VI. QUATTRO ATTENTATI.

Forse non sarà stata la Provvidenza, ma certo non si può negare che la fortuna abbia accompagnato Mussolini per un buon tratto della sua vita.

Pochi dittatori come lui sono stati bersaglio di tanti mortali attentati e pochi come lui sono riusciti a cavarsela miracolosamente con appena qualche graffio anche quando sarebbe stato sufficiente spostare la mira di pochi centimetri per ucciderlo. Un suo cantore potrebbe affermare che, come gli eroi omerici, dai quali gli dei allontanavano i dardi, egli dovette la salvezza più alla dea bendata che agli apparati di polizia incaricati di proteggerlo. E non solo: ogni fallito attentato compiuto contro di lui, oltre ad accrescere nella fantasia popolare il mito della sua invulnerabilità, gli servì anche per soffocare con nuovi giri di vite gli ultimi aneliti di libertà senza che l'opinione pubblica vi trovasse motivo di scandalo.

Del primo attentato di cui Mussolini fu vittima non vale neppure tenere conto in quanto, per la verità, sembra quasi una barzelletta. Fu nel '22, alla vigilia della sua conquista del potere, quando un ignoto infilò una pannocchia di granturco nel tubo di scappamento dell'aereo col quale l'aspirante pilota si accingeva a decollare. Il velivolo capottò mentre stava per prendere il volo e il pilota, sbalzato dalla carlinga, rotolò nel verde prato di Taliedo, vicino a Milano, cavandosela con poche ammaccature. Ma gli altri attentati, ossia i quattro di cui fu vittima nell'arco di pochi mesi, fra il 1925 e il 1926, quando la sua dittatura muoveva i primi passi e la seconda ondata squadristica registrava un nuovo rigurgito di violenza, non furono affatto scherzi di buontemponi.

Dopo la morte di Matteotti e il minaccioso discorso da lui pronunciato il 3 gennaio 1925, negli ambienti aventiniani l'idea di togliere di mezzo Mussolini per salvare la democrazia era aleggiata più volte nei vari conversari, ma si era sempre trattato dell'innocuo velleitarismo di personaggi tranquilli i quali, sprofondati nelle comode poltrone dell'«Aventino» (che non era lo storico colle romano, ma una sala appartata dello stesso palazzo di Montecitorio), aborrivano l'uso della violenza e manifestavano molti scrupoli perbenisti circa la liceità del delitto politico.

L'unico effettivamente deciso ad agire era Tito Zaniboni, un ex deputato socialista che aveva valorosamente combattuto nella grande guerra come maggiore degli alpini e che ora smaniava per passare all'azione diretta.

Zaniboni era una personalità complessa e contraddittoria. Socialista riformista e insieme massone, bell'uomo estroverso, coraggioso, simpatico e galante, ma di una sconcertante ingenuità, era stato di volta in volta rivoluzionario, interventista, dannunziano, antibolscevico e per un certo periodo persino fascista e collaboratore del «Popolo d'Italia». Non insensibile al fascino femminile, aveva diverse amanti e a Roma manteneva una relazione sentimentale anche con una contessa che era contemporaneamente amante di Mussolini oltre che preziosa informatrice della polizia. Col fascismo, Zaniboni aveva rotto definitivamente dopo l'uccisione di Matteotti ed era stato lui a guidare la campagna per il ritrovamento del leader socialista rendendosi protagonista anche di episodi clamorosi. Una notte, per esempio, impegnato nella vana ricerca del cadavere di Matteotti, aveva riesumato e scoperchiato tredici bare nel cimitero del Verano.

Deciso dunque all'azione diretta, Tito Zaniboni, dopo avere messo a punto un improbabile «piano» militare che a suo dire sarebbe scattato dopo l'uccisione del Duce, aveva bussato a molte porte per chiedere collaborazione o, quanto meno, aiuti economici per l'attuazione del suo proponimento, ma da tutti aveva ricevuto soltanto garbati rifiuti. Anche la massoneria di Palazzo Giustiniani (alla quale si era rivolto tramite il generale Luigi Capello, il famoso comandante della II Armata coinvolto nel disastro di Caporetto, che ne era uno dei massimi esponenti), dopo averlo in un primo tempo incoraggiato, si era in seguito tirata prudentemente indietro allarmata dalla rischiosità del progetto. Da parte sua, il generale Capello gli aveva consegnato una somma di denaro preoccupandosi però di precisare che si trattava soltanto di una sua offerta a titolo personale che non doveva coinvolgere la famiglia massonica. Alla fine, stanco, sfiduciato, ma pur sempre determinato a portare a termine l'impresa, Tito Zaniboni aveva deciso di agire da solo.

