere un’aria feroce.
— Vi dico che io non sono... — riprese Ah Cho.
— Tacete! — gridò Cruchot.
Dopo di che proseguirono in silenzio. C’erano venti miglia da Papeete a Atimaono, ed erano ormai a più di metà strada quando il cinese si azzardò a parlare di nuovo.
— Vi ho visto in aula, durante il processo. Bene, ve lo ricordate Ah Chow, quello a cui devono tagliare la testa? Vi ricordate che Ah Chow è alto? Adesso guardate me.
Si alzò di scatto, e Cruchot vide che lui era piccolo. Improvvisamente rivide mentalmente la figura di Ah Chow, e dovette convenire che era alto. Alle guardie tutti i chinago sembravano uguali – una faccia era così simile all’altra – lui sapeva ben distinguere una persona alta da una bassa, perciò capì che l’uomo seduto accanto a lui era davvero la persona sbagliata. Fermò i muli di colpo, tanto che il timone del carretto li oltrepassò sollevando loro il collare.
— Adesso vi rendete conto che c’era un errore — disse Ah Cho sorridendo garbatamente.
Ma Cruchot stava riflettendo. Stava già pentendosi di aver fermato il carretto. Non sapeva dell’errore del presidente della Corte, e non c’era modo di appurarlo. Sapeva bene, però, che gli era stato affidato quel chinago perché lo portasse ad Atimaono, e che era suo dovere portarcelo. Oltre tutto avrebbe anche potuto non esserci nessun errore. Non poteva sapere che cosa avessero in testa i suoi superiori. Loro sapevano il fatto loro. Chi era lui per pensare con la sua testa? Una volta, molto tempo prima, aveva cercato di farlo, e il sergente gli aveva detto: «Cruchot, siete uno stupido! Prima ve ne convincerete, meglio sarà. Non tocca a voi pensare, a voi tocca ubbidire, e lasciar pensare chi è più in gamba di voi». Sorrise al ricordo. Inoltre, se fosse tornato a Papeete, avrebbe fatto tardare l’esecuzione ad Atimaono, e se avesse sbagliato a tornare, si sarebbe preso una bella sgridata dal sergente che stava aspettando il prigioniero.
Diede un colpo di frusta ai muli e ripartì. Guardò l’orologio. Anche così sarebbe arrivato con mezz’ora di ritardo, e di sicuro il sergente si sarebbe arrabbiato! Fece trottare più forte i due muli. Più Ah Cho insisteva a spiegare l’errore, più Cruchot diventava cocciuto. Il fatto di sapere di avere l’uomo sbagliato non gli sollevava certo il morale. D’altra parte, il fatto di sapere che la colpa non era sua lo rafforzava nella convinzione che quanto faceva di sbagliato fosse in realtà l’unica cosa giusta da fare. Piuttosto di incorrere nelle ire del sergente avrebbe preferito portare alla morte una dozzina di chinago sbagliati.
Quanto ad Ah Cho, dopo che la guardia gli ebbe dato un colpo in testa col manico della frusta e gli ebbe ordinato in tono perentorio di starsene zitto, non gli rimase altro da fare che tacere. Il lungo viaggio proseguì in silenzio. Ah Cho meditò sugli strani sistemi di quegli stranieri. Non c’era proprio modo di capirli. Quello che gli stavano facendo era assurdo come tutto il loro comportamento. Prima avevano giudicato colpevoli quattro innocenti e adesso tagliavano la testa all’uomo che loro stessi, nella loro ottusità, avevano ritenuto meritevole di non più di vent’anni di prigione. E non poteva farci niente. Poteva solo starsene seduto con le mani in mano e accettare quello che quei despoti gli propinavano. Per un momento si lasciò prendere dal panico, e si sentì gelare il sudore addosso, ma subito cercò di riprendersi. Si sforzò di rassegnarsi al proprio destino, ricordando e ripetendo alcuni passi del Yin Chili Wen (“Il manuale della serenità”), ma non riuscì a smettere di pensare al suo tanto sognato giardino di riposo e di meditazione. La cosa lo irritava. A un certo punto smise di sforzarsi invano e si abbandonò al suo sogno, e gli sembrò di essere seduto nel suo giardino ad ascoltare il tintinnio dei campanelli mossi dal vento. E – strano! – sognandosi così seduto gli riuscì di ricordare e ripetere i passi del Manuale della serenità.
