VII.
Gli altri, dunque noi.
L’Italia e gli Italici nell’Eneide

Dalla collina riarsa

ascolta il grido dei dispersi,

cui solo resta

il cumulo annerito

degli altari infranti, il velo

riarso e scisso.

Ascolta il lamento dei mortali,

gli uomini notturni senza tempio;

uomini cui nessuno edificò

certezze di mura e d’architravi.

Ascolta: le fondamenta

riarse si levano a gridare; si leva

l’ultimo fasciame delle mura,

e nel chiamarti

si fende e sfascia.

Sulle tue mura

a disgregarle in incomposte urla,

la sassifraga distende le radici.

(Giorgio Manganelli, in Poesie giovanili, III, Poesie)

Non ho mai dimenticato la domanda provocatoria che un professore pose alla mia classe nel settembre del mio primo anno di liceo classico: “Vi siete mai chiesti come mai in Grecia, nel giro di un secolo, nacquero la filosofia, la matematica, la storiografia, il diritto, la geometria, l’architettura, la medicina e quant’altro mentre nel resto del mondo tutti erano ancora impegnati a urlare per i boschi con la faccia dipinta di blu?”.

Mi rendo perfettamente conto che questa domanda un po’ sempliciotta, formulata allo scopo di suscitare la curiosità di un gruppo di adolescenti ignari di tutto e appena rientrati a scuola dalle vacanze al mare, non rispetti né i requisiti imposti dalla sociologia e dall’antropologia né quelli previsti dal politically correct. Eppure è la domanda che ancora oggi mi pongo quando visito Atene, Delfi, Epidauro e la Magna Grecia, o quando scorro avidamente i versi di una commedia di Aristofane o i capoversi di un’orazione di Demostene: perché lì e non altrove? Esiste un legame tra geografia e cultura? Senza scomodare la geopoetica di Kenneth White, secondo la quale esiste una forte correlazione tra creazione artistica e spazio circostante, è possibile che un luogo influenzi il modo di pensare dell’uomo e viceversa? Se è chiaro che sotto l’azzurro cielo ellenico non si diventa più intelligenti, ma certo più positivi e magari creativi, che legami intercorrono tra la poesia e la geografia di una nazione intera?

Impossibile nascondere che il mio bisogno di capire si è sempre accompagnato a un senso di fierezza per le mie origini che, negli anni di studio, non si è mai affievolito, anzi, è stato accresciuto da ogni nuova scoperta. Non ho mai saputo rispondere a quell’ingenua domanda senza tirare in ballo il – giustissimo – relativismo ideologico e temporale. Ma mi ha sempre rincuorato non poco sapere comunque che, per nascita e per educazione, appartengo agli eredi di coloro che inventarono il sapere mentre il resto del mondo occidentale poteva dirsi “selvaggio” – il mio non si chiama Bel Paese per caso, né fortuitamente gli italiani sono noti come un popolo di poeti.

Poi in questi mesi è arrivata – anzi, è ritornata – l’Eneide. E quanto è stato grande e pungente lo sgomento di leggere, messo bene nero su bianco da Virgilio, che fino allo sbarco di Enea sulle coste del Lazio anche noi – s’intende l’Italia e l’Europa tutta, eccetto la Grecia – eravamo (metaforicamente) molto impegnati a strillare alle piante con la faccia dipinta di blu.

Perché, nell’Eneide, quelli buoni, istruiti, educati e raffinati non siamo noi. Noi siamo gli altri.

Tra topos e toponomastica, l’Italia nell’Eneide

Iamque rubescebat stellis Aurora fugatis

cum procul obscuros collis humilemque videmus

Italiam. “Italiam” primus conclamat Achates,

“Italiam” laeto socii clamore salutant.

(Aen., III, 521-524)

Già rosseggiava l’Aurora dopo aver messo in fuga le stelle,

quando vediamo da lontano i colli scuri e la costa bassa

dell’Italia. “Italia”, grida per primo Acate,

“Italia” salutano tutti i compagni con liete grida.

È nei pressi di Otranto, precisamente a Castrum Minervae, che Enea e i marinai troiani scorgono per la prima volta l’Italia – sembra di sentire la commozione delle loro “liete grida”, e magari ci uniamo anche noi.

Rispetto all’Iliade e all’Odissea, l’Eneide non è ambientata chissà dove, in luoghi lontani che pochissimi hanno la fortuna di visitare. Il poema di Virgilio si svolge in gran parte in Italia. È casa nostra la meta di Enea. Eppure, difficilmente nella vita di ogni giorno abbiamo consapevolezza che le strade che percorriamo sono le stesse che l’eroe di Virgilio percorse quasi tremila anni fa.

Da italiani, assai raramente gonfiamo il petto e diciamo: da qui è passato Enea – almeno io non l’ho mai sentito. Monumenti antichi all’eroe non ce ne sono, quelli moderni scarseggiano – e anche l’iconografia contemporanea, fatta eccezione per sceneggiati televisivi a uso didattico, è niente rispetto alla fama imperitura e mondiale riconosciuta agli eroi di Omero. Sebbene il viaggio dei protagonisti non si collochi in luoghi remoti o ameni del mito – non ci sono nell’Eneide appartate isole dei Beati, misteriose grotte al limite del mondo abitate da ninfe, né bizzarri popoli di lotofagi –, la geografia di Virgilio evapora non appena chiuse le pagine del suo poema. I soli nomi di luogo che restano impressi nella memoria del lettore sono quelli per cui il poeta si premura di stabilire un’eziologia, come Gaeta, così chiamata in memoria della sua nutrice (Aen., VII, 1-4), oppure Capo Miseno (Aen., VI, 234-235) o Palinuro (Aen., VI, 381), dai due compagni di viaggio dispersi in mare.

Se la geografia classica si può riassumere con il noto detto “tutte le strade portano a Roma”, neanche l’Eneide fa eccezione. Di fatto, è quasi solo il Caput Mundi a essere narrato da Virgilio con precisione geografica e accuratezza nei suoi templi e nei suoi monumenti – in alcuni casi, con pignoleria da atlante stradale. Per il resto, la rappresentazione dell’Italia nell’Eneide è piuttosto criptica ed evanescente. E anche laddove un luogo citato può essere identificato con certezza geografica il dubbio resta.

Non soltanto per via dei lunghi elenchi di popoli e di città – sul modello omerico del catalogo delle navi – che lasciano il lettore quantomeno perplesso. Se infatti si sanno geograficamente collocare i Rutuli sulle coste del Lazio intorno ad Ardea, è molto difficile, per chi non è un esperto sopraffino di storia e di geografia antiche, riconoscere i suoi diretti antenati in nomi quali Massico, Abante, Asila, Astur, Cunero, Cupavone, Ocno, Auleste e altri ancora (si veda l’elenco dei re italici alleati con Mezenzio ai versi 163-218 del X libro).

