VI.
Le porte dei sogni.
L’Eneide al tempo del principato di Augusto

Da te mi salvo

venendo a patti con la tua presenza:

con parole amichevoli, accorte,

ti induco a non esistere.

Non temo la tua faccia

se la so tratta dal niente

grumo casuale di me stesso

femminile nulla:

solo così mi salvo dal tuo sangue;

ché sempre mi spauri

se t’approssimi dal niente al qualchecosa.

(Giorgio Manganelli, in Poesie)

Nei secoli, di Virgilio si è detto di tutto. La diceria più incrostata lo vorrebbe un cantastorie prezzolato, un giullare di corte incaricato di propagandare le gesta di Augusto a suon di esametri. Il pregiudizio diffuso farebbe quindi dell’Eneide una campagna di marketing ante litteram: ogni canto, uno spot pubblicitario per celebrare il neonato impero di Roma. Basti un fact checking: sui 9.896 versi che compongono l’Eneide, quelli che contengono un riferimento diretto ad Augusto sono soltanto 69.

Teorie interpretative più raffinate, raccolte intorno alla cosiddetta “scuola di Harvard” di Adam Parry, attribuiscono al poema “due voci”: un piano narrativo canterebbe le imprese di Enea e un piano allegorico celebrerebbe quelle dell’imperatore. Altre ipotesi meno convincenti vorrebbero l’Eneide disseminata di segrete citazioni propagandistiche e di riferimenti apologetici nascosti al comune lettore – e forse ignoti anche agli stessi sostenitori di certe letture al limite dell’occulto. Per non parlare di chi ha attribuito a Virgilio il ruolo del predicatore o dell’imbonitore – addirittura del profeta capace di anticipare alle genti la venuta di Gesù Cristo.

Per una volta, leggendo l’Eneide proviamo ad attenerci ai fatti – senza cercare nascosto tra le righe ciò che, in quelle righe, non c’è scritto. Di professione, Virgilio non faceva né il menestrello né il sensitivo. Non nutriva particolari ambizioni politiche né smanie di grandezza da perseguire attraverso la letteratura – anzi, quando aveva provato a salvare le terre mantovane dalla confisca statale gli andò male –; durante la stesura dell’Eneide tutto ciò che desiderava era starsene tranquillo in disparte, nella periferia dell’impero, a Napoli. Ricatti o conti in sospeso con Augusto non ne risultano – nessuna pruriginosa storia è mai stata attribuita al poeta e l’amico più caro sarebbe presto morto suicida.

Agli atti sembra dunque che, accettando di scrivere l’Eneide, per Virgilio c’era solo da perdere. Perché ciò che ci sarebbe stato da guadagnare – fama, lusso, ricchezza, ammiratori, prestigio sociale – da tempo era già andato perduto.

La poesia come narrazione politica

Già so come andrà a finire. Per via di queste mie parole, diranno di me lo stesso che hanno detto di Virgilio – che lavorerei anch’io al soldo di qualche oscura lobby augustea o, peggio, che sarei una fanatica monarchica. Come se la letteratura, e dunque la politica, fossero un derby di calcio in cui riconoscere i pregi (o i limiti) di una parte significhi esserne forsennati tifosi. Come se scegliere di stare – anche solo per un certo tempo, come nel caso di Virgilio – da una parte, fosse un atto di servilismo e non il supremo esercizio della libertà. Soprattutto, come se non scegliere fosse anche solo minimamente concesso.

Nell’Eneide, è proprio questa libera scelta di adesione al suo tempo da parte di Virgilio che m’interessa indagare. Se scrivo non è per difenderlo né per riabilitarne la figura – a questo ci pensano da soli, da duemila anni, i suoi versi. Tantomeno è per simpatia o per dispensare giudizi personali. Piuttosto, ciò che mi preme è vedere cosa accade, e cosa comporta, prendere una posizione anche quando non la si vorrebbe proprio prendere. Cosa succede quando si attraversa un momento storico che obbliga a decidere da che parte stare – e quando anche “non stare” è comunque una scelta, di solito quella perdente. Non tanto della politica, non intendo dire questo – o non soltanto: cosa comporta per un uomo essere chiamato a schierarsi da un lato o dall’altro della storia?

C’è di mezzo la vita, e non perché un dittatore o un sovrano arrivi all’improvviso a tagliarci la testa. Ma perché l’essere umano ha sempre bisogno di credere in qualcosa o in qualcuno. In tempi di crisi ancora di più – a fargli da scudo sono le sue poche certezze, e le esitazioni furbe non sono mai parse tanto irritanti.

Già prima di scrivere l’Eneide, Virgilio fu libero di scegliere. Allora scelse di credere in Augusto. Poco tempo dopo, fu libero persino di cambiare idea. Comunque sia andata, è fondamentale comprendere come e cosa Virgilio decise in quanto poeta – riguardo ciò che scelse in quanto uomo, la sua biografia dice già tutto. Perché preferire quel mito e non un altro, perché la dignità di Enea e non la ferocia omerica, perché tutta quella fatica di costruire e mai il godimento di radere al suolo.

Non importa come andò la “definizione del progetto” tra Virgilio e Augusto – se quest’ultimo sfoderò la spada o gli fece giusto un frettoloso cenno di assenso, per questo ci sono i romanzi. Ciò che conta è che, un giorno imprecisato del 29 a.C., Virgilio si sedette e si mise a scrivere il poema epico che avrebbe finalmente fornito una narrazione fondante all’impero di Roma. E che qualche anno dopo – non molti –, Virgilio allo stesso tavolo si sedette e decise che quella storia non voleva più scriverla.

O almeno, non voleva più scriverla così.

***

Ecco il pregiudizio, sintetizzato bene: quello di Omero sarebbe un canto libero, quella di Virgilio l’opera di un venduto.

È arrivato il momento di precisare cosa s’intende per poesia, o almeno cosa s’intendeva per poesia nell’antichità greco-romana – di mio, continuo a non trovare particolari differenze tra ieri e oggi. Nel mondo classico, poetare era innanzitutto un atto politico. Le parole non erano scelte in base al mero piacere del loro suono, ma al modo in cui si vedeva il mondo. A come lo si pensava. Soprattutto, le parole erano scelte in base a come si voleva che il lettore, quel mondo, lo pensasse a sua volta.

I poeti antichi non erano come gli sciamani dei popoli primitivi, sbigottiti mentre puntavano il dito per trovare un nome a uno spettacolo mai visto né mai cantato prima. Del sistema in cui vivevano, i poeti classici erano innanzitutto i ventriloqui. Omero non fu certo un’anima bella e incontaminata che scrisse l’Iliade e l’Odissea commossa dal canto di una musa dell’Elicona. Non si limitò a cantare il suo tempo: il suo tempo Omero lo creò. Scrivendolo in versi.

