V.
Una questione femminile.
Didone e l’amore nell’Eneide
Abbiamo tutta una vita
da NON vivere insieme.
Sugli scaffali di Dio
s’impolverano i gesti possibili:
le mosche cherubiche insozzano
le nostre carezze;
stanno appollaiati come gufi
i sentimenti impagliati.
“Merce inesitata” – griderà l’angelo d’ottone –
dieci casse di vite, di possibili.
E avremo anche una morte da morire:
una morte casuale, innecessaria,
distratta, senza te.
(Giorgio Manganelli, in Poesie)
Secoli, anzi millenni, di severa filologia e poi quando si tratta di raccontare le donne del mito classico lo si fa come fossimo tutti Madame Bovary. Nel migliore dei casi, intendo. Nel peggiore, la penna è affidata direttamente a Cenerentola.
Da sempre i personaggi maschili sono scrupolosamente vivisezionati nella loro psiche per comprenderne torti e ragioni – soprattutto i primi, nel caso di Enea. È sulle azioni di Achille, di Ettore, di Ulisse e degli altri che si sono imbastite teorie filosofiche, modelli sociologici, trattati antropologici – e tutte le dovute reazioni a una società prettamente maschilista come quella antica.
Invece, sulle sorti femminili, nella maggior parte dei casi, non si è fatto che piagnucolare. Che sospirare “poverina!” di fronte allo sterminato catalogo antico di donne sedotte e abbandonate.
La necessità di una questione femminile per il mito classico
Quasi mai la replica ai finali tragici cui le donne sono destinate nella mitologia consiste in una fattuale presa di coscienza collettiva e dunque in un’affermazione concreta di dignità femminile – niente in poesia è mera finzione da prendere con leggerezza, soprattutto nella dimensione del mito, che si propone di essere manifesto in versi di un preciso modo di vedere il mondo, femminilità compresa. Più spesso, una questione femminile al lettore nemmeno si pone. Perché raramente ci si spinge più in là dei commossi singhiozzi in stile “posta del cuore” e si tenta di capire perché quelle donne siano finite così male.
Ci s’indigna, e giustamente, di fronte ai loro mariti o ai loro amanti, ai loro padri o ai loro figli che sono sempre codardi, avidi, miopi, insensibili, traditori, pusillanimi. E quasi sempre violenti: soltanto di donne è popolata la zona degli inferi riservata ai morti per durus amor, “duro amore” (Aen., VI, 442), che Enea visiterà nel VI canto.
Ma l’indignazione lascia subito spazio all’inquietudine, all’apprensione. Al brivido di terrore suscitato dal sospetto: “E se l’uomo che amo alla fine lasciasse pure me?”. Allora a Didone, a Nausicaa, a Calipso, a Medea, ad Andromaca, a Penelope e a tutte le altre signore si porge di corsa un fazzoletto per asciugarsi le lacrime. E altrettanto di corsa si chiudono l’Eneide, l’Iliade, l’Odissea e l’intera biblioteca per correre ad aprire il consunto manuale della perfetta sposa, madre, sorella, amica, figlia e alleata.
“Non farò la stessa fine”, ci si ripete per rincuorarsi mentre l’ansia sale. Non tanto la fine di venire umiliata, di essere ferita, in molti casi uccisa, di non avere più niente della vita di prima, una famiglia, una casa, una patria – neppure il nome, figuriamoci l’orgoglio. Bensì quella di essere lasciata dall’uomo che dichiara di amarci.
Il risultato è che, mentre noi controlliamo la cottura della torta nel forno o il completo di pizzo nell’armadio – metafore eufemistiche, queste, della complessità della nostra risposta al mito –, gli uomini continuano imperterriti a imporci le loro, di ragioni.
Fateci caso: sugli scaffali delle librerie del mondo, non c’è più solo Omero a raccontare quant’è ganzo e avventuroso andarsene in giro da soli per il Mediterraneo. Anzi, in questi ultimi anni i libri di viaggio, geografico o interiore che sia, ispirati all’epopea classica si sono moltiplicati. I loro autori, tutti uomini.
Una variante, pallidamente in voga, per (non) affrontare l’obbligatoria questione femminile sollevata dal classico, è quella di riscrivere la storia. Solo che ci si limita a riscriverla identica. Al lettore, si dice, può risultare lontano – qui “antico” diventa sinonimo di “preistorico” – un femminicidio commesso duemila anni fa in Grecia. Mettiamolo allora in scena adesso, oggi, nelle nostre metropoli o nei nostri paradisi tropicali – e a tutte le donne mettiamo addosso una minigonna e in mano uno smartphone. Il risultato di queste riscritture è quello di dare al lettore dell’insulso, incapace di riconoscere la violenza se non quando vede una pistola puntata alla testa della fidanzata nel vagone della metropolitana che prende ogni mattina. E soprattutto quello di scambiare per buonafede, dettata dalla distanza temporale e geografica, la palese malafede con cui si continua a ignorare a pie’ pari che le donne del classico hanno molto da dire e ancora di più da rivendicare oltre a una bella prosa.
Lo stesso si può constatare in quei magri tentativi di consolazione che sono le “versioni alternative” del mito. Quelle in cui, per intenderci, Ulisse torna a Itaca e non trova Penelope, perché stanca di aspettare se n’è già andata con un altro. In cui Elena manda Paride a quel paese e decide lei da che parte stare, svuotando il sacco di tutte le bassezze commesse da Greci e Troiani. O quelle in cui Didone la spada la punta direttamente al collo di Enea anziché buttarcisi lei sopra. Queste riscritture tanto alternative non sono, o almeno non come vorrebbero. Almeno filologicamente, non lo sono per niente.
