XIII. IL MALE ASSOLUTO.
«Se le circostanze mi avessero portato a un asse Roma-Mosca, anziché a un asse Roma-Berlino» dichiarò Mussolini a proposito delle leggi razziali da lui promulgate nel 1938 «avrei ammannito agli italiani l'equivalente fandonia dell'etica stakanovista. E si sarebbe trattato, anche in questo caso, di un pegno appariscente, ma poco costoso.» In questa affermazione di cinico pragmatismo, riferita dallo storico Attilio Tamaro, è forse racchiusa la spiegazione di cosa spinse Mussolini a rendersi complice a cuor leggero di un crimine che sarà giustamente definito il «male assoluto». Si trattò in concreto di uno spregiudicato escamotage per rinsaldare «con poca spesa» l'alleanza con la Germania nazista.
Mussolini d'altronde non era certamente un razzista e l'antisemitismo era sempre stato estraneo al fascismo come alla stessa storia del nostro paese. Salvo infatti il generico pregiudizio religioso legato all'antica accusa di deicidio mossa dalla Chiesa nei loro confronti, gli ebrei per gli italiani non avevano mai rappresentato un problema. Del resto, scomparsi i ghetti nel corso dell'Ottocento, i pochi israeliti di nazionalità italiana (meno di 40. 000 unità su 44 milioni di abitanti) si erano felicemente mescolati con il resto della società confondendovisi a tal punto - grazie soprattutto ai frequenti matrimoni misti - da allarmare persino i correligionari stranieri più ortodossi i quali addirittura temevano la loro totale assimilazione.
Nell'Italia degli anni Trenta si era quindi ben lontani da situazioni come quella polacca, austriaca o tedesca dove le comunità ebraiche erano popolose e spesso così prospere da suscitare quei fenomeni di invidia sociale nei quali avrebbe affondato le sue radici l'emergente movimento nazista. In Italia, insomma, non si intravedeva neppure l'ombra della «piovra» ebraica configurata dalla propaganda antisemita tenacemente sostenuta dal precursore del razzismo italiano Giovanni Preziosi, un prete spretato, isolato e inviso persino a Mussolini (che lo considerava un potente iettatore), ma destinato purtroppo a diventare l'alter ego italiano del teorico del razzismo tedesco Alfred Rosenberg.
D'altra parte, gli ebrei italiani, oltre a costituire una sparuta minoranza, si erano sempre comportati come normali cittadini: avevano partecipato attivamente al Risorgimento, avevano combattuto valorosamente nella prima guerra mondiale, avevano onorato il paese con la loro intraprendenza e, per quanto riguarda la politica, si erano sempre orientati, come tutti gli altri italiani, a seconda delle loro personali inclinazioni. Neppure nei confronti del fascismo gli ebrei si erano differenziati dagli altri connazionali: chi lo aveva appoggiato, chi lo aveva avversato e chi era rimasto a guardare occupandosi dei propri interessi. Basti dire che anche fra i cosiddetti «sansepolcristi», ossia i fondatori del fascismo primigenio, figurano diversi ebrei, ed era ebreo il milanese Cesare Goldman che offrì a Mussolini la sala di piazza San Sepolcro dove si svolse la storica adunata. Altri ebrei figurano fra i caduti della rivoluzione fascista, mentre era ebreo il prefetto Dante Almansi, che fu vicecapo della polizia sotto il quadrunviro Emilio De Bono; ebreo era Aldo Finzi, dannunziano, squadrista e sottosegretario agli Interni di Mussolini, ed ebrea era Margherita Sarfatti, amante e ninfa Egeria del Duce, il quale le affidò persino la direzione di Gerarchia, la rivista teorica del partito.
Questa convivenza tranquilla, e per molti israeliti anche solidale, fra ebraismo e fascismo non fu turbata neppure dall'irrompere sulla scena europea del fenomeno nazista che nel razzismo esasperato aveva i suoi fondamenti.
Se a Giovanni Preziosi, con la sua rivista La Vita italiana, veniva consentito dalla censura di attingere liberamente alle assurde argomentazioni naziste, la grande stampa e gli organismi del regime non si erano mai associati a questi consensi. Anzi li criticavano apertamente, tanto è vero che quando un giorno qualcuno chiese al Duce perché consentisse l'uscita di quell'odiosa rivista, lui aveva risposto con un'alzata di spalle: «In una casa bene organizzata serve anche il secchio dell'immondizia». E nei suoi Colloqui con Emil Ludwig aveva dichiarato testualmente: «L'antisemitismo non esiste in Italia e il razzismo è una stupidaggine». Da parte sua, il periodico sionista «Israel» riconosceva soddisfatto che «dopo dieci anni di regime fascista, il ritmo spirituale della vita ebraica in Italia è più intenso, anzi assai più intenso di prima».
Quando in Germania erano iniziate le persecuzioni razziste e gli israeliti più prudenti avevano cominciato a emigrare, Mussolini, dopo avere invano tentato di ammansire «quell'invasato di Berlino», aveva dato pieno appoggio a ogni azione che favorisse l'arrivo, il soggiorno o il transito dei profughi. Tanto è vero che, ancora nel 1937, egli aveva dichiarato a Generoso Pope, lo storico direttore del «Progresso italo-americano» di New York: «La autorizzo a far conoscere agli ebrei d'America che le loro preoccupazioni per i fratelli viventi in Italia non hanno motivo di essere: sono il frutto di malevole informazioni. Nessuna forma di discriminazione razziale è nei miei pensieri». Del resto, nulla avrebbe potuto giustificare possibili rappresaglie. Anche dopo l'avvento del regime, gli ebrei italiani non si erano comportati diversamente dagli altri connazionali: molti di loro ricoprivano alti gradi nell'Esercito regio, avevano partecipato con entusiasmo alla guerra d'Abissinia e ora stavano combattendo in Spagna dove uno di loro, il generale Alberto Liuzzi, vi aveva meritato la medaglia d'oro.
