I. POSSIAMO DEFINIRLO GRANDE?.

Ora che, dopo avere proiettato la sua ombra inquietante su tutto il XX secolo, è stato finalmente sdoganato dall'attualità e collocato nella storia, ora che ci è consentito trattarlo in maniera asettica, come Cavour, Crispi o Giolitti, senza lasciarci sopraffare dalle emozioni, possiamo trovarci d'accordo nel dire che Benito Mussolini fu, nel bene e nel male, un grande uomo, un grande rivoluzionario, un grande politico, un grande statista?.

Nessun italiano, prima e dopo di lui, ha mai suscitato tanto entusiasmo, tanto isterismo, tanta speranza, tanto orgoglioso patriottismo e tanto dolore. Nessun italiano è stato più amato e più rinnegato, nessuno ha lasciato dietro di sé tanto amore, tanto odio e tanta rovina.

La grandezza di Mussolini è connessa con tutti questi eccessi. Figlio di se stesso, senza maestri e senza modelli, demagogo e redentore, tattico e opportunista, egli si staglia gigantesco fra gli italiani del suo tempo.

Storici nostrani e stranieri, questi ultimi forse più noti in Italia che a casa loro, si affannano da decenni per ridicolizzarlo sottolineando le sue debolezze, le sue vanterie, il suo narcisismo e la sua megalomania, ma evitano di spiegare come un uomo di tal fatta sia riuscito a farsi gioco in un paio d'anni dell'intera classe dirigente italiana, ad affascinare per quasi vent'anni milioni e milioni di connazionali e a conquistarsi il rispetto, se non l'ammirazione, delle personalità più importanti del suo tempo, sia in Italia che nel resto del mondo.

Qual’era dunque il suo segreto?.

Rivoluzionario, socialista, pacifista, interventista, repubblicano, monarchico, e infine Duce e condottiero, egli si distingue da Lenin, da Hitler e dagli altri dittatori del suo tempo proprio per questa sua funambolica capacità di trasformarsi.

Quelli conquistarono il potere fidando su incrollabili certezze e obbedendo a schemi precedentemente stabiliti, lui lo conquistò mutando i suoi programmi in corso d'opera con la disinvoltura di un esperto giocoliere. Mai un concorrente ebbe l'ardire di misurarsi con lui e la sua rivoluzione, a differenza delle altre, non divorò neppure i propri figli come vorrebbe la leggenda: lui la dominò in ogni fase, fino al suo esaurimento, senza uccidere i suoi concorrenti e senza mai ricorrere a bagni di sangue o a purghe purificatrici.

Costretto a cercare una via d'uscita fra una destra acefala, reazionaria e spaventata e una sinistra impazzita che «voleva fare come in Russia», Mussolini riuscì, con l'uso spregiudicato della persuasione e della violenza, a organizzare un partito nuovo e diverso compiendo il «miracolo» di unire nello stesso fascio monarchici e repubblicani, cattolici e anticlericali, estremisti di destra ed estremisti di sinistra.

La sua ideologia originale e suggestiva, ma anche così confusa e raffazzonata da offrire le più svariate interpretazioni, affascinò le masse e trovò persino oltre i confini nazionali neofiti entusiasti, cultori autorevoli e volenterosi imitatori.

Il suo nazionalismo aggressivo riscattò l'umile Italietta provinciale e la portò all'onor del mondo collocandola di prepotenza nel cosiddetto concerto delle grandi nazioni europee, del quale, per oltre un decennio, fu lui stesso uno dei massimi protagonisti, se non addirittura il perno principale.

Il suo «genio» è stato unanimemente riconosciuto dai grandi del suo tempo. Pio XI lo definì «l'uomo della Provvidenza», Pio XII «il più grande uomo da me conosciuto e tra i più profondamente buoni». Per Winston Churchill era «il nuovo Cesare del XX secolo e il più grande legislatore vivente». Il Mahatma Gandhi ebbe a dire di lui: «Sfortunatamente io non sono un uomo superiore come il signor Mussolini». Thomas Mann lo definì «un semidio», Lenin «il solo socialista capace di guidare il popolo italiano alla rivoluzione». Rudyard Kipling invitava gli italiani ad amarlo «perché per l'Italia il Duce è tutto». Per l'arcivescovo di Canterbury era «l'unico gigante d'Europa» e per Thomas Edison «il più grande genio dell'era moderna», mentre, da parte sua, il presidente americano Franklin Delano Roosevelt, con il New Deal, faceva tesoro delle esperienze corporative compiute dal fascismo per fare uscire gli Stati Uniti dalla crisi.

