I.
Come nasce questo libro

Ogni cosa permane –

ogni cosa rimane –

ogni cosa sussiste –

ogni cosa resiste –

(Giorgio Manganelli, in Appendice IIA, Poesie)

La verità è che questo libro non volevo scriverlo. Su Virgilio, avrei preferito continuare ad avere le idee confuse e oscillanti, incerta se la sua poesia mi piacesse oppure mi annoiasse a morte. L’Eneide avrei forse preferito continuare ad aprirla per curiosità ogni tre o quattro anni, come ho fatto dai tempi dell’università – annotare sui miei taccuini ciò che del poema non mi tornava, rimandando a data da destinarsi il dovere di capire.

A un certo punto ci avevo persino provato a comprendere sul serio Virgilio, e non senza testardaggine. All’epoca non ne avevo cavato che appunti sparsi, intuizioni fragili, magari da sciogliere in un progetto di libro, rimandato poi così a lungo che ho finito per dimenticarmene. Mi mancava l’urgenza.

Poi il Natale di un anno fa, mentre mi preparavo a traslocare da Roma a Parigi, quei taccuini sono riemersi dagli scatoloni: li riaprii con la curiosità di contemplare com’ero stata, dalla sponda di ciò che ero diventata. Mi colpì notare come avessi cercato di indagare il senso dell’Eneide già tempo prima di catalogare le mie personalissime ragioni per amare il greco. Soprattutto, mi colpì dover prendere atto del mio fallimento. Anni dopo ero più indietro di quando ero partita, costretta a riconoscere come del poema virgiliano non avevo ancora capito niente. E anziché prendermela con me stessa e obbligarmi ad andare a fondo, mi beai della mia superficialità e presi a deridere Virgilio – come nella storia hanno fatto in tanti, del resto.

Va detto che abbiamo sempre vissuto in un tempo così dissimile per peso specifico da quello attuale che, allora, non avevo proprio il tempo necessario per comprendere l’Eneide, e senz’altro fino a pochi mesi fa sarebbe sembrato folle chiudersi in casa per farlo, non ne avevo nessuna intenzione. Va pure detto che mi stava benissimo continuare a vivere senza avere ancora afferrato il suo significato, proposito derubricato nella lista di cose da fare – insieme a, che so, leggere per intero i Veda, migliorare il mio spagnolo, imparare a ballare – sapendo che probabilmente non le avrei fatte mai, troppo immersa nella hybris collettiva che imponeva di correre e produrre e ostentare e viaggiare e fare e disfare. In ogni caso, non che qualcuno lo reclamasse a gran voce, il senso dell’Eneide. Né tantomeno qualcuno lo reclamava da me: da secoli il mondo stava perfettamente in piedi ignorando Virgilio e il suo Enea, e in piedi stavamo comodi tutti.

Un giorno, uno degli ultimi che trascorsi a Roma, portai quel taccuino al mio editor a mo’ di cimelio, per sorridere con lui dei ricordi scampati e dei libri mai nati. Azzardai pure: “E se scrivessi un libro sulle buone ragioni per odiare Enea?”. Poco tempo dopo, il bisogno di Enea mi si parò davanti. Qualcuno direbbe karma, io direi invece pretesa di serietà.

Che il mondo in cui siamo nati e sempre vissuti continuasse ogni mattina a levarsi immutabile – persino migliore di ieri – non era scritto né assicurato da nessuna parte.

Però ci credevamo, e a vicenda ci rassicuravamo.

Inoltre, Enea non è il tipo di eroe che un bel giorno esce dai manuali scolastici per fissarsi solido nel nostro immaginario – non è un Achille che fa da archetipo a ogni nostro scatto di reni, né un Ulisse da tirar fuori al momento buono per giustificare la nostra sete di avventura. Tantomeno l’Eneide è un libro adatto a stare sul comodino per accompagnare immaginifici sogni – di solito giace dimenticato tra gli scaffali in alto della libreria, tra i libri da non rileggere mai più ma che per scaramanzia non ci si azzarda a dare via.

