III.
Non cosa fare, ma come farlo.
Il ruolo del Fato nell’Eneide
Desideravo vederti:
desidero la fantasia dei tuoi capelli
a inaugurare grida
di libertà in ore troppo lente; la rivolta
dei tuoi polsi terrestri
che muovono inizi di bandiere,
e accusano l’indugio, la disperazione
cauta, il tempo.
Mi occorre l’urlo d’uno sguardo
ed oltre la violenza del tuo esistere
io esigo il gesto d’un tuo riso.
(Giorgio Manganelli, in Appendice IIA, Poesie)
Ci si dimena una vita intera alla ricerca del cosa. Scomposti, al come quasi non si bada. Ingenui crediamo che il corso dell’esistere sia determinato dalla sconfinata gamma delle scelte a noi sottoposte. Cosa fare di noi, degli altri, dello studio, dell’amore, della politica, del mondo fino alle stelle e oltre.
Il quando e il dove e il chi e il perché moltiplicano la parvenza delle possibilità offerte, che appaiono infinite, ogni giorno. Moderni Er del mito di Platone, ci aggiriamo affamati nell’incedere come attraverso le corsie di un ingannevole supermercato. Per ogni categoria di prodotto, esistono almeno tre o quattro varianti di marche, colori, confezioni e aromi diversi, ma parimenti allettanti. Il prezzo di tutto sembra irrisorio – certamente abbordabile, e se non lo è ci penserà il tempo del poi a garantire il credito concesso al tempo di adesso. Non resta che allungare la mano verso lo scaffale. E afferrare.
Che le scorte siano inesauribili nessuno l’ha promesso mai, ma risulta implicito; sciocco è persino domandarselo: si tratta del tacito accordo su cui si fonda il sistema in cui siamo nati. Tuttavia, il limite è sempre imposto e perentorio, anche se non si vede. Ciò che sfugge nell’irrequietezza è che, da tempo immemore, il ventaglio delle possibilità è stato già stabilito da qualcosa che non siamo noi. Alle singole coscienze è concessa la libertà (e il lusso) di dare un nome a quel “qualcosa”: religione, filosofia, natura, caos.
O, come lo chiamò Virgilio, Fato.
Il Fato nell’Eneide
In una vita, gli avvenimenti capaci di scavare un solco netto tra un prima e un dopo sono meno di un manciata. A livello collettivo, alcune rare generazioni, beate, non ne sperimentano che due: nascere, morire. Altre sono chiamate a resistere a una guerra o a una catastrofe naturale. O a una pandemia, come la nostra generazione.
Si tratta di eventi epici nel senso classico, ben differenti dal dolore del singolo, pur feroce ma sempre individuale, poiché sono gli unici che costringono l’uomo a chiedersi cosa sta succedendo “a noi” e non più soltanto “a me”. Eventi rarissimi, in definitiva, ma capaci di stravolgere il cosa, cioè le regole stesse del gioco. E che ci obbligano a ridefinire molto rapidamente il come di ogni nostra azione – per sopravvivere, innanzitutto, senza perdere la dignità. Perché è soltanto sul senso di ogni nostro gesto che sono date infinite possibilità di incidere – alcune salvifiche, altre mortali, la maggior parte banali, geniali rarissime epperò necessarie.
Dalla pragmatica romanitas diciamo discendere la nostra scaltra attitudine nel farci largo per cogliere le occasioni. Del proverbio homo faber fortunae suae ne facciamo scudo ai contraccolpi dell’esistere. Tuttavia, questa celebre massima (utilizzata per la prima volta da Appio Claudio Cieco nelle sue Sententiae, parrebbe) non deroga affatto al cosa stabilito dal Fato né ci proietta in chissà quale dimensione dell’onnipotenza in cui tutto è possibile ex nihilo ed ex abrupto.
L’uomo è sì “fabbro” della sua “sorte” – ciò che in latino si dice fortuna, una vox media che può indicare tanto l’abbattersi indiscriminato del “caso” quanto di una “tempesta”, e che non ha dunque nulla a che vedere con l’idea odierna di “successo”, “buon esito”, “vittoria”, “conquista”. Ma ciò che più spesso sfugge è quanto la fortuna dell’essere umano dipenda interamente dalla modalità con cui compie le sue azioni. Il suo essere “artefice” si muove sempre nel perimetro concesso dal Fato, mai oltre. Di nuovo, l’interrogativo da porsi è come far fronte alla casualità per non arrendersi e per non stramazzare.
Soltanto questo è nell’Eneide il significato del fatum (quasi sempre al neutro plurale, fata, pur conservando il senso singolare). Non si tratta di dover costantemente interrogarsi su cosa accadrà, tappa dopo tappa, al profugo Enea in fuga da Troia in fiamme – già si sa dal primo verso, fonderà Roma. È il come accadrà ad essere in gioco, e a dover essere narrato.
Il pubblico trattiene il fiato scoprendo come si abbatterà il colpo su Enea; è qui che si crea la suspense, non certo nella vacua speranza di una storiella a lieto fine senza impicci. Soprattutto, il lettore trasalisce nello scoprire come Enea a quel colpo resisterà – e, senza troppi strepiti, come si risolleverà. Non per eroismo né per gloria. Per necessità.
Perché altro Enea non può fare. Né tantomeno sa farlo.