Anche se è assai improbabile che i maneggi del volenteroso attentatore non fossero già noti alla polizia, considerato i tanti con cui si era confidato, ivi compresa la misteriosa contessa romana, Zaniboni aveva addirittura al suo fianco anche un confidente della polizia che non lo abbandonava un istante e sulla fedeltà del quale l'ingenuo ex maggiore degli alpini era pronto a giurare. Si trattava del suo segretario personale, un ex studente ventiduenne di nome Carlo Quaglia, che lavorava come collaboratore esterno nella redazione del «Popolo», il quotidiano del Partito popolare, e che la polizia utilizzava per raccogliere informazioni negli ambienti politici dell'antifascismo. Con l'attiva collaborazione del Quaglia, Zaniboni diede quindi inizio ai preparativi per l'attentato che avrebbe dovuto essere portato a compimento la mattina del 4 novembre 1925. Quel giorno, ricorrendo il settimo anniversario della Vittoria, il programma delle celebrazioni prevedeva una parata militare davanti a Palazzo Chigi, dal balcone del quale si sarebbe affacciato Mussolini per pronunciare il discorso commemorativo.

Prima del giorno fissato, dopo le opportune ricognizioni, l'aspirante attentatore aveva prenotato in anticipo una camera nell'albergo Dragoni, che allora sorgeva proprio di fronte alla presidenza del Consiglio. Si trattava della stanza n. 90, al quinto piano, che si affacciava su largo Chigi e distava in linea d'aria meno di cento metri dal bersaglio. La mattina del 4 novembre tutto era pronto. Zaniboni aveva già collocato nella camera un fucile di precisione austriaco (di quelli a cannocchiale usati dai «cecchini») e aveva anche provveduto ad aprire in una imposta una sorta di feritoia per piazzare l'arma e sparare al momento opportuno. Giunto il 4 novembre, si presentò nell'albergo alle sei del mattino e raggiunse la sua camera. Indossava l'uniforme di maggiore degli alpini col petto colmo di decorazioni, probabilmente per essere confuso con gli altri militari che fra poco avrebbero riempito la piazza. Poco dopo le sette, egli fu raggiunto dall'infedele segretario con l'aiuto del quale procedette agli ultimi preparativi per sistemare l'arma in posizione di sparo. Alle nove, quando nella piazza sottostante le truppe si stavano schierando (Mussolini doveva parlare alle dieci), qualcuno bussò alla porta della camera n. 90. Era la polizia, che aveva atteso pazientemente il momento opportuno per cogliere l'attentatore sul fatto. L'arresto fu eseguito con la massima discrezione, nessuno se ne accorse e Mussolini poté tranquillamente pronunciare il suo discorso di saluto accolto dagli applausi scroscianti della folla.

L'Italia venne informata dell'accaduto soltanto il mattino del giorno seguente, allorché apparve su tutti i quotidiani, annunciato con titoli cubitali, il seguente comunicato del ministero dell'Interno:

 

La Polizia aveva da più tempo avuto notizie riservatissime che si stava preparando un attentato contro la persona di S, E. il presidente del Consiglio. In questi ultimi giorni, aveva avuto conferma che l'attentato si sarebbe dovuto effettuare durante una delle cerimonie del giorno 4 novembre per la celebrazione della Vittoria. Difatti, ieri, alle ore 9, fatta irruzione in una delle camere dell'albergo Dragoni, venne sorpreso e arrestato l'ex deputato di opposizione Zaniboni nel momento in cui aveva già apprestati tutti i mezzi idonei per portare a compimento l'atto criminoso. In seguito a ulteriori accertamenti è stato contemporaneamente fermato a Torino il generale Luigi Capello mentre era in procinto di recarci all'estero. In seguito alle risultanze dei primi accertamenti sono state date disposizioni ai prefetti del Regno per l'immediata occupazione di tutte le logge massoniche dipendenti da Palazzo Giustiniani.

 

Processati nel 1927, Zaniboni (che confermò orgogliosamente tutti gli addebiti) e Capello (che li negò con ostinazione) furono condannati a trent'anni. Il primo finirà di scontare la sua pena, al confino di Ponza, il 25 luglio 1943, l'altro sarà amnistiato dopo dieci anni di detenzione, per la sua tarda età.