Naturalmente furono fattori esterni a favorire l'ascesa di Mussolini, ma il suo merito consiste nell'averne saputo approfittare.

Dopo gli sconquassi della prima guerra mondiale, il crollo dei grandi imperi e la vittoria dei bolscevichi in Russia (che aveva dato vita alla III Internazionale, cui avevano aderito tutti i partiti comunisti europei ponendosi agli ordini di Mosca) una grande inquietudine si era diffusa in Europa e in America. Inquietudine aggravata dalla crisi delle democrazie parlamentari, che ora parevano esaurite e incapaci di comporre i contrasti fra le classi sociali, nonché di affrontare gli enormi problemi economici del dopoguerra.

In quegli anni, soprattutto fra il 1919 e il 1920 (il cosiddetto «biennio rosso»), l'Italia era considerata un paese a rischio, pericolosamente vicina a un collasso rivoluzionario che avrebbe potuto estendersi al resto del continente. Di conseguenza, quando nel 1922 Mussolini conquistò il potere con la violenza, ma anche con il consenso popolare, molti tirarono un sospiro di sollievo. La rivoluzione fascista e la creazione dello Stato corporativo furono infatti salutati da molti intellettuali e da molti uomini politici come la scoperta della mitica «terza via» fra capitalismo e comunismo che da tempo molti andavano invano cercando.

La vulgata antifascista, tuttora corrente malgrado le rettifiche documentate di Renzo De Felice, continua a presentare il fascismo come il braccio armato del capitalismo composto quasi esclusivamente da una minoranza facinorosa di «piccoli borghesi» ambiziosi e frustrati. Ma ciò non corrisponde affatto a verità: si tratta di una invenzione di comodo degli storici antifascisti i quali ricorsero a questo escamotage semplicemente perché non sapevano come spiegare altrimenti la repentina crescita di massa registrata dal fascismo.

Da un lato, infatti, come ha documentato recentemente Romolo Gobbi, essi non potevano attribuirla alla sola borghesia perché notoriamente minoritaria e comunque poco propensa a sporcarsi le mani, e dall'altro non volevano riconoscere la forte adesione al movimento fascista della classe operaia perché nell'immaginario collettivo il proletariato doveva figurare come sua vittima e non come suo fondamentale supporto.

Proprio per questa ragione fu scelta l'incolpevole piccola borghesia quale principale responsabile di quella crescita, e vennero sbrigativamente definiti «teppa» o «lumpen» (sottoproletari) gli operai, i contadini e i disoccupati che costituirono il nerbo principale delle cosiddette squadre d'azione.

Il fascismo fu in realtà un grande movimento di massa nel quale, grazie anche alle vaste aperture sociali promesse dal suo confuso programma, affluì con entusiasmo gran parte della classe lavoratrice, stanca della inconcludente litigiosità dei partiti tradizionali e dell'anchilosato sindacalismo scioperatoio e ormai privo di sbocchi, come è dimostrato dal fatto che, in occasione della marcia su Roma, la Confederazione generale del lavoro (CGL) neppure si azzardò a proclamare uno sciopero generale.

Resta infine da aggiungere che furono soprattutto i giovani a lasciarsi catturare dalla propaganda fascista che contestava a muso duro il vecchio mondo politico sclerotizzato lanciando parole d'ordine vandalistiche, ma di sicuro effetto, come «Largo ai giovani», «Me ne frego», «Meglio un giorno da leoni», «Boia chi molla», «Molti nemici, molto onore», e altre ancora, che non potevano rimanere inascoltate da una generazione appena uscita da una guerra vittoriosa.

D'altra parte, la canzone Giovinezza, di cui il fascismo si era appropriato facendone il suo inno ufficiale, non era, o non era soltanto, uno specchietto per le allodole. Giovani, o falsi giovani, erano infatti quasi tutti i massimi dirigenti del movimento fascista.

Mussolini aveva trentotto anni, Dino Grandi venticinque, Roberto Farinacci ventotto, Giuseppe Bottai ventisei, Italo Balbo ventiquattro, Ettore Muti diciannove.

Nel 1921, quando questi futuri gerarchi si affacciarono per la prima volta sulla scena politica, a molti di loro, come Balbo, Farinacci, Grandi e Bottai, venne addirittura annullata l'elezione alla Camera per eccesso di gioventù.

È naturalmente indiscutibile che Mussolini fu in seguito favorito nella sua impresa dalla Chiesa, dalla monarchia e dai poteri forti dell'industria e della finanza. Ma all'inizio, tranne gli agrari tosco-emiliani che finanziarono il fascismo per motivi contingenti, essi lo accettarono semplicemente come il minore dei mali, pur di uscire dall'emergenza provocata dalla minaccia bolscevica.