Così il tempo passò piacevolmente finché non arrivarono ad Atimaono, e giunsero ai piedi della forca, sotto la quale aspettava con impazienza il sergente. Ah Cho fu fatto salire in fretta sulla scala del patibolo. Sotto di sé, da una parte, vide riuniti tutti i coolie della piantagione. Schemmer aveva pensato che la cosa potesse costituire un’ottima lezione pratica, e perciò aveva fatto venire i coolie dai campi e li aveva obbligati ad assistere all’esecuzione. Appena videro Ah Cho si misero a confabulare tra loro a bassa voce. Si erano accorti che c’era stato un errore, ma tennero la scoperta per sé. Evidentemente quegli incomprensibili bianchi avevano cambiato idea: invece di togliere la vita a un innocente, stavano togliendo la vita a un altro innocente. Ah Chow o Ah Cho... che differenza faceva? Ah Cho avrebbe perso la testa, ma loro, una volta finiti i restanti due anni di schiavitù, se ne sarebbero tornati in Cina.
Era stato lo stesso Schemmer a costruire la ghigliottina. Era un tipo molto ingegnoso, e anche se non ne aveva mai visto una, gli era bastato che i francesi gliene spiegassero il funzionamento. Ed era stato dietro suo suggerimento che era stato dato l’ordine che l’esecuzione avesse luogo ad Atimaono anziché a Papeete. Schemmer, infatti, aveva pensato che la scena del delitto fosse il luogo migliore per infliggere la punizione, in quanto avrebbe avuto un’influenza salutare sui cinquecento chinago della piantagione.
Schemmer si era anche offerto spontaneamente di fare da carnefice ed era sotto quella veste che adesso si trovava sul patibolo, a provare lo strumento che aveva fabbricato. Sotto alla ghigliottina era stato messo un banano della misura e della consistenza di un collo umano. Ah Cho rimase ad osservare la scena con occhi affascinati. Girando una piccola manovella, il tedesco sollevò la lama fino alla sommità del piccolo argano. Con uno strattone a un robusto pezzo di corda, liberò la lama, che cadde tranciando di colpo il tronco del banano.
— Come funziona? — chiese il sergente.
— Magnificamente! — fu la risposta esultante di Schemmer. — Adesso vi faccio vedere.
Girò di nuovo la manovella che faceva sollevare la lama, diede uno strattone alla corda e fece cadere la lama sul morbido tronco. Ma questa volta penetrò solo fino a tre quarti.
Il sergente aggrottò le ciglia. — Non va — disse.
Schemmer si deterse il sudore dalla fronte. — C’è solo bisogno di aumentare il peso. — Andò sul bordo del patibolo, e ordinò al fabbro di portargli una sbarra di ferro di dieci chili. Mentre lui era chinato per fissare il ferro all’orlo superiore della lama, Ah Cho dette un’occhiata al sergente e capì che quello era il momento buono per parlare.
— L’onorevole giudice ha detto che doveva essere giustiziato Ah Chow — cominciò.
Il sergente annuì con impazienza. Stava pensando al viaggio di quindici miglia che avrebbe dovuto compiere quel pomeriggio per raggiungere l’altro lato dell’isola, e a Berthe, la graziosa e piuttosto facile figlia di Lafiere, il mercante di perle, che lo aspettava alla fine del viaggio.
— Bene, non sono Ah Chow. Io sono Ah Cho. L’onorevole presidente della Corte ha commesso un errore. Ah Chow è alto, e lo vedete anche voi che io sono piccolo.
Il sergente gli gettò una rapida occhiata, e si rese subito conto dell’errore. — Schemmer! — chiamò imperiosamente. — Venite qui!
Il tedesco borbottò qualcosa, ma rimase chino sul suo lavoro finché la sbarra di ferro non fu fissate come voleva lui. — È pronto il chinago? — domandò.
— Guardatelo — fu la risposta. — È lui?
Schemmer rimase sorpreso. Imprecò pesantemente per qualche secondo, e guardò con rimpianto l’apparecchio che aveva costruito con le sue stesse mani e che era impaziente di veder funzionare.