Di seguito, prima di proseguire, il Fato virgiliano in una sintesi ancora più schietta. Stiamo tutti giocando la stessa partita. Che qualcuno vincerà, che qualcun altro perderà, lo sappiamo già prima del fischio d’inizio – le regole sono le stesse per tutti, e il ruolo dell’arbitro spetta al Fato. Il punto è vedere come, quella partita chiamata vita, ce la sappiamo giocare. Sempre si qua fata sinant, “se i fati lo permettano” (Aen., I, 18).
Cosa, nell’Eneide
Arma virumque cano, Troiae qui primus ab oris
Italiam, fato profugus, Laviniaque venit
litora, multum ille et terris iactatus et alto
vi superum saevae memorem Iunonis ob iram;
multa quoque et bello passus, dum conderet urbem,
inferretque deos Latio, genus unde Latinum,
Albanique patres, atque altae moenia Romae.
(Aen., I, 1-7)
Canto le armi e l’uomo che per primo, profugo dalla terra
di Troia per volere del fato, giunse in Italia, alle spiagge
di Lavinio, molto sbattuto in terra e in mare
dalla violenza divina per l’ira memore della crudele
Giunone, e molto soffrì anche in guerra per arrivare a fondare
una città, e a portare nel Lazio i suoi dei, da cui derivano
i Latini, i padri Albani e le mura dell’alta Roma.
Cano. Ovvero “io”, Virgilio, “canto”. “Sono io” a narrarvi la vicenda di Enea che, esule da Troia, navigò verso il Lazio seguendo il volere del Fato per fondare Roma. Non è l’omerica Musa a cantare al posto mio. D’ora innanzi il poeta non è più un portavoce agli uomini della parola della divinità.
Da subito, nel proemio dell’Eneide, Virgilio rivendica la sua presenza. Ribadisce la sua resistenza, in prima persona – ripensando al modello omerico, non è affatto scontato. Secondo alcuni, però, questi versi non sarebbero nemmeno i primi, quelli che il poeta aveva originariamente scelto per aprire l’Eneide. Come se a Virgilio il solo verbo cano non bastasse per prendere poetica posizione e reclamasse anche il pronome di prima persona singolare, ego.
Elio Donato, nella sua Vita di Virgilio (riprendendo una notizia riportata a sua volta dal grammaticus Niso), afferma che i primi quattro versi originali dell’Eneide sarebbero stati eliminati in vista della pubblicazione postuma. Eccoli di seguito:
Ille ego, qui quondam gracili modulatus avena
carmen et egressus silvis vicina coegi,
ut quamvis avido parerent arva colono,
gratum opus agricolis, at nunc horrentia Martis.
Quell’io che su gracile canna modulavo una volta
il canto, e uscito dai boschi costrinsi i campi vicini
a far contento anche il colono più avido,
opera grata ai coltivatori, l’orrida ora di Marte.
(Traduzione di Rosa Calzecchi Onesti)
Non sono certa valga la pena ripercorrere qui tutte le ipotesi filologiche avanzate nei secoli per approvarne o per confutarne l’autenticità sulla base di considerazioni linguistiche e formali (rapidissima sintesi: Rosa Calzecchi Onesti li accoglie senza remore, Paul Veyne li ammette con qualche dubbio, Guido Paduano li censura).
Più interessante sarebbe invece improvvisarsi detective virgiliani e cercare di risolvere il giallo sulla base degli indizi a nostra disposizione. Ma sarebbe troppo facile. Non c’è bisogno di Sherlock Holmes. Ogni lettore sbotterebbe “Augusto!” alla domanda del pubblico ministero (immaginatelo con il piglio di Cicerone) durante l’arringa finale: “Chi mai poteva sentirsi sminuito, per non dire offeso, dal fatto che il poema che narra la genesi di Roma iniziasse con un ‘ego’ auto-riferito al poeta stesso?”.
Basti sapere che questi quattro versi costituiscono una sorta di “bibliografia” di Virgilio, il quale, dopo aver composto le Bucoliche (si veda il riferimento alla “canna”, cioè alla zampogna) e le Georgiche (i campi e la costante lotta tra natura e agricoltore), ora si appresta fiero a cantare la grande storia di Enea. Comunque sia andata, la successione arma virumque cano è diventata fin da subito antonomastica per indicare l’incipit dell’Eneide.
Veniamo al cosa, dunque. Alla trama. Un eroe troiano, fato profugus, “profugo per volere del fato”, viaggia in lungo e in largo per mare scontando l’ostilità di Giunone, fino ad approdare in Italia, nel Lazio. Qui, dopo una guerra con gli abitanti locali, fonda una città dalle alte mura e la chiama Roma. Si tratta forse di una storia inedita, mai sentita prima, anzi, mai nemmeno immaginata?
Lo scopo di Virgilio era forse quello di far sobbalzare il lettore dallo stupore? Di impressionarlo – di più, di sconcertarlo? Avvicinarsi all’Eneide alla ricerca dell’effetto sorpresa o del colpo di scena è il modo peggiore per leggere il poema e coglierne il senso – e il modo migliore per restare delusi. Poiché sbalordire non è consentito a Virgilio dalla natura stessa del poema.