Mi dispiace procurare adesso una delusione a chi ancora si bea dell’immagine del poeta con la lunga barba e gli occhi cisposi intento a scegliere dal catalogo della fantasia le gesta di Achille, di Ettore e di Ulisse – per non parlare di quelle degli dèi – con l’ingenuità di un bambino. Se a Omero è concesso questo ritratto naïf è perché in calce ai suoi due immortali poemi non ci è giunto anche il nome del committente – basterebbe leggere un po’ più a fondo per attribuire lo sguardo poetico del cieco di Chio alla classe dominante della sua epoca.

Con questo non s’intende che Omero venne pagato o costretto a scrivere, ci mancherebbe. Ma si vuole ribadire che nessun poema – figuriamoci due, nel caso dell’Iliade e dell’Odissea – sopravvivrebbe a tremila anni di storia se non suscitasse in chi lo ascolta un profondo senso di appartenenza. Se nella sua geografia, nella sua sociologia, dal modo di fare la guerra al modo di fare l’amore, dal rito di cucinare a quello di seppellire i morti, il lettore non individuasse ben netto il perimetro tra un “noi” e un indefinito “loro”.

Non è tanto questione di radici o di antenati – gli Spartani non credevano certo di essere tutti biologicamente figli di Licurgo né gli Ateniesi di Cecrope –, bensì di storie. Perché, da sempre, la poesia è narrazione. Anche e soprattutto politica.

Virgilio, ovviamente, aveva ben in mente tutto questo mentre si apprestava a scrivere l’Eneide. Sapeva che non gli veniva chiesto di confezionare una dilettevole trama di amori e di avventure. La sua missione era quella di creare ex novo una cornice narrativa al principato di Augusto, che sorgeva anch’esso ex novo sulle macerie delle istituzioni romane. Con una differenza sostanziale rispetto a Omero. Anzi, due.

Il momento da narrare, quello che avrebbe segnato per sempre la distanza tra un prima e un dopo, Virgilio lo stava ancora vivendo – più difficile distinguere nettamente tra giusto e sbagliato quando il treno è ancora in corsa e le sorprese (di solito, brutte) sono all’ordine del giorno. Inoltre, tutti i Romani avrebbero riconosciuto come il committente avesse un nome e pure un cognome precisi: Ottaviano Augusto. Il principato cui dare fondamento narrativo – lo storytelling – era il suo, e Virgilio stava ancora finendo di capirlo, e di subirlo, insieme a tutta Roma.

***

Il talento di Virgilio fu quello di intuire fin da subito che “da dove cominciare” non era la domanda giusta da porsi. C’era invece da chiedersi “da dove ri-cominciare”. E a quest’interrogativo il poeta ebbe il coraggio di rispondere: “dall’inizio, e ancora prima!”.

Chissà cosa direbbero gli analisti politici contemporanei. Se l’Eneide fosse una campagna elettorale, il suo claim (lo slogan, in gergo tecnico) sarebbe senz’altro make Rome great again. L’unica differenza fra la strategia comunicativa di Donald Trump e il suo make America great again è il fatto che Virgilio si espresse per mezzo di eleganti esametri e non attraverso sguaiati tweet. E soprattutto che Virgilio la guerra voleva finirla per sempre – quella civile dopo la battaglia di Azio del 31 a.C. –, non certo scatenarla di nuovo.

Per il resto, la narrazione è identica – si potrebbe persino parlare di plagio se le qualità di raffinato latinista del presidente degli Stati Uniti non ci fossero ignote. Anche la strategia messa in atto è la stessa: di fronte a un rivolgimento politico epocale (e dal dubbio fondamento democratico – indubbiamente dittatoriale, nel caso di Augusto), si decide di sventolare di fronte agli occhi dei cittadini basiti la chimera della grandezza e della prosperità passate.

Poco importa che quell’againetiamnunc, per dirlo in latino – rimanga del tutto astratto e sfocato tanto nella Roma del 29 a.C. quanto nella New York del 2016. Esattamente, quando sarebbero stati più floridi gli Stati Uniti? Venti, trenta o forse cent’anni fa? E Roma sarebbe stata migliore e più ricca ai tempi di Romolo, di Scipione l’Africano o di Giulio Cesare? Non è dato saperlo – e nessuno dall’alto si prenderà il disturbo di precisare.

Sarebbe stato inutile persino fare appello alla razionalità e ribattere che la Roma della sua fondazione, nel 753 a.C., era giusto un ammasso di baracche sbattute lungo il Tevere e abitate da genti semibarbare; oppure che nel III secolo a.C. non era certo gradevole avere come nemica Cartagine, con Annibale che valicava le Alpi a dorso d’elefante. Più della logica può la nostalgia dei “bei tempi antichi” – che nell’antica Roma erano ancora più belli e più antichi del solito, difesi strenuamente contro i pericoli causati dal lusso e dalla mollezza a partire da Catone il Censore con la costante celebrazione del mos maiorum. Non importava come erano stati davvero i contadini italici e gallici negli anni delle severe campagne di annessione da parte di Roma. Legittimo immaginare che se la passarono male, ma ci sarà sempre qualcuno disposto a credere che prima si stava meglio.

L’obiettivo di Virgilio era dunque narrare quel dopo, il principato, con la voce e i gesti del prima, le origini. Estendere il vigore, la fierezza e la dignità degli inizi della storia di Roma e della sua fase monarchica, con i sette ruspanti re, al nuovo inizio della fase imperiale. Il risultato sarebbe stato quello di annacquare – fino a farlo scomparire – tutto ciò che c’era stato in mezzo, ovvero quasi metà millennio di repubblica con le sue istituzioni (secondo la tradizione, riportata anche da Livio, la Res publica Populi Romani nacque nel 509 a.C. con la cacciata di Tarquinio il Superbo).

Del resto, il principio di ogni efficace storytelling è: se non sai raccontare cosa hai fatto, allora non hai fatto niente. Non è che i secoli repubblicani furono sprovvisti di intellettuali e che, sotto Augusto, ogni opera letteraria pregressa si potesse cancellare con un colpo di spugna. Ma nell’epoca democratica di consoli e di senatori, gli scrittori erano stati tutti troppo impegnati a voler cambiare le cose in meglio – chi con la filosofia, chi con la storiografia, chi con le orazioni –, anziché disturbarsi a fissarle così com’erano in una narrazione condivisa.

Se la repubblica di Roma fu sprovvista di manifesti culturali più semplici di complessi trattati preclusi a chi non era un erudito di professione, così non sarebbe stato per l’impero. Per farlo, Virgilio inventò il genere del nazional-popolare. Fu il primo nella storia – bisogna riconoscerlo –, a esclusione dei poemi omerici, è vero, cui però è più difficile applicare i concetti di popolo e di nazione, essendo l’idea stessa di “grecità” tanto composita quanto astratta.