In Enea ci si imbatte, invece. Anzi, ci si inciampa mentre lui sta passando – sempre se non si è già in ginocchio. Si sbatte contro Virgilio quando è il nostro mondo, che credevamo immutabile ed eterno, a essere ormai andato a rotoli. E noi con lui. Così, anche se la conoscevo dai tempi della scuola e all’università avevo persino dato degli esami su Virgilio, nell’Eneide mi sono ufficialmente imbattuta i primi giorni di marzo di quest’anno, durante l’isolamento sanitario imposto dalla pandemia.

Risulterà strano dirlo – risulta strano innanzitutto a me, scrivendo. Ma è stato allora che ho incontrato per la prima volta Enea.

***

In un articolo dal titolo Noi, Enea, apparso nel 1949 sulla rivista “La fiera letteraria”, il poeta Giorgio Caproni scrive:

Io ho girato molte città d’Italia, ma Enea non l’ho conosciuto altrove. Perlomeno non ho incontrato l’unico Enea possibile, l’unico Enea veramente vivo nella sua solitudine e nella sua umanità. L’unico Enea insomma che meritava davvero un monumento in mezzo a una piazza, simbolo unico di tutta l’umanità moderna, in questo tempo in cui l’uomo è veramente solo sopra la terra con sulle spalle il peso d’una tradizione ch’egli tenta di sostenere mentre questa non lo sostiene più, e con per mano una speranza ancor troppo piccola e vacillante per potercisi appoggiare e che tuttavia egli deve portare a salvamento.

Il riferimento iniziale è al piccolo monumento di Enea che orna piazza Bandiera a Genova, opera di Francesco Baratta (1726). Si tratta di una delle pochissime statue dedicate all’eroe troiano che si trovano in Italia – e questo la dice lunga sul rapporto, misto tra dimenticanza e fastidio, che da sempre si prova nei confronti di Virgilio, visto che, stando all’Eneide, Enea l’Italia l’ha fondata ex novo.

Fu contemplando il monumento genovese dell’esule che incede affaticato con il padre sulle spalle e il figlioletto per mano che Caproni decise di raccogliere tre poesie dedicate alla prostrazione dell’Italia nel secondo dopoguerra sotto il titolo Il passaggio di Enea (1956). Ed è stato rileggendo il passo riportato sopra – e finalmente capendolo mio malgrado – che l’Eneide mi è diventata all’improvviso indispensabile. Così tanto che, in certi giorni di aprile, mi sono chiesta come avrei fatto senza.

Perché, intanto, “l’umanità moderna” che incede sulle sue stesse macerie di colpo eravamo diventati noi. Allora anch’io, come Caproni, “ho incontrato” l’unico Enea possibile “nella sua solitudine e nella sua umanità”.

Mentre intorno a me il mondo tentava di sostenere uno stile di vita che non poteva sostenere più e mentre ogni speranza era ancora troppo fragile per fare progetti e previsioni, ho iniziato a intravedere quel senso dell’Eneide che ero sempre stata incapace di afferrare. Con esso, si è manifestata anche l’urgenza di scriverne.

Ho richiamato dunque il mio editor, senza azzardarmi più a ridere di Virgilio – anzi, qualche volta rileggendo l’Eneide ho pure pianto. Così è nato questo libro.

***

Infandum, regina, iubes renovare dolorem,

Troianas ut opes et lamentabile regnum

eruerint Danai, quaeque ipse miserrima vidi

et quorum pars magna fui.

(Aen., II, 3-6)

Tu mi comandi, regina, di rinnovare un dolore indicibile,

come i Greci distrussero la potenza troiana ed il regno

infelice, tutto il dolore che ho visto

e di cui sono stato gran parte.

Le mie parole di poco fa possono sembrare strazianti, non fatico a crederlo. Non è certo mia intenzione fare come Didone nei versi citati qui sopra e renovare dolorem con questo libro, per dirlo con le parole di Virgilio divenute una nota locuzione per indicare chi si diverte a girare il coltello nella piaga.

Dalla mia, ho la consapevolezza che sono davvero pochi coloro che ancora oggi ricordano di aver sofferto studiando l’Eneide. Perché nessuno ricorda proprio di averla mai studiata. Eppure abbiamo tutti sofferto, sì – e non poco –, per lo più di noia nel tentare di seguirne la trama o di avvilimento nel provare a declamare a tempo i suoi esametri. Ma – prodigio! – dell’Eneide ce ne siamo subito dimenticati come se ci fosse stato concesso di tuffarci nel fiume Lete una volta giunti all’ultima pagina.