Nel frattempo, mentre la stampa fascista chiedeva a gran voce l'introduzione della pena capitale (fra gli altri, il gerarca Arconovaldo Bonaccorsi telegrafò da Bologna: «Offrami, Duce, come boia per decapitare gli arrestati!»), Mussolini, che per il momento non intendeva ancora spingersi troppo avanti, si limitò a ordinare lo scioglimento del Partito socialista unitario e la sospensione del suo quotidiano «La Giustizia». Nei giorni seguenti, la stampa d'opposizione fu tuttavia sottoposta a un nuovo giro di vite con sospensioni e sequestri, mentre la polizia compiva irruzioni e perquisizioni in tutte le sedi «sovversive» del paese.

Il fallimento dell'attentato ebbe dunque un risultato positivo per il regime. Si registrò infatti un plebiscito popolare di solidarietà nei confronti di Mussolini, al quale giunsero anche le calorose congratulazioni per lo scampato pericolo dall'intera famiglia reale, con in testa il sovrano che sino ad allora aveva mantenuto verso il fascismo un prudente distacco. Anche negli ambienti dell'opposizione aventiniana la scoperta dei «complotto Zaniboni» suscitò uno stato di confuso sconcerto che in molti casi assunse un carattere di simpatia verso Mussolini, mentre la grande stampa liberale, che sino ad allora aveva sostenuto l'«Aventino», passò in pochi mesi a sostenere opportunisticamente il nascente regime. I giri di vite successivi decisi dal governo furono infatti accolti con favore o giudicati inevitabili «per il bene della patria» ed ebbero il pieno consenso dell'opinione pubblica desiderosa di ritornare alla normalità dopo il riacutizzarsi delle violenze di quegli ultimi mesi. Secondo la polizia, nel solo 1925 erano stati registrati 35 morti e 355 feriti tra i fascisti e 27 morti e 388 feriti tra gli oppositori.

Erano ancora nell'aria gli echi del «complotto aventiniano» quando il 7 aprile 1926 Mussolini rischiò ancora una volta di perdere la vita.

Alle 10.45 di quella mattina, dopo avere aperto il Congresso internazionale di chirurgia nel Palazzo dei Conservatori in Campidoglio, stava scendendo lungo la scalinata, quando un'anziana signora, tutta vestita di nero, da pochi metri di distanza fece fuoco con una pistola mirando alla sua testa. Per fortuna, proprio in quel preciso momento, Mussolini alzò il braccio nel saluto romano per rispondere alla folla acclamante che lo circondava e fu quel gesto a salvarlo. Nel saluto, che egli faceva sempre vigorosamente, gli venne naturale tirare indietro il capo cosicché la pallottola diretta alla testa, lo colpì al setto nasale forandogli le pinne. Nella confusione che ne seguì, mentre il questore Perilli, ex guardia del corpo del predecessore di Mussolini, Luigi Facta, e responsabile della sicurezza del nuovo capo del governo, sorreggeva il ferito grondante di sangue, una certa Nicoletta Fortezza di Ruvo di Puglia aveva già afferrato per i capelli l'attentatrice che ora stava rischiando il linciaggio. Si trattava dell'irlandese Violet Albina Gibson, di sessantadue anni, una Lady dell'alta società, figlia di Lord Edward Ashbourne, ex cancelliere del governo di Sua Maestà britannica.

L'identità dell'attentatrice sollevò rumore e sconcerto. Molti giornali non esitarono a denunciare l'esistenza di un complotto internazionale, ma ben presto tutto fu chiarito. L'ambasciata britannica documentò che Violet Gibson era una zitella protestante e squilibrata, reduce da vari ricoveri in cliniche psichiatriche, la quale aveva scelto di sparare a Mussolini dopo avere in un primo tempo divisato di colpire il papa. L'incidente fu rapidamente messo a tacere e Violet, dopo essere stata assolta in istruttoria per infermità mentale, fu lasciata libera di rientrare in patria.

Questo attentato ebbe tuttavia un seguito sorprendente che segnerà un solco profondo nella vita sentimentale di Mussolini. Fra le migliaia di lettere di solidarietà e di congratulazioni per lo scampato pericolo da lui ricevute in quei giorni, ima fra tutte colpì la sua fantasia e per questo volle conservarla nel suo archivio personale (chi scrive l'ha ritrovata per caso all'Archivio di Stato). Ecco il testo:

 

Duce.