E allora? Come spiegare l'improvviso voltafaccia di
Mussolini? Cosa provocò quel suo rapido passaggio dal sarcasmo irridente di pochi mesi prima al razzismo più cupo e feroce di qualche mese dopo? La vulgata antifascista risponde a questi interrogativi in maniera semplicistica presentandoci un Duce ormai prono ai voleri di Hitler e disposto ad assecondarlo anche nella forma più abbietta. Ma si tratta di una rappresentazione irrealistica: è infatti fuori di dubbio che nel 193738, quando imboccò la via dell'antisemitismo, Mussolini non avrebbe tollerato un'imposizione di questo tipo da parte di Hitler e questi neppure si sarebbe mai sognato di tentarla. La scelta, e la responsabilità di questa scelta, fu dunque tutta sua, e si trattò della manifestazione più vergognosa di quello spregiudicato pragmatismo che aveva regolato tutta la sua vita e del quale aveva dato prova ogniqualvolta la situazione del momento gli aveva suggerito che fosse necessario.
Questo repentino mutamento di direzione derivava infatti da varie circostanze. La guerra d'Abissinia e le conseguenti sanzioni economiche promulgate dalla Società delle Nazioni per impedire all'Italia di conquistarsi un «posto al sole» avevano dato vita a una virulenta polemica contro il capitalismo internazionale - nel quale erano naturalmente presenti anche delle lobby finanziarie ebraiche - accusato di speculare contro l'Italia. Mussolini aveva coniato anche un curioso neologismo per indicare con una sola parola quelli che considerava nemici dell'Italia fascista: «Demo-pluto-giudo-crazie».
In questa polemica si era abilmente inserita la Germania, che aveva offerto all'Italia gli aiuti che altri le negavano, e l'avvicinamento economico aveva ovviamente rinforzato anche quello politico già esistente fra il Partito fascista e quello nazista. Nello stesso tempo, mentre sotto la frusta di Hitler la Germania si rivelava di giorno in giorno sempre più forte, le potenze occidentali con i loro tentennamenti e i loro ipocriti compromessi si mostravano invece sempre più timide, se non addirittura spaventate di fronte alla minaccia del riarmo tedesco. Fu appunto questa la circostanza decisiva che spinse Mussolini ad abbandonare definitivamente gli alleati con i quali l'Italia aveva vinto la prima guerra mondiale, ma che ora si trastullavano con l'utopia dell 'appeasement con la speranza di evitare la seconda, per schierarsi al fianco di chi aveva tutti i presupposti per vincerla. Gli ultimi avvenimenti avevano finito per convincerlo che quanto Hitler gli aveva minacciosamente annunciato nel loro incontro di Venezia («Se avrò il Duce al mio fianco, l'Europa sarà nostra!») non erano le farneticazioni di un esaltato.
Quasi fosse a conoscenza degli intimi pensieri di Mussolini, Hitler aveva nel frattempo intensificato i suoi sforzi per giungere alla realizzazione del suo antico progetto di legare a sé, in maniera indissolubile, il «camerata» italiano. Dell'inizio di questa operazione tendente a «sedurre» Mussolini, si può indicare anche la data: 25 settembre 1937. Ossia il giorno dell'arrivo del Duce a Monaco per la sua prima visita ufficiale in Germania. Egli era partito da Roma con un treno speciale accompagnato dal neo ministro degli Esteri Galeazzo Ciano, dal segretario del partito Achille Starace e da Dino Alfieri, ambasciatore d'Italia a Berlino.
Il Duce, per la verità, ancora non immaginava le accoglienze grandiose che gli sarebbero state tributate: riteneva infatti di dover partecipare a un incontro di routine cui dovevano intervenire anche i rappresentanti dell'Austria, della Polonia e dell'Ungheria. Ma Hitler, a sua insaputa, aveva rivoluzionato il programma affinché Mussolini fosse il solo protagonista dell'avvenimento. Lo attese infatti commosso e trepidante alla stazione di Monaco e poi lo accompagnò felice e sorridente all'esterno dove una folla immensa salutò l'illustre ospite al grido di «Duce! Duce!».
Più tardi, sulla Königsplatz, in cui campeggiava una immensa «M» luminosa, si svolsero le grandi parate militari. Davanti ai due dittatori sfilarono col «passo dell'oca» le formazioni compatte delle SS, i reggimenti inquadrati, i reparti della Hitleijugend (la Gioventù hitleriana), e le falangi del lavoro composte da contadini armati simbolicamente di badile. Al fianco di Hitler, Mussolini rese poi omaggio ai caduti nazionalsocialisti del 1923 visitando i templi votivi e la Casa bruna; ricevette dal Führer la Gran Croce dell'Aquila tedesca e gli offrì in cambio le insegne di caporale d'onore della Milizia.