Nella Roma augustea c’era una nazione – non più solo l’urbe, ma l’Italia intera – che aveva assoluto bisogno di una nuova identità culturale per tentare di capacitarsi del cambiamento in atto. Bisognava trovare il modo di rendere la nuova narrazione sì alta, e non banale né puerile, ma anche popolare, ovvero che tutti potessero comprenderla senza essere necessariamente membri dell’élite più colta e agiata. In sintesi, che tutti potessero dire “noi romani” senza dover consultare l’enciclopedia per poter capire cosa gli veniva narrato – romani lo erano anche prima, certo, ma adesso erano parte di una narrazione diversa, quella del principato di Augusto. Niente di meglio che tornare laddove tutto era iniziato, alla caduta di Troia. Tutta Roma conosceva la storia di Enea, dovette pensare Virgilio.

Era giunto il momento di raccontarla di nuovo, come nessuno aveva mai fatto prima.

***

Agli antipodi di chi vi ha scorto un poeta prezzolato, c’è stato chi ha attribuito a Virgilio, in quanto poeta della patria, il moderno ruolo di ministro della Cultura. In questo senso, Augusto apparirebbe come un imperatore illuminato, un Magnifico che non si piega alla volgarità della propaganda forzosa ma che affida la sua visione politica all’eleganza della rima. Come non sono d’accordo con la prima interpretazione, non lo sono nemmeno con la seconda. Credo infatti che, di nuovo, non si debba fuorviare l’esercizio del mestiere del potere – tanto nell’antichità quanto oggi –, né tralasciare, come spesso accade, il ruolo del pubblico.

Quanto all’ipotesi del princeps illuminato – che lo sia stato o meno, non è questa la sede per esprimere giudizi sull’operato di Augusto –, vale la pena di precisare che, fin dai tempi di Pericle, i governanti amavano, e ancora amano, circondarsi di illustri personaggi delle arti e del sapere. Così era ai tempi di Augusto, così fu nel Rinascimento, così è ancora oggi quando i leader mondiali non si lasciano sfuggire momenti di photo opportunity con celebrità di varia natura – pensandoci meglio, è così anche a livelli più modesti: in pubblico si preferisce apparire circondati da persone intelligenti e di buone maniere, anziché da zoppi che insegnano solo a zoppicare.

Va da sé che cenare insieme a qualcuno o assistere a una pubblica rappresentazione teatrale non significa automaticamente condividere l’ideologia dell’uno o dell’altro schieramento né si tratta di un’aperta dichiarazione di voto. Lo stesso doveva valere per il rapporto tra Virgilio e Ottaviano, anzi: secondo alcuni critici, sarebbe stato il giovane imperatore, almeno all’inizio, a beneficiare maggiormente della vicinanza con il poeta, che era più anziano di lui e già noto e stimato dal grande pubblico romano dopo la pubblicazione delle Bucoliche e delle Georgiche.

Quanto alla possibilità che l’Eneide rappresentasse, negli intenti di Augusto, il manuale poetico del perfetto suddito, riconoscendo quindi a Virgilio il ruolo di machiavellico stratega armato di esametri, sarebbe bello. Sarebbe commovente immaginare gli antichi Romani come un raffinatissimo popolo di filologi, disposti a buttare alle ortiche secoli di repubblica non appena preso tra le mani un libro che narrava la storia di Enea. Purtroppo, da sempre ci vuole molto, ma molto di più di una bella poesia per convincere una nazione a cambiare regime politico dalla sera alla mattina – di solito ci vogliono una sanguinosa guerra e/o una crisi economica.

Come già accennato nel capitolo dedicato alla figura di Enea, nessun romano con un po’ di sale in zucca avrebbe rivoluzionato concretamente la sua vita leggendo le gesta dell’esule troiano in viaggio verso il Lazio. Perché, in quelle gesta, non ci credeva (quasi) nessuno. Nessuno si aspettava che l’Eneide fosse un rigoroso compendio di storiografia – che da Enea discendesse Iulo e da lui, trecento anni dopo, Romolo e Remo, non cambiava le cose neppure di una virgola. Del resto, Giulio Cesare era appena stato divinizzato nel 44 a.C. in una pubblica apoteosi senza che a nessun cittadino romano fosse richiesto di farne un dogma di fede o di scienza. Ciò di cui il nuovo impero necessitava non era un fondamento archeologico o mitologico o biografico di sorta. Augusto non cercava giustificazioni, non ce n’era bisogno.

Cercava invece un’adesione collettiva al suo disegno, e che tutto ciò diventasse un’ideologia. C’è da immaginarsi che Virgilio non fu l’unico ad agire in tal senso e che tutti gli intellettuali che scelsero di credere nel progetto politico di Augusto si adoperarono come poterono. Ovvero facendo ciò che sapevano fare: gli architetti erigendo fori e archi, gli scultori scolpendo statue e timpani e metope, gli storici scrivendo cronache, gli attori recitando, i gladiatori gloriosamente morendo. Tutti ispirandosi al tema patriottico della pax romana, il lungo periodo di pace e di prosperità promesso da Augusto con la sospensione di ogni guerra di conquista.

A proposito del rapporto intrattenuto con il princeps da Virgilio, Luca Canali scrive: “Virgilio interpretava poeticamente le direttive di Augusto, e Augusto a sua volta utilizzava formulazioni poetiche virgiliane per intarsiarne il suo testamento politico”. Cosa ricorda questo fondamentale rapporto in cui la narrazione politica racconta la realtà e, a sua volta, la realtà insegue la narrazione politica?

Nell’interpretare il ruolo di Virgilio, da troppo tempo oscilliamo tra servilismo e recita letteraria perché non riusciamo più a comprendere la funzione del poeta nell’antichità. Il suo compito non era quello di fissare in rima sospiri e passioni da cioccolatino. Bensì di trovare le parole precise per dettare – per influenzare – il tempo corrente. Per rilevanza e per incidenza politica, potremmo concludere che il poeta antico faceva ciò che oggi fa il social media manager. Quest’espressione potrebbe far inorridire molti, e non a torto. È comunque bello sapere che sia esistito un tempo in cui la comunicazione politica non era affidata ad urla o slide, bensì a un poema epico in dodici libri.

E – cosa ancora più incredibile – tutti erano in grado di capirli.

“Black Mirror”

Talia per clipeum Volcani, dona parentis,

miratur rerumque ignarus imagine gaudet

attollens umero famamque et fata nepotum.

(Aen., VIII, 729-731)

Queste cose nello scudo di Vulcano, dono materno,

Enea ammira e, ignaro dei fati, gode dell’immagine,

prendendo sulle spalle la fama e i fati dei discendenti.

Si è appena visto come l’Eneide non sia certo un’Augusteide. Tuttavia, nel poema di Virgilio l’imperatore non è assente, anzi.

Straordinario fu il talento poetico di Virgilio, poiché non cedette mai alla tentazione della via facile, quella di mettere in scena sulle rovine di Troia dei personaggi fittizi che scimmiottassero le mosse di personaggi reali facilmente riconoscibili dal lettore. Con una tecnica che verrà interamente ripresa da Dante per la sua Commedia, il poeta non ebbe paura né imbarazzo a chiamare le cose con il loro nome e le persone con il loro cognome. È lo sfondo a restare fantastico nell’Eneide, ma i riferimenti all’attualità e ai suoi protagonisti sono molto precisi.