Quello di Virgilio è infatti un poema portentoso, la cui contezza scompare immediatamente dopo aver richiuso i libri scolastici di letteratura, lasciando in cambio il più misterioso – ma senza dubbio il meglio riuscito – esempio didattico di tabula rasa. Inutile accampare scuse. È pure un po’ vigliacco tentare di schermirsi affrettandosi a precisare a mo’ di giustificazione: “Ma io non ho mica fatto il classico!”. Spiace informare i più distratti che l’Eneide si studia innanzitutto alle scuole medie, che tutti devono pure aver frequentato, fosse solo per adempiere gli obblighi di legge. In italiano ovviamente, non certo in latino – quello arriverà più avanti nel cursus honorum scolastico, se proprio si sceglie, cocciuti, di insistere con il classico. E alle medie non la si studia né poco né male.

L’Eneide è infatti sezione fondamentale del programma di quella materia più epica (dunque più leggendaria) del nome che porta, “epica” appunto, le cui nozioni si possono riassumere, per gusto di brevitas, nella formula matematica dell’oblio di ogni sapere: “Si fa a scuola”. Si badi al verbo impiegato: non si studia, si fa, nel senso che si fabbrica concretamente, si produce proprio. Nella fattispecie, si gettano le basi della damnatio memoriae che segue il voto appena più che sufficiente nel compito in classe.

Da quando ho scoperto i dolori che la vita – o il Fato? cercherò di chiarirmi le idee più avanti in questo saggio – ha inflitto a Virgilio, non faccio che ripetere “alla fine aveva cambiato idea” a coloro che liquidano con parole sprezzanti l’Eneide in quanto presunto prodotto della propaganda di Augusto – prodotto, dicono a torto, peraltro mal riuscito se comparato agli espliciti modelli di riferimento, Iliade e Odissea. Occasione di difesa di Virgilio che mi capita assai di rado, del resto, perché nessuno mai ha preso l’iniziativa e mi ha citato per qualsivoglia ragione l’Eneide – sarà senz’altro perché frequento le persone sbagliate. E quando sono stata io a citare l’Eneide, gli sbuffi, i sorrisetti compassionevoli, le facce scocciate, le scuse di cui sopra che sono seguiti alle mie sommesse parole mi hanno spinta subito a cambiare discorso – in ogni caso, sarà accaduto in tutto una volta o due dai tempi delle medie.

È dunque giunto il momento di fare giustizia e riconoscere all’Eneide il valore che merita. Per farlo, dobbiamo tutti rinfrescarci la memoria. Prima di scrivere ho dovuto farlo a mia volta, io che l’Eneide avevo quasi dimenticato di averla letta.

***

C’è una scena nel IV libro dell’Odissea. Al termine di un banchetto nella reggia di Sparta, Menelao e Telemaco – partito da Itaca alla ricerca del padre – scoppiano in singhiozzi sopraffatti dai ricordi delle sofferenze patite durante la guerra di Troia. Un dolore che, se possibile, è reso ancora più acuto dalla parola condivisa. Allora Elena versa nel vino che il marito e i suoi ospiti stanno gustando un misterioso farmaco egizio, il nepente. Una pozione che non cancella il male subìto, ma che lenisce il dolore impedendo di ricordare oltre.

Ecco, rileggere l’Eneide qualche mese fa è stato per me come degustare la poesia di Virgilio senza prima avervi diluito dentro un qualche analgesico. Non si trattava certo della prima volta in cui leggevo il poema, anzi, ma è stata la prima volta in cui ho scorto lo strappo celato sotto ogni suo verso. Mi sono chiesta spesso cosa m’impediva di capire l’Eneide, prima. Cosa mi tratteneva dal tenerla a mente e dal sentirla a me vicina al di là della necessità di conoscerla a menadito in vista di una prova d’esame. La ricerca di una possibile risposta a queste domande è diventata per me un’ossessione da quando, riaprendo il poema di Virgilio, mi sono accorta di non ricordare assolutamente niente – eccetto qualche immagine e la successione degli eventi della trama.