Il 26 settembre gli ospiti italiani furono condotti ad assistere alle manovre militari nel Meclemburgo dove la potente macchina bellica tedesca poté manifestarsi in tutta la sua grandezza, ingigantita dalle spettacolari esibizioni degli Stuka, i modernissimi bombardieri «a tuffo» che impressionarono fortemente Mussolini con le loro vertiginose picchiate rese ancor più minacciose dall'urlo lacerante delle sirene di bordo. Il giorno seguente, il Duce visitò a Essen le famose acciaierie Krupp il cui proprietario, Gustav Krupp von Bohlen und Halbach, gli mostrò le presse gigantesche e i carri armati e i cannoni che uscivano dalle catene di montaggio. Un'altra spettacolare manifestazione ebbe luogo a Berlino, dove Mussolini fu accolto da oltre un milione di persone. Al Maifeld, il «campo di maggio», ossia lo stadio olimpico, che era gremito di una folla osannante, ebbe quindi luogo la cerimonia conclusiva. Dopo un discorso logorroico ed esaltante del Führer, parlò anche il Duce, in tedesco, fra applausi e urla di approvazione. A proposito di questo suo discorso, va anche detto che in seguito si è spesso ironizzato insinuando che nessuno capì una sola parola… Ma non è vero: Mussolini parlava un discreto tedesco e secondo testimoni attendibili «si espresse senza intoppi confermando la sua eccezionale memoria». Vero è invece che mentre lui parlava, si scatenò sullo stadio un violento temporale, che l'oratore e gli astanti affrontarono stoicamente uscendone inzuppati fino alle ossa.
Il 29 settembre il Duce assistette ancora a un'ultima parata: quindicimila soldati inquadrati con puntigliosità teutonica, e preceduti da duecento carri armati, sfilarono davanti a lui con una messinscena faraonica che rafforzò, se ancora ce ne fosse stato bisogno, la sua convinzione che la Germania era ormai una potenza imbattibile e che l'alleanza con Hitler sarebbe risultata vincente. Anche il suo ritorno a Roma fu naturalmente trionfale e si svolse fra una folla festante sotto archi di alloro e grandi «M» luminose, alte quanto i palazzi di via Nazionale.
A commento di questo viaggio, destinato a segnare una svolta storica per l'Italia, è forse opportuno sottolineare quanto Galeazzo Ciano annotò prudentemente nel suo diario:
Sostanzialmente la presenza del Duce in Germania ha popolarizzato l'amicizia per il fascismo. Non oso ancora dire per l'Italia. È tuttavia incontestabile il successo ottenuto da Mussolini che ha catturato le folle tedesche col suo magnetismo, con la sua voce, con la sua giovinezza irruenta. Oggi l'asse Roma-Berlino è una realtà formidabile e di grande utilità. Ma basterà la solidarietà di regime a tenere uniti due popoli che razza, civiltà e religione respingono ai poli opposti?
Almeno per quanto riguarda la razza, Mussolini si apprestava a provvedere… Fermamente deciso a rendere «granitica» l'alleanza con la Germania, Mussolini si convinse a promulgare la legislazione razziale considerandola una sorta di «pegno» da offrire a Hitler («Se si parla al Führer col gergo razzista» aveva confidato alla sorella Edvige «l'effetto è quasi sempre sicuro.»). Aveva insomma capito che, come osserva Renzo De Felice, l'antisemitismo occupava un posto troppo determinante nell'ideologia nazista perché potesse essere ignorato, anzi costituiva un fatto così concreto nella politica tedesca che un alleato, se voleva essere veramente tale, doveva adeguarvisi. Il tentativo di aggirare la questione con i soliti espedienti diplomatici non poteva infatti reggere a una vera e propria alleanza militare e, di conseguenza, l'offerta di quel «pegno» avrebbe automaticamente eliminato le ultime diffidenze tedesche verso l'Italia. Questa e non altra è la ragione della scelta compiuta da Mussolini. È infatti del tutto immotivata la spiegazione che a spingerlo sarebbe stata l'identificazione da lui fatta fra ebraismo e antifascismo. Essa fu semmai un pretesto (o un alibi) per giustificare il lancio della campagna antisemitica decisa invece con freddo cinismo allo scopo esclusivo di compiacere gli alleati nazisti. I quali, a quanto risulta, neppure esercitarono particolari pressioni in questo senso.
Le prime avvisaglie che anche in Italia sta per scatenarsi una campagna antisemita destinata a concretarsi «con qualche provvedimento restrittivo» si registrano infatti verso la fine del 1937. In Germania, ancora ignorati da tutti, già funzionano i campi di concentramento per gli ebrei, mentre l'asse Roma-Berlino è ormai una tragica realtà. Le correnti più decise a portare l'alleanza fino alle estreme conseguenze cominciano a dare ascolto alle tesi dei pochi assertori delle teorie «scientifiche» di Rosenberg e a coloro che sostengono la necessità misticheggiante di fare degli italiani «un popolo superiore, imperiale, duro». Strano a dirsi, a capo di queste correnti non ci sono i gerarchi più impegnati politicamente, ma gli intellettuali, come Giuseppe Bottai, Alessandro Pavolini, Telesio Interlandi e l'immancabile Giovanni Preziosi i quali trovano ben presto come loro principale alleato e protettore l'estremista rancoroso Roberto Farinacci, proprietario e direttore di «Regime Fascista», di Cremona, e già da tempo affascinato dalla durezza tedesca sulla questione della razza. Nonché, naturalmente, il segretario del partito Achille Starace, sempre pronto a far sue anche le più scellerate decisioni del Duce.