L’effetto straniante che si ricava nello scoprire la dimensione spaziale dell’Eneide è dovuto al fatto che la geografia virgiliana non è interessata tanto a descrivere i topoi, ovvero dei “luoghi concreti” secondo la prima accezione del vocabolo τόπος (topos). Quelli di Virgilio sono piuttosto topoi nel senso di “luoghi comuni”, “stereotipi”, cioè nella seconda traduzione possibile del termine greco. Le città, i porti, le montagne, i mari, le selve, i fiumi e le pianure che punteggiano l’Eneide servono al poeta per dispiegare la materia epica con cui incantare il lettore; ogni luogo citato nel poema è funzionale alla storia mitologica che consente di raccontare.

Accade dunque che, nell’Eneide, una modesta sorgente solforosa nei pressi di Tivoli cantata anche da Orazio (Odi, I, 7-12) diventi “la profonda Albunea che, più grande di tutte le selve, risuona / per la sacra fonte e nell’ombra esala il tremendo vapore” (Aen., VII, 83-84). Oppure succede che uno sperduto luogo dell’alta Irpinia, in prossimità del piccolo centro di Rocca San Felice (Avellino), venga descritto come “noto e ricordato per fama in molte terre” (Aen., VII, 564): si tratta della valle del torrente Ansanto, il cui corso è presentato nel poema come impetuoso quando, nella realtà, non supera i pochi metri.

Infine, tra le cinque città laziali che, fomentate da Giunone, si preparano alla guerra contro Enea, ben tre hanno creato non pochi problemi ai critici fin dall’antichità. Definite da Virgilio magnae urbes (Aen., VII, 629-631), solo Tivoli e Ardea potevano dirsi all’epoca centri minori di una qualche importanza – non certo Atina, Antenna e Crustumeri (quest’ultimo era un insediamento già decaduto e scomparso, stando alle fonti, nel IV secolo a.C.). Inoltre, gli epiteti utilizzati qui da Virgilio appaiono spropositati e incomprensibili: se forse Tivoli, vista la sua posizione sopraelevata, poteva essere “superba”, non si spiega perché Atina, oggi piccolo comune in provincia di Frosinone, sia “la potente” – mentre quasi certamente la turrigera Antenna non era affatto turrita.

E poi perché proprio cinque città e non di più, oppure di meno? Si tratta forse di un riferimento al primo contingente del catalogo delle navi di Omero, quello beotico, che si apre proprio con cinque comandanti (Iliade, II, 494)? Se sì, perché questo riferimento? Queste, come molte altre questioni di toponomastica nell’Eneide, sono destinate a restare senza risposta.

Ogni luogo menzionato da Virgilio apre una mappa vastissima di possibili riferimenti letterari – e altrettanto vasto è l’atlante dei quesiti che restano irrisolti. Se dunque la maggior parte degli epiteti toponomastici e dei riferimenti geografici dell’Eneide è da intendersi in maniera del tutto esornativa, dobbiamo dedurre che Virgilio ha in qualche modo mentito o barato nel descrivere l’Italia? O, peggio, che la considerasse inferiore, per storia e per bellezza, alle terre di Grecia e che, dunque, ritenesse necessario infiocchettarla al meglio sotto la patina del mito, esagerando le descrizioni dei suoi indirizzi?

No, Virgilio non aveva nessun bisogno d’inventare artifici per abbellire l’Italia – lo splendore delle sue terre era sotto gli occhi di tutti. Soprattutto era davanti ai suoi, di occhi, lui che già aveva celebrato la grazia dell’Italia nelle Bucoliche e nelle Georgiche. Ciò che a Virgilio stava a cuore, umanamente e poeticamente, era invece narrare la bellezza di un’Italia incontaminata, semplice, rustica e spontanea – non dissimile dalla Mantova in cui era nato e cresciuto. Quello dell’Eneide è un inno geografico al prima – e un impietoso confronto con il dopo in cui Virgilio e i lettori vivevano.

Si tratta quindi di un canto diffuso alla purezza di un’Italia in cui non c’erano capitali, ma solo periferie, prima che la metropoli di Roma sollevasse il capo, arrogante. È una nostalgia del tutto politica e ideologica, quella di Virgilio – che a nessuno venga ora in mente di attribuire al poeta posizioni di ecologismo ante litteram o di decrescita felice (era già molto infelice di suo).

Nel menzionare la geografia dell’Italia nell’Eneide, Virgilio rimpiange una terra da poter chiamare patria, è questo a renderla tanto bella e preziosa. Anche lui, come Enea, avrebbe tanto voluto dire della Roma in cui si era ritrovato a vivere: “qui è la tua patria, questa la casa” (Aen., VII, 122).

In sintesi, la geografia dell’Italia di Virgilio non è da ricercarsi nelle mappe della topografia né in quelle del mito classico. Forse, quell’Italia virgiliana esiste solo nel sogno – quando s’infrange.

***

Curiosa è l’etimologia che Virgilio propone per il termine “Lazio” (Aen., VIII, 322). La parola varrebbe “nascondiglio”, dal verbo latere che in latino significa proprio “celarsi” (da non confondere con il caso ablativo del sostantivo latus, genitivo lateris, che vuol dire invece “fianco”, “lato”, da cui l’espressione corrente a latere). Virgilio non manca di ricostruire anche un’archeologia poetica dei luoghi dell’Italia che un giorno diventeranno romani: il Lazio dovrebbe il suo nome a Saturno, che inaugurò sulla terra l’età dell’oro e che proprio nei pressi di Roma si nascose (da qui il nome della regione) quando venne esautorato da Giove e dalla conseguente sete umana di potere.

Ecco come il Lazio appare per la prima volta agli occhi di Enea, ancora sulla nave (Aen., VII, 29-34):

Atque hic Aeneas ingentem ex aequore lucum

prospicit. Hunc inter fluvio Tiberinus amoeno

verticibus rapidis et multa flavus harena

in mare prorumpit. Variae circumque supraque

adsuetae ripis volucres et fluminis alveo

aethera mulcebant cantu lucoque volabant.

E qui Enea vede dal mare un grande bosco,

e in mezzo a questo il Tevere, con la sua amena corrente,

con vortici rapidi, biondo di molta arena,

si getta in mare. Intorno e sopra, uccelli

variopinti, avvezzi alle rive e al letto del fiume,

accarezzavano l’aria con il canto, e volavano per il bosco.

