V. DITTATORE PER CASO?.
«L'uccisione di Matteotti ha fatto cambiare la storia d'Italia» disse Mussolini un pomeriggio d'estate del 1935 alla figlia Edda, che raccolse le confidenze del padre in alcuni quaderni rimasti inediti. «La sua morte» proseguì «mi gettò in una crisi morale e politica dalla quale non sapevo come uscire. Se la storia d'Italia, dopo quel 10 giugno 1924, prese una strada diversa da quella da me desiderata, lo si deve proprio a quell'uccisione e soprattutto a un giornalista che mi fu spietato accusatore e che formulò le sue accuse basandosi su congetture e deduzioni completamente errate. Quel giornalista si chiamava Carlo Silvestri, era un socialista e non so se fosse in buona fede o meno. Ci conoscevamo da tempo e sono certo che in cuor suo aveva dei dubbi, ma la sua presa di posizione non gli consentiva più di dubitare: doveva insistere con la sua accusa spietata. A quell'epoca» continuò Mussolini «L'opposizione già mi accusava di essere un dittatore, ma in realtà, se lo fossi stato o se fosse stato nelle mie intenzioni di diventarlo, non avrei permesso a Silvestri di continuare giorno dopo giorno ad accusarmi: semplicemente l'avrei fatto incarcerare. Ma, come ti ho già detto, per essere dittatori bisogna agire come Hitler e come Stalin. Io non ho tale stoffa. La mia coscienza non mi ha mai permesso certe libertà. D'altra parte, se Silvestri è ancora in vita, deve ringraziare proprio il sottoscritto: per ben due volte sono riuscito in extremis a far arrestare chi doveva assassinarlo. I mandanti erano naturalmente gli stessi dell'assassinio di Matteotti e devo ringraziare il cielo per essere stato avvertito in tempo: altrimenti sarebbe stato il colpo di grazia per il fascismo. Infatti, come puoi ben facilmente immaginare, l'uccisione del mio principale accusatore sarebbe stata interpretata come la conferma che io ero il responsabile di entrambi i delitti. La trappola era ben congegnata, ma io, purtroppo, anche se ottenni la collaborazione di uomini dell'opposizione che credevano nella mia innocenza, non sono mai riuscito a venire a capo di questo intrigo. I mandanti non sono mai stati individuati.»
Undici anni dopo, nel 1947, con l'Italia finalmente rinata nella ritrovata libertà, il processo contro gli esecutori dell'assassinio di Matteotti fu celebrato per la seconda volta nella corte d'assise di Roma. L'avvenimento non destò particolare curiosità: tutto era previsto e la sentenza di condanna era data per scontata. Invece, fin dalle prime udienze, si registrò una svolta clamorosa: il giornalista Carlo Silvestri, reduce da anni di confino e di persecuzioni, fra lo stupore generale si trasformò, da principale e unico accusatore dell'ormai defunto Mussolini, nel suo più strenuo difensore. Ritrattò infatti tutte le sue accuse e spiegò dettagliatamente come e perché, dopo anni di ricerche e di riscontri, era giunto alla conclusione che tutte le prove da lui raccolte a suo tempo gli erano risultate false o errate. Rivolgendosi direttamente al procuratore generale Giovanni Spagnolo, pronunciò questa dichiarazione:
Io mi rendo conto che se confermassi la mia vecchia deposizione, il caso Matteotti sarebbe facilmente risolto e i giornali del conformismo antifascista mi farebbero fare una figurona. Ma sarei onesto se consentissi che la storia seguita all'uccisione di Matteotti venisse scritta sulla base di documenti che io ora non mi sento più di sottoscrivere nella loro integrità? Sarei onesto se non rivelassi il mio preciso e definitivo pensiero, e cioè che Mussolini non fu il mandante dell'uccisione di Matteotti, la quale ebbe in realtà moventi antiproletari e antisocialisti?
Poi, in risposta alle contestazioni sollevate in aula per la sua clamorosa ritrattazione, aggiunse:
È supremamente sciocco attribuire proprio a me l'intenzione di una postuma apologia mussoliniana. Pensate davvero che avrei rovinato la mia esistenza per non piegarmi a Mussolini, avrei sopportato le prove più dure e le rinunce più gravi per attendere dì convertirmi alla fede in Mussolini dopo che, con la sconfitta in guerra e la rovina del Paese - di cui certamente la prima responsabilità è sua - egli si è definitivamente auto-seppellito?
La presa di posizione così decisa assunta da Carlo Silvestri avrebbe dovuto far riflettere, ma l'atmosfera surriscaldata dell'immediato dopoguerra non era certamente adatta alle pacate riflessioni. Le ferite sanguinavano ancora e in quel momento Mussolini non era giudicato meritevole di giustificazioni: era assolutamente necessario demonizzarlo. Ma Carlo Silvestri non era un testimone di poco peso, di cui si potesse fare a meno. Giornalista famoso, capo della redazione romana del «Corriere della Sera» quando, nel 1924, scoppiò il caso Matteotti, era stato proprio lui, con una clamorosa inchiesta giornalistica che aveva appassionato l'Italia intera, a raccogliere e diffondere, subito dopo la misteriosa uccisione del leader socialista, le prove «schiaccianti» che attribuivano la responsabilità del delitto al capo del governo allora in carica, ossia a Benito Mussolini. In seguito, dopo avere partecipato alla cosiddetta «battaglia aventiniana», ultimo estremo tentativo della coalizione antifascista per scalzare Mussolini dal potere, aveva scontato lunghi anni di confino e di forzata disoccupazione. Dopo la caduta del regime, il 25 luglio 1943, Silvestri era rientrato nei ranghi del giornalismo ed era stato scelto come direttore della «Stampa» di Torino, ma lui aveva rifiutato l'incarico per dedicarsi ad attività filantropiche. In seguito, negli anni della Repubblica di Salò e della guerra civile, aveva infatti costituito un organismo, chiamato «Croce Rossa Silvestri», che si era distinto per le sue azioni umanitarie salvando la vita di molti partigiani caduti nelle mani dei tedeschi o dei fascisti.