La trama dell’Eneide non è quella di un racconto “a imprese” – in cui ogni avventura apre inediti scenari che, una volta superati, conducono all’avventura successiva –, bensì “a missione”, ovvero la fondazione finale di Roma. Missione stabilita dal Fato e svelata al lettore al secondo verso senza alcuna pretesa di suspense.
Si pensi per un istante ai proemi dell’Iliade e dell’Odissea: nell’Eneide non c’è da scoprire cosa produrrà l’ira funesta del protagonista né da seguire il nostos di un viaggiatore dal multiforme ingegno sulla rotta di casa. Qui c’è una città da fondare, è questo lo scopo ultimo di Enea stabilito dal Fato. Ed è spudoratamente chiaro fin da subito. Significa quindi che nell’Eneide non succede nulla e che dobbiamo arrenderci al già detto e al già sentito?
In realtà, succede moltissimo. L’Eneide è un racconto in cui l’eroe è, nell’ordine: un predestinato, un perdente, un viaggiatore, un amante, un condottiero e, infine, un fondatore. L’azione si svolge in Asia, in Nord Africa e in Europa; per terra, per mare, in cielo e pure negli inferi. Viaggi, naufragi, combattimenti, assedi, amori, apparizioni, nascite e morti si susseguono. Così come eroi, traditori, madri, padri, mogli, amanti, adolescenti, vergini guerriere, fantasmi. C’è persino una regina che fa l’amore in una grotta e poi si dà la morte.
Tutto questo, sempre tenendo bene a mente che il “cosa succede” lo stabilisce il Fato. È questo il solo spazio in cui a Enea – e al lettore – è concesso di muoversi. Come si vedrà, non è per niente poco.
***
La leggenda al centro dell’Eneide era nota a tutti fin dai tempi di Omero. E non risultando pressoché nulla di attestato prima di Omero, possiamo azzardare che fosse nota da sempre.
Per contrastare il curioso astigmatismo che vorrebbe tutti gli autori antichi impegnati a scrivere sugli stessi temi nello stesso momento storico – e pure se tra l’uno e l’altro intercorsero due o tre secoli “che sarà mai, sempre classico è!” –, vale la pena di ricordare che tra il canto della Musa a Omero e quello fieramente rivendicato da Virgilio passarono quasi ottocento anni. Questo per dire che il lettore romano della fine del I secolo a.C. la storia di Enea doveva averla già sentita molte volte, per di più in molte versioni diverse in occasioni differenti. Soprattutto, questo per confermare che Virgilio non puntava certo sulla dabbenaggine di lettori disattenti, così smemorati da prendere per nuova o seminuova una saga che era alla base stessa dell’epica greco-romana. D’altronde, sarebbe un po’ come puntare oggi al premio Nobel per l’originalità con un’opera che racconta di un signore “nel mezzo del cammin della sua vita” in viaggio nell’aldilà sperando che nessuno si ricordi più di Dante Alighieri.
Si tratta di precisazioni che possono apparire forse scontate, ma a cui tengo molto. Ne ho anzi un gran bisogno per ribattere a tutti i commenti maligni di coloro che di Virgilio pensano: “Ha copiato Omero!” (con la sadica aggiunta, la maggior parte delle volte: “E non ha nemmeno copiato granché bene, visto il risultato!”). È arrivato il momento di smontare le dicerie secondo le quali Virgilio sarebbe stato a corto di talento e di fantasia e si sarebbe ridotto al mero plagio di Omero.
“No, grazie, l’Eneide non la leggo, ho già letto l’Odissea”, mi hanno persino risposto una volta, come se una escludesse l’altra. Un po’ come se aver letto Le correzioni di Jonathan Franzen esentasse dal leggere anche Il colibrì di Sandro Veronesi.
È ora di fare chiarezza, e molta giustizia. Non c’è bisogno di addentrarsi adesso nello strutturalismo di Claude Lévi-Strauss e di Ferdinand de Saussure, né vale la pena tirar fuori quel motto spesso ripetuto da coloro cui fa difetto l’inventiva – ma non la propensione all’imitazione –, secondo il quale ogni storia sarebbe in realtà una rivisitazione (più o meno letterale) di altre storie già scritte perché, alla fin fine, siamo tutti nani sulle spalle dei giganti (questi ultimi, però, mai citati in bibliografia). Chi ancora oggi pensa che il racconto di un contesto non dipenda dal contesto in cui nasce e prende forma, e che sia dunque possibile trovare una landa intellettuale incontaminata dove le idee sgorgano vergini come nell’iperuranio platonico, verrà deluso dalla prova dei fatti.
Non è tanto questione di radici culturali, di colonizzazione ideologica né di pre-/post-condizionamenti – tutte teorie pericolosissime, a mio avviso, spesso brandite da soggetti propensi all’identitarismo ma con scarsa attitudine alla lettura delle opere che contestano o che celebrano. Il punto è che sarebbe come costruire il quarto piano di una casa pretendendo di omettere il secondo e il terzo.
Se ogni elemento di ogni storia ha una relazione con le altre storie di cui non fa cenno, ma nelle quali sincronicamente è inserito – una relazione senza la quale, agli occhi e alle orecchie del lettore, non sarebbe neppure una storia ma un incomprensibile, folle soliloquio –, allo stesso modo Virgilio scelse di erigere la sua narrazione. Non c’è un prima e un dopo in letteratura: tutto è contemporaneo perché circonda chi scrive mentre scrive, come l’aria. E ogni debito contratto si trasforma in credito per la prossima pagina scritta da altri.