È in questo periodo che, mentre la Spagna repubblicana viene lentamente strangolata dai carri e dagli aerei del corpo di spedizione italo-tedesco, l'emulazione per il nazismo raggiunge il parossismo. Mussolini assume sempre più pose «imperiali» indossando nuove uniformi rutilanti di lustrini e di pennacchi. È di sua iniziativa l'adozione per la Milizia del buffo «passo romano» a imitazione di quello tedesco «dell'oca», mentre le manifestazioni politiche assumono toni nibelungici, tra spettacolari fiaccolate e parate marziali di militi che sfoderano i loro pugnali con le lame ricoperte di vernice fosforescente. Obbedendo all'ordine del Duce di «instivalare» l'Italia, Starace impone l'uniforme di nero orbace persino agli impiegati statali, obbliga i panciuti gerarchi a esibirsi in prestazioni ginniche saltando barriere di fucili con le baionette o attraverso il «cerchio di fuoco» e, da accorto e fantasioso regista, inventa nuove scenografie e nuovi rituali per alimentare il culto della personalità di Mussolini, che ormai rasenta la deificazione. Ha anche inventato un nuovo grado militare, quello di «Maresciallo dell'Impero» di cui saranno insigniti soltanto il re e il Duce, trasformati così in «pari grado». Ma la sua fantasia non si ferma: impone l'uso del «voi» in sostituzione dello spagnolesco e servile «lei» e decide anche di modificare il tradizionale «saluto al Duce» al quale, di consueto, la folla risponde a braccio teso con fragorosi «A noi!». D'ora in poi sarà obbligatorio pronunciare questa nuova formula: «Salutate nel Duce il fondatore dell'Impero». Mussolini, in privato, commenta con ironia l'innovazione («Invece che “A noi”, vien voglia di rispondere “amen”»), ma l'accetta ugualmente di buon grado. I successi fin qui ottenuti hanno gonfiato a dismisura il suo egotismo giungendo forse, come già temono anche i suoi più intelligenti sostenitori, ad annebbiare le sue facoltà intellettuali. Si è infatti definitivamente convinto di avere «sempre ragione», così come recita uno dei tanti slogan a lui dedicati, e forse è proprio in questa assurda convinzione che si nasconde la causa dei madornali errori che compirà d'ora in poi.
È dunque in questo clima che si registrano i primi attacchi giornalistici agli ebrei italiani. I primi a percepire il pericolo imminente sono gli israeliti stranieri che avevano trovato rifugio in Italia e che ora si affrettano a cercare scampo in altri lidi. Anche l'azienda ebraica Mayer, proprietaria del quotidiano Il Piccolo, di Trieste, chiude volontariamente i battenti: il giornale viene ceduto a un gruppo italiano e gli ex proprietari si trasferiscono all'estero. La prima vittima italiana di questa campagna denigratoria e intimidatoria è invece il giornalista Mario Cremona, corrispondente da Roma del giornale americano Christian Science Monitor.
Commentando in una conversazione privata questi avvenimenti, il giornalista ha imprudentemente affermato che il fascismo non potrà spingersi oltre, nel suo neo-antisemitismo, visto che Mussolini aveva accettato in passato anche dei finanziamenti da capitalisti ebrei. Mario Cremona sarà espulso dall'Italia.
L'allarme nelle comunità israelitiche è dunque giustificato: la campagna di stampa sembra infatti essere il prologo di future persecuzioni razziali. Ma il 16 febbraio 1938 una nota dell'«Informazione diplomatica» (che Ciano, nel suo diario, sostiene scritta di pugno da Mussolini) smentisce categoricamente che il governo fascista intenda prendere «misure economiche, morali e politiche contro gli ebrei». La nota prosegue auspicando invece la creazione di uno stato ebraico che purtroppo non potrà sorgere in Palestina, la mitica «terra promessa» degli ebrei, in quanto tale progetto è contrastato dall'Inghilterra che teme le reazioni del mondo arabo. È anche opportuno sottolineare a questo proposito che in quei giorni Mussolini autorizzò il duca Amedeo d'Aosta, da poco nominato viceré dell'impero, a individuare in Etiopia una zona idonea a ospitare una colonia ebraica italiana e a «scegliere un luogo immune da malaria, mosche tze-tze, ricco d'acqua e abitato possibilmente da tribù pagane, perché aprire una sinagoga dove già vi fosse una moschea sarebbe pericoloso». Il duca riferirà alcuni mesi dopo di avere scelto un vasto territorio ai confini del Kenya abitato dalla tribù Borana «gente pacifica che non ruba, non uccide e crede nella metempsicosi», ma il progetto andrà in fumo per il precipitare degli avvenimenti.
La svolta razziale decisiva si verifica il 15 luglio 1938 quando, dopo che il Consiglio dei ministri ha approvato la costituzione di un misterioso Istituto per la bonifica umana e l'ortogenesi, Il Giornale d'Italia, di Roma, pubblica in prima pagina una sorta di manifesto intitolato Il Fascismo e i problemi della razza che, secondo quanto afferma Ciano nel suo diario, sarebbe stato redatto sotto la supervisione di Mussolini (il quale invece, in seguito, lo negherà sostenendo che si trattava di «astruserie mal tradotte dal tedesco»). Si tratta comunque del primo documento ufficiale che attesta come il fascismo abbia ormai fatto proprie le posizioni razziste sostenute fino a questo momento soltanto da Rosenberg e da Goebbels. Redatto sotto forma di decalogo, il documento è opera di dieci «scienziati» metà dei quali sono degli sconosciuti assistenti universitari. Degli altri cinque, il più noto è il senatore Luigi Pende, illustre endocrinologo direttore dell'Istituto di patologia speciale medica all'università di Roma, il quale in seguito cercherà di protestare per alarne modifiche apportate al testo, ma sarà dissuaso con la minaccia di un totale boicottaggio alla sua attività scientifica.