Non sarà difficile immaginare – soprattutto per chi ha sperimentato la frustrazione causata dall’incuria e dall’abbandono in cui giace la Roma attuale – che, per questa descrizione, Virgilio sia ricorso al topos, allo stereotipo poetico, del locus amoenus caro alla poesia alessandrina. Il Lazio narrato nell’Eneide assomiglia più all’incontaminata isola di Calipso (che gli studiosi di Omero faticano ancora a identificare sulle mappe dopo quasi tre millenni) rispetto agli odierni paesaggi urbanizzati che da Roma portano al mar Tirreno – e infatti il Tevere nell’Eneide è detto fluvio Tiberinus amoeno, “il Tevere dalla bella corrente” (Aen., VIII, 31).

Poco dopo che gli esuli sono sbarcati sulla spiaggia laziale, Virgilio racconta il realizzarsi della profezia predetta dall’Arpia (Aen., III, 255-257), secondo la quale i Troiani avrebbero compreso di essere finalmente arrivati alla meta del loro viaggio soltanto quando, giunti su una spiaggia ignota, sfiniti dalla fame, avrebbero mangiato anche le mense, cioè la tavola stessa su cui pranzavano. Il poeta narra quest’episodio (Aen., VII, 112-129) con una leggerezza che non sembra appartenergli. Il sollievo di essere nel Lazio coinvolge padre e figlio in una scenetta distesa che sdrammatizza il tetro presagio dell’uccello maligno – e aggiunge a questi versi un’inattesa dolcezza.

Preso dalla foga, Ascanio addenta infatti i bordi quadrati di una pagnotta, che per la forma ricordano un tavolo, fino ad esclamare adludens, “scherzando”: “Ahimè, mangiamo persino le mense!” (Aen., VII, 116). Ed ecco che qui Virgilio regala al lettore un’espressione che, a mio parere, è tra le più belle del poema: Enea riconosce sorridendo la parola che indica la fine delle loro fatiche e allora, quella parola, senza dire nient’altro l’eroe “la colse sulle labbra del figlio, e la custodì” (Aen., VII, 119). Del resto, l’amore dell’eroe per il figlio è uno dei motivi affettivi più solidi e costanti nel poema.

È dunque con grande tenerezza, e con infinito sollievo, che Enea può dire a voce alta (Aen., VII, 120-122):

“Salve fatis mihi debita tellus

vosque” ait “o fidi Troiae salvete penates:

hic domus, haec patria est”.

“Salute, terra a me dovuta dai fati;

salute a voi, fidi Penati di Troia,

qui è la patria, questa è la casa”.

Si rivolge direttamente all’Italia – le dice salve, augurandole il meglio possibile. La chiama “patria”, la chiama “casa”. Non importa se presto sarà costretto dal Fato a veder scorrere “rugiade di sangue” e a calpestare “sangue misto alla rabbia” (Aen., XII, 340). Il suo è uno sguardo cristallino di stupore nel farsi accecare per la prima volta dalla bellezza dell’Italia – come la meraviglia che deve restare incancellabile negli occhi dei bambini che vengono alla luce al Fatebenefratelli, l’ospedale di Roma le cui finestre del reparto maternità ancora oggi si spalancano sull’incanto dell’isola Tiberina.

Noi italici

Nell’VIII libro dell’Eneide, Evandro, il re arcade stabilitosi in Italia e padre dello sfortunato Pallante, mostra a Enea la rocca sul Palatino, da lui stesso fondata – si tratta del medesimo luogo dove, molti anni dopo, Romolo poserà la prima pietra di Roma.

È con queste parole che il re descrive le genti che, in un tempo remoto, popolarono il Lazio (Aen., VIII, 314-318):

Haec nemora indigenae Fauni Nymphaeque tenebant

gensque virum truncis et duro robore nata,

quis neque mos neque cultus erat, nec iungere tauros

aut componere opes norant aut parcere parto,

sed rami atque asper victu venatus alebat.

Questi luoghi li abitavano i Fauni indigeni,

e le ninfe e un popolo di uomini nati da tronchi di dura quercia,

che non avevano leggi né civiltà, non sapevano

aggiogare i tori, raccogliere le provviste, conservare il raccolto;

il bosco e una rozza caccia fornivano il cibo.

Al tempo in cui si svolge l’Eneide, i popoli italici che discendono da queste stirpi primitive hanno ormai imparato i segreti dell’agricoltura e dell’allevamento, e i principi della legge e della religione. Eppure, il loro temperamento sempre oscilla tra il fuoco della passione e la durezza cruda del legno. Di fatto, Enea non potrebbe sentirsi più straniero altrove che in Italia. E gli Italici non potrebbero guardare al nuovo arrivato con maggiore sospetto.

Nulla è più lontano dalla compostezza prevista dalla xenìa greca rispetto alle reazioni suscitate nel Lazio dall’arrivo dei Troiani. Certo, Enea e i suoi compagni vengono subito accolti – fin troppo bene – dal re Latino, ma quella che si scatena intorno all’eroe è una vera e propria isteria collettiva. Da un lato ci sono i popoli alleati con i Latini, che letteralmente si accalcano per prendere posto accanto a Enea – oggi non esiteremmo a usare l’espressione “salire sul carro del vincitore”, con l’aggravante che l’eroe di Virgilio, a questo punto dell’Eneide, deve ancora vincere. “Molti popoli si associano all’eroe troiano, / e il suo nome corre sempre di più nel Lazio” (Aen., VIII, 13-14): sembra quasi non esserci un re che, per motivi legati alla vecchiaia o per via di profezie pregresse o per mancanza di eredi, non riconosca in Enea l’uomo forte cui mettere in mano il trono e tutti i suoi sudditi.

Si è già visto in precedenza il pasticcio causato da Latino, quando su due piedi ha offerto la figlia in sposa a Enea senza che lui l’avesse nemmeno chiesto (figlia già promessa a Turno, tanto caro alla regina Amata che – come abbiamo detto –, per lo sgarbo imposto al mancato genero, impazzisce e ordisce una guerra che arriva a coinvolgere l’intero Lazio). Dall’altro lato ci sono i popoli alleati con Turno i quali, accecati dalla collera come cavalli impazziti, prendono a congiurare all’istante contro Enea: “subito gli animi furono sconvolti, e tutto il Lazio / congiura con trepido tumulto, e la fiera / gioventù infuria” (Aen., VIII, 4-6). Per non parlare poi delle alleanze e delle inimicizie tra le varie tribù che, da Nord a Sud, rendono l’Italia intera un campo minato.

Insomma, ciò che uno sbigottito Enea si trova di fronte appena messo piede nel Lazio è senz’altro un bel panorama, ma il parapiglia politico è tale da far quasi rimpiangere gli ordinati schieramenti di popoli, ben dispiegati con le loro insegne, sulla piana di Troia. Poco ci vuole perché Enea non abbia nemmeno il tempo di capire dove si trova che già deve correre a impugnare le armi: “arde l’Italia, che prima era tranquilla e immobile” (Aen., VII, 624). Che dire: non proprio la migliore accoglienza né il più simpatico comitato di benvenuto.