Tuttavia, malgrado questi onorevoli precedenti, Silvestri non fu creduto dai giudici della corte d'assise romana.
E non solo, fu anche orchestrata contro di lui una campagna di diffamazione per rendere inattendibile la sua sconcertante testimonianza (Giancarlo Pajetta, attraverso «l'Unità», lo definì «losco avventuriero e agente provocatore di rango»), grazie alla quale egli fu trattato alla stregua di un mitomane e in seguito ignorato del tutto, come si usa sempre fare con i personaggi imbarazzanti. Carlo Silvestri morì qualche anno dopo, forse di crepacuore, dopo avere dato alle stampe un libro di memorie dal titolo significativo, Matteotti - Mussolini. Il delitto che ha cambiato il corso della nostra storia, che fu ignorato dagli storici (tranne che da Renzo De Felice) e che oggi risulta introvabile perché non è stato più ristampato.
Ma cerchiamo ora di ricostruire secondo le regole deontologiche degli asettici cronisti (i fatti separati dalle opinioni) quel clamoroso fatto di cronaca che sconvolse l'Italia intera e che, comunque lo si voglia interpretare, segnò effettivamente una drastica svolta al corso della nostra storia. Occorre comunque un breve riassunto.
Dopo le violenze del «biennio rosso» e la comparsa sul campo delle squadre d'azione fasciste che, soprattutto con l'uso spregiudicato del manganello e dell'olio di ricino, avevano tranquillizzato i borghesi e ridotto al silenzio l'opposizione (si registrarono anche molte uccisioni da ambo le parti di cui non è mai stata fatta ima conta precisa, ma si ritiene che all'incirca si equivalgano), il Partito fascista era andato al governo in maniera formalmente democratica. Infatti, nonostante le violenze e l'azione armata ed extraparlamentare della carnevalesca marcia su Roma, l'investitura per il nuovo governo era avvenuta nel rispetto delle ritualità istituzionali. Il 29 ottobre 1922, a seguito delle dimissioni «spontanee» del ministero Facta, l'onorevole Benito Mussolini fu convocato dal re che gli affidò l'incarico di formare un nuovo gabinetto. Il presidente incaricato ignorò di proposito la consuetudine di ascoltare i segretari dei partiti, preferendo consultare direttamente i possibili candidati. Fallito il suo tentativo di imbarcare anche dei socialisti riformisti, Mussolini sottopose all'approvazione del re la lista definitiva, composta nel giro di due giorni, nella quale - oltre a lui stesso che, insieme alla guida del governo si assegnava anche l'interim degli Interni e degli Esteri - figuravano tre fascisti (Aldo Oviglio alla Giustizia, Alberto De Stefani alle Finanze, Giovanni Giuriati alle Terre liberate), due popolari (Vincenzo Tangorra al Tesoro e Stefano Cavazzoni al Lavoro), due militari (il generale Armando Diaz alla Guerra e l'ammiraglio Paolo Thaon di Revel alla Marina), due democratici (Gabriello Carnazza ai Lavori pubblici e Teofilo Rossi all'Industria e Commercio), un demo-sociale (Giovanni Antonio Colonna di Cesarò alle Poste), un nazionalista (Luigi Federzoni alle Colonie), un liberale (Giuseppe De Capitani D'Arzago all'Agricoltura) e un indipendente (il filosofo Giovanni Gentile, scelto dopo il rifiuto di Benedetto Croce, alla Pubblica istruzione).
Due anni dopo, il 6 aprile 1924, Mussolini aveva indetto nuove elezioni che aveva stravinto presentandosi alla testa del famoso «listone» nel quale erano confluiti anche numerosi candidati non fascisti e di grande prestigio, come i due ex presidenti del Consiglio Antonio Salandra e Vittorio Emanuele Orlando.
Ed eccoci giunti al fatto di cronaca. Nel pomeriggio domenicale del 10 giugno 1924, Giacomo Matteotti, segretario del Partito socialista unitario e capo virtuale dell'opposizione antifascista alla Camera dei deputati, stava passeggiando sul lungotevere Arnaldo da Brescia, a Roma, quando fu aggredito da cinque energumeni usciti da una Lancia Lambda che si era accostata al marciapiede. Ne seguì una zuffa furiosa nel corso della quale il deputato socialista, uomo coraggioso e temprato alla lotta (aveva già subito delle gravissime aggressioni da parte degli squadristi), si difese con grande energia. Poi, sopraffatto dagli aggressori, fu spinto dentro la macchina da dove ebbe tuttavia il modo e l'accortezza di gettare dal finestrino il suo tesserino da parlamentare. L'auto ripartì subito a grande velocità, ma il portiere dello stabile di fronte, che aveva assistito impotente al rapimento, prima di chiamare la polizia raccolse il tesserino e registrò prudentemente anche la targa della vettura.
Cosa accadde nell'interno della Lancia sarà rivelato dalle successive indagini. Matteotti continuò a battersi come un leone. Sospinto a forza sotto il sedile posteriore dell'auto, dove tre degli aggressori avevano preso posto, ancora non si arrese e continuò a scalciare e a mordere i polpacci dei suoi rapitori fino a quando uno di questi, con furia criminale, impugnata una lima arrugginita dimenticata da un meccanico sotto il finestrino, colpì alla cieca il prigioniero trapassandogli più volte il cranio.
Evidentemente, l'uccisione di Matteotti non era stata programmata, altrimenti gli assassini non si sarebbero comportati come in effetti si comportarono. Girovagarono infatti per alcune ore lungo le vie di Roma e dopo avere fatto alcune telefonate (una delle quali a Giovanni Marinelli, a quell'epoca sottosegretario alla presidenza del Consiglio) si allontanarono dalla città e, giunti in una località boschiva detta della «Quartarella», si liberarono dell'ingombrante cadavere seppellendolo sotto un palmo di terra in una fossa scavata alla meglio. Sarà rinvenuto dal cane di un cacciatore soltanto cinquantasette giorni dopo, il 16 agosto 1924.