Se si propongono di fornire al mito un finale diverso da quello originale di lacrime e sangue, ci avevano già pensato gli antichi. Difficile, di fronte a una storia di successo, non cedere alla tentazione di fabbricare un sequel o uno spin-off – accade oggi nella sede di Netflix in California come nell’Atene di due millenni fa. Nemmeno ai Greci mancò mai la fantasia di proporre finali alternativi alle storie più celebri cantate da epici e tragediografi. Tuttavia, questi finali hanno sempre quel retrogusto amaro che ha il boccone del risarcimento tardivo.
Soprattutto, hanno sempre quell’odiosa ipocrita faccia del premio di consolazione. “Comunque, poi” Medea, negli inferi, si sposa con Achille, dicevano gli antichi – e “comunque, poi” Elena, nel IV libro dell’Odissea, la ritroviamo felicemente a casa con Menelao. Secondo alcune versioni, “comunque, poi” anche Penelope di uno dei Proci, Antinoo, si è innamorata.
“E quindi?”, verrebbe da rispondere – almeno, viene a me. Anche qui non so se sia ingenuità letteraria o pervicace disonestà. Venire a sapere che le donne del mito in seguito sono state felici è un bene, ci mancherebbe. Ma l’anestesia posticcia del lieto fine non cancella la realtà della ferita. Tantomeno solleva dal dovere di capire.
Infine, in alcune riproposizioni contemporanee vediamo gli uomini subire ciò che, ben fissato nell’immaginario per due millenni, hanno fatto alle donne. Diventano dunque loro, i mariti, i nuovi maltrattati, i diseredati, gli sgozzati da parte delle mogli. In questo caso nemmeno la caramella della consolazione è legittima. Forse nemmeno quella della letteratura.
Impossibile provare un qualche sollievo nell’applicare, anche solo sulla pagina, la legge del taglione direttamente tratta dal codice di Hammurabi. Soprattutto nei libri che lasciano intendere che, per mettere efficacemente in guardia dalla violenza, bisogna essere a nostra volta violenti. E quindi sono le donne a dover fare agli uomini ciò che per secoli hanno da loro subìto.
Se non esiste relativismo del dolore, figuriamoci se è dato il relativismo del male. Un assassinio è tale sulla piana di Troia quanto a Parigi, nulla cambia – e nulla aggiunge, nulla toglie se a commetterlo è un uomo oppure una donna. Non è che se io faccio a te ciò che tu hai fatto a me, allora poi nessuno lo rifarà più.
A chi ribatterà che certe provocazioni sono funzionali a risvegliare le coscienze assopite non si esiti a rispondere: non lo si fa di certo al prezzo di rinnegarsi. Aggiungendo che se certi animi non si risvegliano nemmeno di fronte all’orrore, non c’è alcun bisogno di metterlo in pratica – non stanno dormendo queste coscienze, sono proprio morte. In alcuni casi, non sono nemmeno mai nate.
In sintesi: non è tanto questione di ribaltare la prospettiva delle sofferenze femminili nel mito classico per tentare di comprenderle. Né di manipolare la storia o la geografia per renderla a noi più vicina. Magari questi esperimenti potevano accendere un sussulto di luce nelle tenebre del Medioevo, forse – in cui si viveva una vita intera al buio.
Una società moderna che si propone di essere l’anello ultimo di un progresso non solo tecnologico, ma soprattutto civile e morale, come quella in cui viviamo, abbia finalmente il coraggio di guardare in faccia la questione femminile avanzata dalle donne del mito classico. Più precisamente: che abbia l’onestà per farlo, andando un po’ più in là e un po’ più a fondo della mera reazione scandalizzata di fronte al comportamento maschile.
Perché questa non è una fiaba. Il vissero tutti felici e contenti non è concesso, se non da morti, nei Campi Elisi – e saranno gli dèi a decidere, non certo noi scrittori. Non è nemmeno un esercizio di scrittura con cui sfogare tendenze sadomasochiste applicando agli uomini la pena del contrappasso – da settecento anni l’inferno di Dante è già al completo.
Questo è il mito classico. Si tratta forse dell’unico luogo possibile – di certo il meno cruento in quanto mito e non storia, non notizia di cronaca –, per tentare di comprendere come una donna bella, istruita (raramente le protagoniste dell’epica sono contadine analfabete, quasi sempre sono figlie di re che governano città e imperi), indipendente, socialmente integrata e risoluta nel vivere, un giorno possa arrivare a pronunciare le seguenti parole per via di un uomo (Aen., IV, 315):
(quando aliud mihi iam miserae nihil ipsa reliqui)
(e nient’altro ho lasciato a me stessa).
Giusto per evitare che il dolore che prova Didone continui a restare tra parentesi, così com’è nel testo dell’Eneide. Tra parentesi non tanto per gli altri né per tutti i tribunali della letteratura che sono stati prontamente allestiti dall’esatto momento in cui Virgilio ne ha descritto la tragica fine. Ma per Didone stessa. Per lei e per tutte le donne come lei, fino a oggi.
In sintesi, la questione femminile che pone l’Eneide è molto più urgente del logoro stereotipo dell’eroe maschile che infrange il sogno romantico della principessa indifesa. Che si tratti di un male da condannare, da secoli, è stato compreso. È necessario ora andare più a fondo per guardare di cosa è fatto, questo male, e come nasce. Non per giocare ad accanirsi nell’autopsia del dolore di Didone. Ma per impedire che per altre donne “la vita svanisca tra i venti” (Aen., IV, 705).
La lezione di Didone
Ille dies primus leti primusque malorum
causa fuit; neque enim specie famave movetur
nec iam furtivum Dido meditatur amorem:
coniugium vocat, hoc praetexit nomine culpam.
(Aen., IV, 169-172)
Quel giorno fu il primo della morte, e la prima causa
dei mali; non si cura della fama o dell’apparenza,
non pensa più a un amore furtivo Didone,
le chiama nozze, e sotto quel nome nasconde la propria colpa.