Se, come sentenzia Giunone, in Italia “c’è abbondanza di paure ed inganni” (Aen., VII, 552), questo non significa però che gli Italici abbiano i mezzi necessari per dichiarare guerra. Anzi.

Solo Turno, che come si è visto nel capitolo dedicato al Fato è l’unico eroe “omerico” dell’Eneide, è pronto a combattere: “freme follemente per le armi, le cerca nel letto e per casa; / infuria in lui l’amore del ferro e la sciagurata follia di guerra, / e in più la collera” (Aen., VII, 460-462). Prima della battaglia decisiva con Enea, il re dei Rutuli è paragonato a un toro che “saggia con le corna l’ira / contro il tronco di un albero” (Aen., XII, 104-105) e che, con i piedi, scalcia scontroso nella sabbia. Degli altri uomini non si può però garantire che abbiano la stessa determinazione battagliera – e forse nemmeno, ahimè, lo stesso physique du rôle: “popoli impigriti / e disabituati alla guerra” (Aen., VII, 693-694), così altrove Virgilio dice degli Italici.

Ma come davvero siano e con quali valori conducano la vita i popoli dell’Italia virgiliana è meglio ascoltarlo direttamente da loro (Aen., IX, 601-620):

Quis deus Italiam, quae vos dementia adegit?

Non hic Atridae nec fandi fictor Ulixes:

durum a stirpe genus natos ad flumina primum

deferimus saevoque gelu duramus et undis;

venatu invigilant pueri silvasque fatigant,

flectere ludus equos et spicula tendere cornu.

At patiens operum parcoque adsueta iuventus

aut rastris terram domat aut quatit oppida bello.

Omne aevum ferro teritur, versaque iuvencum

terga fatigamus hasta, nec tarda senectus

debilitat vires animi mutatque vigorem:

canitiem galea premimus, semperque recentis

comportare iuvat praedas et vivere rapto.

Vobis picta croco et fulgenti murice vestis,

desidiae cordi, iuvat indulgere choreis,

et tunicae manicas et habent redimicula mitrae.

O vere Phrygiae, neque enim Phryges, ite per alta

Dindyma, ubi adsuetis biforem dat tibia cantum.

Tympana vos buxusque vocat Berecyntia Matris

Idaeae; sinite arma viris et cedite ferro.

Quale dio, quale pazzia vi ha spinti in Italia?

Qui non ci sono i figli di Atreo o Ulisse inventore

di menzogne. Noi, stirpe dura fin dall’origine,

portiamo subito al fiume i nostri figli, li fortifichiamo con l’aspro

gelo e con l’acqua; i ragazzi vegliano nella caccia e corrono

le foreste, il loro gioco è domare i cavalli e scoccare frecce dall’arco.

La gioventù, laboriosa e contenta di poco,

doma la terra con i rastrelli o scuote le città in guerra.

Ogni età si logora in armi, pungoliamo con l’asta

rovesciata la schiena ai giovenchi, neanche la tarda vecchiaia

ci toglie le forze dell’animo o ne muta il vigore.

Mettiamo l’elmo sopra la canizie, ci piace

fare nuove prede e vivere di rapine.

Le vostre vesti sono dipinte di croco o di fulgida porpora,

vi stanno a cuore le mollezze, vi piace indulgere

alle danze, le vostre tuniche hanno maniche, nastri le mitre.

Troiane e non Troiani, correte sull’alto Dindimo,

dove il flauto emette per chi vi è avvezzo un suono doppio;

vi chiamano i tamburelli, i legni berecinzi

della Madre Idea: lasciate le armi agli uomini, rinunciate al ferro.

A stabilire nell’Eneide un limite netto tra “voi, Greci” e “noi, Italici” ci pensa Numano, il cognato di Turno, che con queste parole inveisce contro i soldati troiani – per tutta risposta, Ascanio scaglierà contro di lui la sua prima freccia segnando così l’inizio del suo noviziato in battaglia. E di certo non le manda a dire, Numano: ai compagni di Enea rinfaccia la perpetua condizione di assediati, bis capti (Aen., IX, 599), dopo che Troia è stata conquistata sia da Eracle sia da Agamennone. Ma più del palmares sul campo di guerra, è il modello educativo e culturale greco a suscitare il sarcasmo e il disprezzo latino – fino alla femminilizzazione ingiuriosa dell’altro, e non poco villana.

Con grande fierezza l’uomo illustra il modulo pedagogico con cui crescono i giovani italici, che “si accontentano di poco” coltivando con fatica la terra o attaccando briga e seminando razzie nei villaggi vicini. Ogni stagione della vita è all’insegna dell’esercizio fanatico della guerra, dovere cui non si sottraggono nemmeno i più anziani – l’elmo in Italia s’indossa anche quando i capelli si fanno radi e grigi. In generale, la descrizione dello stile di vita degli Italici ricalca qui l’esempio del contadino latino operoso e parco, senza brame di possesso o altri grilli per la testa, secondo il modulo del civis romanus che vive di poco seguendo i precetti del mos maiorum già cantato da Ennio – e numerosi sono in questi versi i rimandi alle Georgiche a proposito dello sforzo richiesto dal coltivare la “dura” terra.

Ciò che colpisce nelle parole di Numano è piuttosto la marcata contrapposizione di paradigma culturale tra Grecia e Roma: tanto la prima è molle e abituata al lusso e agli agi, tanto la seconda è spiccia e nerboruta. Gli uni, i Greci, tra le mani reggono flauti e tamburi, doni di Cibele riferiti alle arti e alla poesia; gli altri, i Romani, impugnano aste e coltelli, e per il sapere non hanno né tempo né cura.

Nell’Eneide, questo scontro tra i due modi di vedere – e di educare – il mondo era già presente nella profezia di Anchise, che nell’oltretomba esortava Enea a non dimenticare che lo scopo dei Romani è quello di dominare il mondo, non di eccellere nelle arti (Aen., VI, 847-850):

Excudent alii spirantia mollius aera

(credo equidem), vivos ducent de marmore vultus,

orabunt causas melius, caelique meatus

describent radio et surgentia sidera dicent.

Altri con più eleganza scolpiranno le statue che sembrano vive,

lo credo, e trarranno dal marmo volti vivi, peroreranno

meglio le cause e descriveranno col sestante meglio

le strade del cielo e annunceranno le stelle sorgenti.

Peccato sia troppo tardi per tornare al liceo e informare quel mio professore di quanto l’Eneide sancisce con estrema chiarezza: secondo questi versi, quelli “eleganti” che si dedicano alla scultura, all’oratoria, all’astronomia sono i Greci. Noi, “stirpe dura fin dall’origine” (Aen., IX, 603), come dice Numano, discendiamo da coloro che da ragazzi vagavano per i campi a pungolare la schiena ai vitelli a mo’ di cowboy. E ciononostante, il nostro scopo resta quello di governare la politica del mondo.