La scomparsa di Matteotti, che era popolarissimo in Italia e famoso anche all'estero, sollevò un'enorme impressione. Anche se da anni l'opinione pubblica era abituata alle violenze fasciste, una cosa simile non era mai accaduta. Era la prima volta che un leader politico veniva aggredito in maniera tanto brutale. Individuare i responsabili di quello che ancora si considerava un rapimento e non un omicidio, fu per la polizia un'impresa di assai facile soluzione in quanto gli aggressori avevano platealmente «firmato» il delitto. Si trattava di un gruppo di ex arditi che facevano parte di una squadra speciale, chiamata comunemente «Ceka» (come la famosa polizia politica bolscevica), la quale dipendeva direttamente da Giovanni Mannelli che aveva ricevuto l'ordine da Mussolini di assoldare degli energumeni per poterli utilizzare «in caso di bisogno». Il capo di costoro si chiamava Amerigo Dumini, era un italo-americano, volontario di guerra e squadrista noto per la sua violenza (quando si presentava era solito dire con fare spavaldo: «Piacere, Dumini: tredici omicidi»). Gli altri, tutti pessimi soggetti quanto il loro capo, erano Albino Volpi, Giuseppe Viola, Augusto Malacria e Amleto Poveromo, tutti milanesi in trasferta a Roma. Risultò ancora che la Lancia da loro utilizzata apparteneva a Filippo Filippelli, direttore del «Corriere Italiano», un giornale fiancheggiatore del fascismo, nonché molto introdotto negli ambienti affaristici genovesi. Dumini l'aveva avuta in prestito dallo stesso giornalista e l'aveva poi ritirata dall'autorimessa dove si trovava per delle riparazioni (ecco spiegata la presenza a bordo della lima arrugginita) dopo avere imprudentemente dichiarato le proprie generalità.
Seguirono settimane di atroci interrogativi e un susseguirsi di voci incontrollate favorite peraltro dall'ostinato silenzio in cui si erano chiusi i cinque aggressori. Naturalmente, sulla scomparsa del leader socialista si sbizzarrì anche la fantasia popolare formulando le ipotesi più incredibili, tanto che entrò nel lessico comune l'espressione «è sparito come Matteotti», che ancora sopravvive. Frattanto, pur non muovendo accuse dirette a Mussolini, la stampa non fascista si era chiaramente orientata nell'attribuire la responsabilità del grave fatto ad ambienti imprecisati del sottobosco governativo, anche se ormai tutti gli occhi si appuntavano verso Palazzo Chigi, dove il capo del governo si sentiva sempre più solo. Alcuni ministri intimoriti dagli avvenimenti gli rimisero infatti il mandato, mentre le autorità civili e militari prendevano prudentemente le distanze.
«Io ho avuto in quei giorni» rievocherà più tardi un amareggiato Mussolini «il senso dell'isolamento totale. I saloni di Palazzo Chigi, così affollati negli altri giorni, erano diventati improvvisamente deserti come se una raffica, una bufera, vi fosse passata.»
La tensione raggiunse il calor bianco quando il cadavere di Matteotti venne finalmente rinvenuto nel boschetto della Quartarella. Ad aumentare l'orrore contribuirono le più avventate descrizioni circa le condizioni in cui erano stati rinvenuti i resti del leader socialista: chi lo voleva decapitato, chi fatto a pezzi, chi castrato e chi vi ricamava sopra anche macabre storie di esibizione dei poveri resti al cospetto dei mandanti. Nulla di vero, naturalmente.
Ma perché e per conto di chi era stato ucciso il capo dell'opposizione? In effetti, anche se la vulgata antifascista continua ancora a indicare Mussolini come il principale responsabile dell'odioso delitto, già allora, come accadrà anche in tempi successivi, furono avanzate ipotesi diverse che escludevano la sua partecipazione. Oltre Mussolini, di volta in volta, furono infatti accusate certe camarille di corte interessate a far sparire dei documenti in possesso di Matteotti che avrebbero compromesso il sovrano; certi imprecisati ambienti affaristici genovesi che sovvenzionavano il «Corriere italiano» di Filippo Filippelli e persino la multinazionale americana Sinclair, interessata a misteriose ricerche petrolifere in Emilia, contro la quale Matteotti avrebbe minacciato uno scandalo. Non fu invece presa in grande considerazione l'ipotesi che fosse stato Giovanni Marinelli, di sua iniziativa e per eccesso di zelo, a ordinare alla «Ceka» di dare «una lezione» all'esponente socialista dopo che questi aveva violentemente attaccato Mussolini con un suo discorso alla Camera. Ipotesi questa che, come vedremo più avanti, appare forse più di ogni altra verosimile e che sarebbe peraltro stata confermata molti anni dopo dallo stesso Marinelli in un biglietto da lui inviato a Mussolini nel 1944, alla vigilia della sua esecuzione capitale a Verona con gli altri «traditori del 25 luglio». Gli storici, per così dire, «innocentisti» si sono infatti limitati ad attribuire l'eventuale responsabilità del delitto ai settori dell'estremismo fascista desiderosi di scavare un solco più profondo fra maggioranza e opposizione onde impedire la «sterzata a sinistra» che Mussolini pare si proponesse dopo la sua vittoria alle ultime elezioni.
Il 6 aprile di quell'anno, il «listone» fascista aveva ottenuto, come si è già detto, un successo così clamoroso che aveva persino sorpreso i suoi stessi proponenti. Grazie anche al premio di maggioranza istituito con la nuova legge elettorale, aveva infatti conquistato la maggioranza assoluta (374 seggi su 535), mentre i partiti oppositori ne erano usciti gravemente falcidiati (popolari 39 seggi, socialisti riformisti 24, socialisti massimalisti 22, comunisti 19, repubblicani 7, ecc.). Il 31 maggio successivo, in occasione dell'apertura della nuova Camera, Matteotti aveva mosso un durissimo attacco a Mussolini con la veemenza e il coraggio che gli erano propri. Ma non è esatto affermare che il leader socialista si proponesse di invalidare la legislatura denunciando le violenze e i brogli che si sarebbero verificati durante le operazioni elettorali. In realtà, di casi di violenza certamente ve ne furono, ma in generale tutto si era svolto nella normalità. D'altra parte, con brogli e violenze non si raggiunge un risultato così strepitoso. A livello nazionale il «listone» raccolse infatti il 66,3% dei voti, mentre al Nord, al Centro e al Sud le percentuali dei voti ottenuti furono rispettivamente il 54%, il 76% e l'82%. E se dal Nord si toglie l'Emilia, vera roccaforte del fascismo, nelle altre regioni e in particolare in Lombardia e nel Piemonte, i partiti di opposizione erano risultati maggioritari.