Per la seconda volta hanno attentato vigliaccamente alla Tua persona. Una donna! Quale ignominia, quale viltà, quale obbrobrio! Ma è una straniera e tanto basta! Duce amato, perché hanno tentato un'altra volta di toglierti al nostro forte e sicuro amore? Duce, mio grandissimo Duce, nostra vita, nostra speranza, nostra gloria, come vi può essere un'anima così empia che attenti ai fulgidi destini della nostra bella Italia? O, Duce, perché non vi ero? Perché non ho potuto strangolare quella donna assassina che ha ferito Te, divino essere? Perché non ho potuto toglierla per sempre dalla terra italiana che è stata macchiata dal Tuo puro sangue, dal Tuo grande, buono, sincero sangue romagnolo? Duce, io voglio ripeterti come l'altra tristissima volta [evidentemente gli aveva già scritto], che ardentemente desidererei di posare la testa sul Tuo petto per potere udire ancora vivi i battiti del Tuo cuore grande [questa frase è sottolineata da Mussolini con la matita rossa]. Queste dolorose e memorabili date rimarranno impresse nel mio cuore: 4 novembre 1925, 7 aprile 1926. O, Duce, Tu che sei l'uomo del nostro avvenire, che sei l'uomo amato sempre con crescente fervore e passione dal popolo italiano e da chi non desidera la sua decadenza non devi mancarci mai. Quando ho appreso la triste notizia, ho creduto di morire perché Ti amo profondamente come una piccola Fascista della prima ora. Duce, quanto avrà sofferto il tuo cuore buono e sensibile nell'accorgersi che una mano straniera ha tentato di spezzare la Tua Santa opera rigeneratrice e potente. Amatissimo Duce, fedeltà immortale Ti hanno giurato di nuovo tutte le tue Camicie Nere, e io, piccola, ma ardita fascista, col mio motto preferito comprendo tutto l'amore che il mio cuore giovanile sente per te: «Duce, la mia vita è per Te! Il Duce è salvo! W il Duce!».

Clara Petacci (di anni 14) Lungo Tevere Cenci 10.

 

Dopo avere letto questa lettera, Mussolini vi vergò sopra con la solita matita rossa: «Chi è?». Segue un appunto con la risposta del suo segretario particolare Alessandro Chiavolini: «È la figlia dell'archiatra pontificio Francesco Petacci».

«Risponderle» annota Mussolini e Chiavolini allega la minuta della risposta:

 

Gentile signorina,

l'espressione della sua giovanile e fervida devozione, ricca di tanta ingenua confidenza, è giunta gradita a S. E. il capo del governo. Egli, sensibile alla gentilezza della piccola fascista, mi ha incaricato di rendermi interprete dei suoi sentiti ringraziamenti.

 

Tutti coloro che si sono occupati della vicenda sentimentale di Mussolini e Garetta fanno risalire il loro primo contatto a un casuale incontro a Ostia nel settembre del 1932. Questa lettera e le molte altre successive che Garetta continuò a inviargli dimostrano che il loro rapporto, se non altro epistolare, risale a molti anni più addietro. Probabilmente, Mussolini lo coltivò pazientemente nell'attesa che la sua appassionata ammiratrice avesse l'età giusta per… conoscerla.

Neanche il terzo attentatore che pochi mesi dopo tornò alla carica contro Mussolini fu più preciso di miss Violet. Si chiamava Gino Lucetti, ventisei anni, di Avenza di Carrara, terra di cavatori e di anarchici libertari. Di buona famiglia e figlio di una madre eccezionalmente prolifica (aveva dato alla luce quindici figli, spesso due per volta), Lucetti era un ex ardito, volontario di guerra, ma di fede anarchica. Per anni aveva poi fatto la spola fra Marina di Carrara e Marsiglia a bordo dei velieri che trasportavano il marmo. Antifascista convinto, si era scontrato più volte con gli squadristi di Renato Ricci (quello che donò il monolito di marmo che ancora troneggia a Roma nell'ex Foro Mussolini) i quali lo avevano anche ferito al collo con un colpo di pistola. Quando l'aria si era fatta per lui irrespirabile, l'ex ardito si era rifugiato a Marsiglia e aveva cominciato a frequentare i circoli dei fuoriusciti anarchici per i quali l'argomento di conversazione preferito era come riuscire a mettere una carica di esplosivo sotto la sedia di Mussolini. Di questo attentato si ignorano i preparativi iniziali, sappiamo soltanto che, ai primi di settembre del 1926, Lucetti giunse a Roma sotto il falso nome di Valdemaro Germini e per qualche giorno studiò pazientemente le mosse del suo «bersaglio». Finalmente, alle nove del mattino dell'11 settembre egli entrò in azione. Dopo avere seghettato la punta dei proiettili della sua pistola per fame delle pallottole «dum-dum», secondo la tecnica già adottata dal suo conterraneo Gaetano Bresci per uccidere Umberto I, e dopo avere intascato due micidiali bombe a mano SIPE, di quelle a forma di pigna che esplodono a tempo, e non a contatto, l'attentatore andò ad appostarsi nel piazzale di Porta Pia da dove, ogni mattina, seguita dalla vettura con la scorta, transitava l'automobile che portava Mussolini dalla sua abitazione di Villa Torlonia a Palazzo Chigi.