Enea a quella gente – la nostra gente, i nostri antenati – presto si unirà per dare vita alla stirpe moderna da cui discendiamo tutti noi europei che non siamo nati baciati dal canto delle Muse sotto le mura di Atene. A essere in gioco nell’Eneide non sono dunque soltanto la fondazione di Roma e le successive sorti dell’impero. Come vedremo, ciò che Virgilio riesce – quasi inconsapevolmente – a narrare nel poema è quel melting pot tra l’ideale greco di misura e di proporzione e gli impeti irrazionali dell’ardore latino che darà vita, per la prima volta nella storia della letteratura, a un’attestazione sulla pagina del “carattere mediterraneo”.

Perché la prima pietra con cui il poema si chiude non è certo quella di Roma, quella verrà posata molti secoli dopo la vittoria di Enea sui Rutuli. Invece, le fondamenta gettate dall’ultimo verso dell’Eneide sono tutte di natura umana.

***

Ammesso che l’Eneide sia un poema patriottico, come sostengono alcuni, bisogna però riconoscere che il suo finale non ha proprio nulla di romano. Duemila anni di studi virgiliani mi mettono al riparo dal rischio di fare qui spoiler rivelando che il poema sulla fondazione di Roma non termina affatto con la fondazione di Roma. Soprattutto, non c’è nessun happy ending ad attendere il lettore.

Il XII libro dell’Eneide si conclude, infatti, con la spada di Enea che s’infila dritta nel petto di Turno – e nient’altro; Roma è ben lontana da venire. Non è senza esitazione che l’eroe di Virgilio uccide a sangue freddo il re dei Rutuli, il quale lo supplica di risparmiarlo facendo appello alla memoria del padre Anchise. Anzi, esita il cuore di Enea (Aen., XII, 940) fino a che non scorge sulla spada di Turno “lo sciagurato balteo” (Aen., XII, 942), la cintura di cuoio borchiato che in precedenza il re aveva sottratto a Pallante dopo averlo brutalmente assassinato e aver dileggiato il suo cadavere. È questo ricordo di “atroce dolore” (Aen., XII, 945) che spinge Enea a sferrare il colpo fatale, recando vendetta all’ingiusta morte del ragazzo.

Arrivano così i due versi finali: “A Turno si sciolgono nel gelo le membra, / e la vita indignata fugge con un gemito tra le ombre” (Aen., XII, 951-952).

Vitaque cum gemitu fugit indignata sub umbras.

Per secoli la potenza del verso conclusivo dell’Eneide è risuonata tra i lettori del poema di Virgilio – e ancora oggi molto risuona accompagnata dai dubbi che porta con sé. Peraltro, si tratta delle stesse identiche parole già utilizzate nell’XI libro, al verso 831, per descrivere la morte dell’amazzone Camilla, regina dei Volsci uccisa dall’etrusco Arunte. Insieme alle incertezze sulla traduzione – non è chiaro il motivo per cui il poeta adoperi la preposizione sub, che significa “sotto”, e che complica la resa letterale “sotto alle ombre”, giacché non esiste un luogo più inferiore rispetto al regno dei morti –, estenuante è stata fin dall’origine la ricerca di un significato simbolico che possa almeno illuminare questo finale criptico e tetro. Se la scelta poetica di Virgilio di concludere in questo modo la sua Eneide si può spiegare con il rimando al modello omerico, certamente qui il suo impiego risulta un po’ forzato – l’esito è quello di un finale contratto, nervoso, quasi monco.

Certamente la supplica di Turno deve la sua origine a quella di Ettore che, nell’Iliade, implora Achille di restituire il suo cadavere ai Troiani perché possano rendergli almeno gli onori estremi (Iliade, XXII, 338-343) – mentre il richiamo all’affetto paterno è quello di Priamo che si rivolge ad Achille (Iliade, XXIV, 486). Epperò Turno, rispetto all’eroe di Troia, qui non ha ancora ricevuto il colpo mortale. Rimane quindi ambiguo se la sua richiesta di pietà verta sul rispetto delle sue spoglie da morto o sulla possibilità di avere salva la vita – è a questa seconda opzione interpretativa che sembra rispondere Enea, visto che mai gli onori funebri sono stati messi in discussione in questa circostanza.

Durante il mio studio è stato Paul Veyne – che liquida quest’eccesso d’ira del sempre pio Enea quale “tratto di colore locale” senza alcun significato religioso o filosofico – a farmi venire il sospetto: e se invece fosse questo il primo gesto “meticcio” di Enea? Se l’esplosione di collera finale, che contraddice il comportamento iper-controllato che l’eroe ha sempre tenuto fin qui, quasi ossessivo nella sua fermezza a continuare nonostante tutto e nonostante tutti, fosse il risultato della contaminazione in atto tra genti greche e popoli latini? In altre parole: come spiegare quest’irrazionale furore e questo scatto emotivo in un personaggio che, anche e soprattutto nei momenti più duri, ha orientato ogni suo gesto al valore della pietas se non con un mutamento di carattere – anzi, con un naturale adattamento allo spirito della nuova terra del Lazio?

Il feroce assassinio di Turno non commuove affatto il lettore né lo scandalizza; piuttosto, a sfuggire è un sospiro di sollievo considerata la barbarie perpetrata nel corso del poema dal re dei Rutuli. E la sua morte per mano di Enea non è poi così funzionale nella struttura del poema – se non ad aggiungere una nota drammatica e teatrale alla sua conclusione.

Se si vuole leggere in questo passaggio lo scioglimento della contesa di Lavinia, reclamata sia da Enea sia da Turno, allora il riferimento al duello tra Paride e Menelao nell’Iliade non regge il confronto: in gioco qui c’è ben più che una donna, c’è un impero. In Omero la condizione politica dei Greci e dei Troiani non muta al termine del poema, i protagonisti restano ancorati alla stessa posizione sociale che avevano prima della guerra: Troia cade e per nessuno ci sono ricompense né promozioni, per tutti c’è solo dolore. In Virgilio, Enea ottiene invece il dominio del Lazio e la sistemazione del suo popolo in un assetto politico tanto nuovo da mutare persino l’identità nazionale – nessuno è più quello di prima, nessuno può più dirsi troiano; da profugo, alla fine Enea si ritrova nientemeno che re di una terra straniera.