Per sciogliere il legame che nel poema intercorre tra mito epico e storia romana, bisogna prestare particolare attenzione ai piani temporali attraverso cui si muovono da un lato Enea e i compagni, dall’altro Virgilio e il suo pubblico. Perché ciò che rende l’Eneide un perturbante capolavoro è la soppressione di ogni senso del presente dando vita a un canto tutto al futuro anteriore – un poema in cui ogni presagio si realizzava nel momento esatto in cui il lettore dell’epoca l’avrebbe letto.

Più in dettaglio, calcolatrice alla mano: Enea salpa da Troia alla volta del Lazio almeno trecento anni prima della nascita di Romolo e Remo. E settecento sono gli anni che intercorrono tra i due gemelli allattati dalla lupa all’ascesa di Augusto. Virgilio ha dunque tra le mani un mito dalla durata molto limitata e, allo stesso tempo, quasi mille anni di storiografia da riassumere – con lo scopo, però, di dare un senso narrativo soltanto all’ultimo decennio. L’Eneide si rivela quindi, in gran parte, una cronaca non tanto del passato mitologico, bensì del futuro storico di Roma – che però, allo stesso tempo, è il presente in cui vive e si muove il pubblico quando il poeta sta scrivendo.

In ogni gesto di Enea e degli altri personaggi mitologici si scorgono con chiarezza i reali rapporti di causa ed effetto della situazione di Roma subito dopo la battaglia di Azio. In questo modo, il lettore dell’Eneide avrebbe provato una costante reazione di catastrofe imminente, sentendosi in qualche modo complice o spettatore della storia – perlomeno, sempre tirato in mezzo. Le profezie del futuro nell’Eneide suonano tanto angoscianti perché il pubblico romano sa perfettamente che si realizzeranno. Anzi, si stanno già realizzando proprio nel momento in cui il poema vede la luce.

Un po’ come nella serie distopica scritta da Charlie Brooker, Black Mirror, ambientata nel futuro ma ispirata al nostro presente per riflettere sulle implicazioni delle nuove tecnologie – lo spettatore sa che nulla sta accadendo hic et nunc, ma dopo un episodio faticherà a tenere tra le mani uno smartphone con la stessa leggerezza di prima. Esattamente come tutti noi sempre giudichiamo le nostre capacità di reazione a una crisi: se ce l’avessero detto prima, ci sarebbe apparso impossibile; durante, non mettiamo a fuoco quasi niente. Ma dopo, quando lo raccontiamo, ci pare impossibile che, un tempo, tutto ciò ci sia apparso impossibile.

***

Tre sono i punti dell’Eneide in cui si concentrano i riferimenti ad Augusto – e sono tutte profezie di un futuro che all’epoca di Virgilio era già presente.

Il primo rimando è racchiuso nelle parole con cui Giove, nel I libro, rassicura Venere inquieta per le sorti di Enea – “non avere paura, Citerea: restano fermi / i fati dei tuoi” (Aen., I, 257-258). Già all’inizio del poema, dunque, Virgilio riassume con precisione la storia di Roma, che nel poema si vuole posteriore quando per il lettore è di molto anteriore. Giove narra che Enea, giunto nel Lazio, “debellerà popoli fieri” (Aen., I, 263) e che Ascanio, rinominato Iulo dalla gens Iulia cui appartenevano Giulio Cesare e per adozione Ottaviano, compiuti trent’anni di età, sposterà il regno ad Alba Longa. La città dominerà allora per “trecento anni interi” (Aen., I, 272) fino a che una vestale non darà alla luce due gemelli – sarà Romolo a fondare le mura di Marte e a chiamare il suo popolo Romani.

È questo l’inizio dell’imperium sine fine (Aen., I, 279), cui nemmeno Giove pone un limite.

Nascetur pulchra Troianus origine Caesar,

imperium Oceano, famam qui terminet astris,

Iulius, a magno demissum nomen Iulo.

Hunc tu olim caelo spoliis Orientis onustum

accipies secura; vocabitur hic quoque votis.

(Aen., I, 286-290)

E nascerà, Troiano di bellissima stirpe, Cesare,

che avrà per confine dell’impero l’Oceano, della fama le stelle,

Giulio, nome derivato dal grande Iulo.

Lo accoglierai tranquilla in cielo, carico delle spoglie

d’Oriente, e anche lui sarà invocato nelle preghiere.

Si è a lungo discusso se questo Cesare di Virgilio sia Giulio Cesare o Ottaviano. Tuttavia, il riferimento poco successivo alla chiusura del tempio di Giano, che simboleggia la certezza della pace e la fine dell’“empio Furore” (Aen., I, 294), rende quasi certo che, qui come altrove, l’uomo del destino sia l’Augusto. Dopo la battaglia di Azio, nel 29 a.C. venne infatti decretata la chiusura delle porte del santuario dedicato a Giano Quirino – divinità romana bifronte che proteggeva ogni ingresso e ogni inizio –, in onore della vittoria di Ottaviano. È grazie a lui che “i tempi duri, deposte le guerre, diventeranno miti” (Aen., I, 291).

Il gesto simbolico di chiudere la porta in faccia alla guerra, o viceversa di aprirla, doveva impressionare molto Virgilio, che nel VII libro dell’Eneide retrodata addirittura il rito romano quale antica usanza presso i popoli Albani (Aen., VII, 601-622) – la chiusura delle porte del tempio di Giano avverrà altre due volte durante il regno del princeps, nel 25 a.C. e nel 2 d.C., quando però il poeta sarà già morto da un pezzo.

***

Nell’VIII libro dell’Eneide, il riferimento ad Augusto e alla sua vittoria ad Azio ha il ritmo di una grande sinfonia trionfale, fino ad assumere tratti divini. Sullo scudo forgiato da Vulcano per Enea è raffigurata la storia romana dalla sua fondazione fino alla sconfitta di Antonio e Cleopatra.

Illic res Italas Romanorumque triumphos

haud vatum ignarus venturique inscius aevi

fecerat ignipotens, illic genus omne futurae

stirpis ab Ascanio pugnataque in ordine bella.

(Aen., VIII, 626-629)

Qui il dio del fuoco, non ignaro dei vaticini né del futuro,

aveva effigiato la storia d’Italia,

e i trionfi romani e tutta la stirpe futura discendente da Ascanio

e in ordine tutte le guerre trionfali.

L’ekphràsis – dal greco ἐκφράζω (ekphràzō), “descrivere con eleganza” – è certamente un riferimento omerico alla descrizione dello scudo di Achille. Tuttavia Apollo, qui ritratto dall’alto dello stesso tempio che Enea aveva già visitato nel III libro e che ora tende l’arco imponendo la vittoria degli dèi e delle forze romane contro le insidie d’Oriente, dà un fondamento cosmogonico, quasi mistico al principato. È Augusto l’uomo che, fin dalla fondazione, il Fato aveva previsto per Roma – ed ecco che sul capo di Ottaviano risplende la stessa fiamma che prodigiosa era apparsa sulla testa di Ascanio durante la caduta di Troia (Aen., II, 680).