Matteotti, comunque, non si proponeva affatto di invalidare quelle elezioni anche perché non aveva né le prove, né le forze necessarie per ottenerlo. Mirava invece, come osserva De Felice, a inaugurare un nuovo modo di stare all'opposizione «più aggressivo, più intransigente, violento addirittura». Voleva cioè scavare un fossato invalicabile fra maggioranza e minoranza per rendere difficili o addirittura impossibili eventuali accordi sottobanco. Matteotti infatti non ignorava che a Mussolini stava a cuore di imbarcare nel suo governo qualche socialista riformista per colorare di rosa il suo gabinetto, come non ignorava che molti suoi compagni di partito non erano affatto insensibili alle lusinghe e alle avance dell'ex socialista di Predappio. D'altra parte, fra l'ex massimalista Mussolini e i leader riformisti come Matteotti, Turati e Treves, non era mai corso buon sangue neppure in passato, quando militavano nello stesso partito. Con Treves, Mussolini si era addirittura battuto in un duello quasi all'ultimo sangue, mentre Turati e la sua compagna Anna Kuliscioff avevano trattato con altezzoso snobismo il rozzo parvenu quando questi era giunto a Milano per dirigere l'«Avanti!». Lo avevano anche respinto dal loro esclusivo salotto di piazza del Duomo nel quale il provinciale romagnolo ambiva di essere introdotto. E vale la pena di sottolineare che in politica, oltre le scelte ideologiche, anche i rapporti sociali hanno il loro peso.
Una eco di questa diversità di stile esistente fra il forbito riformista e l'ex massimalista si era avvertita anche nel violentissimo e sprezzante attacco che Matteotti aveva sferrato a Mussolini nel suo discorso pronunciato il 31 maggio all'apertura della Camera. Quest'ultimo si era infatti sentito offeso anche sul piano personale tanto che, al termine della requisitoria del leader socialista, non aveva neppure nascosto la sua rabbia: ed era stato udito pronunciare delle frasi minacciose, rivolte a Marinelli, una delle quali, secondo i resoconti della stampa, sarebbe suonata così: «Cosa fa la “Ceka”? Cosa fa Dumini? Quell'uomo, dopo quel discorso non dovrebbe più circolare».
Ma questo accadeva il 31 maggio, mentre il 7 giugno, apparentemente rabbonito, Mussolini non aveva infierito più di tanto contro l'opposizione, rilanciando invece delle offerte d'apertura che avevano suscitato commenti preoccupati non solo fra i socialisti più intransigenti, ma anche nell'ala più dura del partito fascista di cui era alfiere Roberto Farinacci, il più tenace avversario di ogni cedimento a sinistra.
L'atroce delitto mise comunque in crisi ogni possibilità di rapporto tra fascisti e socialisti. Questi ultimi si schierarono unanimemente con gli altri partiti di opposizione contro il presunto uccisore del loro leader, e la posizione personale di Mussolini si fece più difficile sotto ogni punto di vista. Fosse o non fosse lui il diretto responsabile, era ormai per tutti evidente che i mandanti dell'omicidio si trovavano nel suo entourage. Un entourage che risultò essere composto da una banda di personaggi senza scrupoli, pronti al tradimento, alla delazione e al ricatto, che si odiavano fra di loro e che ora si palleggiavano le responsabilità per trame vantaggi personali. In questo frangente, Mussolini, che si sentiva ormai con le spalle al muro, pur continuando a ribadire la sua estraneità al delitto e ad accusare oscuri nemici di avergli gettato «fra i piedi» il cadavere di Matteotti, pensò seriamente alle dimissioni. Seguirono mesi confusi e logoranti nel corso dei quali Mussolini, angustiato dagli avvenimenti, avvertì i primi sintomi di quell'ulcera psicosomatica che lo tormenterà per il resto della vita. Chi lo frequentò in quei giorni, riferirà che l'uomo passava frequentemente da momenti di profondo scoramento a improvvisi scatti di rabbia. Ora temeva addirittura di essere ucciso da qualche squadra di antifascisti che poteva prendere d'assalto l'indifeso Palazzo Chigi, ora progettava ardite azioni di rivalsa. Sul suo conto correvano anche le voci più strane: chi gli attribuiva l'intenzione di compiere un colpo di Stato e chi, al contrario, sosteneva che aveva in proposito di chiudere «in bellezza» la sua carriera politica presentando le dimissioni e indicando al re, come suo successore, il socialista Filippo Turati.
Ad aggravare la situazione contribuirono anche i deputati dell'opposizione i quali, in segno di protesta, decisero di non partecipare più ai lavori della Camera per ritirarsi simbolicamente sull'Aventino come aveva fatto la plebe al tempo dell'antica Roma. Ma non erano più i tempi di Menenio Agrippa e l'abbandono dell'aula finirà, come vedremo, per favorire la riscossa di Mussolini. A Montecitorio rimasero infatti soltanto i diciannove deputati comunisti i quali, per la verità, sembravano i meno addolorati per la morte del «pellegrino del nulla», come Antonio Gramsci aveva definito Matteotti nel suo impietoso necrologio pubblicato dall'«Unità». Fu infatti il Partito comunista, il meglio organizzato e il più attivo dei partiti della sinistra, a cercare di trarre profitto dalla crisi del fascismo con azioni di protesta che ottennero il risultato opposto a quello che si era prefisso. I moti di piazza finirono infatti per intimorire quelle classi borghesi che si erano effettivamente allontanate dal fascismo con la speranza di un intervento normalizzatore della Corona, ma che non intendevano certo tornare ai tempi del «biennio rosso» e della minaccia rivoluzionaria. Tale timore non era peraltro del tutto campato in aria: i comunisti infatti ancora si illudevano di poter «fare come in Russia» e lo confermano le minacciose parole pronunciate da Antonio Gramsci proprio nell'agosto del 1924 a conclusione della sua relazione al comitato centrale del partito: «Oggi siamo in linea per la lotta generale contro il regime fascista. Alle stolte campagne dei giornali dell'opposizione rispondiamo dimostrando la nostra reale volontà di abbattere non solo il fascismo di Mussolini e di Farinacci, ma anche il semi-fascismo di Turati, di Sturzo e di Amendola».