In definitiva: l’Eneide esiste a causa di Omero, non grazie a Omero. Se Virgilio riprese una leggenda menzionata forse per la prima volta dal cieco di Chio, non fu affatto per copiarla: fu per renderla più grande, trasformando un rapido cenno omerico in un poema. E siamo tutti liberissimi di farlo, anche oggi – peraltro, in uno dei più recenti manuali per le scuole medie che ho consultato, “scrivi un racconto epico” è uno dei compiti affidati agli alunni.
Le vicende di Enea risultano comprensibili al lettore, di oggi e di ieri, proprio perché già conosce l’Iliade e l’Odissea. Il contrario – un pubblico costretto a domandarsi: “Troia dove? Achille chi? E che guerra? Ma che sorpresa!” – avrebbe reso inutile e vano l’intero impianto narrativo messo in piedi da Virgilio.
Il risultato di un’Eneide senza l’Iliade sarebbe stato, tornando alla metafora di poc’anzi, il quarto piano sorretto da niente: inutile dire che avrebbe presto fatto crollare tutto il palazzo, ossia l’epica antica.
***
D’accordo. Il cosa, la trama dell’Eneide, era già noto a tutti i contemporanei di Virgilio e nessun romano si aspettava colpi di scena. E allora perché siamo noi contemporanei ad aspettarci effetti speciali? Perché troviamo noioso, poco interessante, a tratti scontato, il viaggio di Enea? E perché non possiamo fare a meno di compararlo con i poemi di Omero, aggiungendo cinicamente “a lui sono usciti meglio”?
Del perché non riusciamo a capire il ruolo del Fato – di cui ci azzardiamo a pensare che Enea sia il fantoccio – vedremo tra poco il motivo. Il fatto è che abbiamo completamente smarrito il gesto di restare fermi – la recente emergenza sanitaria ce l’ha insegnato fin troppo bene, a un prezzo fin troppo caro. In tutto ciò che accade, ricerchiamo lo sgomento. In una storia – o in una vita – ci concentriamo sull’effetto “al di fuori di noi”, nei personaggi e nei colpi di scena, senza curarci di ciò che intanto produce “dentro di noi”. Ancora prima che qualcosa cominci, subito ci domandiamo come va a finire, reclamando la nostra dose di sconcerto. E se proprio non va a finire come vogliamo noi, ci sono a disposizione prequel e sequel per tutti i gusti.
Il cambiamento è diventato un valore a prescindere, con la conseguente equipollenza tra nuovo e buono: un’ottima scusa per rinnovare tanto per rinnovare – e se il risultato è vigliacco, basta rinnovare ancora navigando a vista.
Soprattutto, non comprendiamo più il ruolo del Fato perché di una storia abbiamo smesso di fidarci. Abbiamo smesso di credere al meraviglioso gratuito. Al potere del fantastico senz’altro fine. Paradosso di noi contemporanei che prestiamo fede a ogni castroneria spacciata per vera, ma non all’unica fabula dichiarata fin da subito dall’autore stesso quale “opera di finzione”, attraverso il soggiacente patto narrativo, ovvero l’accordo per cui il lettore sospende momentaneamente le sue facoltà critiche e accetta per vera una storia che sa essere, in larga misura, fittizia.
Del resto, l’etimologia della parola fato – termine tutto latino che non ha niente a che fare con il greco τύχη (tychē), “sorte” – rimanda proprio al participio passato del verbo latino fari, “dire”, “parlare”, che discende a sua volta dalla radice indoeuropea *bha, da cui il greco φημί (phēmí), “raccontare”. L’origine del lemma fabula in quanto “racconto” è la stessa.
È ovvio che Virgilio non pretendeva di essere preso alla lettera. Se nessuno si aspettava da lui un mito inedito, tantomeno si attendeva un’opera storiografica. Forse i Romani credevano “grossomodo” alla leggenda della fondazione di Roma da parte di Enea – in quel modo sfocato con cui si crede anche oggi alle antiche leggende sulla nascita di una città, di un castello, di una chiesa, senza aver bisogno di domandare prove archeologiche. Già così aveva scritto Sallustio, storico di professione, nella Congiura di Catilina (VI, 1): “la tradizione dice che Roma è stata fondata da alcuni esuli troiani che, sotto la guida di Enea, erravano in balia della sorte”. Tuttavia, nessun romano avrebbe mai chiesto a Virgilio di rendere conto del realismo del suo testo, né gli avrebbe contestato le incongruenze con le versioni precedenti – ad esempio, l’episodio di Didone è un’invenzione originale del poeta, che ha racchiuso nello spazio di tre settimane un episodio che leggende anteriori estendevano nel corso di anni.
Da Virgilio il lettore antico non si aspettava niente di più nuovo né di più preciso che essere sedotto.
Come, nell’Eneide
Italiam non sponte sequor.
Non è di mia volontà che cerco l’Italia.
È uno dei versi monchi (Aen., IV, 361) – lasciati incompiuti da Virgilio – a fissare indelebile il come dell’Eneide.