I versi sono organizzati da Virgilio come un vero e proprio manuale di storia romana – e non pochi sono i riferimenti diretti all’Ab Urbe condita di Tito Livio. La prima scena effigiata sullo scudo è l’allattamento di Romolo e Remo, “attaccati alle poppe” (Aen., VIII, 631) della lupa capitolina. Seguono il ratto delle Sabine e le conseguenti guerre nel Lazio, in cui i nemici sono descritti come particolarmente cruenti mentre “i discendenti di Enea lottavano con le armi per la libertà” (Aen., VIII, 648). Si avvicendano poi episodi relativi al conflitto con gli Etruschi, che tentarono di riportare il lucumone sul trono di Roma – il lettore moderno riconoscerà qui le storie delle origini romane divenute leggendarie, come quella della vergine Clelia che, per sfuggire all’etrusco Porsenna, attraversò il Tevere a nuoto; o quella delle oche che sventarono l’assalto da parte dei Galli starnazzando di notte.

Singolare è poi la rappresentazione infernale di due personaggi della storia romana più recente, che vengono ritratti sullo scudo da morti. Nel Tartaro Catilina è “pendente / da una rupe minacciosa, tremante davanti alle Furie” (Aen., VIII, 668-669), mentre Catone – si è pensato al Censore, ma più probabilmente è l’Uticense – si trova tra gli spiriti pii nell’atto di distribuire le leggi anche nell’aldilà.

Finalmente, ecco Cesare Augusto ritratto in battaglia alla guida dei Romani. Inequivocabili segni divini fanno di lui l’uomo del destino: “le tempie liete / emanano fiamme gemelle, sul capo si apre la stella paterna” (Aen., VIII, 680-681). Contro l’esercito romano si fanno avanti le “schiere barbariche” (Aen., VIII, 685) di Antonio e “sacrilegio! La sposa egiziana” (Aen., VIII, 688) – l’esclamazione è forse un implicito riferimento alle ambizioni matrimoniali dell’africana Didone.

La poesia di Virgilio si fa ora solenne e concitata, come se si trattasse di una guerra tra due mondi, Roma e l’Oriente – qui compaiono mostri marini, là c’è “Anubi che latra” (Aen., VIII, 698). Per timore di Apollo ormai fuggono lontani i popoli egiziani e arabi e indiani e sabei (stirpe di origine giudaica da collocarsi nel Sud della penisola arabica) – intanto Cleopatra si fa “pallida per la morte futura” (Aen., VIII, 709).

Alla fine è Augusto a salire vincitore sulle mura di Roma e a celebrare un triplo trionfo, accolto dalla letizia dei cittadini, che in suo onore organizzano giochi e sacrifici. Gli sconfitti marciano da prigionieri per le vie della città.

Ipse sedens niveo candentis limine Phoebi

dona recognoscit populorum aptatque superbis

postibus; incedunt victae longo ordine gentes,

quam variae linguis, habitu tam vestis et armis.

(Aen., VIII, 720-723)

Lui, sedendo sulla soglia di Apollo splendente,

passa in rassegna i doni dei popoli e li appende alle porte

superbe; avanzano le genti sconfitte in un lungo corteo,

varie per lingue, fogge degli abiti ed armi.

Questo è lo spettacolo che Enea contempla effigiato sul suo scudo, dono della madre Venere. Della storia che verrà è ignarus, non sa nulla e non può far altro che gioire (Aen., VIII, 730). Pronto, questa storia se la mette sulle spalle, attollens umero (Aen., VIII, 731) – si tratta dello stesso gesto con cui un tempo aveva portato sulla schiena il padre Anchise.

Anche adesso Enea resiste e avanza, ma sulle spalle non ha più il suo passato: porta il peso del suo fragile futuro.

***

Forse è andata così. Forse Virgilio non è riuscito a creare un aldiquà tanto diverso da quello di Omero. Però ha saputo senza dubbio creare un indelebile aldilà. Nel quale, come in ogni squallore, non è difficile scivolare – il difficile è risalire.

Sate sanguine divum,

Tros Anchisiade, facilis descensus Averno:

noctes tacque dies patet atri ianua Ditis;

sed revocare gradum superasque evadere ad auras,

hoc opus, hic labor est.

(Aen., VI, 125-129)

Nato da sangue divino,

troiano figlio di Anchise, discendere agli Inferi è facile:

notte e giorno sta aperta la porta del nero Dite,

ma richiamare il passo, uscire all’aria,

questa è l’impresa e la fatica.

Impressionante è rileggere adesso il VI canto dell’Eneide – o leggerlo per la prima volta, se non si è fatto a scuola. Scorrendo questi versi di Virgilio, il debito nei confronti di Omero, che spesso gli è stato rinfacciato, rimpicciolisce di molto.

A crescere enormemente è invece il debito che a Virgilio deve tutta la letteratura successiva – a partire da Dante, la cui Commedia senza il VI canto non sarebbe nemmeno esistita. Di fatto, è stato Virgilio a creare ex novo tutta la geografia degli inferi che per noi oggi è un topos letterario ben definito, fatto di ombre, rovi, latrati, traghettatori, anime brutalmente tormentate e impalpabili spiriti beati. Se è vero che il primo viaggio letterario nell’Ade – per dirlo in greco, una “catabasi”, la discesa nelle viscere della terra, o una nèkyia, il rito in cui le anime dei defunti profetizzano il futuro – si ebbe già nel X e XI canto dell’Odissea, dove Ulisse incontra, tra gli altri, Agamennone, Patroclo e Achille, il VI canto da solo ha la potenza di fare dell’Eneide un insuperabile capolavoro.

Perché Enea all’inferno non si limita a scendere e a restare a bocca aperta. Procede invece con pectore firmo, con “fermezza” (Aen., VI, 261): dell’Ade vuole capire i criteri e le leggi che assoggettano i morti, non cessa di chiedere conto alla Sibilla e alle ombre che incontra – proprio come farà Dante nel suo cammino di conoscenza verso il paradiso, e Virgilio sarà la sua guida.

Leggendo oggi il VI canto, si seguono i passi in discesa di Enea e della Sibilla e intanto si scorgono le scene infernali ritratte da William Blake; si ritrovano i caduti troiani e intanto si rabbrividisce di fronte ai trionfi della morte tardomedievali; si gode della fierezza di Didone mentre nelle orecchie risuona una melodia barocca di Bach o di Händel.

Di certo, si legge e si trema.

È stato a lungo discusso quale ruolo rivesta il VI canto nell’Eneide. Se si tratti soltanto di un funzionale intermezzo tra la sezione odissiaca e la successiva sezione iliadica del poema – Enea si reca nell’aldilà da solo, lasciati i compagni sulla spiaggia di Cuma dopo la perdita del nocchiere Palinuro, caduto in mare tentato dal Sonno –; o se invece non sia questa la parte dell’Eneide in cui Virgilio è più libero di mettere a frutto il suo intuito poetico, sgravato dal peso della tradizione omerica e dalla necessità di far proseguire la trama – oltre a consegnarci qui la sua cifra umana.