Oltre la minaccia comunista, fu comunque la «ritirata sull'Aventino» delle opposizioni a rendere un prezioso servizio a Mussolini. Lontani dall'aula di Montecitorio, i vari leader antifascisti avevano già cominciato a litigare fra di loro sulla scelta delle vie da seguire, tanto da indurre il vecchio Giolitti a rilasciare questa ironica dichiarazione: «L'onorevole Mussolini ha tutte le fortune politiche: a me l'opposizione ha sempre dato fastidi e travagli, con lui se ne va dal Parlamento e gli lascia libero il campo». Ancor più profetica, a proposito della ritirata sull'Aventino, suona la nota registrata il 10 ottobre 1924 da Ettore Conti sul suo diario:
Più ci penso e più mi convinco che la mossa degli aventiniani è stata un grosso errore. Scappare davanti al pericolo di violenze può essere comodo, ma abbandonare il Parlamento rinunciando a ogni possibilità di critica e di opposizione legale non è utile né generoso. Padroni assoluti della Camera, dove ci porteranno i fascisti? E se cadremo nella dittatura non ne saranno responsabili anche gli aventiniani?.
Considerata la situazione nel suo complesso, non può sorprendere se anche i timori del pur timoroso Mussolini alla fine si dissolsero. D'altra parte, dai rapporti di polizia risultava che il paese era sufficientemente tranquillo, la CGL non aveva neppure proclamato lo sciopero generale, ma soltanto dieci minuti di «raccoglimento», mentre lo sbandamento che si era verificato tra i fascisti a poco a poco si era riassorbito e ora risultava assai meno grave di quello che era sembrato all'inizio. Da parte loro, i vecchi squadristi delle roccaforti dell'Emilia e della Toscana avevano reagito agli avvenimenti con un senso di esasperazione che certamente non preludeva un disarmo, bensì, al contrario, avevano riconquistato rapidamente l'antico vigore. Fra costoro, il più deciso di tutti era il ras di Cremona Roberto Farinacci, il più popolare fra i duri della vecchia guardia che, in cuor suo, già si proponeva di sostituire il «debole» Mussolini alla guida del governo. Fu lui infatti a coordinare le squadre d'azione, da tempo inoperose, e a lanciare il partito alla riscossa. Scriveva infatti in quei giorni su «Cremona Nuova»:
Prima che i fascisti si vedano costretti a reagire contro coloro che sono i responsabili morali del delitto (Amendola, Albertini, don Sturzo, Turati, Cianca e delinquenti minori) si provveda dai poteri dello Stato al loro arresto e si provveda inoltre non al semplice sequestro dei giornali avversari, ma alla loro soppressione e sia finita la farsa dell'Aventino. Se non è sufficiente la scopa, si adoperi la mitragliatrice.
A parte la sintassi barcollante, si trattava di un chiaro invito a instaurare la dittatura.
Mussolini, che nel frattempo aveva ricevuto centinaia di telegrammi di solidarietà con firme autorevolissime, compresa quella di Badoglio, allora capo dello stato maggiore (il sovrano si era limitato a fargli sapere di essere innocentista), era tuttavia ancora titubante. A spingerlo a rompere ogni indugio fu il cosiddetto «pronunciamento dei consoli». I capi della Milizia fascista e i vari ras locali andarono da lui minacciando l'insurrezione delle province nel caso avesse rinunciato al mandato. O con lui o senza di lui, il fascismo avrebbe comunque conservato il potere, gli dissero. Stava a lui decidere se voleva continuare a essere il loro Duce. Da parte sua, Roberto Farinacci aveva cominciato a riscaldare i muscoli ai bordi del campo in attesa del «cambio della guardia».
Mussolini cercò di tergiversare e di ammansire i consoli, ma alla fine fu costretto a scegliere e scelse la linea dura. Il 3 gennaio 1925, così come aveva promesso ai convenuti, pronunciò, con la grinta dei giorni migliori, un discorso minaccioso e tutt'altro che parlamentare, ma «chiarissimo» come lui stesso annunciò appena iniziato a parlare «e tale da determinare una chiarificazione assoluta». Poi, dopo avere respinto tutte le accuse e tutti gli addebiti che gli erano stati mossi in quegli ultimi mesi, concluse la sua invettiva con queste parole: «Dichiaro al cospetto di tutto il popolo italiano che io assumo, io solo, la responsabilità politica, morale, storica di tutto quanto è avvenuto. Se le frasi più o meno storpiate servono per impiccare un uomo, fuori il palo e fuori la corda! Se il fascismo non è stato che olio di ricino e manganello e non invece passione superba della migliore gioventù italiana, a me la colpa! Se il fascismo è stato un'associazione a delinquere, io sono il capo di questa associazione a delinquere!».
Da quel momento l'Italia cambiava rotta, finiva la democrazia e iniziava la dittatura, mentre nel paese si registrava la cosiddetta «seconda ondata», ossia il ritorno all'olio di ricino e al manganello da parte delle squadre d'azione la cui violenza veniva quotidianamente alimentata da Roberto Farinacci, che Mussolini aveva giocoforza dovuto chiamare alla segreteria del partito.