No, non è perché l’ha deciso spontaneamente che Enea si appresta ad abbandonare Cartagine, e con lei Didone in lacrime, per recarsi in Italia. Se lo fa, è soltanto per adempiere il volere del Fato. Già Giove aveva formulato la profezia nel I libro (vv. 257-296): l’avvenire di Enea è fondare Lavinio. A sua volta, il figlio Ascanio fonderà Alba Longa, dove trecento anni dopo verranno alla luce Romolo e Remo. Il seguito, lo conosciamo – lo abitiamo.
Significa dunque che, nell’Eneide, Enea si limita a eseguire, mesto burocrate, le indicazioni del Fato? Bisogna quindi dar ragione a coloro che definiscono l’eroe un burattino, una marionetta – un appannato esecutore di volontà più grandi? In definitiva, se tutto è già stato scritto, se tutto è già stato scelto, vuol dire che Enea non sceglie mai?
Si aprono qui le spinose questioni filosofiche che più hanno allontanato, nei secoli, una piena comprensione dell’Eneide. E che, nei secoli, hanno allontanato l’Eneide dai lettori. Non per troppa noia, va ormai riconosciuto. Ma per troppa profondità delle conseguenze – per troppo dolore, anche.
In quell’avverbio negato, non sponte, risiede la monumentale cifra epica di Enea. Che non è certo lampante, a un primo sguardo, come quella di un eroe infuriato che dileggia il cadavere del nemico o che acceca un gigante con un occhio solo. Si tratta di una dimensione molto più sottile, perché l’Eneide non è un poema della forza, per citare Simone Weil, né della morte. Epperò è questa una dimensione più tagliente – e più urgente, più necessaria. Perché nessuno resiste se non è costretto.
Enea non vorrebbe partire da Cartagine. Non avrebbe nemmeno mai voluto partire da Troia – non esiste profugo che è tale spontaneamente, nessuno lascia la sua casa se non è in fiamme. Eppure, Enea parte comunque. Neppure sa di preciso quale sia la rotta, è al Fato che spiega le vele fuggendo dalla rocca natale. E lo fa piangendo. Multa gemens largoque umectat flumine voltum, “gemendo e bagnando il volto di un fiume di lacrime” (Aen., I, 465).
Tutto è, Enea, fuorché un reso. Un vinto dal Fato. Tutto fa Enea fuorché eseguire i disegni superiori con mite rassegnazione. Neppure sempre si fida, del Fato; spesso indugia, si confonde, si sbaglia e poi si corregge. Talvolta, del Fato si dimentica – e allora forse si scopre un poco felice. Semplicemente, Enea resiste.
Non cede. Se cade, si leva la polvere dalle ginocchia e le lacrime dal volto. E si rialza. Continua, Enea, non ha fretta di crollare. Sempre si ostina a fare ciò che il Fato gli impone. La sua è una disperazione onesta. Ci vuole una forza epica per non smettere mai. Per non considerare troppo l’ennesimo colpo che arriva inatteso. Per non restare a terra dopo un calcio che frantuma le costole. Per non chiedere altro se non che sia la fine, e che il pugno sia l’ultimo. Per non osare mai dire: basta.
Per non supplicare nemmeno una breve tregua. Si aspetta forse una ricompensa, Enea, una volta fondata Roma? La gloria ottenuta basterà a trasformare le ferite in cicatrici e a mutare le lacrime in riso?
No.
Enea sa fin troppo bene che niente riavvolgerà all’indietro il cammino percorso e che nessuno lo riporterà in quella sua casa che è ora un camposanto, dove però avrebbe preferito morire anziché essere sbattuto altrove dal Fato – “tre, quattro volte beati quelli / che hanno avuto in sorte di morire davanti agli occhi dei padri / sotto le alte mura di Troia” (Aen., I, 94-96).
Una volta giunti alla meta stabilita dal Fato, che si vinca o si perda la battaglia non c’è alcun trionfo. Risarcimenti per quanto patito non sono elargiti. Nessun premio di consolazione né attestato di merito è concesso – l’unico, è essere vivi. Non ancora straziati dalle onde dell’esistere. Non ancora scorticati dal dolore. A rendere l’Eneide un unicum nella storia della letteratura non sono quindi gli avvenimenti della trama. È come avvengono, e soprattutto come a essi reagisce Enea, che rende il poema, diciamolo finalmente, un capolavoro.
Purtroppo non c’è bisogno di andare molto indietro con la nostra memoria. I tragici avvenimenti di quest’anno ci hanno ricordato fin troppo bene che identificare la libertà con l’onnipotenza è sinonimo di miopia, e di letale follia. Il modo in cui Enea adempie al Fato non è operazione meccanica, non è scoramento. Non si lascia certo manovrare da nessuno, l’eroe, perché certe volte c’è poco da scegliere – certe volte non c’è proprio niente.
C’è solo da accettare. E subito dopo darsi molto da fare. In conclusione, ciò che mette in scena l’Eneide è quell’epico atto di accettazione cosciente dell’inevitabilità della rinuncia. Il talento di Virgilio è stato quello di dare una voce a tutti coloro che della vita fanno non ciò che vogliono, ma ciò che devono.