Alla fine, in questa storia tristissima Enea c’entra poco. Anzi, non c’entra quasi nulla. È opportuno sgombrare il campo fin da subito per poi proseguire veloci: Enea non fa “quasi” niente a Didone per meritare di essere crocifisso per secoli dai giudizi di lettori troppo romantici. Il perimetro tracciato dall’avverbio “quasi” comprende la solita sbadataggine maschile che si può addebitare a ogni uomo, antico e moderno, allergico a certe sensibili sottigliezze – se Enea è colpevole di disattenzione, allora per proprietà transitiva lo sono tutti.
La questione femminile sollevata da Virgilio è resa ancora più lucida dalla scelta, nel vastissimo repertorio della mitologia classica, di un eroe che non è condannabile, o almeno non lo è a priori – per tutto ciò che non attiene alla sfera del diritto ci sono le sensibilità individuali. Più concretamente: rispetto a un Teseo, a un Giasone, a un Ulisse o a un Paride, Enea in tribunale vincerebbe senz’altro la causa intentata contro di lui.
Perché il fatto non sussiste. Quale crimine gli si potrebbe rinfacciare, poi? Quello di aver fatto innamorare una donna? Non luogo a procedere, decreterebbe il giudice – pure spazientito dal tempo che gli abbiamo sottratto con i nostri piagnistei.
Vale la pena ricordare che quando Enea incontra Didone ha lo status di “single” – anzi, più propriamente si potrebbe dire che è un “ragazzo padre”, vedovo e con un bimbo di sei anni al seguito. Nessuna moglie lo aspetta a casa filando al telaio e confidando nella sua fedeltà coniugale; come vedremo poco più avanti in questo capitolo, Creusa, la sua prima consorte, è uscita definitivamente di scena alla fine del II canto.
Forse si spertica in promesse, Enea? Seduce magari Didone con la malizia del mercante, millantando di offrirle un castello, un diamante e un bell’abito bianco? Assolutamente no, alla regina non assicura nient’altro che la sua imminente ripartenza.
Tutto è Enea fuorché un arrivista con secondi fini, magari imperialistici o dinastici. Fin da subito è molto chiaro nel comunicare a Didone la sua volontà di fondare Roma sulle coste del Lazio – e dunque di andarsene il prima possibile da quella Cartagine che Didone si affretta a mettergli tra le mani come pegno d’amore. Soprattutto, nemmeno per un istante, nemmeno nell’attimo della passione più bruciante né della più dolce tenerezza, Enea nasconde i suoi rimpianti: il suo cuore è a Troia dove, nelle fiamme fatali, anche la vita che voleva vivere è andata in cenere. Inoltre – dettaglio non da poco considerata la natura sempre un po’ truce dei miti classici –, in questa storia non c’è spargimento di sangue.
Non ci sono minotauri da sconfiggere come a Creta, non ci sono sovrani usurpatori da spodestare né fratelli altrui di cui spargere i resti sminuzzati come ad Argo, non ci sono pretendenti da giustiziare come a Itaca. In sintesi, non una vita soltanto cade sotto le armi a Cartagine – se non quella della regina stessa, e per sua stessa mano.
Allora perché il lettore, di fronte al pianto straziante di Didone, non può che rabbrividire di sconcerto? Perché la regina di Cartagine è diventata, per metonimia, l’emblema di tutte le donne offese e infelici per amore? Perché si sta leggendo l’Eneide, ma in testa si ha un’altra storia. Anzi, in testa se ne hanno molte – e tutte molto tragiche.
Il talento indiscusso di Virgilio è quello di confezionare l’episodio più memorabile dell’Eneide a mo’ di epica madeleine proustiana. Se è vero, come sostengono i filologi, che la lunga sosta di Enea a Cartagine è un’invenzione di Virgilio (che avrebbe ampliato quello che in origine era un episodio marginale della saga di Enea), allo stesso tempo il poeta non rinuncia al dialogo implicito con le altre storie d’amore della letteratura antica.
Così Enea, appena approdato, naufrago, a Cartagine, si trova a compiere gli stessi gesti di Ulisse sbattuto sulla spiaggia dell’isola dei Feaci – ed è con gli stessi occhi dell’eroe di Itaca che Enea scorge per la prima volta Didone, il cui stupore di fronte al nuovo venuto è identico a quello di Nausicaa. Sciolto l’amore, la nave diretta altrove è quella che già condannò alla disperazione Arianna, Medea e Calipso – e allora Enea diventa anche Teseo, Giasone e Ulisse.
Non avendo fatto niente di ciò che hanno fatto questi signori, però. Eppure da sempre il lettore è avvinto da un’atmosfera d’ingiusta tragedia indugiando sui versi virgiliani dedicati a Enea e Didone – la tragedia c’è stata, sì, ma altrove, perpetrata da altri, in altre storie lontane cantate da altri poeti.
È soprattutto nella disperazione di Didone che Virgilio raggiunge la climax del tormento amoroso. Nei versi del IV canto dell’Eneide sono numerosi i richiami ai poemi omerici, alle tragedie di Euripide, alle Argonautiche di Apollonio Rodio fino ai carmina struggenti di Catullo. Sono questi rimandi, che il lettore del tempo doveva certo riconoscere a orecchio senza difficoltà, a moltiplicare come un’eco il dolore di Didone e farne sintesi letteraria dell’intero dolore femminile del mondo classico.
È come se, nell’Eneide, Virgilio mettesse in scena – senza però metterceli davvero – tutti i gesti più violenti degli eroi antichi. Per tutti, a pagare è Didone. Che, quando soffre, soffre per tutte le donne violate.
Pur non essendolo mai stata.
***
Se il lettore si stesse chiedendo: “E allora, se Enea è tanto innocente, perché alla fine Didone si suicida?”, bisogna riconoscere subito che la domanda è formulata nel modo sbagliato.
Si tratta dello stesso interrogativo che, nei secoli, si sono posti tutti i lettori dell’Eneide – eccetto forse Dante, che non esitò a collocare la regina di Cartagine dritta all’inferno insieme a Paolo e Francesca. Di certo, una domanda simile non ha mai turbato Virgilio, scrivendo. Il quale, riferendosi alla tragica fine di Didone, usa un termine nitido e molto forte: culpa (Aen., IV, 172).