Inoltre, sul piano drammaturgico, nel finale dell’Eneide Enea non ottiene nemmeno quello che potremmo chiamare il suo “momento di gloria”. L’eroe non cerca affatto una rivincita personale, e non sono certo i Rutuli i primi colpevoli del male provocato dalla sua vita – e dalla sua famiglia – andate in pezzi insieme alla rocca di Troia. Tantomeno è interesse di Virgilio redimere le lacrime che il suo protagonista ha versato per ben dodici canti con uno scatto improvviso di bruta virilità: l’Eneide non è un colossal hollywoodiano in cui il nerd alla fine si scopre un coraggioso supereroe – né il suo autore, né il suo pubblico erano un manipolo di ingenui.

Alla fine del poema, Enea ancora esita, incespica e si commuove come ha sempre fatto – solo che, almeno per una volta, la prima, sperimenta il brivido di seguire il suo istinto anziché chinare mite il capo alla razionalità di piani già scritti. Perché qui non siamo più a Troia, qui siamo ormai nel Lazio, terra destinata a diventare romana diventando innanzitutto troiana – è Roma che sta per nascere e con lei la sua gente, che però non può essere più la stessa miseramente piegata dal cavallo di Ulisse.

Per carità, che non mi si fraintenda: non voglio certo dire che Virgilio intenda porre un omicidio a fondamento dell’Urbe né che voglia fare dell’Eneide un Bildungsroman in cui il protagonista nel corso della storia diventa, da uomo onesto, un criminale. Mi limito a osservare, e non senza stupore, come nell’Eneide Enea sia pius dal primo al penultimo verso. Nell’ultimo, perde il suo inscalfibile aplomb greco. E diventa finalmente mediterraneo – quindi umano – come tutti noi.

Per una defascistizzazione dell’Eneide

Se al termine del poema l’anima di Turno se ne va “indignata tra le ombre” (Aen., XII, 952), di certo è stata l’Eneide intera a fuggire via indignata dalla manipolazione disonesta che il fascismo ha fatto del poema durante il Ventennio – mentre Virgilio intanto si rivoltava nella sua tomba di Napoli. A colpire – a sconvolgere – nella distorsione dell’Eneide operata dal regime fascista non è soltanto il tentativo di piegarne i versi per renderli un bieco strumento di propaganda. Non è tanto la malizia intellettuale a lasciare basiti, è proprio la cecità dell’ignoranza.

Detto schiettamente: dell’Eneide il fascismo non aveva capito niente.

Purtroppo, la funesta eredità lasciata dietro di sé dal regime sugli studi classici è ancora lontana dal potersi dire definitivamente archiviata. Ancora oggi la pervicacia con cui Mussolini e gli altri hanno strumentalizzato e falsificato il significato del classico, e in particolare del classico latino, richiede un urgente percorso di sottolineatura della verità filologica per arrivare a una doverosa defascistizzazione del concetto di grecità e di romanità. A cominciare da Virgilio e dall’Eneide.

Il primo riferimento pubblico di Benito Mussolini all’antica Roma si ha in un discorso tenuto a Trieste il 20 settembre 1920. È in questa occasione che, insieme al solito elogio dell’italianità di Trieste e di Gabriele D’Annunzio quale il più grande dei poeti, il pubblico ascolta per la prima volta i motivi che porteranno presto a quella che Luciano Canfora definisce una vera e propria “romanolatria” da parte del fascismo: la supposta discendenza diretta dell’Italia dall’impero di Roma, e dunque il presunto dovere ereditario di sottomettere con la forza il resto del mondo mettendo a tacere chiunque si opponga. Già qui si vede chiaramente la sciatteria con cui i teorici del fascismo tirarono dritto – e tirarono una bella riga sopra – su dinamiche storiche durate oltre un millennio e ben più complesse della banalità con cui si propinava alle masse un albero genealogico che voleva gli Italiani discendere direttamente dai Quiriti, come se questi ultimi fossero stati i loro ruspanti nonni.

Ben presto l’esaltazione della romanità, che era già diventata il fallace sinonimo di italianità, si rivela una cifra fondante della propaganda fascista, comportando la codificazione di gesti, simboli e cerimoniali attinti con superficialità e malafede dall’iconografia classica. Vale la pena ricordare che il cosiddetto “saluto romano” di storicamente romano non ha proprio nulla: il gesto di tendere il braccio per esprimere l’adesione al fascismo risalirebbe soltanto ai legionari di Fiume, ispirati a loro volta dal film Cabiria, diretto nel 1914 da Giovanni Pastrone con la collaborazione di D’Annunzio.

In nessun testo classico, greco o romano che sia, di nessuna epoca storica, vi è un riferimento a questo gesto, né esiste alcuna opera d’arte – nessuna pittura, scultura, coniazione – in cui venga rappresentato. Anzi, presso i popoli antichi, e non solo mediterranei, la gestualità relativa alla mano destra (dextera, in latino) era carica di significati opposti a quelli attribuitele dal fascismo, quali l’amicizia, la pace, la solidarietà – basti vedere il monumento equestre a Marco Aurelio, oggi esposto ai Musei Capitolini, dove l’imperatore leva il braccio destro, la mano rilassata, senza tensioni, le dita rivolte in alto in segno di universale rispetto. Anche le strutture paramilitari fasciste vengono battezzate da Mussolini con nomi propri dell’esercito romano (coorti, legioni, centurie) nel tentativo, comune a ogni dittatura, di legittimare ciò che non può essere legittimato, storpiando la storia al fine di creare una liturgia in falsa continuità con il passato.

A dir poco inquietanti sono le pretese vitalistiche di Mussolini, il cui intento non è soltanto quello di ricordare i fasti dell’antichità romana, bensì di proporre il fascismo come risorgimento, ovvero come il movimento che avrebbe restaurato nel presente la gloria passata inaugurata da Romolo. Ecco le parole precise che il Duce aveva pronunciato il 21 aprile 1922: “Molto di quello che fu lo spirito immortale di Roma risorge nel fascismo: romano è il Littorio, romana è la nostra organizzazione di combattimento, romano è il nostro orgoglio e il nostro coraggio: civis romanus sum”.

L’atto definitivo avviene nel 1924, quando per volere di Mussolini le celebrazioni del Natale di Roma (21 aprile) sostituiscono addirittura la festa popolare del Primo Maggio, tacciata di bolscevismo, portando alle estreme conseguenze un quadro propagandistico fanatico che sosteneva che commemorare la nascita di Roma equivalesse a celebrare la nascita della razza italica.

Ovviamente, il colpo di grazia si stava per abbattere anche su Virgilio e sulle sue opere – il regime fascista non vedeva l’ora di mettere le mani sul poeta latino più illustre e noto nel mondo, colui che aveva cantato la nascita di Roma e l’avvento dell’età dell’oro sotto la guida di Augusto. Così, nel 1924, la Società italiana (leggasi fascista) per la diffusione e per l’incoraggiamento degli studi classici annuncia – con un articolo in lingua latina apparso sulla rivista “Roma-Atene” – che avrebbe partecipato con un ricco programma di iniziative e di pubblicazioni alla commemorazione prevista per l’anniversario della nascita di Virgilio, che stava per compiere duemila anni nel 1930.