Il caso Matteotti scomparve rapidamente dalle prime pagine e anche dalla cronaca. Sì, anche dalla cronaca nera, e ancora oggi appare inconcepibile come mai nessun cronista e nessun investigatore sia stato incuriosito da un particolare che, a nostro parere, fa ancora traballare l'intera impalcatura del «giallo» della Quartarella. Ci riferiamo all'arma usata dagli assassini. Possibile che il capo del governo (o il re o i gruppi finanziari o la multinazionale americana o chi altri fossero i mandanti) proponendosi di fare ammazzare il capo dell'opposizione, non disponesse di killer meno rozzi e dotati di armi più efficaci di una lima arrugginita? Ma tant'è: forse faceva comodo a tutti sorvolare su questo sconcertante particolare.
Dopo di allora la vulgata antifascista si limitò a indicare in Mussolini il mandante del delitto basandosi soprattutto sugli autorevoli articoli di Carlo Silvestri che era diventato nel frattempo il segretario del Comitato delle opposizioni aventiniane presieduto da Alcide De Gasperi. La sorgente dittatura, sopprimendo la libertà di stampa, impedì di proseguire l'inchiesta e di rispondere agli interrogativi ancora in sospeso che tuttavia continuarono a tormentare molte coscienze. Se Mussolini intendeva aprire ai socialisti, perché, ci si chiedeva, avrebbe fatto uccidere il loro leader? E se invece si proponeva il contrario, quale vantaggio gliene sarebbe derivato? A queste domande non ha saputo rispondere neanche Renzo De Felice, lo storico che più di ogni altro ha scavato nella complessa biografia mussoliniana. Egli si è infatti limitato a convenire che l'uccisione di Matteotti non giovava comunque a Mussolini «sia che egli volesse aprire a sinistra, sia che pensasse a svolte radicali. Nell'un caso o nell'altro non avrebbe ottenuto alcun vantaggio».
Ora però sappiamo che prima dell'uccisione di Matteotti, Mussolini pensava effettivamente di costituire un governo aperto a sinistra. Aveva addirittura compilato una rosa con i nominativi dei possibili candidati mettendo fra parentesi accanto ai nomi il dicastero che avrebbero potuto dirigere: Giovanni Amendola, liberale (Educazione nazionale); Bruno Buozzi, segretario socialista della FIOM (ministero tecnico); Ludovico D'Aragona, leader socialista della CGL (al Lavoro). Si leggono ancora i nomi di Gino Baldesi, sindacalista socialista (un altro probabile candidato al Lavoro); Giulio Canalini, medico socialista (alla Sanità). Quanto alle Finanze e al Tesoro, veniva indicato Ivanoe Bonomi se i due ministeri fossero stati unificati, altrimenti il Tesoro a Bonomi e le Finanze a Emilio Caldara, ex sindaco socialista di Milano; mentre a Rinaldo Rigola, un sindacalista riformista, cieco e popolarissimo, sarebbe spettato un ministero senza portafoglio. Numerosi socialisti figuravano anche fra i candidati sottosegretari. Argentina Altobelli, popolare organizzatrice delle mondine (all'Agricoltura); Ettore Reina (all'Educazione nazionale); Felice Quaglino, segretario del sindacato edili (Lavoro italiano all'estero); Ludovico Calda, capo dei portuali genovesi (alle Organizzazioni portuali), mentre il nome di Giuseppe Canepa, direttore socialista del «Lavoro» di Genova e amico personale di Mussolini, era seguito da un punto interrogativo.
A questo punto, leggendo con occhi innocentisti gli avvenimenti di quei giorni si dovrebbe quindi presumere che Mussolini diventò dittatore «per forza», e forse è vero. Di questo parere erano in molti anche allora e persino lo stesso Italo Balbo, allora capo della Milizia fascista. Questi infatti, durante un incontro-scontro con Carlo Silvestri, allora principale sostenitore della tesi colpevolista, dopo avergli confermato che Mussolini intendeva effettivamente chiamare al governo molti socialisti, soggiunse con tono confidenziale: «Ora ti sbalordirò, ma Mussolini era molto timoroso nell'imboccare la strada dell'autoritarismo che lo avrebbe portato inevitabilmente alla dittatura. Ora però, in conseguenza del delitto Matteotti, sarà costretto a fare il dittatore senza averne la stoffa. E saranno guai. Un dittatore non deve avere scrupoli di nessun genere e soprattutto non deve avere paura del sangue. Se Mussolini avesse avuto la tempra del dittatore - e tanto più se si fosse sentito colpevole - non avrebbe esitato cinque minuti a mettere al muro la squadra di Dumini, nonché Marinelli e Filippelli come io gli avevo suggerito. Tu, Silvestri, dal suo rifiuto ad accogliere la mia proposta di un giudizio sommario, certamente ne ricaverai degli elementi di accusa contro Mussolini, io vi vedo invece la prova della sua innocenza».
Fra gli innocentisti figurava incredibilmente anche la vedova di Matteotti, Velia Ruffo, sorella del famoso baritono Titta Ruffo. Il fatto è poco noto perché è sempre stato tenuto nascosto per ovvie ragioni politiche. È infatti ampiamente documentato che la vedova non sospettò di Mussolini neppure nelle ore immediatamente successive all'uccisione del consorte. Anzi, appena tre giorni dopo la scomparsa del marito, il 13 giugno 1924, la signora Matteotti si presentò alla Camera per chiedere di essere accompagnata da Mussolini. «Ci vollero i savi e i matti» scriverà Turati ad Anna Kuliscioff «per persuaderla a rincasare. Ora però è convinta che la si osteggi per nostri particolari interessi». Ma Velia Ruffo aveva solo fatto finta di arrendersi alle preghiere di Turati: quello stesso giorno, infatti, riuscì effettivamente a farsi ricevere da Mussolini ed ebbe con lui un lungo colloquio privato nel corso del quale trovò evidentemente la conferma della sua intuizione. Più tardi, venuto a conoscenza di quell'incontro imbarazzante, Turati andò a trovarla e «la rimproverò dolcemente», ma la vedova gli rispose che «non aveva ritenuto di tradire il suo morto». A un rimprovero meno dolce di Claudio Treves, Velia rispose risentita: «Lei creda tutto quello che vuole, ma la mia opinione è opposta alla sua e non riuscirà mai a convincermi!». Alcuni anni dopo, quando Velia Ruffo morì lasciando in ristrettezze i figli Giancarlo, Matteo e Isabella, Mussolini intervenne personalmente per fornire ai ragazzi aiuti economici e i mezzi necessari per terminare gli studi.