Per circa mezz'ora, Lucetti attese nascosto dietro un chiosco di giornali. Quando la macchina giunse a tiro, convinto che il finestrino fosse aperto (era una giornata molto afosa), lanciò la bomba in quella direzione, ma il cristallo era alzato e, dopo l'urto, l'ordigno rimbalzò e rotolò sul cofano per poi finire sul selciato, mentre l'autista Ercole Boratto con una pronta sterzata sgommava via portando in salvo se stesso e il passeggero. Se si fosse trattato di una bomba «a urto» invece che «a tempo» essa sarebbe esplosa al primo contatto e per Mussolini sarebbe stata la morte certa perché era di eccezionale potenza, invece lo scoppio si verificò dopo i quattro secondi programmati che furono sufficienti per salvargli la vita. Sul terreno rimasero otto passanti feriti dalla gragnola di schegge. Rincuorato per lo scampato pericolo, Mussolini ebbe in seguito anche l'opportunità di gigioneggiare. «Io mi intendo di bombe» disse, ricordando che proprio da una bomba a mano era stato ferito durante la guerra. «Se la SIPE mi fosse caduta fra i piedi, l'avrei tranquillamente raccolta e rilanciata contro l'attentatore.»

Gino Lucetti fu catturato dagli agenti dopo aver cercato di nascondersi nel portone di via Nomentana n. 13 e fu condotto in questura dove venne accuratamente perquisito e denudato. In un tatuaggio che portava sul petto si leggeva «Vive Ut mori». Sottoposto a stringenti interrogatori, come era uso degli anarchici individualisti dichiarò di avere agito da solo obbedendo al proprio impulso personale: non ci fu modo di costringerlo a denunciare gli eventuali complici. Anche al processo si comportò con molta dignità: si riconobbe colpevole e disse di avere compiuto il suo gesto per vendicare le vittime delle violenze fasciste. Venne condannato a trent'anni che scontò in gran parte nel penitenziario di Santo Stefano. Per una tragica coincidenza morì il 9 settembre 1943, mentre attendeva il traghetto per Napoli, colpito da una granata tedesca, appena un giorno dopo che era stato liberato.

Ma l'attentato alla vita di Mussolini più rischioso e anche più misterioso fu il quarto, che si verificò a Bologna il 31 ottobre 1926, a un anno di distanza dal primo della serie. Lui stesso lo rievocò con queste parole: «Degli attentati da me subiti, quello di Bologna non fu mai completamente chiarito. Certo che me la cavai per miracolo. L'esecutore - o presunto tale - fu invece linciato immediatamente sul posto dalla folla. Con questo atto barbarico, che deprecai, l'Italia non dette certo prova di civiltà».