Tradurre questa parola latina con il primo significato di “colpa” sarebbe un tradimento. Non tanto al testo dell’Eneide, bensì alla legge della sensibilità umana che vieta d’infierire anche a parole su chi soffre, qualunque sia la causa. Preferisco tradurlo adesso con il suo secondo significato: “responsabilità”. Mi pare, infatti, che questo termine apra una prospettiva di riflessione più ampia e più onesta. Soprattutto, che renda maggiore giustizia alle pene di Didone senza relegarla nell’infantile casellina della fanciulla abbandonata dal principe azzurro dove è stata rinchiusa fino ad ora.
Non si vuole certo qui divertirsi a scaricare addosso all’eroina di Virgilio la colpa del suo stesso male e costringerla a piangere sé stessa – spiace doverlo dire, ma in qualche modo proprio così fece, Dante. Né s’intende assolvere Enea dalla sua goffaggine e dalla sua superficialità – il cui vergognoso vertice è raggiunto nel VI canto dell’Eneide, quando l’eroe incontra l’ombra di Didone nell’oltretomba e si azzarda pure a commentare: “non potevo credere / che la mia partenza t’avrebbe dato tanto dolore” (Aen., VI, 463-464). Piuttosto, per una volta si vorrebbe riconoscere a Didone lo status di donna con una sua autonoma dignità psicologica al di là delle vicende individuali degli uomini che ha amato.
Non è possibile che, per secoli, il suo personaggio sia indagato solo in quanto “amante ferita di” che sceglie di suicidarsi “per”. Il suo dolore è reale, concreto, sconcertante per quanto è totale. Con quest’assunzione di responsabilità lo si vuole piuttosto smontare, questo dolore indicibile, pezzo per pezzo – così da guardare bene cos’altro c’è dentro, e così che poi non faccia più troppo male ad altre.
Che se ne vada pure a fondare Roma, Enea! Qui la domanda a cui vorrei ora trovare risposta è: “Perché Didone è annientata fino al punto di preferire la morte?”. Più sinteticamente, è alla regina di Cartagine, e a lei soltanto – non ai suoi amori passati, presenti o futuri –, che vorrei per una volta si chiedesse: “Come stai?”.
Virgilio non ebbe timore e infatti lo fece apertamente. E apertamente nell’Eneide riporta la risposta, cui però non facciamo nemmeno caso, allevati da secoli in un immaginario romantico di dame cui non è concessa, sulla pagina, vita propria rispetto alla venuta di un principe che dia loro un senso di esistere. Rileggendo più a fondo l’Eneide, il lettore si renderà conto che Didone non soffre per un amore che se n’è andato. Ma per un amor proprio che non è mai arrivato. Non è Enea a mancarle di rispetto. È lei a non conoscere cura e rispetto di sé stessa.
Il rischio di continuare a chiedersi “perché Enea se ne va?” è quello di aprire la strada al sospetto. Di autorizzare il dubbio di non meritare di essere amate. Di concedere legittimità all’ipotesi che, di fronte a qualcuno che se ne parte trascinandosi dietro la porta (o l’àncora, nel caso di Enea), sotto sotto la colpa sia nostra perché non siamo state “abbastanza”. Non abbastanza capaci di fare “qualcosa di bene”, né “qualcosa di dolce” (Aen., IV, 317).
È questo l’autoricatto emotivo in cui naufraga Didone prima di togliersi la vita. E purtroppo Virgilio lo sa narrare fin troppo bene.
***
A chi è alla ricerca del gossip si è costretti a rispondere che l’Eneide non è una telenovela. E quindi non c’è ombra di dubbio: Enea ama sinceramente Didone. In questa storia non c’è nessun’“altra”: c’è, però, un’altra città che non è Cartagine, ma Roma, laddove il Fato impone a Enea di andare.
Non si tratta nemmeno di un’infatuazione passeggera né di un ludo erotico. Il sentimento che Enea prova per Didone ha la robustezza dell’amore. E dell’amore quando è magnus, ossia “grande”.
La loro è stata una bella storia, bisogna riconoscerlo. Forse vale la pena tornare lì, a quando Enea e Didone insieme potevano dirsi felici. E provare a chiedersi per una volta “come è cominciata” anziché tormentarci ossessionati su “come è finita”. Spesso è negli attimi iniziali di una storia a essere inscritta anche la sua fine. Quasi sempre è così – lo si sente come si sente un nodo sulla carta facendo scorrere il dito. È possibile accorgersene, ma per troppo timore della verità si preferisce non curarsene e continuare a leggere il libro avvinti dalla trama che sembra tanto sorprendente. “Stavolta è diverso”, ci si dice, trascurando che, se non ci si adopera per cambiare l’inizio, il finale non può che essere identico.
Se Didone soffre tanto per la partenza di Enea, è perché aveva già tanto sofferto prima del suo arrivo. Il suo è un dolore irrisolto.
Ille meos, primus qui me sibi iunxit, amores
abstulit; ille habeat secum servetque sepulcro.
(Aen., IV, 28-29)
Il mio amore se l’è portato via l’uomo che mi ha legata
per primo a sé, e lui lo conserva nella sua tomba.
Già nel I canto del poema, al verso 630, la donna si era presentata al lettore come “non ignara di mali”. Didone, infatti, non ha mai dimenticato quel suo primo marito brutalmente ucciso, per il quale continua a spendere parole dolcissime. Al momento dell’approdo di Enea, è una vedova – e una regina sola per scelta.