Comunque sia, l’effetto è quello di una potente distopia. Il futuro che attende Roma è sì glorioso, ma è narrato da un morto nel regno dei morti quale opera di genti non ancora nate, lì osservate sotto forma di spettri. Tutto lo splendore che il principato porterà con sé Enea lo apprende nell’aldilà, al di sotto del lago Averno, varcata “una grotta profonda, con una spaventosa apertura / tra le pietre, protetta dal lago nero e dal buio della foresta / sopra la quale nessun uccello poteva impunemente / volare, tale è l’alito che si esalava dalla nera gola / e saliva alla volta del cielo” (Aen., VI, 237-241).

Celebrati i riti presso il tempio di Apollo a Cuma e data sepoltura al compagno Miseno come imposto dal dio, Enea e la Sibilla invasata ibant oscuri sola sub nocte per umbram, “andavano nel buio, nella notte solitaria” (Aen., VI, 268).

Oltrepassati i giacigli del Pianto, degli Affanni, delle Malattie, della Vecchiaia, del Timore, della Fame, della Miseria, della Morte, della Fatica, del Sonno, “consanguineo della morte” (Aen., VI, 278) – probabilmente s’intende lo stato d’incoscienza dovuto all’ebbrezza, non il riposo ristoratore –, della Guerra e della Discordia, i due incontrano i mostruosi esseri che, secondo il mito classico, popolano l’Ade: la Chimera, le Gorgoni, le Arpie.

Sulla soglia degli inferi, laddove le anime si accalcano gemendo per essere trasportate verso il destino eterno che le attende, Enea viene interrogato dal traghettatore Caronte – non è ammesso che un vivente scenda fino al regno dei morti, troppo penosi erano già stati i precedenti di Ercole e di Orfeo e Piritoo. Enea mostra allora il ramo d’oro, lasciapassare e dono per la moglie di Ade, Proserpina, che aveva colto in precedenza su suggerimento della Sibilla (Aen., VI, 403-407):

“Troius Aeneas, pietate insignis et armis,

ad genitorem imas Erebi descendit ad umbras.

Si te nulla movet tantae pietatis imago,

at ramum hunc”, aperit ramum qui veste latebat,

“agnoscas”.

“Enea troiano, insigne per pietas e valore,

scende alle profonde ombre dell’Erebo a cercare il padre:

se non ti commuove l’immagine di tanto affetto,

riconosci il ramo”, e scoprì il ramo nascosto sotto la veste.

Ed ecco che l’eroe viene ammesso a bordo della barca infernale che “cigolò sotto il peso / e imbarcò molta acqua dalle fessure” (Aen., VI, 413-414) – la carne e le ossa di un vivente pesano più delle anime dei morti, si legge in Virgilio ma pare di leggere Dante.

Addormentato con una focaccia magica il cane Cerbero, Enea e la Sibilla passano in rassegna le ombre dei bambini morti prematuramente e dei suicidi che “odiando la luce, / gettarono via la vita” (Aen., VI, 435-436). È qui, tra coloro che “l’amore rose con morbo crudele” (Aen., VI, 442) e condannati a soffrire le pene di cuore anche nell’oltretomba, che Enea riconosce Didone. Alla vista dell’uomo che un tempo ha tanto amato, la donna risponde con un’occhiata inimica, “ostile” (Aen., VI, 472), tornando a nascondersi nei “campi del pianto” (Aen., VI, 473) in cui eternamente vaga ricongiunta al marito Sicheo.

Segue poi il catalogo dei morti in battaglia, dove l’eroe ritrova alcuni Troiani, tra cui Glauco e Deifobo, il fratello più caro di Ettore, orrendamente sfigurato da Elena quando, morto Paride, divenne sua moglie e lo tradì consegnandolo a Menelao. È l’abisso del Tartaro, segnato dallo scorrere del fiume Flegetonte, la sede riservata alla punizione dei grandi colpevoli.

Enea apprende dalla Sibilla che qui risiedono Giganti e Titani, Centauri e i Lapiti, insieme a tutti coloro che in vita tradirono la patria o i familiari, scovarono ricchezze segrete e le tennero tutte per sé, non rispettarono la giustizia o disprezzarono gli dèi. E molti, molti altri ancora (Aen., VI, 625-627):

Non, mihi si linguae centum sint oraque centum,

ferrea vox, omnis scelerum comprendere formas,

omnia poenarum percurrere nomina possim.

Se avessi cento lingue e cento bocche e una voce

di ferro non riuscirei ad abbracciare tutte le forme

del crimine, a ripercorrere tutti i nomi delle punizioni.

Finalmente, consegnato il ramoscello d’oro a Proserpina, di fronte a Enea si apre lo spettacolo commovente dei Campi Elisi. Qui dimorano i poeti, i sacerdoti, coloro che amarono la patria, coloro che ispirarono la vita alla pietas, il capo cinto da bende. E qui trascorrono il tempo eterno i fondatori di Troia – “l’amore dei carri / e delle armi che ebbero in vita, la cura di allevare cavalli / splendidi li segue anche sepolti in terra” (Aen., VI, 653-655).

Appartato in una valle verde, mentre osserva le anime in procinto di salire alla luce e di reincarnarsi in un corpo, Enea finalmente scorge l’amato padre Anchise. Il loro incontro è segnato da lacrime di gioia e dal vano tentativo di abbracciarsi, come già era accaduto con l’ombra Creusa (Aen., II, 794): “tre volte tentò di gettargli le braccia al collo, / tre volte l’immagine inutilmente afferrata gli sfuggì dalle mani / come i venti leggeri, similissima al sonno alato” (Aen., VI, 700-702).

Dopo una sezione escatologica di matrice platonica, in cui Anchise illustra al figlio i disegni universali e i principi che regolano la metempsicosi delle anime, per Enea è giunto il momento di rallegrarsi. E di scoprire l’Italia (Aen., VI, 756-759):

Nunc age, Dardaniam prolem quae deinde sequatur

gloria, qui maneant Itala de gente nepotes,

inlustris animas nostrumque in nomen ituras,

expediam dictis, et te tua fata docebo.

Ora ti dirò la gloria che aspetta la stirpe di Dardano,

e quali discendenti verranno dalla gente italica,

e le anime illustri che avranno il nostro nome:

tutto questo ti dirò e ti mostrerò i tuoi fati.

Una per una, Anchise mostra a Enea le genti che da lui discenderanno – e che faranno la gloria di Roma. Il primo è suo figlio, che si dice regnerà su Alba Longa (deve trattarsi di un altro figlio che l’eroe avrà da Lavinia, non sembra qui possibile un riferimento ad Ascanio/Iulo, che la città di Alba Longa deve ancora fondarla – è forse questa l’incongruenza più grave tra le centinaia che punteggiano l’Eneide).