Infatti continuarono invano a sperare in un rapido riassetto democratico del paese e successivamente diffidarono delle residue velleità rivoluzionarie di Mussolini e del suo progressivo autoritarismo che insidiavano la loro libertà politica ed economica.

Mussolini, d'altronde, non fu mai un lacchè del capitalismo, come ha sempre sostenuto una certa storiografia faziosa. Nel suo iniziale e confuso disegno politico la dittatura non era neppure contemplata. Egli immaginava semmai un governo autoritario sorretto da una vasta coalizione in cui intendeva includere, in particolare, i compagni più «morbidi» del suo vecchio e ancora amato Partito socialista, nonché i popolari e alcuni esponenti della CGL da lui a lungo corteggiati.

Sarà il «caso Matteotti» (un omicidio che Mussolini non volle) a spingerlo a modificare, come era solito fare, i suoi progetti in corso d'opera. Di fronte all'alternativa tra la crisi e la dittatura, dopo giorni di angoscia, di sgomento e anche di paura fisica, ruppe alfine ogni esitazione il 3 gennaio 1925. A chi lo accusava di quel delitto e chiedeva le sue dimissioni, lui rispose con una frase rimasta famosa: «Se il fascismo è un'associazione a delinquere, io sono il capo di questa associazione!». E dittatura fu.

Dopo di allora, per dieci anni, Mussolini fu il Duce osannato dalle folle. Prima ancora di Stalin, fu lui a creare il «culto della personalità» dando sfogo a una vanità che lo indusse, a poco a poco, a bandire cilindro e ghette per sostituirli con uniformi e pennacchi sempre più folkloristici. Ma la sua dittatura, benché comunque condannabile, fu certamente più blanda rispetto a quella nazista e a quella comunista.

Sotto di lui, non soltanto i treni tornarono a viaggiare in orario: le grandi riforme, le faraoniche opere pubbliche, le bonifiche, la nascita di nuove città, lo sviluppo industriale, i successi politici e le grandi imprese sportive fecero «dimenticare» agli italiani le violenze del passato, il manganello, l'olio di ricino e anche che molti oppositori del regime languivano nelle carceri o al confino.

I cosiddetti «anni del consenso» raggiunsero spettacolarmente l'apice a Roma il 9 maggio 1936 con la fondazione dell'impero. Per Mussolini, quel giorno fu certamente il più bello della sua vita. Mai, a memoria d'uomo, gli italiani avevano vissuto una giornata di passione civile e collettiva così intensa. Fu da allora che ebbe inizio la fase discendente.

Spinto quasi a forza fra le braccia di Hitler dalle potenze democratiche, Mussolini, che fino a quel momento aveva sempre giocato carte vincenti, giocò alfine quella sbagliata. Quasi fosse caduto vittima di un maleficio, l'uomo che secondo i suoi ammiratori «aveva sempre ragione», non vinse più una partita. Perduto il «genio», perduta l'abilità manovriera che aveva fatto la sua fortuna, soggiacque progressivamente al fascino maligno di Adolf Hitler, il suo antico e disprezzato imitatore, giungendo lui stesso a imitarlo e poi anche a obbedirgli.

Nemico dichiarato del razzismo («quella è roba per biondi» era solito dire con un ghigno di scherno), consentì alla pubblicazione delle prime riviste antisemite, sia pure giustificandosi col dire che «in una casa pulita deve esserci anche una pattumiera». Poi degenerò ulteriormente: consapevole che la popolazione italiana non poteva proprio dirsi una razza pura, si inventò la «stirpe italica», per giungere infine alle ignominiose leggi razziali che rappresentano una delle sue principali vergogne. Il resto è noto: un Mussolini sempre più obnubilato legò definitivamente con il patto d'Acciaio la sorte del paese alla Germania e condusse l'Italia alla catastrofe.

I nove anni che seguirono il trionfale 1936 hanno dunque oscurato la sua gloria. Certo, sarebbe puramente gratuito immaginarsi il destino di Mussolini e dell'Italia se la storia gli avesse risparmiato quelle circostanze che lo condussero, riluttante, verso il baratro. Si può soltanto affermare che se uno dei vari avversari politici che attentarono invano alla sua vita avesse colpito il bersaglio la sera del 9 maggio 1936, oggi nessuno esiterebbe a indicarlo come uno dei massimi uomini di Stato della nostra storia.

Possiamo dunque definirlo grande?.