Per l’autore dell’Eneide si è trattato del compleanno più infausto di sempre – troppe lacrimae rerum hanno offuscato sotto il fascismo il significato autentico della sua poesia.

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Più che una festa, quello organizzato dal fascismo per il bimillenario di Virgilio fu un circo – degli orrori e dei filologici errori. Nell’ambito di ciò che Luciano Canfora definisce “il primo evento culturale di massa sorretto da espliciti intenti politici”, tutte le sezioni locali del partito fascista furono incoraggiate a omaggiare la memoria di colui che il regime trattava ormai alla stregua del profeta della razza italica. Allo stesso tempo, una circolare ministeriale costringeva gli istituti superiori a uniformare i percorsi di studio intorno all’esaltazione di Virgilio quale cantore del fascismo.

In tutto il paese vennero messe in cantiere nuove traduzioni (tra cui quella, in mille esemplari lussuosamente decorati, curata da Giuseppe Albini per l’Accademia virgiliana di Mantova), riduzioni semplificate per i bambini e per coloro che non avevano avuto accesso agli studi, lezioni universitarie, pubblicazioni e miscellanee.

A Pietole, l’antica Andes luogo natale di Virgilio, fu progettato persino un lucus Virgilii, un “bosco sacro virgiliano”, sotto l’egida del fratello del duce, Arnaldo Mussolini. A Napoli ci si dava da fare per restaurare la tomba del poeta, a Cuma l’antro della Sibilla – evidentemente sotto il fascismo si dovette pensare che anche la porta dell’inferno necessitasse di restauro. L’anno virgiliano toccò anche il resto del mondo, con celebrazioni in tutti gli istituti italiani di cultura e nei centri di studio internazionali per l’antico – tra tutte, riporto qui le parole del presidente del comitato “France-Italie” nonché direttore dell’Académie de France a Roma, il pittore Albert Besnard, che ravvisò proprio in Virgilio la fonte della “fraterna amicizia” tra i due paesi, legati “da un’unione vivente di anime” ispirata al poeta.

Fu insomma tutto molto retorico, tutto molto sfarzoso, tutto molto propagandistico – eppure non è chiaro a quale Virgilio si riferisse il fascismo. Di certo non al poeta mantovano autore dell’Eneide, colui che fece del dubbio intellettuale e della crisi personale le cifre della sua vita e della sua produzione artistica. A Mussolini, invece, piaceva un antico signore romano impegnato a spendere sprezzanti fiumi d’inchiostro per difendere l’Italia rurale, per legittimare la missione imperiale – cui Virgilio avrebbe aderito spontaneamente e che avrebbe sempre sostenuto senza esitazioni –; un poeta che giustificava la sottomissione di terre barbare e straniere, così illuminato da anticipare persino la matrice cristiana del suo popolo. Tutti temi che, però, nelle Bucoliche, nelle Georgiche e nell’Eneide non stanno scritti da nessuna parte, né tantomeno compaiono nella biografia del poeta.

Inizialmente, fu soprattutto per la dimensione rustica, operosa e fiera delle sue prime opere che Virgilio venne tirato per la giacchetta – anzi, proprio strattonato in malo modo – dalla propaganda di regime. Il suo nome, insieme a quello dell’ignaro Titiro delle Bucoliche e dei contadini delle Georgiche, venne menzionato nella cosiddetta “battaglia del grano”, per l’autosufficienza della produzione cerealicola, e nella campagna di bonifica delle paludi dell’Agro Pontino. In generale, Virgilio quale “poeta dei campi” fu tirato in mezzo in qualsivoglia occasione di propaganda del modello rurale e autarchico della “Nuova Italia” fascista, che si voleva popolata di piccoli contadini felici di niente, infaticabili nello spezzarsi la schiena nei campi e sempre pronti a prendere a bastonate chi non la pensasse come loro.

Non possono non tornare ora alla mente le parole con cui Numano, nel IX canto dell’Eneide, descrive la mala educazione delle prime genti italiche nei versi riportati poco sopra in questo capitolo. È vero, bisogna concordare con i teorici fascisti: questo modello educativo è scritto con chiarezza nell’Eneide. Il poema di Virgilio dovevano dunque averlo letto almeno una volta. Ma dubito che dovettero averlo compreso, visto che a sfuggirgli era che questo stile di vita cavernicolo e rozzo apparteneva a quegli Italici che, nell’Eneide, fanno una pessima fine. Uccisi o sottomessi da Enea e dai suoi costumi stranieri.

Senza l’eroe venuto da Troia, con in tasca non soltanto i Penati, ma con tutto il patrimonio di cultura e di sapere proprio del mondo greco, quell’Italia di cui il fascismo si riempiva la bocca non sarebbe nemmeno nata – e magari gli Italici sarebbero ancora lì a vagare per i prati con il rastrello in mano, come tanto piaceva a Mussolini.

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Ovviamente, il Virgilio georgico e bucolico non bastava alla propaganda del regime: “È l’aratro che traccia il solco, ma è la spada che lo difende”, avrebbe detto Mussolini inaugurando nel 1932 la provincia di Latina (una tra le più recenti d’Italia, fondata proprio dal fascismo con il nome romano di Littoria). Così la scure impietosa del fascismo si abbatté anche sull’Eneide – che disarmata accusò il duro colpo, e ancora oggi continua a mostrare le ferite.

Bisogna riconoscere che solo l’accanita malafede fascista poteva fare del pio Enea un eroe bruto e virile, senza macchia e senza paura, di fronte al quale persino l’Achille di Omero se la sarebbe data a gambe. Sotto la lente distorta dell’interpretazione del regime, l’eroe diventa un temibile conquistador che non fa altro che spargere sangue lungo la sua strada verso Roma – sotto il fascismo non sono ammesse le inquietudini e le esitazioni dolorose che sono il vero tratto peculiare del personaggio virgiliano, così lontano dalla furia appassionata degli eroi omerici.

All’improvviso, il mite Enea si ritrova ad essere l’uomo forte sbandierato dalla propaganda come modello per il buon cittadino fascista – da pius l’eroe diventa di colpo macho. A lui, italiano del passato, deve ispirarsi l’italiano moderno – peccato che Enea fosse troiano, e quindi il suo sangue era ben lontano dalla purezza richiesta dal regime. Soprattutto, doveva essere sfuggito che la condizione dell’eroe quale fato profugus in Italia sia riportata chiaramente giusto al secondo verso del I libro dell’Eneide.