Intanto Mussolini, dopo avere riconquistato il suo ruolo di «Duce», aveva subito provveduto a gettare le basi della dittatura formulando i relativi decreti che Vittorio Emanuele III, ben lieto della soluzione della crisi, si era affrettato a firmare. Ma il paese non era ancora tranquillo. Ora, messa a tacere ogni forma di opposizione, Mussolini doveva fare i conti con Roberto Farinacci, il suo unico, eterno rivale che non sembrava affatto rassegnato all'idea di mettere il manganello in soffitta e di indossare il doppiopetto borghese come avevano fatto gli altri gerarchi. Agli ordini del nuovo segretario del partito, gli squadristi della «seconda ondata» si erano di nuovo scatenati in ogni direzione commettendo soprusi e violenze. Dalle informative riservate della polizia risultava anche evidente il disegno di Farinacci di sostituire l'imborghesito Mussolini e di prendere il suo posto quale capo del movimento squadristico.
I servizi di informazione segnalavano che i ribaldi in camicia nera cantavano canzoni i cui versi venivano diligentemente sottolineati: «Ma che ordine / che disciplina / carneficina / carneficina». E altri ancor più preoccupanti: «Vogliamo la repubblica / sia pur fatta di stracci / purché sia governata / da Roberto Farinacci». A Mussolini furono anche segnalate scritte che apparivano sui muri e che suonavano così: «Per Farinacci solo e vero Duce del Fascismo: Eja, eja, alalà». E ancora: «Viva Farinacci colui che ha salvato il Fascismo dopo la crisi Matteotti».
Indispettito e sdegnato, Mussolini chiese telegraficamente delle spiegazioni, ma Farinacci gli rispose ribaldo:
Caro Presidente, di quei manifesti ho la stessa responsabilità che hai tu quando gridano: «Viva Mussolini re».
Farinacci giocava imprudentemente col fuoco, ma era destinato a bruciarsi. Mussolini era ormai saldo al potere e il ras di Cremona non gli faceva più paura. La rottura definitiva fra i due si verificò nel dicembre del 1925. Lo testimonia un lungo telegramma che Mussolini, per conferirgli maggiore ufficialità, inviò al prefetto di Cremona con l'ordine di riferirlo all'interessato. Ecco il testo:
Voglia comunicare all'on. Farinacci quanto segue: Ho dato tassativo ordine di emanare entro oggi decreto di scioglimento delle squadre, fra le quali sono molti di dubbia fama come recenti cronache criminali documentano ampiamente. I miei ordini non si votano, si accettano senza riserve. Poiché quando è in gioco il prestigio del governo sono indiscutibili. Mio ordine è preciso: tutte le formazioni squadristiche, a cominciare dai Corsari neri del troppo loquace Castelli, saranno sciolte a qualunque costo, dico qualunque costo. È gran tempo di fare separazione necessaria: i fascisti con i fascisti, i delinquenti con i delinquenti, i profittatori con i profittatori.
Dopo l'intemerata mussoliniana, Roberto Farinacci (che nella doppia veste di segretario del partito e di avvocato difensore aveva ottenuto dal tribunale di Chieti una sentenza vergognosa per gli assassini di Matteotti) sarà sostituito nella segreteria da Augusto Turati e dopo di allora non ricoprirà più un incarico politico.
Nel frattempo Carlo Silvestri, il giornalista che Mussolini indicava come il suo più spietato accusatore, dopo avere subito diverse aggressioni da parte degli squadristi della seconda ondata era stato arrestato e confinato nelle isole, dove rimarrà per una decina d'anni. Fu appunto peregrinando fra Ponza, Lipari e Ustica, riflettendo sui fatti accaduti e ascoltando testimoni e protagonisti della vicenda che il giornalista cominciò a vedere sotto una luce diversa la dinamica del delitto Matteotti e non tardò a rivelare anche ai suoi compagni le sue perplessità e i dubbi di coscienza che avevano cominciato a tormentarlo. Naturalmente fu redarguito e invitato a frenare la sua libido veritatis politicamente controproducente. «Proprio tu, il principale accusatore di Mussolini,» lo rimbrottò un giorno Carlo Rosselli, suo compagno di confino «hai il dovere di non manifestare perplessità. Se tacerai non violerai nessuna legge morale, mentre se parlerai incrinerai di dubbiosità l'accusa esplicita contro Mussolini. Lui non ha avuto per noi scrupoli morali, noi non dobbiamo averne per lui.»
Silvestri mantenne il segreto sui propri dubbi, e il fatto che non li abbia esternati durante il Ventennio va a suo onore perché il regime lo avrebbe certamente ricompensato. Ma dopo l'8 settembre 1943, quando fu fondata a Salò la Repubblica sociale, per una serie di curiose circostanze, l'onesto giornalista ebbe modo di riscontrare i suoi dubbi intervistando lo stesso Mussolini nella sua residenza di Gargnano sul Garda.