Il manifesto, che provoca un comprensibile clamore, contiene una serie di enunciazioni vaghe, assurde e scientificamente infondate. Vi si asserisce che «le razze umane esistono», che «ve ne sono di grandi e di piccole», che «la popolazione italiana è di razza ariana» e che non deve «essere alterata in alcun modo». Degli ebrei si dice che «rappresentano l'unica popolazione che non si è mai assimilata in Italia perché essa è costituita da elementi razziali non europei, diversi in modo assoluto dagli elementi che hanno dato origine agli italiani». Non si dice invece che gli ebrei sono, a ben vedere, gli unici autentici discendenti della Roma imperiale poiché la loro comunità già abitava nell'Urbe al tempo di Augusto, mentre gli altri romani, e anche tutti gli italiani, sono il risultato lo sa Iddio di quante altre assimilazioni. Ma più preoccupante del manifesto dei servili scienziati risulta il comunicato diramato successivamente dalla direzione del PNF: in esso si afferma fra l'altro che «gli ebrei si considerano da millenni, dovunque e anche in Italia, una razza diversa e superiore alle altre, ed è notorio che, nonostante la politica tollerante del regime, gli ebrei hanno, in ogni nazione, costituito - coi loro uomini e i loro mezzi - lo stato maggiore dell'antifascismo».
Come raccontano Montanelli e Cervi nel La sconfitta dell'Asse, questo avallo ormai inequivocabile scatena nel paese una serie di iniziative «epuratrici» e una disgustosa gara all'intransigenza che coinvolge anche le più rispettabili istituzioni. Non è tuttavia facile chiarire a fondo l'intimo atteggiamento di Mussolini di fronte al cosiddetto problema ebraico. All'inizio del periodo in esame, cioè nel 1938, la sua parola d'ordine è quella di procedere sulla via delle discriminazioni anziché su quella delle persecuzioni vere e proprie. Spesso però cade in contraddizione con se stesso: a volte suggerisce dei falò di opere e di libri ebraici alla maniera di Goebbels, a volte invece si oppone a misure pratiche consequenziali alle disposizioni da lui stesso impartite. Si potrebbe quasi dire che il Duce si imponga prese di posizioni che non condivide solo per fare piacere all'alleato. Inoltre, la questione razziale non ha mancato di creargli quasi subito complicazioni politiche con la Chiesa e nel suo stesso partito.
Il 15 luglio, subito dopo la pubblicazione del manifesto, Pio XI, facendo riferimento al manifesto sulla razza, ha definito l'antisemitismo «una forma di apostasia». E ha poi spiegato: «L'antisemitismo non è soltanto un'idea errata: è tutto lo spirito della dottrina che è contrario alla fede di Cristo». In seguito, il 16 settembre, il Santo Padre dirà ancora: «No, non è possibile ai cristiani partecipare all'antisemitismo. L'antisemitismo è inammissibile. Noi siamo spiritualmente dei semiti». Queste affermazioni sono tuttavia svirilizzate, come osserva Renzo De Felice, da successive prese di posizione di alti esponenti del clero e del mondo cattolico. Molti vescovi infatti appoggiano la propaganda a favore del razzismo, mentre l'organo dei gesuiti, «La Civiltà Cattolica», scrive che «il giudaismo è una religione equivoca perché al medesimo tempo è se stesso ed è altro … religione equivoca poiché se ha il vanto di essere stata la prima religione, è ormai in realtà una religione profondamente corrotta».
Frattanto, il 6 agosto 1938, preceduto da una grande campagna pubblicitaria, è uscito il primo numero di «La difesa della razza», una rivista lussuosa, in carta patinata, interamente dedicata all'antisemitismo. La dirige il giornalista siciliano Telesio Interlandi e vanta fra i collaboratori alcune firme prestigiose. Ma se il primo numero supera le centomila copie di vendita, in seguito sarà costretta a vivacchiare pubblicando gli articoli tradotti della rivista nazista «Sturmer» e delle rubriche fra il pornografico e lo scandalistico.
Le prime linee della legislazione razziale vengono tracciate il 6 ottobre dal Gran Consiglio del fascismo riunito a Roma sotto la presidenza di Mussolini. La discussione, che si protrarrà fino all'alba del giorno seguente, è molto serrata. Nella gerarchia fascista, il solo uomo che si oppone con grande vigore ai provvedimenti antisemiti è Italo Balbo, al quale si sono poi uniti più timidamente il maresciallo De Bono e l'ex nazionalista Luigi Federzoni, che può essere considerato il rappresentante della monarchia. Federzoni racconterà in seguito che Balbo fu il più audace di tutti e che De Bono segnalò «la condizione triste e amara in cui si sarebbero trovati eminenti e valorosi capi militari, come i generali Liuzzi, Modena, Pugliese e altri esemplari servitori della patria». Ma «vista l'impossibilità di indurre Mussolini a recedere dalla stupida imitazione di una delle peggiori follie del nazismo» continua Federzoni «ci battemmo per ottenere almeno che la clausola della discriminazione [la dispensa dalle leggi razziali] fosse una cosa seria, valida a tutti gli effetti, ed estensibile al maggior numero di ebrei».
Nel corso della riunione si registrano incidenti e scontri accesi fra i gerarchi divisi sulle misure da prendere. Scoppia anche un battibecco fra Mussolini e Balbo. Quest'ultimo vorrebbe che fossero discriminati non soltanto i combattenti decorati di medaglia d'argento, ma anche quelli che si sono guadagnati la semplice croce al merito di guerra. Ma quando Mussolini, notoriamente insofferente alle medaglie esibite dai suoi gerarchi (li chiamava sprezzantemente «medaglieri ambulanti»), esprime la sua disapprovazione, Balbo lo affronta a muso duro: «Ti faccio notare» gli dice «che se tu fossi ebreo non saresti discriminato perché hai soltanto la croce di guerra». Mussolini incassa stizzito, ma si arrende. Purtroppo però, gran parte delle concessioni ottenute non saranno tradotte in legge, secondo un metodo sleale già sperimentato in varie occasioni.