Sicheo, questo il nome del defunto sposo, le fu strappato dal fratello Pigmalione, quando entrambi, per volere del padre Belo, erano sovrani di Tiro, in Fenicia. Senza scrupolo Pigmalione, geloso della benevolenza che i sudditi rivolgevano al cognato, ne decretò la morte. Fu allora che Didone salpò da Tiro alla volta di Cartagine, portando con sé tutto l’oro del regno, in una scena memorabile menzionata anche da Virgilio all’inizio dell’Eneide. Negli anni sul trono, pur essendo ancora giovane, bella e desiderata, Didone è sempre stata risoluta nel rifiutare tutti i pretendenti che si erano fatti avanti, tra cui l’illustre re africano Iarba.
Fin da subito, il fardello del suo passato insoluto scatena nella mente di Didone la viscida ossessione del tradimento. A Sicheo, da morto, rinfaccia di averla tradita – “il primo amore mi tradì con la morte” (Aen., IV, 17). A sé stessa impedisce di amare ancora, per timore di tradirlo a sua volta – è il peccato cui la condanna il severo Dante nel V canto del suo Inferno, ovvero quello di aver violato la promessa a Sicheo lasciandosi amare da Enea.
Nel poema, solo la sorella e confidente di Didone, Anna, sembra conservare la lucidità in questa paludosa autocritica. Tutti meritiamo di essere amati. I morti non si tradiscono – al più li tradiamo noi: siamo noi a oltraggiare la loro memoria e a rendere la loro fine superflua se rinunciamo a continuare a vivere per troppo acuto dolore.
Nell’Eneide, è per volere di Venere che Didone “arde d’amore” (Aen., IV, 101) nei confronti di Enea. Ma “nelle ossa ha la follia”, aggiunge Virgilio nello stesso verso, anticipando il presentimento per cui quella di Didone non sarebbe passione, ma squilibrio – non innamoramento, ma crollo.
L’esule e la regina s’incontreranno in una grotta – e lì saranno soltanto un uomo e una donna. Durante una battuta di caccia cui partecipa tutto il regno, si scatena un violento acquazzone in una giornata di cielo cristallino. Tutti cercano riparo – Enea e Didone lo trovano insieme.
Speluncam Dido dux et Troianus eandem
deveniunt. Prima et Tellus et pronuba Iuno
dant signum; fulsere ignes et conscius aether
conubiis, summoque ulularunt vertice Nymphae.
Arrivarono nella stessa grotta Didone e il capo troiano.
Per prima la Terra e Giunone pronuba
danno il segnale. Brillarono i fulmini e il cielo complice
delle nozze, e sulla cima le ninfe ulularono.
Cosa dire di questi versi (Aen., IV, 165-168), cosa aggiungere ai gemiti delle ninfe se non che Virgilio – forse per pudore o forse per non fare del fondatore di Roma un pupazzetto innamorato – si rivela qui maestro della tecnica show, don’t tell, gareggiando direttamente con “la sventurata rispose” di Alessandro Manzoni?
Enea e Didone amandosi spendono un inverno. Non si curano delle malelingue che circolano per Cartagine alimentate dalla personificazione della Fama, né dei rimbrotti dei compagni troiani costretti ad attendere il loro capo. Figurarsi i due se si preoccupano del Fato – “godono nella lussuria l’inverno per quanto è lungo / scordando il regno e presi da turpe passione” (Aen., IV, 193-194).
Eppure, proprio nel momento della massima felicità l’equilibrio già precario di Didone inizia a vacillare. Da fuori certo non si vede, nessun suo gesto può dirsi dissennato, né una parola è detta di troppo. Eppure molte sono le parole che Didone dice a sé stessa, tutte di sproposito. Si confonde, la regina, manipola la realtà tentando di giustificarsi. Sa, in cuor suo lo sa benissimo, che Enea non è niente di più che un amante – nessuna promessa li lega, il loro è un “amore furtivo” (Aen., IV, 171). Ma Didone preferisce raccontarsi il suo uomo come marito: le loro notti clandestine, “le chiama nozze” (Aen., IV, 172).
La lucidità di Didone s’incrina sempre di più: ormai non è la realtà ciò che pretende, vuole il romanzo. Di Enea, si crede moglie; guarda il piccolo Ascanio e s’immagina madre. Di Cartagine ama vedersi regina accanto al suo nuovo re venuto da Troia. Così, quando la trama del libro che lei sola ha scritto inizia a slabbrarsi, Didone non ha più nulla se non la violenza dell’urto scatenato dall’alienazione.
Ciò che lo rende ancora più atroce è il fatto che nessuno intorno a lei sembra accorgersene: per tutti il male di Didone è una sorpresa, agli occhi degli altri pare un’invasata Baccante.
***
Ci vorrebbe Emma, l’attivista francese autrice di un fumetto femminista diventato un best seller mondiale, per spiegare in modo convincente perché è tempo di smetterla di accollarsi il “carico mentale” ed emotivo dei nostri uomini. Di quelli che restano e pure di quelli che se ne vanno. Anche e soprattutto analizzando l’Eneide.
Sebbene per millenni ci abbiano detto il contrario, noi donne non siamo al mondo per essere le cuoche, le lavandaie, le confidenti, le custodi del focolare, le istitutrici dei figli, le dame in pubblico e le sgualdrine a letto dei nostri mariti. Delle loro tempeste emotive non siamo le stampelle – non è soltanto il nostro il gomito da alzare per fare festa né è soltanto la nostra la spalla su cui piangere. Dei loro progetti, folli o realistici che siano, non siamo le benefattrici, le correttrici di bozze, le contabili o le sponsor a fondo perduto. Viceversa, se per coloro che amiamo esercitiamo tutte queste professioni contemporaneamente (e tutte non retribuite, ovviamente), per il nostro, di lavoro, cosa resta? Senza tralasciare di chiedersi che ne rimane del nostro conto in banca. Ma più in generale: cosa si salva di noi, in questo non riconosciuto spreco di sé?
Nell’Eneide, Didone offre tutto il possibile ad Enea per trattenerlo – il suo regno, la sua dinastia, la sua casa, il suo nome, il suo corpo. Si rammarica persino di non avergli dato dei figli a sua immagine e somiglianza, la variante mortale all’immortalità offerta ad Ulisse da Calipso. Il risultato è che, così facendo, Didone non ha lasciato più nulla per sé. Per Enea si è dissipata.