— State a sentire — rispose alla fine. — Non possiamo rimandare questa faccenda. Questi cinquecento chinago hanno già perso tre ore di lavoro, e non posso permettermi di far perdere altro tempo. Dopotutto è solo un chinago.
Il sergente ripensò al lungo viaggio che doveva compiere, alla figlia del mercante di perle, e si sentì combattuto.
— Se lo si viene a sapere, la colpa verrà data a Cruchot — incalzò il tedesco. — Comunque è molto improbabile che lo si sappia. Ah Chow non ne parlerà di sicuro.
— Non credo che la colpa sia di Cruchot — disse il sergente. — L’errore deve averlo fatto il presidente della Corte.
— Allora andiamo avanti. Non possono incolpare noi. Come si fa a distinguere un chinago da un altro? Possiamo sempre dire che non abbiamo fatto altro che eseguire gli ordini col cinese che ci è stato dato. Oltre tutto, non posso staccare dal lavoro una seconda volta tutti questi coolie.
Parlavano in francese. Ah Cho, anche se non capiva una parola, si rendeva conto che quei due stavano decidendo del suo destino. Sapeva anche che la decisione finale spettava al sergente, perciò pendeva dalle sue labbra.
— D’accordo. Procedete — annunciò il sergente.
— Voglio provarla ancora una volta, per essere più sicuro. — Schemmer fece scorrere in avanti il tronco di banano, sotto la lama che aveva alzato fino alla sommità dell’impalcatura.
Ah Cho cercò di ricordare le massime del Manuale della serenità. Gli venne in mente: «Vivi d’accordo con gli altri», ma nel suo caso non serviva. Lui non sarebbe vissuto. Ormai stava per morire. No, non faceva proprio al caso suo. «Perdona le cattiverie», sì, ma qui non c’erano cattiverie da perdonare. Schemmer e gli altri non stavano facendo quello che facevano per cattiveria. Per loro si trattava solo di un lavoro che andava eseguito, proprio come disboscare la giungla, prosciugare gli acquitrini e piantare cotone. Schemmer dette uno strattone alla corda, e Ah Cho si dimenticò del Manuale della serenità. La lama cadde di schianto e tagliò l’albero di netto.
— Formidabile! — esclamò il sergente, fermandosi nell’atto di accendere una sigaretta. — Magnifico, amico.
Schemmer fu molto compiaciuto del complimento.
— Vieni avanti, Ah Chow — disse nella lingua di Tahiti.
— Ma io non sono Ah Chow — cominciò a dire Ah Cho.
— Sta’ zitto! Se apri ancora la bocca, ti rompo la testa.
Il sorvegliante della piantagione lo minacciò con il pugno, e Ah Cho se ne stette zitto. A cosa sarebbe servito protestare? Si lasciò legare alla tavola verticale, che aveva le misure del suo corpo. Schemmer strinse forte le fibbie, così forte che le cinghie entrarono nella carne di Ah Cho e gli fecero male. Ma lui non si lamentò. Il dolore non sarebbe durato a lungo. Sentì la tavola inclinarsi e chiuse gli occhi.
In quel momento si vide davanti per l’ultima volta il giardino di meditazione e di riposo. Gli sembrò di starci seduto, in quel giardino. Soffiava una brezza fresca, e i campanelli sugli alberi tintinnavano delicatamente. Anche gli uccelli sembravano assonnati, e al di là dell’alto muro di recinzione si sentivano i rumori del villaggio.
Poi si accorse che la tavola si era fermata, e dalle pressioni e tensioni dei muscoli capì di essere sdraiato sulla schiena. Riaprì gli occhi. Vide la lama sospesa proprio sopra di sé, luccicante sotto il sole. Vide il peso che vi era stato aggiunto e notò che uno dei nodi fatti da Schemmer si era sciolto. Poi sentì la voce del sergente impartire un ordine imperioso. Non volle vedere calare la lama. Ma la sentì, per un attimo, brevissimo e grandioso.
In quell’istante si ricordò di Cruchot e di quanto aveva detto. Ma Cruchot si era sbagliato. La lama non faceva il solletico. Lo seppe prima di cessare di sapere per sempre.