Principale sostenitore dell'«accanimento antiebraico», come testimonia Ciano, si è invece sorprendentemente rivelato il ministro per l'Educazione nazionale Giuseppe Bottai, un raffinato intellettuale che, per la sua cultura e la sua intelligenza, si fatica a collocare fra i razzisti più rozzi. Invece, anticipando addirittura la promulgazione delle leggi, egli ha già provveduto a compiere negli ambienti scolastici la più feroce discriminazione allontanando dalle scuole tutti gli studenti e gli insegnanti «che abbiano anche un solo genitore o un coniuge di razza ebraica». Ha anche provveduto all'«eliminazione dai libri di testo non solo dei brani di scrittori o poeti di razza ebraica, ma anche di tutte le citazioni e i riferimenti al pensiero di autori ebrei», costituendo una commissione per la «bonifica libraria» composta di autorevoli intellettuali, quali Filippo Tommaso Marinetti, Alessandro Pavolini, Nazzareno Padellalo e Mario Formi chi i quali, presi da sacro furore razzista, giungeranno a mettere all'indice, fra le altre, le opere di Gogol', Tolstoj, Turgenev, Casanova, Ovidio, Marziale, Rabelais e Poe. Non ancora soddisfatto del tutto, l'intransigente ministro dell'Educazione nazionale ha persino imposto la lettura e il commento in classe di quel coacervo di astruserie infamanti che è «La difesa della razza».
Anche l'intervento di Bottai nella riunione del Gran Consiglio risulta fra i più duri. Opponendosi recisamente a ogni concessione, egli ha sostenuto che bisogna perseverare sulla strada intrapresa «perché, revocando le disposizioni, gli ebrei d odieranno perché li abbiamo cacciati e d disprezzeranno perché li riammettiamo». Perché l'intellettuale del regime si sia inchinato al fanatismo più odioso non è mai stato spiegato. Debole d appare infatti la giustificazione secondo la quale Bottai si sarebbe trasformato in un campione del razzismo per fugare il rischio di essere considerato ebreo lui stesso a causa del suo compromettente cognome (Bottai, nel senso di «costruttori di botti», era uno di quei cognomi «di mestiere» che, secondo le assurde teorie di Rosenberg e di Preziosi, denunciavano l'origine ebraica).
La legge sulla razza viene infine resa esecutiva il 10 novembre 1938. Per una emblematica coincidenza, essa entra in vigore esattamente il giorno dopo la Notte dei cristalli, ossia il primo feroce pogrom scatenato dai nazisti in Germania che causò la distruzione di migliaia di negozi ebrei, l'incendio di centinaia di sinagoghe e di abitazioni civili, nonché l'uccisione di decine di israeliti e la deportazione di altri ventimila. Era l'inizio di quella tragica «soluzione finale» che provocherà durante la guerra l'olocausto di milioni di ebrei fra i quali molti italiani già vittime delle persecuzioni italiane volute da Mussolini. La legge sulla razza decretata dal governo italiano codifica tutti i provvedimenti già approvati dal Gran Consiglio. Prima di presentarla, Mussolini ha avuto un lungo colloquio con Vittorio Emanuele III che viene descritto con vivacità nel diario di Ciano. Ascoltato il capo del governo, il sovrano dichiara con franchezza di «provare una infinita pietà» per gli ebrei. Il re cita al Duce i casi di persone perseguitate e in particolare quello del generale israelita Emanuele Pugliese «vecchio di ottant'anni, carico di medaglie, di ferite e solo al mondo, che in base alla nuova legge non potrà più avere una domestica “ariana” al suo servizio». Mussolini risponde che la sorte degli ebrei può stare a cuore soltanto «a quelle ventimila persone con la schiena debole che ancora esistono in Italia».
«Io sono fra queste» gli ha ribattuto seccamente il sovrano. Ma l'aspetto più sconcertante della vicenda è che il re abbia poi finito per approvare in toto quell'infame documento razzista ponendovi in calce la propria firma.
L'ondata antisemitica investe rapidamente l'Italia intera. Viene vietato agli ebrei stranieri di prendere dimora in Italia, mentre quelli italiani non possono possedere o dirigere aziende con più di cento dipendenti, essere possessori di più di cinquanta ettari di terreno, né prestare servizio militare in pace e in guerra. La parte più traumatica della legge riguarda l'impiego degli ebrei nelle aziende pubbliche e private. Essi sono esclusi da tutti gli uffici, centrali e locali, della amministrazione pubblica, compresi gli enti parastatali e le aziende municipalizzate, dalle banche di interesse nazionale e private e dalle società di assicurazioni. In ossequio a queste norme 96 professori universitari, 174 della scuola media e 195 liberi docenti sono costretti a lasciare l'impiego senza ottenere manifestazioni di solidarietà da parte dei colleghi. Anzi, in molti atenei si registra una sgradevole gara per la conquista delle cattedre rimaste vacanti. Sono espulsi dalle scuole statali anche 4400 alunni delle elementari, 1000 delle medie e 200 studenti universitari.