Ha toccato il fondo, almeno quello emotivo. Senza che lui gliel’abbia mai minimamente chiesto. Anzi, forse l’eroe non si è neppure reso conto di quanto Didone abbia fatto per lui – magari, interpellato, avrebbe risposto nel più antico dei topoi maschili: “Bastava chiedere!”. Infatti, da Cartagine Enea avrebbe sempre voluto andarsene. Quando lo fa, ha i movimenti di un ladro, in silenzio, avendo cura di apprestare le navi in porto di nascosto, senza che la regina lo veda, per non incorrere nell’irrazionalità delle sue sfuriate.
Spero che nessuno vi abbia mai guardato come Enea guarda Didone mentre dà di matto – a me purtroppo è successo. La sua non è epica pietas, ma banalissima pietà, quella con cui si guarda, non so, un cane mentre abbaia forsennato a qualcosa che soltanto lui vede e per cui soltanto lui si dispera.
“Teneva gli occhi immobili, e soffocava nel cuore / l’angoscia con sforzo. Alla fine rispose con poche parole” (Aen., IV, 331-332): è con uno scampolo di discorso che Enea dice a Didone che, se avesse potuto scegliere, avrebbe comunque scelto di restare a Troia – e dunque di non incontrarla nemmeno.
Sì, è vero, hanno pienamente ragione i critici a dire che Virgilio, qui, il suo eroe avrebbe potuto dipingerlo un filo più sensibile. Un po’ meno piatto e un po’ più solidale con il dolore di Didone rispetto ai suoi silenzi, ai suoi sguardi bassi e alle sue parole smozzicate. Anche se in contrasto con la sua natura di eroe “a missione” cui non è concesso abbandonarsi a niente di più dolce che non siano le mani infilate nel terreno nell’atto di fondare Roma, Enea avrebbe potuto comunque rispondere alla regina qualcosa di più sentito rispetto a: “non tormentare più te e me coi lamenti” (Aen., IV, 360).
Epperò, tornando al “carico emotivo” iniziale, non siamo neppure tenute a diventare le sceneggiatrici delle reazioni altrui – non sta a noi donne, né tantomeno a Didone, riscrivere le battute maschili che non ci piacciono. Siamo invece chiamate a prenderne atto per quello che testualmente sono. E ad agire di conseguenza.
C’è poi da trattenere la consueta tentazione di improvvisarci tutti psicologi di chi liberamente sceglie di “tornare alla sua flotta” (Aen., IV, 396). A meno di non essere noi stessi terapeuti retribuiti per il lavoro commissionato, c’è da rifiutarsi di pensare che raffinate teorie psicanalitiche o turpi traumi infantili possano aiutarci a meglio sopportare l’insopportabile. Nell’Eneide non c’è alcun bisogno di sospettare che Enea sia caduto da cavallo da piccolo o che abbia avuto un’adolescenza turbolenta – che peraltro potrebbe ben dire di aver avuto durante la guerra di Troia. Non ci si può nemmeno azzardare a deriderlo quale vigliacco sprovvisto di testosterone, come a lungo è stato fatto, poiché sceglie di voltare le spalle alla più seducente delle donne in nome di una patria lontana ridotta al momento a un mucchietto di pietre.
Niente nell’Eneide è più chiaro della sola ragione che nega il lieto fine alla storia d’amore tra Enea e Didone (Aen., IV, 440):
Fata obstant.
Lo vietano i fati.
Ma questo Didone non può capirlo. Non ci riesce perché non ne possiede gli strumenti. Non è da Enea che è appena stata abbandonata, ma da sé stessa – come abbiamo detto. Così Didone finisce per non sentire nemmeno l’unica vera dichiarazione d’amore che l’eroe le dedica: Virgilio scrive che Enea è, sì, risoluto a partire, ma pur sempre magnoque animum labefactus amore, “scosso nell’animo da un grande amore” (Aen., IV, 395).
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Delicate e insieme molto precise sono le parole che il poeta spende per nominare il motivo del suicidio di Didone (Aen., IV, 450-451). Tra queste, il termine “amore” è assente. Non c’è nemmeno la parola “uomo”.
Tum vero infelix fatis exterrita Dido
mortem orat; taedet caeli convexa tueri.
Allora l’infelice Didone, atterrita dai fati,
invoca la morte: le dà nausea guardare la volta del cielo.
Didone è come svuotata, vivere le è venuto a noia. È dunque per taedium vitae, per disgusto della vita stessa, che sceglie di morire – motivazione peraltro riconosciuta dal diritto romano. “Morrò invendicata, ma voglio / morire” (Aen., IV, 659-660); per farlo, Didone sceglie la spada di Enea – dopo averlo maledetto.
Forse è soltanto nella modalità con cui sceglie di togliersi la vita che la regina di Cartagine sembra ribellarsi allo stereotipo della donna che ha ragione di esistere solo in quanto moglie di qualcuno – quello cui ha aderito per una vita intera fino ad ammalarsene.
Perché Didone sceglie di morire come di solito a Roma fanno gli uomini: ferro / conlapsam (Aen., IV, 663-664). La regina si getta infatti sulla spada di Enea fino a farsi trafiggere mortalmente – laddove, secondo la tradizione, le donne si gettavano da un tetto o s’impiccavano (come farà la moglie di Latino nel XII canto).
Questa è dunque nell’Eneide la fine di Didone, che “non moriva per fato, di una morte dovuta, / ma prima del tempo, infelice, sconvolta dall’improvviso furore” (Aen., IV, 696-697). Prima di spirare, fu al “dio giusto e memore / degli amanti non corrisposti” (Aen., IV, 520-521) che rivolse la sua ultima preghiera.
Memori preghiamo dunque per lei, e per tutte le altre.