Mussolini era da alcuni giorni a Bologna dove era giunto per commemorare il quarto anniversario della marcia su Roma: quattro giorni di adunate, di cortei e di discorsi che si erano conclusi con l'inaugurazione del nuovo stadio sportivo detto del «Littoriale». Poco dopo le 17, Mussolini stava dirigendosi alla stazione attraversando le vie centrali della città fra due ali di folla plaudente. Lui stava in piedi su una Alfa Romeo rossa scoperta, guidata da Leandro Arpinati, capo dei fascisti bolognesi, con a bordo anche Dino Grandi e il sindaco Umberto Puppini. Quattro squadristi la scortavano stando in piedi sui predellini. Quando la vettura imboccò via Indipendenza provenendo da via Rizzoli e rallentò l'andatura sul cantone dei Fiori, uno sconosciuto si fece largo fra la folla, superò il cordone dei carabinieri e sparò un colpo di pistola contro il Duce. Fu questione di pochi istanti. Il proiettile sfiorò il bersaglio perforando la fascia dell'ordine Mauriziano e il taschino sinistro della giubba, infilandosi fra il braccio e il fianco, nonché la manica della giacca del sindaco che gli stava accanto. Mussolini fissò lo sparatore e parve tentato di lanciarsi contro di lui, poi si toccò il viso e il corpo per accertarsi di non essere stato ferito. Scoprirà più tardi una lieve scalfittura all'altezza del cuore. In seguito, la sua deposizione al giudice istruttore fu la seguente: «Ho visto un giovane con il cappello floscio che dopo avere superato i cordoni ha fatto un passo verso la macchina. Credevo si trattasse di una supplica, ma poi ho sentito il colpo della pistola».

Pochi istanti dopo, mentre Arpinati si allontanava con un colpo di acceleratore, alcuni squadristi presenti alla scena si erano già avventati contro il presunto sparatore dando vita a una zuffa indemoniata con un levarsi di pugnali, di rivoltelle e di urla che i carabinieri faticarono a placare. Poi qualcuno gridò: «È morto! È morto!». Quando la folla venne finalmente allontanata, apparve immobile sul selciato il cadavere di un giovinetto biondiccio coperto di sangue. Era stato ucciso con quattordici pugnalate e un colpo di pistola, ma presentava anche tracce di strangolamento. Date le sue condizioni non fu subito possibile identificare l'ucciso. In tasca non aveva documenti, ma soltanto il distintivo della squadra di calcio del Bologna. La pistola usata per l'attentato non fu mai ritrovata.

La salma del linciato venne identificata a tarda notte dal padre, il tipografo Mammolo Zamboni, un anarchico, piuttosto «strano», com'era «strana» la sua intera famiglia, ma di questo parleremo più avanti. L'ucciso era il sedicenne Anteo Zamboni e molti testimoni si affrettarono a dichiarare di averlo visto con la pistola in pugno, ma le prime dichiarazioni raccolte risultarono in seguito fantasiose, in contrasto fra di loro, tutte molto confuse e quindi assai poco credibili. Persino le deposizioni fatte da Mussolini e da Arpinati non coincidevano per quanto riguardava i connotati dello sparatore tanto era stata rapida la dinamica dell'attentato. Di conseguenza, sia per l'accavallarsi delle versioni, sia per la ridda delle voci incontrollate e per i sospetti di carattere politico che subito insorsero, si fecero immediatamente strada ipotesi diverse e mormorazioni. Secondo alcuni, l'attentatore aveva avuto un complice che era fuggito dopo lo sparo; altri ritenevano che il giovanissimo Anteo fosse soltanto un capro espiatorio scelto a caso dai veri attentatori che lo avevano indicato alla folla inferocita per mettersi in salvo; altri ancora sostenevano che il ragazzo fosse stato ucciso dai suoi complici per impedirgli di rivelare i nomi dei suoi mandanti. Tuttavia la voce che godette di maggior credito attribuiva l'attentato alla corrente estremista del fascismo che non approvava la politica troppo moderata di Mussolini. Non va infatti dimenticato che Farinacci era stato defenestrato dalla segreteria politica appena pochi mesi prima e che erano ancora in corso i violenti scontri sotterranei al vertice del partito sorti a seguito dell'intervento di Mussolini per normalizzare la situazione e stroncare la seconda ondata farinacciana. D'altra parte, a sospettare che i mandanti dell'attentato si nascondessero fra gli stessi fascisti era proprio la polizia. Ha scritto infatti Guido Leto, allora capo dei servizi politici nella direzione della Pubblica sicurezza: «Furono sospettati a turno Farinacci, Balbo e anche Arpinati, poiché quest'ultimo proveniva dalle file anarchiche ed era amico della famiglia Zamboni: ma poi si dovette riconoscere che mancavano elementi apprezzabili per sostenere la tesi di un complotto maturato nei ranghi fascisti». Alla fine, insomma, fu scelta la via più comoda e finirono in galera soltanto i familiari del presunto attentatore.