Per procedere all'«epurazione» è stato costituito presso il ministero degli Interni un apposito ufficio, la direzione generale per la Demografia e Razza, detto in gergo «Demorazza». Molti degli scienziati e degli studiosi colpiti dalle norme razziste sono così costretti a emigrare all'estero. Lasciano l'Italia, fra gli altri, il filosofo del diritto Giorgio Del Vecchio, il geografo Roberto Almagià, lo storico Rodolfo Mondolfo, il giurista Tullio Ascarelli, il filosofo Renato Treves, il fisico e futuro premio Nobel Emilio Segrè e anche il «padre» della bomba atomica Enrico Fermi, la cui moglie è ebrea. Fugge dall'Italia anche l'ex amante di Mussolini, Margherita Sarfatti, che si rifugia in Argentina.
Altri provvedimenti persecutori a carattere individuale sono ancor più inconcepibili. Il maestro Arturo Toscanini, per esempio, viene privato del passaporto perché durante una intercettazione telefonica lo si è sentito definire le leggi razziali «roba da Medioevo». Viene espulso dall'Italia anche il medico personale della regina Elena, professor Stukiold. Persino Roberto Farinacci è costretto a licenziare La sua preziosa segretaria Jole Foà, ma si tratta di un dispetto di Mussolini al quale il gerarca si è rivolto per ottenere la sua discriminazione («Pagale magari una liquidazione di 50. 000 lire, ma mandala via!» gli ha ordinato).
Per la verità, le autorità locali applicano con grande comprensione le misure vessatorie, spesso contravvenendo alle dure disposizioni di «Demorazza» (di seimila domande di «arianizzazione», circa tremila saranno favorevolmente accolte). Ma gli ebrei sono ormai irrimediabilmente cittadini di serie Bene sopporteranno le conseguenze affrontando con stoica fermezza e grande dignità anni di sofferenza e di calvario, via via inaspriti fino all'inferno dei campi di sterminio nazisti. Valga per tutti la tragica e dignitosa protesta contro l'odiosa persecuzione espressa con il suicidio da Angelo Formiggini, titolare a Modena di una piccola casa editrice. Editore intelligente e sofisticato, Formiggini aveva pubblicato, fra l'altro, un'interessante collana di «Classici del ridere», il Mussolini di Giuseppe Prezzolini e alcuni libri di Corrado Alvaro. Colpito dalle leggi razziali, dopo avere liquidato la sua azienda, dispone, come racconta Geno Pampaloni, che la sua preziosa raccolta di testi dell'umorismo di tutti i tempi, nonché le altre opere in catalogo, vengano affidate alla biblioteca estense della sua Modena. Scrive poi alla moglie una lettera che ha il valore di un testamento spirituale:
Io non posso rinunciare a ciò che considero un mio preciso dovere. Io devo dimostrare l'assurdità malvagia dei provvedimenti razzisti … Sopprimendo me affranco la mia diletta famigliola dalle vessazioni che potrebbero derivare dalla mia presenza: essa ridiventa ariana pura e sarà indisturbata. Le cose mie più care, cioè il mio lavoro, le mie creature concettuali, invece di scomparire potranno risorgere a nuova vita. Egoisticamente preferirei che morissero con me. Ma esse non sono più soltanto mie, e poi esse possono riuscire ancora di utilità e di decoro alla mia Patria.
Lasciata la lettera, Formiggini, che abita ormai a Roma, acquista un biglietto di sola andata per Modena e, vestito in maniera inappuntabile come per una cerimonia, sale sull'alta torre della Ghirlandina e si getta nel vuoto. I giornali non pubblicano la notizia perché la censura fascista ha messo al bando la cronaca nera e i suicidi, ma essa si diffonde comunque nei circoli romani. Ed ecco il commento rivoltante fatto in quella occasione dal segretario del partito Achille Starace: «È morto proprio come un ebreo: si è buttato da una torre per risparmiare un colpo di pistola».
Le persecuzioni razziali hanno naturalmente scatenato i soliti sciacalli, che ora si arricchiscono rilevando a prezzi stracciati le proprietà degli ebrei costretti a lasciare il paese. Nasce anche il commercio delle «arianizzazioni» rilasciate da «Demorazza» cui presiede il sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Guido Buffarmi Guidi. Per denaro si forniscono agli ebrei documenti o prove per dimostrare la loro appartenenza alla razza ariana. Non frequenti sono invece le conversioni alla religione cattolica: nonostante tutto, sono pochi gli ebrei disposti a rinnegare la propria fede e questo fenomeno si registra quasi esclusivamente nelle famiglie più ricche. Si ricorre tuttavia, legittimamente, a ogni pretesto che consenta di ottenere la discriminazione. Poiché è riconosciuto ariano chi è figlio di un padre ariano, molte donne ebree, preferendo il proprio «disonore» alla rovina, denunciano i propri figli, nati dal regolare matrimonio con un israelita, come «figli della colpa», ossia frutto di una relazione adulterina con un ariano.
Sarebbe comunque esagerato sostenere che i provvedimenti antisemiti abbiano impressionato più di tanto l'opinione pubblica. L'inesistenza di un «problema ebraico» in Italia è infatti tale che la maggioranza degli italiani lo scopre addirittura, con grande sorpresa, leggendo i giornali. Gli ebrei d'altronde sono così pochi e così integrati nella società civile che, salvo in poche città come Livorno, Ferrara, Roma, Milano, nel resto del paese la loro presenza non è mai stata avvertita, tanto che termini come «arianesimo», «semitismo» e «antisemitismo» sono dei neologismi di cui molti persino stentano a comprendere il significato. Anche per questa ragione le leggi sulla razza non suscitano l'attenzione che meritano. Gli italiani, d'altra parte, sono distratti da altri avvenimenti. In un mondo apparentemente sereno, pieno di canzonette, di film ottimisti coi «telefoni bianchi», di saggi ginnici e di addestramenti premilitari, si cominciano infatti a intravedere le prime nubi anticipatrici del temporale. Mussolini, malgrado abbia «salvato la pace del mondo» nel convegno di Monaco, pronuncia discorsi sempre più bellicosi, mentre Hitler, dopo essersi appropriato dell'Austria e dei Sudeti, si è impadronito dell'intera Cecoslovacchia allargando sempre di più i confini del suo ambizioso Lebensraum (spazio vitale).