A chi avrà ora la tentazione di replicare che Enea avrebbe comunque potuto lottare per cambiare le volontà del Fato, oppure sottrarvisi, si è costretti a rispondere: impossibile. Troppo a lungo il termine fatum, e ciò che rappresenta, è stato impropriamente tradotto con “dovere”, parola che porta con sé un contenuto valoriale sempre relativo perché subordinato a un’epoca precisa e a un contesto sociale preciso, aprendo dunque uno spiraglio alla possibilità di mutarlo, quel “dovere” – vuoi con la scienza, vuoi con la tecnologia, e se tutto ciò non basta, almeno con la preghiera. La traduzione più corretta – la più anodina, la più lucida – di fatum è invece “obbligo”.
In conclusione. Il Fato non si cambia. Non è amico né nemico. L’Eneide non è un torneo, non è una gara, non sono ammesse contrattazioni da mercanti. Il Fato non è nemmeno una guerra. È semplicemente la natura della vita. Il discrimine tra chi ce la fa e chi no è dato da quanto prima si arriva ad accettarlo.
***
Fas non est. Con ignavia si traduce questo monito con “non è destino”, quando invece significa “non è dato”. Non è concesso.
Nell’Eneide, Virgilio non manca di mettere in scena cosa accade quando ci si ribella al Fato. C’è chi lo chiama rivolta, invece si tratta più di uno sterile esercizio di resistenza. Sorprenderà scoprire, infatti, che nel poema chi tenta di opporsi al disegno stabilito è Anchise (Aen., II, 650-653):
Talia perstabat memorans fixusque manebat.
Nos contra effusi lacrimis coniunxque Creusa
Ascaniusque omnisque domus, ne vertere secum
cuncta pater fatoque urgenti incumbere vellet.
Così insisteva, e restava irremovibile.
Noi piangevamo, mia moglie Creusa e Ascanio
e tutta la casa, lo pregavamo di non sconvolgere
tutto, di non volere precipitarsi sul fato incombente.
È proprio l’anziano padre di Enea che cerca di sottrarsi alla necessità del Fato. È lui che, stremato, si abbandona a dire di aver visto, durante la guerra di Troia, satis una superque, “abbastanza e anche troppo” (Aen., II, 642). Vorrebbe lasciarsi morire a Troia, Anchise, è pronto a uccidersi di sua mano e a restare insepolto pur di non soffrire oltre. Pur di non raccogliere in fretta e furia i Penati e, da sconfitto, diventare esule. Atto eroico, il suo?
No, atto inutile.
Non tanto perché, un attimo dopo (Aen., II, 680), ci pensa un prodigio – una fiamma di luce che illumina il capo del piccolo Ascanio – a ricordare ad Anchise che il Fato non gli concede ancora il lusso di arrendersi. Ma perché non esiste spettacolo più penoso – né pericoloso – di chi pensa sia possibile decidere da sé quando non proseguire oltre nell’emergenza. Di norma, dura poco – e di norma è lo spettacolo dei fragili. Allora Enea caricherà sulle sue spalle Anchise, i cui passi sono malfermi (secondo alcuni per volere di Giove, poiché l’uomo si vantava della sua relazione con Venere), e si avvierà verso l’Italia tenendo Ascanio per mano.
Una scena divenuta emblematica per le più disparate ragioni, tranne quelle autentiche. Se fermarsi non è dato ma continuare è straziante, una possibilità estrema – forse l’unica, a ben vedere – è quella di rifiutarsi di sapere. Anzi, quella di rimuovere. Tuttavia, il prezzo dell’ignoranza forzata sarà ugualmente alto, se non peggiore. Il Fato impone di fidarsi anche se non si sa. Anche se non si capisce (o anche se non si trova pace).
A essere fati nescia, “ignara del Fato” (Aen., I, 299), è Didone. Nessun personaggio nell’Eneide viene descritto più regale e risoluto della sovrana di Cartagine. La donna si presenta per la prima volta agli occhi di Enea con la faretra sulla spalla, bella come una dea – e mentre il corteo danza seguendo i suoi passi, lei è “sollecita del lavoro e del regno futuro” (Aen., I, 504).
Didone, presa nella sua determinazione, sembra ignorare ogni cosa. Non sa perché gli esuli di Troia siano giunti fino alla porta del suo regno, ma comunque li accoglie; celebre è il verso 630 del I libro: non ignara mali miseris succurrere disco, “non ignara di mali, imparo a soccorrere gli infelici”. Soprattutto, Didone non sa perché Enea debba abbandonarla dopo mesi di appagante amore. Ma non si arrende. Al Fato tenta di opporsi, supplicando l’uomo che ama di restare. Piange moltissimo.
Esibisce poi, di nuovo, il curriculum delle sue pene, come se ci fosse una soglia di dolore oltre la quale sia impedito andare. Come se aver sofferto già molto possa esentare dal soffrire ancora. Infine, Didone si suicida gettandosi sulla spada di Enea. La sua non è una resa al Fato, per niente. Tantomeno è una vittoria o un’affermazione d’indipendenza. Piuttosto, è l’estrema conseguenza dell’incapacità di arrendersi. Di preferire la certezza della morte pur di sottrarsi all’ignoto dell’inevitabile.