In verità, rileggere l’Eneide la scorsa primavera mi ha sconcertata. Mi sembrava di avere tra le mani un libro inedito, una storia mai narrata che mi apprestavo a scoprire per la prima volta. Mi sono messa a raccontare alle persone a me vicine cosa più mi atterriva del contraccolpo storico che stavamo tutti vivendo e l’ho fatto attraverso l’Eneide. Inaspettatamente ci siamo capiti, e se non meglio di prima, di certo con maggiore onestà.

I versi di Virgilio sono stati una liberazione. La liberazione di riconoscere che il male fa male e perciò è uno scandalo, che la paura non se ne va urlandole contro, che la fatica ha un peso indicibile di cui si farebbe volentieri a meno, che non andrà sempre tutto bene e che nessuno sano di mente aspira a fare l’eroe se non gli è forzatamente imposto – e che c’è ben poco di didattico in una tragedia, se non goduta a teatro. Finalmente l’Eneide mi è apparsa necessaria, dopo essermi risultata incomprensibile e vacua per anni, soltanto per via del momento in cui l’ho riletta.

L’emergenza non aveva portato via il nepente solo a me, ma a un’intera epoca storica. Evaporata l’anestesia con cui tutti avevamo vissuto fino al giorno prima, all’improvviso le circostanze ci imponevano di stringere i denti e di resistere al dolore. Nessuno poteva però ricordare come, perché un taglio così nessuno l’aveva mai sperimentato. Allora eccolo lì, Enea, di nuovo “di passaggio” tremila anni dopo. Questa volta non è sulle macerie di Troia che incede, bensì sulle nostre.

***

Fermiamoci un istante, prima di cominciare. Se ricordate qualcosa, qualunque cosa dell’Eneide (ma qualcosa di preciso intendo, di fattuale, non la solita banalità sbiadita, buona per i quiz televisivi o per i cruciverba come “il povero Enea che fugge da Troia con il vecchio padre sulle spalle” o “la misera Didone suicida per amore”), vi prego: dimenticatelo per un po’, almeno per tutto il tempo che vorrete dedicare a questo libro; e se sarà breve, pazienza.

Se invece avete dimenticato tutto – cesure, figure retoriche, rimandi a Omero e successive riprese dantesche –, ancora meglio: sarà più semplice e onesto lasciarsi sedurre, fino alle lacrime, da una delle vicende umane ed editoriali più tragiche della storia della letteratura. Non sono qui richiesti né il dizionario né la parafrasi; piuttosto dotatevi di empatia, quanta più potete. Sempre se ne avete. Sennò, ripensate a quando sono state le vostre res, le cose vostre e i fatti vostri, a spremervi le lacrime.

Ciò che racconta l’Eneide – e ciò che qui vorrei raccontarvi io – non è la storia di Roma né quella di Enea. È la storia di un uomo. Non dell’uomo antico, bensì dell’uomo contemporaneo – persino dell’uomo futuro, se fosse dato averne notizia. Sempre che non vi sia una differenza sostanziale del sentire, un relativismo del dolore, e che sia dunque lecito pensare che una sconfitta bruci in misura diversa a Troia in fiamme o nel Foro di Cesare appena eretto, nella concitata Firenze di Dante o quando si oltrepassa un anonimo gate di Fiumicino.

In sintesi, quella dell’Eneide è la storia dell’essere umano in quanto tale, con tutta la fatica che è richiesta per vivere e per esserlo, e che tuttavia combatte, insiste, non desiste, quasi sempre si dissipa per continuare a essere l’uomo che è. Quante città, case, villeggiature, amori, abitudini, amici e nemici, ideali politici, sistemi filosofici si possono avvicendare in una sola vita? E quante energie si possono spendere per tutto questo? Quante volte è dato, in una singola esistenza, di restare delusi e dunque di dover reagire?

C’è un numero massimo di trafitture stabilito in principio, cento, mille, diecimila? Esiste un fallo che segna il limite, un contraccolpo non plus ultra, una caduta dopo la quale è concesso di non reagire più? Che aspetto e che conseguenze ha la delusione finale, se mai arriva?

L’Eneide racconta come, da tutto questo spargimento di vivere, non ci si può tirare fuori mai. Bisogna resistere invece, e ancora. Fino alla fine.