Le storie d’amore delle altre,
degli altri e di Virgilio nell’Eneide
Raramente le storie d’amore della vita vissuta vantano vette da romanzo. Quasi sempre sono più modeste e più silenziose – ma non per questo meno interessanti. In qualche modo restano pur sempre tragiche, anche se in un senso diverso dalla tragicità da poema epico.
Nemmeno Virgilio in amore poteva dirsi un Enea: nella sua biografia non c’è traccia di nessuna Didone. Sorprendentemente, della vita privata del poeta non sappiamo quasi niente, se non che trattava con rispetto i suoi schiavi – si pensi, invece, a tutte le dicerie intorno alle amanti di Catullo o alle donne di Cicerone che, nonostante l’integerrima toga, fu un vero tombeur de femmes. Ci sono però altri personaggi, oltre ai protagonisti, che nell’Eneide amano. E forse è proprio negli altri personaggi, meno memorabili del capo troiano e della regina cartaginese, che possiamo cercare adesso i gesti di Virgilio – e anche un po’ di noi.
Ogni grande amore possiede sempre un prima e un dopo – anche se nel mentre si stenta a crederlo. Così è anche nell’Eneide. Prima di Didone, Enea amava Creusa. Dopo Didone, Enea amerà Lavinia. In entrambi i casi, il forse è d’obbligo. Perché queste due donne si aggirano nel poema come due fantasmi senza una consistenza reale – altro rispetto alla trama è il loro peso specifico.
La prima un fantasma lo diventa davvero alla fine del II canto. È durante la caduta di Troia che Creusa, figlia di Priamo ed Ecuba, viene fato erepta, “portata via dal fato” (Aen., II, 738). Non è chiaro cosa accada precisamente. Non si spiega come la donna, poco prima in fuga dalle fiamme insieme al marito e al figlio, perda all’improvviso la vita.
Se, secondo i commentatori unanimi, quest’improvvisa uscita di scena della donna è funzionale a Virgilio per lasciar proseguire il viaggio di Enea senza farne un fedifrago (come Ulisse), certo è che l’eroe troiano nemmeno si accorge della scomparsa della moglie.
Di seguito i versi che immortalano Enea quale il più sbadato tra gli esseri di sesso maschile mai venuti al mondo (Aen., II, 740-743):
Incertum; nec post oculis est reddita nostris.
Nec prius amissam respexi animumve reflexi
quam tumulum antiquae Cereris sedemque sacratam
venimus.
Non lo so: non è più ricomparsa ai miei occhi.
Non capii di averla perduta, non feci attenzione
prima d’essere giunto al colle e alla sacra dimora
dell’antica Cerere.
Poco dopo, Creusa ricompare a Enea in sogno per incitarlo a partire da Troia e fondare Roma. È durante il loro commovente incontro che l’eroe prova ad abbracciarla tre volte senza riuscire a sfiorarla, perché lei è un’ombra inconsistente “come i venti leggeri, similissima al sonno alato” (Aen., II, 794) – un gesto vano di profonda tenerezza, ripetuto da Enea alla vista dello spettro di Anchise nel VI canto, e ripreso da Dante nel II canto del Purgatorio, laddove tra le ombre il poeta scorge l’amico Casella.
Da defunta non mostra però rimpianti, Creusa. Anzi, è lei a rinfrancare il marito prostrato in lacrime: il dolore di Enea per la sua perdita è ormai “insano” (Aen., II, 776), dice, non serve indugiare oltre. Fas non est, non è destino che Creusa sia la sua compagna nel “lungo esilio” (Aen., II, 780) che lo condurrà a Roma. Soprattutto, Creusa già sa che la regina prevista dal Fato per la nuova città fondata nel Lazio non sarà lei.
Da allora, persino il ricordo della donna scompare dal poema – “sparì nell’aria lieve” (Aen., II, 791). Di Creusa Enea non farà più alcuna menzione nell’Eneide – solo Ascanio ricorda sua madre nel IX canto.
Non so se l’amore assuma forme e intensità diverse a seconda di chi si sceglie di amare, non ne sono certa. Senz’altro quello che lega Enea a Creusa non ha l’aspetto dell’incendio che in seguito legherà l’eroe a Didone. Epperò non è privo di fiamma – è un amore che non devasta, ma che ha la forma della luce costante di cui brilla una candela. La moglie chiama il marito “mio dolce sposo” (Aen., II, 777) e si premura che si prenda cura del loro unico figlio. Più di tutto, Creusa nell’Eneide vince la prova d’amore suprema: quella di lasciar andare chi si dice di amare come la stessa vita.
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Lavinia, invece, non dice mai nulla. Abbastanza incredibilmente, la futura moglie laziale di Enea non pronuncia una sola parola in nessun verso. Eppure su di lei qualcosa da dire c’è.
Sicuramente, il personaggio di Lavinia ben testimonia come a Virgilio il gioco piaccia quando si fa (poeticamente) duro. A quanto pare non amava vincere facile, il poeta di Mantova, se come meta affettiva per il suo protagonista, dopo tanto viaggiare, scelse una donna apertamente innamorata di un altro – vi immaginate Elena rispedire al mittente l’apprezzamento di Paride?
È vero che a Virgilio serviva un pretesto per fare degli ultimi sei canti dell’Eneide quella che i critici chiamano la “parte iliadica” del poema, ovvero un campo di battaglia – considerando poi che il re Latino è disposto a mettere il suo regno nelle mani di Enea senza pensarci due volte. Ed è sempre vero che non c’è modo migliore per far scoppiare una guerra che mettere di mezzo le donne – questo vale solo per l’epica, nella vita reale sono sempre i soldi. Certo risulta quantomeno singolare che, all’arrivo di Enea nel Lazio, Lavinia sia da tempo già legata a Turno. Il loro non è un flirt, è un fidanzamento ufficiale in attesa di imminenti nozze. E ciò che la ragazza prova per il re dei Rutuli non è semplice affetto, bensì “vivo amore” (Aen., VII, 57).