Persino il Fato Mussolini arrivò a manipolare: ecco che l’imperialismo fascista si tinge di un tetro valore morale e spirituale, non più soltanto militare e territoriale. L’Eneide, sostenevano i fascisti, non solo avrebbe incoraggiato le mire espansionistiche e predatorie dell’Italia, piuttosto le imponeva, al fine di sottomettere il mondo pagano e barbaro dell’Africa all’impero di Roma, come previsto dal disegno fatale (termine utilizzato proprio da Mussolini nel discorso di proclamazione dell’impero, il 9 maggio 1936).

Non tutti i classicisti (sebbene sia lecito, nonché triste, constatare: quasi tutti) si rivelarono proni nello snaturare l’Eneide e il suo protagonista per farne le marionette del fascismo. Tra coloro che si opposero alla propaganda di regime vale la pena ricordare Tommaso Fiore, che nel 1930 pubblicò per Laterza un’opera intitolata La poesia di Virgilio, con la quale cercava di ricondurre la figura dell’eroe troiano alla verità testuale – suscitando non poche polemiche nell’ambito delle sfarzose cerimonie del bimillenario. Più interessante ancora è notare come reagirono i teorici del fascismo alle critiche mosse da chi tentava di riportare la lettura di Virgilio nel dominio dell’onestà intellettuale.

I dissidenti venivano accusati di essere tutti allievi di Benedetto Croce e di comportarsi da pignoli accademici, da pedanti latinisti chiusi in una roccaforte distante dai bisogni del popolo (all’improvviso assetato di Virgilio) – una reazione stizzita non troppo diversa da chi oggi dà del “professorone” a chi possiede i titoli di studio richiesti per intavolare discussioni meno superficiali dell’effimero chiacchiericcio.

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In tutto questo castello di menzogne propagandistiche, qualcosa però dell’Eneide continuava a stridere con l’esaltazione della razza purosangue imposta dal fascismo. Quel qualcosa, non certo di poco conto, si provò allora a tacerlo, a falsificarlo – ma non lo si poteva cancellare.

Si trattava della natura ibrida delle genti al centro del poema – quella contaminazione umana e culturale che, secondo Virgilio, è insita nella storia di Roma fin dalla sua fondazione. L’iconografia fascista se ne lavò le mani, scegliendo di ignorare a piè pari il passato troiano di Enea. Anchise, stando ai seguaci di Mussolini, poteva benissimo restare a morire a Troia senza gravare con il suo peso la schiena e il futuro altrui – interessante è notare come la scena più simbolica dell’Eneide, quella del padre sulle spalle del figlio ripetuta in migliaia di raffigurazioni, sia bellamente censurata da ogni rappresentazione ufficiale fascista, la cui estetica prediligeva invece Enea nel non attestato ruolo di audace condottiero solitario.

Eppure i versi scritti da Virgilio sono molto chiari – le pagine dell’Eneide non si possono né piegare né stracciare – laddove, nel XII libro, proprio quando il poema si sta per concludere, si legge (Aen., XII, 187-191):

Sin nostrum adnuerit nobis victoria Martem

ut potius reor et potius di numine firment,

non ego nec Teucris Italos parere iubebo

nec mihi regna peto: paribus se legibus ambae

invictae gentes aeterna in foedera mittant.

Se la vittoria toccherà alla nostra forza,

come piuttosto credo, e gli dei lo confermino con il loro potere,

non pretendo che gli Italici obbediscano ai Troiani,

né chiedo il regno per me: con pari leggi i due popoli

invitti si uniscano in un patto eterno.

Qui è Enea a parlare. Si rivolge direttamente a Giunone, promettendo che tratterà i vinti in modo paritario, non sottomettendoli con la forza alle leggi troiane né alle loro usanze – uniti, vivranno invece come un popolo solo. Spiace ammetterlo con tanta franchezza, ma risparmiando qui i popoli del Lazio Enea ci sta facendo un grosso favore, non costringendoci così a essere l’ultimo anello di una catena di generazioni ignoranti, sottomesse e schiavizzate.

In ogni storia c’è chi vince e c’è chi perde. Nell’Eneide, i perdenti sono proprio quegli Italici sbandierati dal fascismo come pionieri dell’italianità – infatti i loro rozzi costumi si estingueranno subito insieme alla loro violenza. Ha vinto invece Enea, e con lui le tradizioni greche – la loro cultura eterogenea vivrà e giungerà fino a noi. Ciò che al regime fascista è sempre sfuggito è che, se l’Italia esiste ed esiste con i suoi valori, accade soltanto perché Latini e Troiani si sono uniti in un patto multietnico e multiculturale che ha dato vita a un nuovo popolo ibrido: quello dei Romani. Noi veniamo da lì. Non da altrove. Se è concessa una formula matematica per riassumere il modo ibrido di vedere il mondo narrato dall’Eneide si può riassumere in: troiano + italico = romano, da qui italiano ed europeo.

E allora perché l’Italia non porta il nome dei vincitori di Troia e dalle nostre parti non si è mai parlato il greco? Per il lungimirante volere di Zeus, rispose prontamente Virgilio. Sarà il padre degli dèi ad accettare la proposta di Giunone, alla fine costretta a mandar giù la sconfitta dei suoi protetti (Aen., XII, 819-828):

Illud te, nulla fati quod lege tenetur,

pro Latio obtestor, pro maiestate tuorum:

cum iam conubiis pacem felicibus, (esto)

component, cum iam leges et foedera iungent,

ne vetus indigenas nomen mutare Latinos

neu Troas fieri iubeas Teucrosque vocari

aut vocem mutare viros aut vertere vestem.

Sit Latium, sint Albani per saecula reges,

sit Romana potens Itala virtute propago:

occidit, occideritque sinas cum nomine Troia.

Solo una cosa, che non è vincolata da nessuna legge del fato,

ti chiedo per il Lazio e l’onore dei tuoi.

Quando stipuleranno la pace con le nozze, e che siano pure

felici, quando stabiliranno leggi e patti fra loro,

non imporre che i Latini indigeni cambino il vecchio nome,

e si debbano chiamare Troiani o Teucri,

che cambino lingua e cambino veste.

Sia Lazio, siano Albani per secoli i loro re,

per il valore italico sia potente la stirpe romana.

Troia è caduta, lascia che cada anche il nome.

Troia è caduta – ed è nata Roma. Chiarissimi sono i termini stabiliti dagli dèi per il melting pot che sta alla base delle genti che ancora oggi abitano l’Italia. E chiaro è anche l’imperativo divino: che quelle nozze tra i popoli felicibus esto, che siano felici.

Demolita la vigliacca interpretazione fascista, adesso Enea può quindi tornare a passare dalle nostre parti, con il suo gravoso passato sulle spalle e il suo incerto futuro per mano.