Naturalmente, c'è ancora in Italia chi continua a insistere sul tasto della razza, ma pochi leggono, per esempio, il professor Amintore Fanfara il quale afferma che «per la potenza e il futuro della Nazione gli italiani devono essere razzialmente puri», o il professor Luigi Gedda, dirigente dell'Azione cattolica, il quale sostiene sulla rivista dei gesuiti che «molti giudei sono divenuti un pericolo sempre più grave per la società nella quale vivono, e si fa più urgente la necessità di procurarvi efficace rimedio». Da parte sua, lo storico Luigi Salvatorelli osserverà in seguito:
Non già che a esso [al popolo italiano] fosse ignoto quel vago antisemitismo che si traduceva in giudizi non benigni - anche se per un lato ammirativi - su talune qualità attribuite agli ebrei o, più spesso, in motti scherzosi. Ma era estranea agli italiani qualsiasi avversione profonda e sistematica, e soprattutto, qualsiasi sensazione di un problema ebraico o di un pericolo ebraico.
Solo quando la persecuzione diventa più violenta, cominciano a manifestarsi forme di solidarietà più attiva. Ciano, il quale ha già provveduto a salvare i suoi vecchi compagni di scuola ebrei, annota nel diario che se nella sua Livorno «ci sono indizi dì una favorevole accoglienza ai provvedimenti razziali, non altrettanto si registra a Milano, cuore industriale del paese». Infatti, anche se sulla stampa fascista si legge che il popolo saluta con favore i provvedimenti razziali, i rapporti di polizia segnalano che si sta diffondendo nel paese un sentimento di disagio e di ripugnanza alla persecuzione. Per questa ragione, i giornali hanno ricevuto precise istruzioni per attaccare il buonismo, il pietismo e quei pochi «meticci morali» che lo praticano. Lo stesso Starace è intervenuto personalmente per spiegare che il pietismo è l'antitesi della mentalità fascista, ma la campagna antipietista sarà in seguito bloccata dallo stesso Minculpop, il ministero della Propaganda, in quanto i suoi slogan sono giudicati contraddittori. Infatti, se i «meticci morali» sono così pochi e così ininfluenti sulla stragrande maggioranza del popolo, perché perdere tanto tempo per attaccarli? Si deve tuttavia sottolineare che le conseguenze di queste leggi scellerate saranno comunque in gran parte mitigate dall'atteggiamento «esemplare e umano» (così definito dai testimoni durante il processo di Gerusalemme contro Adolf Eichmann) che 0 popolo italiano ha dimostrato verso gli ebrei perseguitati.
Il problema ebraico, dovunque assai poco sentito, non tarderà a passare in second'ordine con lo scoppio della seconda guerra mondiale. Per due anni, la questione viene quasi dimenticata. Mentre nell'intera Europa occupata dalle armate tedesche milioni di ebrei vengono catturati dalle SS e avviati verso i campi di sterminio di Auschwitz o di Treblinka, in Italia, malgrado gli incoraggiamenti di Preziosi su Vita italiana e di Interlandi su La difesa della razza a imitare i camerati tedeschi, il governo si limita a ordinare la «precettazione civile». Che consiste nell'obbligare gli ebrei, anche ottantenni, ad andare a spalare le macerie, a riassestare gli argini del Tevere o ad accudire ai cosiddetti «orti di guerra».
Una sorte più benigna incontrano anche gli ebrei residenti nelle zone occupate dalle nostre truppe. Quelli francesi, per esempio, fuggono dalla Francia occupata dai tedeschi, dove gli sgherri della Repubblica di Vichy si stanno rivelando peggiori delle SS, per rifugiarsi nelle regioni meridionali controllate dagli italiani. Infatti, come risulta anche dalle proteste della Gestapo e dai rapporti di Eichmann, le autorità militari italiane li proteggono apertamente, impediscono alla polizia di sicurezza nazista di arrestarli e li ospitano addirittura nei grandi alberghi della Costa azzurra e della Savoia ormai disertati dal turismo. Il «caso Perlasca», ossia l'opera del commerciante italiano che, spacciandosi per diplomatico, salvò in Ungheria migliaia di ebrei perseguitati dai nazisti, non rappresenta infatti un'eccezione. Molti altri ignoti «Perlasca» si sono comportati altrettanto umanamente, anche se non se n'è conservata la memoria.
Soltanto dopo l'armistizio dell'8 settembre 1943 e durante l'effimera Repubblica di Salò, i nazisti, finalmente liberi di applicare anche in Italia i feroci criteri dell’Endlösung (la soluzione finale), si scateneranno nelle zone non ancora liberate del nostro paese, appoggiati dal cosiddetto «Ispettorato della Razza» affidato dagli stessi nazisti a Giovanni Preziosi. Ma questa è un'altra storia dolorosa di cui non si può accusare il fantasma di Mussolini che sta trascorrendo i suoi ultimi giorni nel cupo crepuscolo di Salò.