“Da tempo non siamo inesperti di mali” (Aen., I, 198). In generale, nell’Eneide tutti soffrono molto a causa del Fato. Che non è ostacolo all’incedere della vita, ma di essa motore – e quasi sempre dolore. Lecito chiedersi dunque se, quello che abbiamo tra le mani, sia un poema tristissimo. Avvilente, direbbero in molti. No, l’Eneide non è il canto in versi dei depressi e dei demoralizzati. Tantomeno è il poema degli animi sgualciti, dei rassegnati, dei pessimisti, dei cupi. Del resto il sangue che sgorga a Troia o a Itaca e tutte quelle omeriche morti sono forse l’inno della positività e dell’ottimismo?
È innegabile, una palpabile malinconia vela tutta l’Eneide e non c’è gesto di Enea che non sia frutto di un dissidio interiore – come probabilmente non c’è verso di Virgilio che non lo sia. Ma questo non lo rende un poema triste. Solo, un poema brutalmente sincero. Del resto chi, nella storia, ha più amato l’Eneide sono stati coloro che non hanno mai smesso di penare e allo stesso tempo d’interrogare le loro pene.
E di scriverne. Come Dante. Come Baudelaire.
E gli dèi?
Desine fata deum flecti sperare precando.
(Aen., VI, 376)
Smetti di sperare che i fati divini possano venir piegati dalle
[preghiere.
Una domanda non può che sorgere spontanea alla luce di quanto finora detto. Se quindi il Fato è cardine fisso – di cui nessuno conosce il perché né può mutare il corso –, allora gli dèi cosa stanno a fare nell’Eneide? Se nemmeno il figlio di Venere – sarà la dea a portare un giorno “in alto alle stelle il coraggioso Enea” (Aen., I, 259-260) – può nulla contro l’incombere del Fato, cosa potremmo mai fare noi insignificanti mortali?
Sono tanti gli dèi nell’Eneide. Che fanno appunto cose da dèi: s’infuriano, bevono ambrosia, ostentano bellezza, annunciano il futuro, mettono in scena spettacolari metamorfosi, fanno l’amore. Ma, rispetto al Fato, sono compagni dei mortali. Le divinità di Virgilio non possono vantare alcuna superiorità nei confronti di ciò che fas est oppure non est. Né sono lì per dare un esempio di chissà quale superiore virtù o di divina obbedienza al Fato. Come tutti nel poema, anche gli dèi fanno quello che possono. E quello che devono. Del Fato – eccetto Giove, e non sempre – gli dèi hanno un gran terrore. Talvolta sono riottosi, talvolta rassegnati. Quasi sempre ne sono consci ed è quindi nello spazio concesso che maturano le loro ire o le loro paci.
Fata deum, “i Fati divini”, si legge nel II libro (v. 54), un’espressione ricalcata sul tanto discusso μοῖρα θεών (moira theōn) – “la moira”, dunque “la sorte”, “degli dei” – di Omero. La concezione di Virgilio è del tutto aderente a quella dell’epica classica: il mondo sarebbe un costante processo senza inizio e senza fine, in cui gli eventi originano dal cozzare tra loro di forze antagoniste. Il Fato sarebbe un’emanazione stessa del divenire, che inderogabile si impone su mortali e immortali.
Nell’Iliade e nell’Odissea, però, Zeus mette comunque in atto il suo autonomo volere. Nell’Eneide, Giove appare invece impossibilitato ad agire. Il suo agire è subordinato al Fato, da cui si fa fatica a distinguerlo – i piani divini sono come inglobati in altri piani più grandi.
Non si può nascondere che questa rappresentazione degli dèi abbia lasciato perplesse generazioni di studiosi di Virgilio. Di fatto, nell’Eneide le divinità sono separate dagli uomini soltanto dal gelido privilegio dell’immortalità. Anche se nelle loro vene non scorre – come in Omero – il caldo e corruttibile sangue mortale, condividono con gli uomini quella fatica che è l’esistere secondo il Fato.
Troppo lungo sarebbe elencare ora tutta le interpretazioni fornite nei secoli dai critici. Secondo i più, gli dèi sarebbero un mero strumento narrativo del quale Virgilio si serve per far avanzare la trama dell’Eneide – il canonico artificio ex machina. C’è chi ha scorto nell’amarezza divina un riflesso dell’amarezza umana di Virgilio: difficile è credere quando tutto va male, oggi come all’epoca di Augusto; ancora più difficile è continuare a credere quando tutto va peggio. C’è, invece, chi rintraccia le ragioni di quest’asettica concezione nell’epicureismo, la corrente filosofica che è stata più di conforto per Virgilio (negli anni giovanili, aveva studiato la dottrina di Epicuro a Napoli con il maestro Sirone). Infine, c’è chi parla di una rivendicazione d’ateismo, ipotesi alquanto improbabile vista la destinazione dell’Eneide quale manifesto culturale dell’impero, con tutte le implicazioni legate alla patina di religiosità di cui Augusto intendeva ammantarsi.
Forse sarebbe più opportuno indagare la natura in sé della religione romana. È proprio la dimensione divina, così lontana dalla nostra di matrice cristiana, ciò che maggiormente ci separa dagli antichi. E che ci impedisce di comprenderli.
Si potrebbe per una volta provare a ribaltare la prospettiva d’indagine. E magari ammettere che il disagio spirituale verso il Fato non è tanto quello di Virgilio, ma il nostro di lettori. Perché, nonostante tutto, e nonostante il Fato, nell’Eneide gli dèi non si smette di pregarli.