Dopo la successione dei re Albani, ecco farsi avanti l’anima di Romolo, che su sette colli fonderà la nobile Roma, città che “estenderà l’impero su tutta la terra e l’animo al cielo” (Aen., VI, 782) – in questo verso Paul Veyne propone di tradurre il latino animos addirittura con “fierezza”. Infine, ecco il nucleo della profezia di Anchise (Aen., VI, 791-795):

Hic vir, hic est, tibi quem promitti saepius audis,

Augustus Caesar, divi genus, aurea condet

saecula qui rursus Latio regnata per arva

Saturno quondam, super et Garamantas et Indos

proferet imperium.

Questi è l’uomo che spesso ti senti promettere,

Cesare Augusto, figlio del Divino, che stabilirà

di nuovo l’età dell’oro nel Lazio, nei campi governati

da Saturno una volta, ed estenderà il suo impero

sui Garamanti e sugli Indi.

Enea allora ascolta dal padre le vittorie militari di Augusto, che estese il dominio di Roma in Africa e in Oriente fin “al di fuori dello Zodiaco” (Aen., VI, 795). Segue poi un excursus in ordine cronologico dei successori di Romolo: sono elencati i sette re, Numa Pompilio, canuto sebbene ancora giovane, quale simbolo di saggezza, il guerriero Tullio Ostilio, Anco Marzio (che Anchise critica per un atteggiamento populista di cui non abbiamo però notizia), e i tre Tarquini, Prisco, Servio Tullio e il Superbo, fino alla fondazione della S.P.Q.R.

Ecco poi il catalogo degli eroi della repubblica: i Deci, i Drusi (alla cui famiglia apparteneva la moglie di Augusto, Livia Drusilla), Torquato, Camillo – fino al sanguinoso strappo delle guerre civili tra Cesare e Pompeo. Così ammonisce Anchise: “No, figli, no, non abituatevi a queste guerre nell’animo, / non portate le forze contro le viscere della vostra patria” (Aen., VI, 832-833).

E ancora si appresteranno a nascere, tra gli altri, Catone il Censore, i Gracchi, Scipione l’Africano e quello Emiliano, l’uno vincitore a Zama e l’altro che rase al suolo Cartagine, Gaio Attilio Regolo e Quinto Fabio Massimo, che logorò Annibale cunctando, “temporeggiando” (Aen., VI, 846). Improvvisamente, l’atmosfera trionfale è squarciata dal dolore.

Virgilio inserisce qui un triste riferimento al giovane nipote defunto di Augusto, figlio della sorella Ottavia, che l’imperatore aveva adottato nel 25 a.C. designandolo suo successore – un riferimento con fini adulatori e del tutto pretestuoso, bisogna ammetterlo, giustificato soltanto poiché il ragazzo porta lo stesso nome di quel Marco Claudio Marcello vincitore sui Galli a Casteggio nel 222 a.C. Alla morte del giovane, il princeps aveva proclamato un lungo lutto cittadino e in sua memoria aveva portato a termine il teatro di Marcello, la cui costruzione era stata avviata da Cesare nell’area meridionale del Campo Marzio (abbattendo degli edifici preesistenti, tra cui un tempio alla Pietas).

Virgilio non si sottrae dunque alla commozione imperiale, citando Marcello come un “giovane bellissimo e risplendente nelle armi” (Aen., VI, 861), con le stesse fattezze del puer predestinato nella IV ecloga delle Bucoliche, ma con lo sguardo basso e il volto triste. Pare che Ottavia, leggendo il passo, sia svenuta dal troppo piangere – e anche in questi versi i digiuni di storia hanno creduto di scorgere la venuta di Gesù Cristo.

Infine, il tempo corre anche in paradiso. Dopo che Anchise ha predetto a Enea le guerre e le fatiche da sopportare nel Lazio, l’eroe deve affrettarsi a risalire alla luce. Dispiegato è il futuro di Roma. Un futuro ancora tutto da compiere nel segno di queste parole (Aen., VI, 851-853):

Tu regere imperio populos, Romane, memento:

hae tibi erunt artes, pacisque imponere morem,

parcere subiectis et debellare superbos.

Ma voi Romani ricordatevi di governare i popoli,

questa è la vostra arte, imporre regole

alla pace, risparmiare chi si sottomette e debellare i superbi.

Le porte dei sogni

Un vecchio detto recita più o meno così: bisogna fare attenzione a ciò che si desidera, il rischio è che si avveri. Quando, nell’Eneide, Virgilio descrive il glorioso avvenire che attende Roma sotto l’egida di Augusto, buona parte di quel futuro per lui è ormai presente. E non è poi così glorioso come si era sperato.

Se Virgilio credette nel progetto di Augusto, non fu perché venne costretto o minacciato, ma perché aveva bisogno di credere in qualcosa, e in qualcuno. Come tutti. Quando smise di prestare fiducia, non prese però a rinnegare o a insultare colui nel quale aveva creduto. Preferì invece cristallizzare il ricordo laddove aveva potuto dirsi felice, in modo che nessuno potesse sporcarlo – gli anni immediatamente successivi alla battaglia di Azio del 31 a.C., fino alla morte in circostanze non chiare dell’amico Cornelio Gallo nel 26 a.C.

Cinque anni, non di più: è questo il tempo in cui a Virgilio fu concesso di dirsi poeta augusteo. È questo il tempo in cui è fissata – inchiodata – l’Eneide. Dopo, il silenzio. Di quello che avvenne in seguito, negli anni che separarono Virgilio dalla morte, nel 19 a.C., e in cui non smise di scrivere incessantemente, nell’Eneide non c’è alcuna traccia. Non un cenno sull’andamento del principato di Augusto, non un riferimento alla repubblica definitivamente smantellata, non un rimando alle tensioni crescenti per la successione al trono di Roma.

Forse era sgomento, Virgilio, forse non riusciva a trovare le parole. O forse non voleva cedere, proprio come il suo Enea, ed essere dunque costretto a riconoscere di essersi sbagliato, credendo. Forse non voleva ritrovarsi a dover ammettere che l’età dell’oro che Roma aveva tanto atteso non era andata più in là di un sogno imploso – perché quello che si stava avverando era, invece, un incubo.

Del resto, Augusto a un certo punto si mise a scrivere da solo tutto ciò che aveva realizzato in vita, senza avere più bisogno di attendere l’Eneide di Virgilio. Sono le sue Res gestae divi Augusti, o Index rerum gestarum, il catalogo dettagliato di tutto ciò che aveva compiuto (nonché un’opera letteraria interessantissima poiché sfugge a ogni classificazione, oltre che per le sorti appassionanti delle sue copie epigrafiche). Secondo il volere dell’imperatore, alla sua morte le Res gestae sarebbero dovute essere incise su tavole di bronzo e affisse pubblicamente davanti al suo mausoleo in prossimità dell’Ara Pacis.