Ma chi erano veramente questi Zamboni (padre, fratelli, zie e cognati) cui venne attribuita la preparazione del più serio degli attentati alla vita di Mussolini? Erano colpevoli o erano innocenti? Erano fascisti o antifascisti? In sostanza resta ancora da chiederci se Anteo Zamboni fu per davvero l'attentatore che «per audace amore di libertà» (come sta scritto nella lapide che lo ricorda nel Palazzo d'Accursio di Bologna) «immolò la sua giovane vita», o fu invece soltanto la vittima innocente di un complotto. Dopo tanti anni, tutti questi interrogativi restano immersi nel grande polverone che ancora oggi grava su quel lontano episodio.

Chi erano dunque questi Zamboni? «Una famiglia fascista» scrisse Il Resto del Carlino. «Una famiglia anarchica» controbatté il suo concorrente cattolico Avvenire.

Curiosamente avevano ragione entrambi. Il tipografo Mammolo Zamboni, padre-padrone di una singolare famiglia, professava infatti l'una e l'altra fede, e pare che fosse anche massone. Il che non deve tuttavia stupire poiché il pragmatismo mussoliniano aveva trasformato il nascente Partito fascista in un caleidoscopio di idee, di interessi e di illusioni.

Conoscente dello stesso Mussolini e fedelissimo dell'ex compagno Leandro Arpinati, ora astro sorgente del fascismo bolognese, Mammolo Zamboni era infatti iscritto al Partito fascista e la sua tipografia di via Fondazza 14 deteneva l'esclusiva di tutte le pubblicazioni propagandistiche della Federazione locale. Dal fascicolo processuale del Tribunale speciale che giudicò gli accusati, rimasto a lungo segretato e messo finalmente a disposizione degli studiosi non molti anni fa, risulta, fra l'altro, che già nei giorni precedenti la visita ufficiale del Duce a Bologna la sindrome dell'attentato era diffusissima. «Non ne uscirà vivo» si mormorava in città. Mentre da parte sua, il questore Alcide Luciani rassicurava Roma affermando che la voce di un possibile attentato «era stata fatta circolare ad arte da Arpinati, ma solo per allertare le sue camicie nere». Un altro particolare curioso: alla vigilia dell'arrivo di Mussolini, Mammolo Zamboni aveva mandato il figlio Anteo in federazione per chiedere il permesso di consentire alla sua nipotina l'onore di offrire un mazzo di fiori all'illustre ospite. Ma le stranezze e i dubbi aumentano a mano a mano che si fruga fra quelle carte non più segrete, per esempio, il materiale sequestrato in casa Zamboni mette in luce uno spaccato familiare veramente sconcertante. Quasi ogni mattina, Mammolo diffondeva una sorta di proclama cui doveva adeguarsi Finterà famiglia, che era composta da sua moglie Viola Tabarroni (sempre ammalata e del tutto estranea alle vicende familiari), da tre figli (Assunto di vent'anni, Ludovico di diciotto e Anteo di sedici), e dalla cognata Virginia Tabarroni, detta «Danda», una piacente quarantenne che, vent'anni prima, era stata scelta per portare il labaro della loggia massonica «Giordano Bruno» ai funerali di Giosuè Carducci. Secondo la polizia, la «Danda» era amante di Mammolo, dal quale era tuttavia incoraggiata anche a occuparsi… dell'educazione sessuale dei figli.

Ma cosa scriveva Mammolo nei suoi «proclami» alla famiglia? Farneticazioni difficilmente codificabili. Ecco qualche perla tolta dall'enorme produzione letteraria di questo confusionario grafomane:

 

Né Dio, né Patria, né Famiglia, né Leggi, questa è la nostra formula assoluta … Sappiate che per me la libertà è il diritto tutto fascista di prendere a calci in culo alcune carogne. Questo mi fa restare sempre anarchico pur essendo sotto tanti aspetti fascista. Del resto per me il fascismo non è che anarchismo messo sul carro statale … Che bella cosa se l'alba rossa alfin spuntasse al grido di riscossa: spezzare i fucili, rompere il cannone per fare col popolo la rivoluzione … Altro che muovere guerra al Duce! Il Duce ha dato dei dettami che se fossero eseguiti darebbero un'umanità migliore!