Ecco come si giunse a quell'incontro. Mentre nel paese imperversava la guerra civile, Mussolini, che sia per i tedeschi di Albert Kesselring e sia per i fascisti di Pavolini altro non rappresentava ormai che un simbolo significativo quanto inoperoso, trascorreva il suo tempo nella malinconica quiete lacustre di Villa Feltrinelli scrivendo articoli o rivangando il suo passato con i pochi intimi che erano stati autorizzati a frequentarlo. Si trattava di alcuni vecchi socialisti romagnoli, che erano approdati sulle rive del Garda come relitti spinti verso la riva da un mare in burrasca, attratti inspiegabilmente nel «cerchio magico» che lo sconfitto Mussolini ancora continuava a sprigionare. Fra costoro primeggiava Nicola Bombacci che, dopo una sconcertante parabola politica (vecchio amico, come è noto, di Mussolini ma anche di Lenin, e fondatore del PCI, da cui era stato poi espulso da Gramsci e da Togliatti) aveva raggiunto a Salò l'antico compagno covando l'ingenua illusione di riconquistarlo al socialismo e di spingerlo a realizzare i loro sogni giovanili. E di sogni effettivamente si trattava se consideriamo la situazione del momento, con l'Italia intera trasformata in campo di battaglia, ma tant'è. Anche quando la storia ci conduce sull'orlo del precipizio, la speranza è sempre l'ultima a morire. E l'ultima speranza di Mussolini era questa: stabilire un rapporto col Partito socialista clandestino onde permettere la costruzione di un «ponte» che avrebbe consentito il passaggio indolore dalla Repubblica sociale a una Repubblica socialista e democratica. Per favorire la realizzazione di questo utopistico progetto, aveva persino autorizzato la costituzione di un «raggruppamento socialista» il quale, all'insaputa dei tedeschi e degli stessi fascisti, manteneva rapporti con alcuni esponenti della Resistenza (come il comandante delle «brigate Matteotti» Corrado Bonfantini) desiderosi di evitare il prevedibile bagno di sangue che si sarebbe verificato al termine del conflitto. Di queste trattative, che non giunsero mai a conclusione sia per l'opposizione dei comunisti sia per le comprensibili difficoltà del momento, si è parlato poco, ma ci furono. Tanto è vero che
Mussolini, consapevole che sul suo disperato tentativo di riavvicinarsi ai socialisti gravava come un macigno il cadavere di Matteotti, autorizzò Bombacci e il suo segretario particolare Luigi Gatti (entrambi finiranno appesi per i piedi in piazzale Loreto), a riaprire le indagini su quel lontano delitto onde dimostrare la sua completa estraneità.
Fu per questa ragione che tornò improvvisamente sulla scena Carlo Silvestri. Egli aveva dato vita a Milano alla sua «Croce Rossa» la quale, godendo della protezione di alcuni gerarchi «morbidi» quali il ministro della Giustizia Piero Pisenti e quello dell'Educazione nazionale Carlo Alberto Biggini, si adoperava per quanto possibile in favore dei partigiani detenuti. Venuto a conoscenza della sua presenza a Milano, Mussolini lo mandò a chiamare tramite Bombacci e lo ricevette a Gargnano il 2 dicembre 1943 dicendosi disposto a farsi intervistare. Fu quello il primo dei loro numerosi incontri che si svolsero alla presenza di Bombacci e di Gatti.
«Voi avete avuto il torto» disse Mussolini al suo interlocutore «di non venire da me quando mandai a chiamarvi all'epoca dei fatti. Ma diciannove anni non contano per ristabilire la verità. Io non ho difficoltà a rispondere ora alle vostre domande. Anzi,» aggiunse con un mezzo sorriso «vi considero il mio giudice istruttore. Bombacci e Gatti sono stati da me incaricati di accertare le fondamentali responsabilità del delitto Matteotti. Il loro lavoro è già a buon punto.» Così dicendo indicò un voluminoso fascicolo legato con un nastrino tricolore. «Qui» disse «c'è la conferma di quanto affermai nel mio discorso al Senato nell'estate del 1924: il delitto è stato compiuto non da me, ma contro di me.»
Da quel giorno, fino all'aprile del 1945, Carlo Silvestri ebbe svariati colloqui con Mussolini che trascrisse integralmente sui suoi taccuini (era un veloce stenografo). Naturalmente, non possiamo garantire la veridicità del racconto fatto da Mussolini al suo «giudice istruttore». È infatti chiaro che egli, in quel momento, pronunciava la propria difesa se non davanti al tribunale degli uomini, certamente a quello della storia. E tuttavia la sua tesi, oltre che verosimile, ci pare confermata anche dalle recenti revisioni storiche. Ecco, per esempio, la principale dichiarazione di Mussolini da lui dettata a Silvestri come si trattasse di un verbale:
Alle origini dell'assassinio di Matteotti vi fu un putrido ambiente di finanza equivoca, di capitalismo corrotto e corruttore e di torbido affarismo privo di ogni scrupolo. S'era sparsa la voce che nel suo prossimo discorso alla Camera (sull'esercizio finanziario) Matteotti avrebbe prodotto documenti tali da portare alla rovina certi uomini che erano pervenuti a infiltrarsi profondamente fra le gerarchie fasciste. L'idea di catturare Matteotti per metterlo nell'alternativa o di restituire gli accennati documenti o di perdere la vita sorse in questo sporco ambiente dove, ogni volta che riprendeva a circolare la voce di una possibile collaborazione fra me e i socialisti, si manifestava immediata una reazione che chiamerei feroce. Il mio discorso del 7 giugno 1924 fece temere che io mi fossi definitivamente orientato nel senso di offrire ad alcuni socialisti la partecipazione al ministero. Da ciò forse il precipitare dei tempi; da ciò la cattura di Matteotti, già da parecchi giorni predisposta e poi avvenuta nel pomeriggio del 10 giugno.
Successivamente, Carlo Silvestri ebbe un interessante colloquio anche con Nicola Bombacci, reduce da un lungo soggiorno a Genova dove era convinto si celasse la chiave del giallo. Bombacci disse, fra l'altro, a Silvestri: «Purtroppo gli imputati non ci sono più. Dopo essere stati manutengoli dei fascisti e dei tedeschi, ora saranno al servizio degli inglesi o, meglio ancora, degli americani. Comunque ci sono i nomi, ma fino a quando Mussolini non mi autorizza, io non te li posso dare».
Quei nomi erano contenuti nel fascicolo legato col nastrino tricolore che faceva parte del bagaglio di Mussolini quando, il 25 aprile 1945, iniziò la fuga che si sarebbe tragicamente conclusa a Dongo. Oggi quel fascicolo è scomparso, come sono scomparsi altri carteggi che Mussolini portava con sé. Il caso Matteotti era evidentemente destinato a rimanere irrisolto.