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Sono molte le preghiere nell’Eneide, e sono tutte molto belle. È nell’orizzonte mistico che Virgilio si misura direttamente con la poesia alessandrina greca – i toni sospesi e delicati di Apollonio Rodio sono i suoi prediletti. Anche se alcuni critici hanno definito “esercizi formali” o “pezzi stilizzati” queste invocazioni agli dèi, sarà difficile per il lettore non lasciarsi trasportare in una dimensione più alta e più luminosa tirando il fiato per un attimo dal peso grave del Fato. Non mancano però anche episodi più cupi, in cui Virgilio sembra intravedere nell’uomo l’azione di forze crudeli, quasi demoniache – “sono gli dei che mettono questo ardore nell’animo, Eurialo, / o per ciascuno diventa dio il suo tremendo / desiderio?” (Aen., IX, 184-186).
Certo è che Enea prega e onora, sempre. Ogni sbarco dei Troiani è celebrato da un sacrificio, così come ogni loro partenza: si tratta della tradizione greca degli ἐπιβατήρια (sott. ἱερά) (epibatḕria [sott. hierá]) e degli άποβατήρια (apobatḕria), i riti di benvenuto e poi di addio, come già nell’Anabasi di Senofonte. Più in generale, ogni gesto dell’eroe è ispirato al rispetto scrupoloso dei riti previsti con una premura che farà di lui, come si vedrà, il pius per eccellenza.
Talvolta, le preghiere di Enea strappano al lettore un sorriso amaro – come quando, nel I libro (v. 100), supplica gli dèi di far cessare la tempesta che sta condannando la sua nave al naufragio, e in tutta risposta un’onda ancora più grande si abbatte su di lui. Ma, quasi sempre, le sue suppliche sanno di disperazione, poiché già sa che non verranno esaudite. Perché non c’è nessuno che possa esaudirle: “per i vinti la sola salvezza è non sperare salvezza” (Aen., II, 354).
Ma quindi perché Enea continua a pregare, se l’uomo è una creatura in balia di un Fato che nemmeno gli dèi possono piegare? Perché si affaccenda tanto a sacrificare buoi e capre e a erigere pesanti altari lungo il suo viaggio, quando sa già che non serve a nulla?
Enea prega e onora poiché anche questo – soprattutto questo – fa parte del resistere. La fede negli dèi è l’unico strumento che il Fato ha concesso agli uomini, che sempre hanno bisogno di sperare per continuare a vivere. Difficile per noi, educati al dogmatismo cristiano che stabilisce cosa sia vero e cosa sia falso, comprendere appieno la religione antica, in cui tutto era divino. E dunque, tutto era vero. Il culto classico non prevedeva riti formali paragonabili alla nostra liturgia. “Fare” equivaleva già a “credere”. Era una spiritualità pragmatica che si esprimeva non nella coscienza del singolo, bensì nei suoi gesti concreti. Ciò che più vale è che Enea nell’Eneide non smette mai di “fare” – per dimostrare concretamente che, comunque vada, non smette di “credere”.
Il rito era quindi mera ostentazione di fede, un’esibizione a uso e consumo del pubblico? No, Enea ha bisogno di dimostrare che crede innanzitutto a sé stesso. Questo vuole il Fato. Impone che l’uomo speri anche sul bordo dell’incendio. E che, quando tutto brucia, speri ancora di più.
Ci credevano davvero, gli antichi, in una religione così eterodossa? Non sta certo a noi ergerci a giudici della loro spiritualità: come potremmo, che ne sappiamo? Noi non siamo loro. Aristotele diceva che i Greci amavano le divinità come ogni essere umano ama suo padre e sua madre – una fede che era tale senza bisogno di essere giustificata, tantomeno di essere insegnata. Paul Veyne, ben più secolare, annota che “Virgilio forse credeva [negli dèi] come un patriota francese verso il 1914 poteva credere alla Francia Eterna”, ovvero proiettando in qualcosa o qualcuno di più grande lo spirito del suo tempo.
Vale la pena ricordare che la mitologia greco-romana non aveva pretese né escatologiche né eziologiche né filosofiche di sorta. Non si aveva a che fare con valori dogmatici, bensì con pura letteratura, scritta o prevalentemente orale. Quando si narrava dell’amore o della collera degli dèi si trattava di storie, insomma, da cui il lettore traeva innanzitutto piacere senza essere assoggettato al dovere di credere o di trarre conseguenze pratiche – alla stregua dei racconti popolari nelle tradizioni agricole, della lettura gustosa delle stelle o degli oroscopi, dei canti delle balie o delle nonne e, più in generale, di tutte le storie che il sociologo Richard Hoggart qualifica (senza giudizio di merito alcuno) come “cultura dei poveri” proprio perché non fissata in rigorose enciclopedie. E non a caso, Virgilio fa precedere a ogni racconto che chiama in causa gli dèi le formule di prudenza dicitur, “si dice che”, o fama est, “corre voce che”.
In conclusione, ciò che più conta, ciò che più vale – nell’Eneide come nella vita – è saper circoscrivere le proprie certezze. Dare a esse un nome, un luogo e un tempo. Poi ognuno fa come crede: c’è chi le sue certezze le colloca in cielo, chi sulla terra.