Nell’Eneide Virgilio si avvalse sempre del sottile vantaggio dato dall’eleganza. Se mai dovette provare delusione e rimorso, due sono i passaggi in cui tutto ciò emerge – ma emerge sfumato, in una dimensione minuta e privata, quasi onirica. Fuori dalle profezie, la città di Azio appare molto concreta nel III libro – il canto più problematico di tutta l’Eneide, dove un intero verso, il 340, non ha senso compiuto, segno forse di una sua scrittura (o riscrittura) posteriore all’impianto globale del poema.

Nel loro viaggio verso il Lazio, i Troiani costeggiano il regno dell’odiato Ulisse e approdano nei pressi del promontorio di Azio, nella Grecia occidentale. Qui, dopo aver compiuto i sacrifici in onore di Giove e degli altri dèi, gli esuli celebrano i giochi in omaggio alla perduta Troia, che da allora prenderanno il nome di Actia, dalla città di Actium (Aen., III, 278-290). All’epoca di Enea, Azio doveva essere poco più di una parva urbs, un piccolo villaggio, dove però l’eroe sceglie di lasciare ad eterna memoria uno scudo cavo di bronzo con inciso: “ENEA OFFRE QUESTE ARMI STRAPPATE AI GRECI VINCITORI” (Aen., III, 288). Da allora Azio, che quasi mille anni dopo vedrà la vittoria di Ottaviano contro Antonio e Cleopatra, prenderà il nome di Nicopoli, la “città della vittoria”, appunto.

Questa sottolineatura di grandi speranze riposte in piccolissimi, quasi vani segni si ritrova poco più in là, sempre nel III canto. Nel loro peregrinare per mare, Enea e i compagni approdano in seguito sul lido di Butroto, nell’attuale Albania, vicino al confine con la Grecia. Qui regna Andromaca che, liberata dal vincolo della schiavitù cui era stata costretta dopo la morte di Ettore, si è unita in matrimonio a Eleno. I due hanno costruito sulla spiaggia una miniatura di Troia che così appare agli occhi di Enea (Aen., III, 349-351):

Procedo et parvam Troiam simulataque magnis

Pergama et arentem Xanthi cognomine rivum

agnosco, Scaeaeque amplector limina portae.

Procedo e riconosco una piccola Troia, una Pergamo

che imita la grande, un fiume arido che ha nome Xanto

e bacio la soglia di una porta Scea.

Non può essere soltanto per lenire la nostalgia dei profughi che Andromaca ed Eleno hanno riprodotto, in scala, l’antica città natale. Questi versi sollevano, infatti, non pochi problemi circa l’ambiguità della missione che Enea è in procinto di realizzare – la cui meta appare, in questa sede, quasi un ossimoro.

Nel rapporto tra “piccolo” e “grande” emerge tutto il paradosso insito nei Penati che l’ombra di Ettore aveva affidato a Enea (Aen., II, 293) mentre la città andava in cenere. I Penati rappresentano infatti il radicamento dell’identità a un preciso modello sociale, politico e culturale – non sono statuette passe-partout che si possono spostare con scioltezza da un’istituzione politica ad un’altra. Quindi, che senso potrà avere la fondazione di Roma e l’insigne destino che l’attende se non sarà retta dal patto di restare sempre sé stessa?

Non è tanto nella grandiosità, sembra suggerire qui Virgilio, che è da ricercare la gloria se il prezzo è quello di snaturare il Fato. Piuttosto, è nella fedeltà in ciò che si è, in ciò in cui si crede. Solo così ci si può dire pienamente appagati, come Andromaca ed Eleno, che vivono una città sì più piccola e povera di Troia, ma identica nei valori fondativi (Aen., III, 493-495):

Vivite felices, quibus est fortuna peracta

iam sua: nos alia ex aliis in fata vocamur.

Vobis parta quies.

Vivete felici, voi per i quali la sorte è conclusa.

Noi siamo chiamati da un fato ad un altro,

voi avete raggiunto la pace.

***

Prima di concludere, torniamo per un istante laddove avevamo lasciato Enea alla fine del VI canto.

No, nell’Eneide non sembra essere così difficile risalire dall’inferno, come aveva predetto la Sibilla. Impossibile è invece ricordare.

Sunt geminae Somni portae, quarum altera fertur

cornea, qua veris facilis datur exitus umbris,

altera candenti perfecta nitens elephanto,

sed falsa ad caelum mittunt insomnia Manes.

His ibi tum natum Anchises unaque Sibyllam

prosequitur dictis portaque emittit eburna,

ille viam secat ad navis sociosque revisit.

Tum se ad Caietae recto fert limite portum.

(Aen., VI, 893-900)

Due sono le porte del Sonno, una, si dice, di corno

attraverso la quale hanno facile uscita le ombre vere;

l’altra risplende, fatta di candido avorio;

ma i Mani mandano al cielo i sogni falsi.

Qui Anchise accompagnò il figlio e con lui la Sibilla,

parlando, e lo fece uscire dalla porta d’avorio.

Tagliò la via verso le navi e rivide i compagni;

poi per la spiaggia diritta raggiunse Gaeta.

Se la descrizione delle due porte dei Sogni è tratta alla lettera dall’Odissea (XIX, 562-567), ciò che ha sconcertato generazioni di lettori dell’Eneide è dove Anchise conduce il figlio dopo avergli profetizzato dettagliatamente il futuro di Roma: attraverso la soglia dei sogni falsi.

Che dire. Si tratta pur sempre di una manciata di versi, di un rapidissimo accenno non collegato al resto della trama – forse non ha alcun significato simbolico, come suggeriscono alcuni studiosi? Si può derubricare a refuso senza importanza? In fondo, esistono sogni che possono dirsi completamente veri o completamente falsi?

Certo è che, appena oltrepassata la porta dei sogni ingannevoli, Enea non ha più alcun ricordo delle parole paterne: dal successivo libro, il VII, fino alla fine del poema, l’eroe reagirà con sincera sorpresa a tutti gli eventi che il Fato gli sottopone. Della profezia di Anchise Enea dimentica tutto, non trattiene niente. Epperò il lettore non scorda nulla di ciò che attende l’eroe fino alla fondazione di Roma.

Legittimo dunque, viste queste precise parole di Virgilio, chiedersi a cosa serva davvero il VI canto. A che scopo imbastire, nel mezzo del poema, novecento versi di oracoli infernali se il protagonista dimentica ciò che ha appreso non appena rivede la luce? Se una risposta univoca non è data all’interno dell’Eneide, dove non si farà mai più un minimo accenno ai vaticini di Anchise, è lecito pensare che oltrepassare quella porta d’avorio non serva tanto a Enea, quanto al poeta.

È Virgilio ad aver creduto di toccare con mano l’età dell’oro, senza accorgersi però di aver varcato la soglia delle menzogne. Non era tra ombre vere che il poeta ha sperimentato la pace, la concordia e la serenità – perlomeno, che ha assaggiato il sapore della tregua. Non importa, sembra dire qui Virgilio, mentre insieme a Enea viene bruscamente riconsegnato al reale. Non ha alcuna intenzione di cancellare il suo sogno, pur se falso – pure se ora tra le mani stringe un’epoca non d’oro splendente come sperato, ma di arrugginito ferro.