Non ci sono qui elementi per pettegolare. Resta però il fondato sospetto che in questa parte dell’Eneide la consueta perspicacia narrativa di Virgilio sia stata messa a dura prova dagli strascichi di una personale sfortuna in amore. La similitudine tra il ratto di Elena a Menelao e quello di Lavinia a Turno, ad un esame di coerenza, traballa. Perché Enea non ruba nessuna donna a nessuno, è invece il re Latino a offrirgli prontamente la figlia per suggellare con le nozze la nascita dell’impero di Roma.
E quando la ragione per attaccare guerra non tiene, Virgilio complica e confonde ancora di più le cose. Mette di mezzo la cara Amata, moglie di Latino, che impazzisce da quanto affetto prova nei confronti di Turno, il genero spodestato – va bene il topos della suocera ingombrante, ma scatenare per questo un sanguinoso conflitto pare a tutti eccessivo. Tira fuori persino una profezia tardiva, il poeta, secondo la quale il volo degli aruspici in passato avrebbe predetto che Lavinia avrebbe avuto un marito straniero – ed ecco che Latino si affretta a dire che allora aveva capito male il volere degli dèi promettendo la figlia a Turno, il quale a sua volta si affretta a dire che un po’ straniero lo è perché non è nativo di Alba Longa, ma di Ardea.
L’unica volta che, nell’Eneide, Lavinia ha voce, non è a parole ma con gli occhi. Così la donna reagisce alla vista dell’uomo che ama (Aen., XII, 67-69) – Enea è poco lontano:
Indum sanguineo veluti violaverit ostro
si quis ebur, aut mixta rubent ubi lilia multa
alba rosa, talis virgo dabat ore colores.
Come se qualcuno macchiasse l’avorio dell’India con la porpora
[sanguigna,
o come rosseggia un mazzo di candidi gigli
misto alle rose, questi colori aveva nel viso.
Chissà quante volte con lo sguardo abbiamo detto lo stesso senza pronunciare parola (a qualcuno cui non eravamo destinati, mentre l’amore ufficiale ci attendeva ignaro in fondo al corridoio).
Chissà, forse almeno una volta l’avrà fatto anche Virgilio.
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Infine, è tra le righe dell’Eneide che emergono gli strappi emotivi di Virgilio. È infatti al di sotto dei singoli versi che si dipana tutta l’inquietudine umana e politica del poeta. Ad alcuni lettori attenti, in primis Paul Veyne, non è sfuggito come Virgilio nasconda nella storia d’amore tra Enea e Didone la storia del suo disamore per l’impero di Augusto.
Già nell’infausto delirio nuziale di Didone s’intravede il sangue che scorre a Roma durante le guerre civili, che lacerano il popolo tra sostenitori di Ottaviano e quelli di Antonio, cui era rinfacciato tra l’altro di vivere more uxorio con la regina africana Cleopatra. Del resto, già quindici anni prima che Virgilio scrivesse questi intensi versi, Sallustio aveva affermato che la sola rivale di Roma era Cartagine, aemula imperii Romani (Catilina, X, 1).
Soprattutto, è nel suicidio di Didone – consumato, come abbiamo detto, nel modo più cruento tra quelli contemplati dalla morale romana, ovvero gettandosi spontaneamente su un’arma acuminata – che si rintraccia la morte anzitempo della fiducia che Virgilio aveva riposto in Augusto. È, difatti, lo stesso tipo di fine – stando a quanto riporta Ammiano Marcellino, incubuit ferro (Res gestae, XVII, 4-5) – che scelse Cornelio Gallo, non potendo sopportare le scandalose accuse mossegli dal princeps. Dell’amico più caro di Virgilio noi non sapremo mai niente, ridotto per i posteri a un fantasma, al pari di Creusa, in seguito al decreto imperiale che ne impose la damnatio memoriae.
Forse una traccia di ciò che è stato il loro affetto la si può intuire nella tragica morte di Eurialo e Niso, giovani condottieri troiani, narrata nel IX canto dell’Eneide. I due periscono insieme sotto le armi di Turno dopo aver tentato un assalto notturno – i loro corpi cadono, si dice con una similitudine già omerica, come “i papaveri abbassano il capo / sul collo stanco, quando la pioggia li aggrava” (Aen., IX, 436-437). Nelle parole di Eurialo che piange Niso, colpevole di nient’altro che “aver amato troppo l’amico infelice” (Aen., IX, 430), si scorge tutto il dolore di Virgilio per la perdita del caro Cornelio Gallo.
Pochi versi più avanti, il poeta stesso si rivolge in prima persona al lettore chiedendo che Eurialo e Niso non siano dimenticati – arrivando persino a definirli “ambedue fortunati” (Aen., IX, 446) perché almeno sono ancora insieme, seppure nella morte. In definitiva, quando Virgilio parla un poco – pochissimo – di sé, lo fa sempre nei toni di una fine tragica, ingiusta. Anche lui sente che il suo amore è stato tradito, non da un uomo né da una donna, ma da un’intera epoca storica. La sua resistenza al tempo che vive è spossata, avverte lo stesso sfinimento di Enea costretto a ripartire ancora una volta.
È alle parole dell’eroe che Virgilio affida il rimpianto per ciò che ha perduto per sempre: la serenità, espropriata durante le guerre civili insieme alla sua terra natale. Nei versi che seguono è Enea a rimpiangere la felicità provata a Cartagine. Ma con fin troppa chiarezza vi si scorge anche la nostalgia del pastore Melibeo nella I ecloga (con il richiamo testuale del verso 3) delle Bucoliche – e vi si scorge tutta l’amarezza di un attonito Virgilio (Aen., IV, 281-282):
Ardet abire fuga dulcisque relinquere terras,
attonitus tanto monitu imperioque deorum.
Arde d’andarsene, lasciare l’amabile terra,
annientato al rimprovero, al grave comando dei numi.
(Traduzione di Rosa Calzecchi Onesti)