 

Anche le lettere scritte da Mammolo sono alquanto sconcertanti. Ecco cosa scriveva al figlio Assunto, ospite di uno zio a Milano:

 

Restaci più che puoi a ingagliardirti e ritorna dopo che avrai gustato con la cuginetta il jus primae nocti … Tu mi chiedi delle mie avventure? Se mi capita a tiro o fra le gambe una farfalla, mi diverto a divertirmi … La Danda è rimasta impressionata dalla tua lettera. Ogni tanto si liscia o si tocca le parti che ci potrebbero sedurre, giacché si è lusingata al pensiero che non guardi alla freschezza delle sue carni … La femmina di noi due non può essere che la Danda. La Danda che grida sempre allo scandalo ma va più bene di una troia …

 

Alcune lettere di Mammolo al figlio Assunto sono spesso postillate dalla stessa Danda con frasi scherzose e quasi sempre oscene. Danda ad Assunto: «Le lettere del babbo mi fanno ridere come so ridere io. Che troia che sono! Baci cari». Assunto alla zia: «Statti buona vecchia zitella che nessuno ti rapirà per sperimentare l'elettricità dei tuoi seni virginei, né ti premerà i capezzoli come i bottoni dei campanelli. Simpaticona di una Danda, proprio a costo di pigliarmi uno schiaffo voglio toccare le tue parti belle che con la cura del Proton hanno acquistato nuova forza».

Il florilegio pomo-rivoluzionario della pubblicistica zamboniana (che forse avrebbe dovuto interessare più lo psichiatra che il magistrato) potrebbe continuare a lungo. Ma già questi accenni paiono sufficienti per mettere in dubbio la voluntas sceleris di Mammolo e della Danda i quali, invece, saranno condannati a trent'anni di carcere quali ideatori e organizzatori dell'attentato. Anche la figura del presunto attentatore esce da queste carte sotto una luce diversa. Anteo (ma il suo vero nome era «Ateo», suo padre era stato costretto ad aggiungere una «n» per consentire al ragazzo l'iscrizione alle scuole) non era intelligente, non amava studiare, non aveva amici e in tipografia eseguiva i lavori più umili. Iscritto come i suoi fratelli alle organizzazioni giovanili fasciste, era nella fase di passaggio da «balilla» ad «avanguardista». Non possedendo ancora la nuova uniforme, il giorno dell'attentato, per non vestirsi da «balilla» (calzoni corti grigioverde e camicia nera), se n'era improvvisata una per conto suo indossando i pantaloni lunghi del fratello (i primi della sua vita) e un maglione nero sul quale aveva appuntato vari distintivi compresa la medaglia di bronzo di suo padre.

Così conciato, il ragazzo andò in via Indipendenza per vedere o per sparare al Duce. Ma se fu proprio lui a sparare nessuno poté dimostrarlo con certezza poiché, come sappiamo, tutte le testimonianze oculari erano confuse e contrastanti. Il Tribunale speciale stabilì comunque la sua colpevolezza basandosi sullo strano ambiente familiare e su un quadernetto nel quale Anteo aveva scritto frasi come queste: Veni, vidi, vici. Ingrata Patria non avrai le mie ossa. Uccidere un tiranno che strazia una nazione non è un diritto, è giustizia. Per la libertà morire è bello.

Tutte frasi che probabilmente il giovane aveva orecchiato dagli sproloqui del genitore. Questo comunque fu giudicato sufficiente per condannare come suoi complici Mammolo e la Danda.

La dura sentenza, come si può immaginare, non convinse nessuno, neppure Mussolini per il quale quell'attentato «non fu mai completamente chiarito». Si deve appunto a questo dubbio se Mussolini fece graziare entrambi gli imputati nel 1933 e fece loro pervenire in seguito anche aiuti e sussidi. Tornato in libertà, Mammolo Zamboni trovò un impiego come addetto alla portineria del «Resto del Carlino». Morì senza lasciare memoriali.

L'attentato di Bologna consentì a Mussolini di dare un altro giro di vite alle residue Libertà costituzionali. Appena un mese dopo, alla riapertura della Camera, i 120 deputati superstiti dell'opposizione furono privati del mandato parlamentare, mentre il Parlamento così «epurato» approvava le cosiddette «leggi per la difesa dello Stato» grazie alle quali veniva, fra l'altro, abolita del tutto la libertà di stampa. Di conseguenza, tutti i giornali non assoggettati al regime dovettero sospendere le pubblicazioni. Ma l'effetto più importante di quelle leggi Liberticide fu l'istituzione del «Tribunale speciale» e l'introduzione della pena capitale. Poiché il fascismo non era riuscito a fascistizzare completamente la magistratura, di lì in poi i processi politici sarebbero stati celebrati davanti a una corte marziale composta da giudici improvvisati reclutati dalla Milizia fascista o dall'Esercito regio.